Io sono figlio e uomo del Caos – Capitolo 7: La sua Sicilia

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Di Pietro Seddio

Rialzarsi. Contro tutto e tutti. Rialzarsi, a qualunque costo. E’ questo il vero filo conduttore della vita dei siciliani, che per scorgere le vette più inaccessibili devono sporgersi sull’orlo del precipizio, con la costante paura di cadere giù e di non ricevere alcun soccorso.

Io sono figlio e uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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Indice Tematiche

Pirandello. Autobiografia immaginaria. Capitolo 6
Contadini di Girgenti (da Agrigento Ieri e Oggi)

Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 7
La sua Sicilia

C’è un altro aspetto che occorre chiarire subito considerato che sull’argomento ritenuto la base del mio pensiero e della mia tematica e che si riferisce al mio attaccamento alla Sicilia che confesso è stato, e continua ad essere nonostante tutto, viscerale in quanto in quell’isola mi sono formato ed ho compreso quale strada da percorrere una volta acquisita la consapevolezza dell’umanità che ho voluto rappresentare creando trame e personaggi che alla fine si sono imposti più di quanto io pensassi e desiderassi.

Certo la Sicilia è un’isola unica nel suo genere, nella sua conformazione, nella sua storia, nella sua evoluzione ed è noto a tutti che spesso è stata oggetto di contrapposizioni tra gli stessi abitanti perché le origini non sono state sempre omogenee.

Ho sempre pensato, e non a torto, che gli abitanti dell’isola, sia che debbano festeggiare sia che debbano incassare una delusione, si trincerano in un rassicurante e diffidente isolamento.

Che non è egoismo, ma istinto di sopravvivenza, volontà di non mostrarsi fragili o dipendenti da qualcuno o qualcosa. Rassegnazione, immobilismo, scetticismo: questi sembrano essere i leit-motive dell’esistenza siciliana, marchiata da una cronica impossibilità di vedere la luce in fondo al tunnel.

Ma è proprio così? I siciliani hanno davvero perso la forza di combattere per la causa della loro terra? Piuttosto che parlare di arrendevolezza, in realtà, bisognerebbe parlare di sfiducia: non tanto verso la possibilità di mutare le sentenze della storia, quanto in quella di vedersi aiutati da qualcuno che non siano loro stessi, da qualcuno capace di leggere le loro inquietudini.

Per questo, in occasione degli ottant’anni di Verga così ho detto, pubblicamente: “In Sicilia ognuno si fa isola da sé, e da sé si goda ma appena, se l’ha la sua poca gioia” e che ognuno “da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato”. Orgoglio e solitudine: ecco i tratti caratteristici della sfiducia siciliana.

Gli isolani sono dei mondi a sé stanti, dei microcosmi infinitamente complicati all’interno dei quali nessuno è in grado di trovare il bandolo della matassa. Ma non si tratta solo di questo. Il siciliano è come un innamorato che, troppe volte, si è visto spezzare il cuore: ha paura di tornare ad amare e preferisce trincerarsi nella rassicurante protezione della diffidenza.

Da qui orgoglio e solitudine: che non sono, dunque, il risultato di un processo naturale, ma il frutto di esperienze sofferte. Il siciliano, insomma, e ripeto il concetto, nella buona o nella cattiva sorte, che si tratti di festeggiare o incassare una delusione, preferisce farlo da solo, con se stesso, nell’intimo di una comunione quasi spirituale con il proprio essere.

Questo sviluppo di un acuto istinto di sopravvivenza, però, non va confuso con un deprecabile egoismo. Quando festeggia, il siciliano sa di essersi guadagnato quella felicità con i suoi sforzi, senza regali da nessuno; quando soffre, non accetta di mostrarsi debole verso chi ha contribuito a metterlo al tappeto senza opportunità di replica, non accetta di vedere la soddisfazione negli occhi di chi attendeva il suo fallimento. E allora lo abbraccia, quel fallimento, nel chiuso delle sue lacrime private, in attesa incerta di una rivincita. Orgoglio e solitudine, appunto.

Rialzarsi. Contro tutto e tutti. Rialzarsi, a qualunque costo. E’ questo il vero filo conduttore della vita dei siciliani, che per scorgere le vette più inaccessibili devono sporgersi sull’orlo del precipizio, con la costante paura di cadere giù e di non ricevere alcun soccorso.

Il siciliano non ha scelto di condurre in solitudine la sua complicata vita: si è trovato ad essere solo, si è adattato alla condizione di animale braccato e ha imparato a mitigare la sua solarità con l’azione di un distacco necessario.

E ha imparato, soprattutto, a portare su di sé il fardello della malinconia: non solo, come detto, per non prestare il fragile fianco a chi non aspetta altro, ma per non pesare sugli altri che hanno imboccato la stessa strada. In questa sconnessione tra un lato fortemente altruistico e generoso e un lato solitario dettato dalla convinzione che il peso dei problemi di ogni individuo non può essere aggravato da quello degli altri, sta uno degli irrisolvibili paradossi dell’essenza siciliana.

Un paradosso che, semmai avrà una soluzione, dovrà essere districato individualmente da ogni siciliano. Da solo. E, se fallirà in questo tentativo di conciliazione interiore, lo farà, ancora una volta, senza che qualcuno compatisca o infierisca. Orgogliosamente da solo.

E’ anche vero che ho vissuto il passaggio da un secolo all’altro, senza riuscire a risolvere il contrasto storico-sociale dell’epoca; altro problema di carattere ideologico diverso dalla mia condizione interiore. Le difficoltà della vita sembrano risolversi nel percorso metafisico de I giganti della montagna.

Il mito dell’universo in movimento prende forma nell’anima dei protagonisti, come “il profeta dell’utopia prevede tempo e spazio del futuro”, nostalgico per quello che ha vissuto.

E’ stato anche detto, argutamente, che sono rimasto esiliato nella mia isola mentre il linguaggio, la vivacità dei dialoghi, e la struttura narrativa dei testi con le didascalie sono stati oggetto di una analisi criticafilologica. A questo punto mi è stata riconosciuta una introspezione psicoanalitica vissuta quasi sempre all’interno dei personaggi da me creati. Da questa convinzione la condizione esistenziale di alcuni protagonisti nasconde alcune tracce della mia personalità che si accompagna al mio Super Ego in un contrasto che non trova equilibrio riuscendo a riflettere i drammi personali, tentando di superare l’alternanza fra gli elementi contraddittori.

E’ anche vero che l’interpretazione non si sofferma solo sull’analisi del paesaggio naturale e mitico siciliano, pertanto è inevitabile riflettere anche sulle tematiche psico-analitiche che appartengono all’uomo che si fa scrittore e drammaturgo. Dunque la bella Sicilia atavica non esisterebbe senza l’incrocio palese con le tematiche psicologiche, in un ricco coacervo che rende questi testi opere d’arte della narrativa e della drammaturgia, eternizzate nel tempo.

Alla complessa analisi, aggiungo che la mia descrizione è un ritratto pittorico della terra siciliana, una visione paesaggistica, cornice ideale per la narrazione delle storie, come solo un pittore saprebbe fare. Ed io che mi sono dedicato anche alla pittura penso di avere buoni requisiti per esprimere queste convinzioni.

Al centro del paesaggio si sviluppano storie dentro le quali i personaggi vivono nello spazio senza tempo. Nel mitico sfondo isolano, sono evidenziati due aspetti dell’uomo che resta deluso dalla vita e la sua tristezza si manifesta nei personaggi. Concetti esistenziali nella cornice narrativa della Sicilia atavica.

Appare ovvio sottolineare che sono emerse altre caratteristiche tematiche come il patriottismo risorgimentale che rinviano alle origini familiari, ricordando che mio padre era figlio di un garibaldino.

Durante l’adolescenza ho appreso dalla famiglia l’etica morale di comportamento conoscendo anche gli elementi contraddittori dei valori appresi come principi positivi e negativi contrapposti, in binomi specifici, ricordandomi la divisione manichea tra bene e male.

L’energia creativa genera personaggi oppressi da mediocri individui, appartenenti alla piccola borghesia ottocentesca, preoccupata di rispettare certe convenzioni sociali. Da qui è naturale riflettere sul complesso dei preconcetti e degli ideali morali ereditati durante la mia adolescenza, elementi che hanno contraddistinto le diverse fasi evolutive in quanto scrittore e drammaturgo.

Queste caratteristiche sono appartenute alla mentalità siciliana dell’epoca; i principi morali dell’onore provinciale, della purezza e dell’onestà, diventano parte integrante delle tematiche. Mentre la scoperta di una realtà sociale bigotta, perduta nelle convenzioni sociali ha da sempre provocato la mia indignazione, espressa attraverso la rivolta dei personaggi. E a tal proposito qualcuno parlando di trasparenza dei miei testi ha affermato che fosse una mia confessione personale a mo’ di espiazione.

Ho, da adolescente, interiorizzato i valori morali appresi, come scrittore riuscendo a riversali anche nelle novelle e aggiungo che in particolare l’esperienza religiosa ha dato un’impronta particolare ad alcuni racconti. E’ noto del mio avvicinarmi alla chiesa quasi di nascosto fino a quando non mi accorsi che quella fede predicata non era veritiera, assolutamente falsa. Tutti gli episodi acquisiti hanno finito per riflettersi inconsapevolmente, sembra, sulle mie opere.

A proposito dell’antinomia tra Vita e Forma, spesso si fa riferimento a quanto scritto da Tilgher affermando la diluizione antropica della vita reale, dove la forma potrebbe evitarne la deformazione, impedendone il dissolvimento e la disintegrazione finale del personaggio. Ho sempre pensato che il dramma del personaggio consiste nel non riuscire a risolvere la condizione in cui è rimasto bloccato. Vivere nella forma lo costringe a fuggire e ad acquisire il ruolo di protagonismo assoluto dell’eroe. L’impasse viene risolta nella consapevolezza del suo sdoppiamento nella fase di maturazione esistenziale ed artistica. Posso già fare un preciso riferimento sullo sdoppiamento di Mattia Pascal e Adriano Meis: due persone in una sola e quindi l’inevitabile sdoppiamento del quale si è sempre parlato.

La trasformazione del personaggio è considerata come l’esito più geniale della mia narrativa, da tanti chiamata “pirandelliana”. L’arte della creazione inventiva è lo strumento più adatto per far parlare i soggetti dei testi teatrali. Se tale drammaturgia scopre il senso filosofico e universale, la narrativa invece esprime i sentimenti dell’autore.

E’ stato anche scritto e detto che come un direttore d’orchestra ho creato personaggi che vivono indipendenti dalla volontà dell’autore, svolgendo il doppio ruolo di drammaturgo e direttore teatrale, creando arte teatrale. Le altre considerazioni offrono prospettive analitiche complesse.

C’è, è vero, una distinzione tra figure maschili che sono oppressi dalla “forma”, e i personaggi femminili spesso associati alla categoria “vita” facendo emergere, dalle tante analisi scritte, che io abbia simboleggiato il dissidio interiore che i soggetti vivono con loro stessi e con la realtà esterna che si trasforma in un conflitto terribile per entrambi. Riflesso del mio pessimismo.

A tale proposito, io cito la confessione in una lettera a mia moglie, in cui racconto di vedermi riflesso negli occhi degli altri e di sentirne le conseguenze:

“Già che questo è quello che tu pensi di me, ed è come se dicessi: vuoi davvero essere così, e con te!”. 

Il riferimento all’arte cubista, come qualcuno ha evidenziato, è affascinante, e ci si domanda se è corretto vedere il personaggio da me ideato attraverso questa prospettiva, ed è per questo che sovente si citano alcuni teorici della psicologia dell’epoca, che hanno affermato come io, sembra, mi sia ispirato. Se l’individuo crede di avere chiara coscienza di sé, e assume come valida e sincera l’interpretazione che gli dà il suo essere interiore, non sarà improprio affermare che questo studio della coscienza che nasconde la sua interiorità più profonda, cioè quell’essere reale che crede di conoscere o che immagina che sia pienamente cosciente questo è uno stato in cui domina la finzione e, in ultima analisi, in questo modo, l’individuo vive la metafora di se stesso e non uno stato reale. La parola non utilizzata soltanto come passivo modo per descrivere immagini, sensazioni, sogni ma soprattutto come mezzo per descrivere il mondo interiore. Quel mondo interiore che mai vedrà in ogni sua parte la luce perché l’uomo, nel rapportarsi con gli altri, utilizza sempre delle “maschere”, come ho inteso affermare, ma la scrittura è un nobile modo per comunicare.

La parola diventa quindi non più semplice espressione verbale bensì chiave del nostro essere. Funge da perfetto tramite tra l’anima e tutto ciò che ci circonda. La parola ha seguito un’evoluzione incredibile e diversa in ogni sua tappa.

Nasce dapprima come una semplice convenzione a cui si accomunano sensazioni, emozioni, e semplici oggetti. Si evolverà poi acquistando valori sempre più complessi dando origine alla “lingua” che a sua volta, essendo strettamente collegata all’evoluzione sociostorico-politica della terra, si arricchirà di diverse sfumature dando quindi origine ai dialetti.

Tutto ciò serve a renderci consapevoli del determinato effetto che certe parole possono creare nel nostro sistema cognitivo e come certi scrittori possano abilmente utilizzarle per rendere chiaro il loro pensiero o per manifestare la loro idea.

Per chiarire meglio la mia posizione ed il mio pensiero, cito un passo del mio discorso effettuato nel 1931:

“Due lineamenti ben distinti e quasi paralleli corrono lungo tutto il cammino della nostra storia letteraria; due stili: l’uno di parole e l’altro di cose…”. 

Intravediamo nel panorama letterario italiano artisti che hanno focalizzato la loro attenzione sull’estetica della parola ed altri che hanno concentrato i loro sforzi inserendo nelle loro opere, al di là di infiorate parole, dei significati profondi e sempre attuali (ciò ricorda la mia concezione del contrasto tra Vita e Forma). Così artisti come Dante, Ariosto, Manzoni e lo stesso Verga, che hanno abbandonato la retorica per lasciar posto alle “cose”, alle scomode verità, alle dure realtà dell’esperienza umana, vengono preferiti da me stesso ad artisti come Petrarca, Tasso, Monti, D’Annunzio che hanno privilegiato quella che è l’arte tecnica dello scrivere in maniera persuasiva. Io nella mia continua ricerca linguistica, fin dai tempi del ginnasio a Palermo e della mia dissertazione su “Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti”, intesa come esigenza di trovare il perché della sua lingua e del suo stile, scopro che:

“…fin da quando è nata la letteratura italiana, la generalità ha questo di particolare: la dialettalità, da intendere come vero ed unico idioma, vale a dire come essenziale proprietà di espressione, la quale, come Dante scrisse: “In qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla”.

Questa “dialettalità denominatore comune alle espressioni della letteratura italiana sin dalle origini” ha riproposto il problema della mancanza di “tecnicità” nella parola che ha prodotto insicurezza nella lingua e difetto nello stile.

Illuminante è il nesso tra lingua e stile: “la lingua è conoscenza, e oggettivazione; lo stile è il subiettivarsi di questa oggettivazione. In questo senso è creazione di forma; è, cioè, la larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolare sentimento e mossa da una particolare volontà”. E’ stato anche osservato che le mie opere vedevano l’alternato utilizzo di lingua italiana e dialetto siciliano, che mai si sono incontrati in un mix che può essere definito verghiano.

La scelta linguistica che mi si poneva di fronte all’inizio di ogni opera era parecchio complicata. Come davanti a un bivio bisognava scegliere la direzione da seguire: utilizzare la lingua italiana, consentendo una facile comprensione da parte di un pubblico non siciliano o utilizzare il dialetto, adattandolo così perfettamente ai personaggi inseriti in un particolare contesto, delineandone meglio le caratteristiche. E questo mi ha portato, di conseguenza, a studiare il dialetto agrigentino che divenne poi la tesi di laurea conseguita a Bonn.

Ho utilizzato la lingua manipolandone l’eleganza in modo eccellente, cogliendone ogni purezza, cogliendo la musicalità che ha dato vita ad una armonia di sensi mai sentita prima. L’ho adoperata per esprimere la mia inadeguatezza al mondo, l’incomprensione fra l’uomo e la natura, analizzando la realtà della mia vita e la realtà che nel quotidiano vivevo per gli altri.

Non ho utilizzato mai la lingua però per narrare della mia terra e di quei “goffi” uomini che la abitavano. Perciò spesso ho utilizzato il dialetto, volendo dimostrare di avere profonda conoscenza della quale si ha testimonianza nella sopracitata dissertazione di laurea.

Seguito dal maestro Wendelin Foester, titolare della cattedra di filologia romanza dell’università di Bonn, ho preparato la mia tesi “avvalendomi del metodo storico-comparativo dei neogrammatici e basandomi su una raccolta di fiabe, canti popolari e improvvisi”.

La tesi pubblicata dopo il mio dottorato, il 21 marzo 1891, fu strutturata in: premessa, in cui ho suddiviso in aree linguistiche la provincia di Girgenti; bibliografia; ringraziamenti; segni diacritici, ove riporto i segni grafici dei suoni; vocalismo; consonantismo; vita e argomenti di discussione.

E’ stato scritto, a tal proposito, ed io lo cito con piacere e soddisfazione, che:

“La dissertazione di laurea non va vista soltanto come lavoro filologico in senso stretto, ma per le tracce indelebili che rimasero nella formazione linguistica e letteraria di Pirandello. Prima fra tutte una nitida coscienza della lingua, emergente sempre nella sua ‘teoresi letteraria ed artistica’, nelle varie articolazioni del connubio tra lingua parlata e lingua scritta, dell’uso comune della lingua, del rapporto tra lingua e stile un importante noviziato, dunque, per il futuro scrittore”.

La parlata dialettale, e in particolar modo quella siciliana, differisce dalla lingua italiana nella concretezza e nella schiettezza delle espressioni. Il dialetto siciliano, infatti, mi ha permesso di dar vita a dialoghi accesi pieni di risposte immediate e permeati di un tono velatamente sarcastico. Altro discorso va fatto per la lingua italiana; le mie auto traduzioni dimostrano come nel passaggio tra dialetto e lingua i dialoghi perdano molto della loro efficacia e della loro capacità di penetrare negli animi di un audience desideroso di passionali azioni siciliane.

La Sicilia ricca di culture diverse a causa delle sue tredici dominazioni, pur non essendo mai completamente assimilata da alcune di esse, ha sempre accolto apporti linguistici di notevole importanza che come metalli in un crogiuolo si sono fusi dando alla parlata della Trinacria una bellezza e una concretezza pari a poche altre, senza mai perdere i tre caratteri distintivi di popolo, costituiti, come notò pure Cicerone, dall’intelligenza, dalla diffidenza e dall’umorismo.

Grande importanza ebbero le influenze latine, francesi, arabe, spagnole; ma le dominazioni di cui sicuramente la Sicilia porta ancora i segni più evidenti sono state la dominazione dei Dori e quella degli Ioni.

Ma come dichiarò lo storico greco Tucidide “Noi non siamo né Dori né Ioni ma siamo Siciliani”.

Il dialetto siciliano non è solamente complesso ma anche affascinante. La “lingua” siciliana (da notare l’utilizzo di lingua, perché data la vastità del suo vocabolario, il dialetto siciliano deve essere considerato una lingua) non solo presenta differenze sostanziali tra le diversissime nove province bensì svariate sfumature tra paese e paese.

Nella lingua siciliana e in particolare in quella utilizzata da me troviamo parole come: “magasì”, derivata dall’arabo mahazan/mahazin, magazzino, “panaro” dal latino panarium (cesta di pane), “zuccu” dall’aragonese “soccu” e spagnolo “zoque” ed incroci come “assalarma” probabilmente derivata dal greco “aksai” (voce di richiamo dei “niarinai”, infinito aoristo di ago) e dal latino alma (derivato da “alo”) che dimostrano quanto numerose siano le influenze nella parlata siciliana.

E’ vero: sono rimasto incantato dal fascino di questo dialetto, ed è per questo che ho scelto addirittura di scrivere alcune delle mie opere, prima in dialetto per poi tradurle in lingua italiana.

La commedia “Liolà” costituisce un esempio eclatante di quella che fu la precisa e netta scelta mia linguistica e di come la traduzione in lingua italiana abbia fatto perdere di particolarità il testo originale in dialetto siciliano, dove la concretezza più che i personaggi è la vera protagonista della commedia campestre in tre atti.

Concretezza linguistica che intanto rende l’opera mia singolare ed unica in ogni sua parte e questo alla fine ha creato l’incomprensione più grande fra la mia complessa opera e il pubblico, illudendone uno e deludendone l’altro.

Purtroppo la prima rappresentazione la sera del quattro novembre del 1916 dalla compagnia comica siciliana al teatro Girgentino di Roma non ebbe quel successo che mi attendevo.

Le cause dell’insuccesso non sono da ricercare nella scarsa vena artistica degli attori, infatti la Compagnia Comica Siciliana vantava nel suo organico attori come la Morabito, il Pandolfini e Angelo Musco, che avrebbero garantito un sicuro successo ai botteghini.

Inoltre ricordo perfettamente di aver chiarito il tutto in una lettera datata 24 ottobre 1916 diretta a mio figlio Stefano prigioniero degli austriaci, la mia creazione:

“E’ dopo il Fu Mattia Pascal, la cosa mia a cui io tengo di più: forse è la più fresca e viva. Già sai che si chiama Liolà. L’ho scritta in quindici giorni, questa estate ed è stata la mia villeggiatura. Difatti si svolge in campagna. Mi pare di averti già detto che il protagonista è un contadino poeta ebbro di sole e tutta la commedia è piena di canti e di sole. E’ così gioconda che non pare mia”. 

Ma quindi a cosa si deve l’insuccesso della commedia? Le cause furono probabilmente: la presenza di un finale piuttosto atipico per quanto riguarda il teatro siciliano perché si aspettava, come erano solite le commedie di quel tempo, o un matrimonio o un assassinio e la scelta della lingua da me adottata per rappresentare la mia opera. Per quanto concerne il dramma della storia letteraria europea, nel periodo che è stato definito “pirandelliano”, voglio evidenziare una profonda crisi la cui unica soluzione è apparsa come quella del dramma negato. Questa soluzione mi ha obbligato ad immedesimarmi nel ruolo dei personaggi mettendo nelle loro bocche alcune spontanee parole che in effetti costituiscono il dramma.

Nelle parole quindi possiamo intravvedere gli slanci o le paure dettati dal fervore delle persone bruciate da esperienze troppo scottanti.

Voglio anche evidenziare che bisogna affrontare per la lingua adottata in Liolà, un alto argomento. Il quadro linguistico di fine ottocento si presentava vario e difforme. Secondo la mia visione la lingua italiana era in disuso; ognuno parlava il suo dialetto, io stesso, come autore siciliano, pur conoscendo le varie sfumature della “lingua siciliana” mi sono rivolto al “pretto vernacolo”, alla parlata di Girgenti. La scelta non dipese certamente dalla non conoscenza della lingua italiana o dall’incapacità di adoperarla adeguatamente. Essa fu dovuta, in particolar modo, all’impossibilità di rappresentare propriamente con una lingua non dialettale i sentimenti e le immagini caratteristiche del luogo in cui è ambientata la commedia. Ho sempre giudicato la parlata di Girgenti “la più pura, la più dolce, più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche che forse più d’ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana”.

Nel dialetto agrigentino alcune espressioni come “p’u mezzu”, che differisce dal catanese-siracusano “n’du menzu”, o “dritta” che in siracusano diventa “ritta”, dimostrano quanto più vicino all’italiano sia questo dialetto rispetto ai restanti della Sicilia.

Altri esempi delle differenze fonetiche li troviamo in espressioni conio “vogliu” che nel dialetto della parte sud-orientale della Sicilia diventa “vogghiu” o “figliu’ che diventa “figghiu” (da notare il raddoppiamento della “g” e la trasformazione della “l” in “h”). Inoltre la scelta del “pretto vernacolo” riflette esattamente la mia volontà di voler polemizzare contro quell’ibrido linguaggio tra dialetto e lingua italiana, che ho definito “dialetto borghese” o “forma interna” che quindi ho ravvisato nel dialetto arrotondato di Verga. Si potrebbe anche pensare che la scelta della “forma esterna” del pretto vernacolo agrigentino voglia testimoniare il profondo legame interno tra me e la realtà di Girgenti vista come la fonte dei sentimenti e delle immagini dello scrittore.

La lingua italiana in questo quadro non viene però definitivamente abbandonata. Molte espressioni puramente dialettali servono a spiegare forme italiane inconsuete che provengono da uno stato originario chiaramente dialettale. Infatti nelle auto-traduzioni troviamo nuove forme morfologico-lessicali.

Queste forme possono essere raggruppate in tre sezioni: arcaismi, neologismi e creazioni effimere. Per quanto riguarda gli arcaismi essi spesso conferiscono alla mia opera un tono più raffinato e più nobile.

Tale utilizzo pregiudica la vivezza del parlato creando così il rischio di cadere nell’anacronismo puro.

Io stesso ho scritto:

“Mancando così la sicurezza della lingua, che debba mancare anche la tecnicità della parola e debba prodursi l’elasticità del senso della parola stessa, vien di conseguenza”.

Certamente le maggiori spinte innovative vengono dal dialetto agrigentino. Infatti nella mia opera che precede il teatro dialettale sono presenti molti sicilianismi che, pur essendo espressi nella forma italiana, conservano il loro significato dialettale.

Per esempio il verbo siciliano “avvertiri” verbo intransitivo badare, fare attenzione. Ho voluto trasformare, ad esempio, un verbo dialettale della terza coniugazione in -ere in un verbo italiano in -ire, conservando però il significato del verbo dialettale. La parte del mio lessico (detto: pirandelliano) che non si conforma all’italiano letterario e mostra due componenti: quella tradizionalista con elementi che si ispirano al lessico antiquato e quella composta dai tanti neologismi.

Nella commedia “Liolà” ad esempio la naturalità espressiva raggiunge il massimo della concretezza nel dialogo tra il protagonista e Zio Simone, in cui alludendo all’impossibilità di procreare di quest’ultimo Liolà usa delle espressioni che sembrano tratte dal linguaggio delle falloforie o dei fescennini, specie quando atavicamente identifica la fertilità della terra con la fecondità della donna:

“Scusassì, cca’ cc’è un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza faricci nenti, chi cci fa a terra? Nenti. Comu a fimmina. Chi cci duna ‘u figliu? Vegnu iu, ni stu pezzu di terra; l’zzappu; la conzu; cci fazzu un pirtuso; cci jettu u civu: spunta l’arbulu”.

(Scusi. Qua c’è un pezzo di terra; la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero) o quando attraverso la sua logica stringente, tipica del contadino, dice che la terra è di chi la lavora.

Concetto da cui si potrebbe cogliere in nuce già una coscienza di classe:

“A cù l’ha datu st’ arbulu ‘a terra? A mmia. Veni vossia e dici no, è miu. Pirchì? Pirchì a terra e so? Ma la terra beddu zu’ Simuni chi sapi a cu apparteni? Duna u fruttu a cù la lavura”.

 (A chi l’ha dato quest’albero la terra? A me! Viene lei e dice di no, dice che è suo. Perché suo? Perché è sua la terra? Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora).

Da queste brevi battute si capisce come l’utilizzo della parlata di Girgenti ha risposto meglio alle mie esigenze. Liolà d’altronde è una commedia campestre, nella quale solo l’utilizzo del “pretto vernacolo” rende la giusta concretezza dei mondo contadino dell’entroterra siciliano. Le idee della “robba” come segno di potere, della prole come fonte di ricchezza e della donna come “mezzo” di procreazione sono idee appartenenti ad una cultura antiquata e retrograda. I termini “gistri” (dal latino canestrum, cesto), “panara” (dal latino panariuni, cesto per pane), “antu” (dai latino ante, il luogo dove lavorano i contadini), “rappa” (dal germanico krappa, granello d’uva) mettono in luce la natura contadina del popolo siciliano. I personaggi della commedia sono immersi in questo mondo agreste. Liolà è un “contadino ebbro di sole”. Egli è il perfetto opposto di quello che si potrebbe definire un personaggio misogino. Liolà è un Casanova siciliano, spensierato e amico della natura, accompagnato sempre da grande allegria che trasmette anche agli altri. Anche nel gioco dell’inganno riesce a speculare sulle parole e a confondere con espressioni ambigue ed equivoche il suo diretto avversario: Don Simone Palumbo. “U Zu’ Simuni” è il possidente della terra: lui ha la “robba”. Rimanendo sempre legati alla realtà contadina siciliana d’inizio secolo, la colpevolezza del mancato concepimento non è attribuibile all’uomo ma solo alla donna poiché la donna deve assolutamente essere capace di procreare. Anche la conformazione fisica della donna gioca un ruolo importante: la donna magra, ad esempio è indice di sterilità come si evince dall’affermazione di zia Croce che riferendosi a donna Rosaria, la quale non aveva avuto figli, dice:

“Ma chi cci’ avia aff’ari idda? Un filo a la porta, puveredda. D’ idda ‘un si putia aspittari”. 

Al contrario, la donna prosperosa e simbolo di fecondità e di salute e “strumento” sicuro di procreazione. Proprio per dare un figlio a zio Simone nasce il gioco dell’inganno, in cui Tuzza voleva avere la meglio, ma “a jucata non ci vinni para” (la giocata non gli è riuscita). Quest’ insuccesso provoca in Tuzza uno scatto di pazzia abilmente sedato da Liolà. Pazzia necessaria e “sufficiente” per completare il passaggio alle tre zone.

Secondo tale teoria elaborata da don Nociu Pampina: il personaggio sostiene che:

“… li paroli ca nescinu dì mucca” sono come sono perché provengono da tre zone: la zona civile che serve “cchiù di tutti duvennu viviri in società” (più di tutte dovendo vivere in società), altrimenti “nni mancirriamu tutti… unu cu l’autru, comu tanti cani arraggiati”. 

(Ci mordiamo tutti come cani arrabbiati) e che ricorda tanto la concezione di Hobbes “homo homini lupiis”; la zona seria che viene in soccorso quando le cose si mettono male e ognuno vuol difendere la propria causa la terza ed ultima zona è la zona pazza che viene utilizzata quando la situazione è ormai degenerata e il personaggio non riesce più a frenare gli istinti. Il dialetto della zona seria è per esempio quello di Liolà, bisognoso di capire le sue debolezze e di soddisfare il suo desiderio con un inganno e quello di don Simone, avvilito dal troppo lavoro e deciso ad avere un erede a cui lasciare tutte le ricchezze accumulate. Il dialetto della zona civile è il più italianizzato proprio per dare risalto al carattere borghese che conserva lasciando molta sintassi nella stesura in lingua. Il dialetto della zona pazza predomina generalmente nel finale della commedia ed è il dialetto concitatissimo e liberatorio. E’ il dialetto ingiurioso di zia Croce a don Simone: “E ora v’ addifinniti a idda, vecchiu beccu, ‘nfacci a n’ autri” (E ora, no? Non è più vera ora per vostra moglie, vecchio becco), quello di don Simone che libera la verità “E’ miu, e miu, e miu, sissignuri e miu! E nuddu s’ avi arrisicari di diri cosa contra di me muglieri ca vasannu vi fazzii a vidiri a Cristu sdignato!” (E’ mio! mio! e guai a chi s’attenta a dir cosa contro mia moglie…).

Quindi è proprio in questa zona che ho trovato parecchie difficoltà nel tradurre alcune espressioni dal dialetto in lingua. Molte di esse perdono nella traduzione italiana la loro aggressività ed efficacia espressiva. La cosa particolarmente pittoresca sta nel vedere come espressioni formalizzate sotto lo schema dei dialetto serio si mescolano alla componente proverbiale-metaforico del parlar civile, come ad esempio: “Chi aviti forsi ‘u carbuni vagnatu? l’avi bbonu addumatu e cuvatu dintra” (Avete forse il carbone bagnato? l’ha bene acceso e covato dentro), oppure “gaddina chi camina, s’arricogli c’à vozza china” (gallina che va e gira, col gozzo pieno si ritira), o “cu cerca trova e cu secuta vinci” (chi cerca trova e chi seguita vince.), o “u tavirnaru voli i picciuli” (il tavernaio vuole essere pagato), o ancora “come s’ avissiru pigliato un ternu” (come se avessero preso un temo). La mia più grande originalità (lo affermo con umiltà) sta nell’aver creato una specie di “stato d’animo” del mondo contemporaneo: cioè di avergli dato un nome, il suo. Oggi con il termine “pirandelliano” si indica qualsiasi situazione contraddittoria e grottesca. Eppure ho inteso fare la cosa più naturale: descrivendo la “semplice e complicata” realtà siciliana. Realtà che si può esprimere solo tramite le parole, che sono: “… larve da riempire e ognuno le riempie del senso che ha per se, nel proprio intimo… e ben lo sa il Padre quando nei ‘Sei personaggi in cerca d’autore’ esclama: ‘ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé del mondo come egli l’ha dentro?”.

Nonostante oggi viviamo in un mondo altamente tecnologico, dove tutto sembra essere facile, si è avvertito il bisogno di analizzare la mia parola nell’intento di utilizzarla al meglio, ed è per questo che alla fine non soltanto si è colta l’importanza, ma soprattutto il limite:

“… Crediamo d’intenderci non ci intendiamo mai”.

Pietro Seddio

Io sono figlio e uomo del Caos

Io sono figlio e uomo del Caos – Indice
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