Io sono figlio e uomo del Caos – Capitolo 22: Il suo Nobel

Di Pietro Seddio

Mi ero preso gioco della morte proprio nel momento in cui esalavo l’ultimo respiro. Ma nessuno lo sapeva, piangevano e si disperavano. Ormai io li osservavo senza che nessuno potesse vedermi e in un certo senso mi divertivo. La morte ormai non mi avrebbe più colpito ed io avrei continuato a vivere come tanti altri non avrebbero potuto fare.

Io sono figlio e uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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Indice Tematiche

Premio Nobel a Luigi Pirandello il 10 dicembre 1934 – Festeggiamenti

Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 22
Il suo Nobel

Ormai ero convinto che il legame che mi univa a Marta Abba non mi era più di consolazione. Mi sentivo stremato, deluso, stanco e poi sempre a viaggiare e mai che potessi riposarmi a casa mia. Un uomo senza casa, così mi definivo e ne ero così convinto che in più occasioni lo avevo fatto presente a mia figlia Lietta:

“… La vita m’è rimasta deserta. Nulla ho più di quel che volevo e così senza più nulla, seguito a vivere per gli altri e non più per me”. 

Quella stanchezza ormai conviveva quotidianamente con me e questo non mi aiutava a stare sereno, ma, come ho già detto, ero Pirandello e dovevo apparire a tutti con il sorriso sulle labbra, pronto a rispondere alle domande, a scrivere, ad assistere alle rappresentazioni delle mie commedie che aumentavano sempre.

Scrissi nel 1932 l’opera “Quando si è qualcuno”, ed anche questa scritta per lei e tanti analizzando l’opera espressero giudizi contrastanti in quanto la tematica, secondo loro, metteva in evidenza questo mio continuo attaccamento nei confronti, io già anziano, di una giovane donna che sfuggiva e si allontanava sempre di più. Mi si accusava di essere plagiato da quella presenza, dalle bizze che faceva anche a sproposito ed io, silenzioso, cercavo di non leggere quei giudizi perché già per mio conto consapevolmente soffrivo. Non nego nel contempo che quella giovane attrice mostrò sempre nei mei confronti segni di affetto e gratitudine. Viveva e visse solo per l’arte, seppur a causa di questa peculiarità fu quasi costretta ad essermi vicina, ma non come io intendevo fosse.

Trovavo sfogo solo nelle parole che continuavo a scrivere a Lietta, quasi un aggrapparmi a qualche elemento che mi sfuggiva e mi faceva ritornare solo e deluso. Ed ecco il ricordo di quegli scritti:

“E’ mio destino, Lietta mia, andar correndo il mondo senza requie, finché non muoio in qualche luogo in piedi, come presto mi auguro, visto che fermo ormai non posso più stare in nessuna parte. Il mio paese, ho tentato, non riesce a trovar modo d’impegnarmi e trattenermi”. 

E poi:

“Più vado avanti, cioè più m’avvicino al limite estremo della vita, e più mi riesce insopportabile fissare una data, stabilire un programma, tracciare un itinerario, prevedere comunque ciò che farò domani, dove andrò, se resterò. Rispondo a tutti che non lo so. E non lo voglio realmente sapere. Non riuscendo più a star bene in nessun posto, questo senso di precarietà in cui mi tengo dovunque mi rende sopportabili i soggiorni qua e là. Così un soggiorno mi si può allungare, ma guai se mi s’affaccia l’idea che il soggiorno possa divenir dimora: me ne fuggo. Per questo sono fuggito da Berlino, dopo due anni e mezzo; per questo da Parigi, dopo due anni. Non prevedo di durare a lungo a Roma”. 

Quell’opera fu rappresentata nel 1933 al teatro Odeon di Buenos Aires con la compagnia di Massimo Bontempelli, mentre in Italia, Marta Abba la rappresentò al Casinò Municipale di San Remo e seppi che il successo non fu per niente genuino. Forse un omaggio all’attrice, ma non certo all’opera, così come accadde in altre città italiane.

Fui anche coinvolto dallo scrivere alcuni soggetti cinematografici e di questo mio avvicinamento sono stati in molti a scrivere, a commentare e mi sono ritenuto sempre soddisfatto perché sono stati tutti onesti, avendo evitato di entrare, caparbiamente, nel mio intimo che ormai certo poco aveva da dire.

Tutto era stato esplorato e quindi era ragionevole scrivere così a pelo d’acqua. Contenti loro, contento io, contenti tutti.

Su alcune mie ultime opere fu riscontrato un certo spiritualismo, in senso cristiano e tendenzialmente cattolico seppur io non condivisi questa considerazione e siccome, ripeto, alcune mie convinzioni le tenevo strette in fondo al mio cuore, quello che veniva scritto mi interessava fino ad un certo punto, tanto è vero che difficilmente mi apprestai a smentire, a correggere, a contrastare. Questa, forse, fu una delle cause che provocò, tra i cattolici, una polemica che portava a due interrogativi: “Pirandello salva l’anima; Pirandello non la salva”, come se questa storia o questo convincimento evidenziato potesse cambiare il senso dei miei sentimenti.

In ogni caso sarei stato sempre io a confrontarmi con la mia anima, con il mio credo, con il soprannaturale e certamente non ero obbligato continuamente a dare spiegazioni.

E’ vero che ero famoso, conosciuto, messo sotto interrogatorio e analisi, ma è anche vero che avevo sempre agognato la mia libertà e quindi, giunti a quel punto, me ne fregavo di quello che continuavano a scrivere, tanto dovevano riempire pagine di giornali o dare alle stampe i loro saggi spesso pieni di inesattezze. Ma io ormai non potevo più intervenire, caro Seddio.

In questo momento così caotico, alle prese con la mia religione e coscienza, intervenne, tra gli altri, Giovanni Papini che auspicava il mio essere allontanato dal Regno ed ecco, voglio ricordare, due frasi, che sono rimaste lapidarie:

“Pirandello non seppe e non volle scoperchiare il tetto e ritrovare il cielo autentico e il sole divino”. 

Ed ancora:

“Pirandello fu un grande, un fecondo, un originale autore, ma non riuscì mai ad incontrare quell’Autor Sommo”.

Bè, mi dispiace; soltanto dico che non saprà mai se io ho trovato il cielo autentico e il sole divino e soprattutto se ho incontrato quell’Autor Sommo. E mi dispiace per lui che se n’e andato senza avere avuto risposte alle sue domande.

E non era finita perché nel mondo cattolico si mossero, per colpa mia; gli stessi Gesuiti che spesso di me si occuparono, soprattutto dopo che io avevo scritto “Lazzaro” accusandomi che non mi intendevo per niente di teologia.

Anche il Vaticano, attraverso “L’Osservatore Romano” si buttò nella mischia plaudendo che in Germania, Hitler, aveva proibito la rappresentazione della mia opera “La favola del figlio cambiato”, e definirono la stessa:

“… la sconcia favola che offende i principi tanto della moralità, quanto dell’autorità”. 

Non poteva mancare “Civiltà Cattolica”, che tra le altre cose, così scrisse:

“… Pirandello appartiene ai pochi che, indossato il pallio di filosofo, storpiano la vita riducendola ad un’arbitraria caricatura e poi, presa in mano la lira del poeta, ridono e beffano amari e striduli e amano chiamarsi umoristi”. 

Ormai, attaccandomi, non sapevano più cosa scrivere ed io, leggendoli, confesso che mi facevo delle belle risate che mi rilassavano. Sarebbero stati i veri analisti, più avanti, a rimettere a posto tutte le cose e finalmente sul mio conto le verità sarebbero tornate a brillare come il cielo d’ottobre in una notte stellata, serena.

Confesso, caro Seddio, che sento il respiro un po’ pesante, così come avverto la mia faccia tesa, con qualche gocciolina di sudore sulla fronte. Mi affaccio un attimo alla finestra per prendere un po’ d’aria ed osservare questo meraviglioso tramonto d’Ottobre certamente irripetibile. Ecco, vedo che nel bicchiere c’è ancora dell’acqua così ne bevo un sorso. Ora posso tornare a sedermi per riprendere il racconto.

Non le sfugge certamente che continuo a fumare quasi ininterrottamente le mie Xantia che mi hanno sempre accompagnate anche durante il mio scrivere a macchina spesso con un dito solo. Una disgressione questa che si accomuna all’altra, quello di concedermi il gioco della carte e le dirò che quando perdevo mi arrabbiavo, pur mantenendo sempre un decoroso contegno. Non mi piaceva perdere, ecco tutto, ma accettavo l’esito.

Intanto, riprendendo il discorso disse: mi ero fermato in via Nomentana, e avevo occupato una stanzetta al piano di sopra. Qualcuno ha detto, vedendo la mia camera, che tutto era casuale e tutto era estraneo. Vi si trovava un letto d’ottone e certe lampasse alle pareti. Pochissimi e umili mobili, ma non mancavano i libri (ero disordinato in verità), e spiccavano testi di Petrarca, Boccaccio ed altri autori a me congeniali, anche non italiani. Non mancavano le riviste accatastate. I cassetti erano pieni di corrispondenza e non è falso affermare che molte lettere che vi si trovavano da oltre vent’anni aspettavano ancora risposta. Ma sarebbe stato ormai difficile rispondere.

Ancora non disdegnavo di leggere Shakespeare, Dante, Machiavelli, Manzoni, Leopardi, Anatole France ed alcuni grandi autori russi.

Pochissimi amici frequentavano la mia casa: Bontempelli, Alvaro, Frateili, Vergani. Incontravo anche Raul Radice quando andavo in qualche locale per trascorrere una piacevole ora per rilassarmi. A dire il vero preferivo rimanere a casa, mi bastava, tanto avevo così girovagato che potevo sedermi su una poltrona e continuare a fantasticare, seppur l’attività di scrittore si era ridotta, ma avevo ancora in mente una storia, una storia che avrei raccontato e che parlava di Giganti, di Cotrone il mago, di Ilse, un’attrice, e di altri personaggi. In quel mentre tutto era confuso nella mia mente, ma sapevo che prima o poi avrei trovato il bandolo della matassa per scrivere ed ultimare questo ennesimo lavoro teatrale. Intanto mio padre, don Stefano, ormai vecchio e malandato fu da me accolto e curato amorevolmente. Gli screzi dimenticati anche perché nel vederlo ridotto in quello stato certo non potevo che provare tenerezza seppur non posso dire d’averlo amato. Ma come essere umano io non potevo rifiutarmi di consentirgli una serena vecchia, fino a quando non lasciò questa terra e confesso che provai un vuoto, sebbene non paragonabile a quello avvertito per la morte di mia madre. Me ne dolsi, e continuai a vivere di ricordi, di pensieri che ancora affollavano il mio cervello. Contemporaneamente avvertivo un certo affanno che spesso mi prendeva tutto il corpo e mi sembrava che dovevo esalare l’ultimo respiro da un momento all’altro. Poi mi riprendevo e mi ritrovavo, fermo, ma in continuo movimento con la mente. Forse erano tornati i fantasmi? Non posso nascondere che da un po’ di tempo il mio pensiero era rivolto alla morte, pensando che tutto sarebbe avvenuto nel migliore dei modi sapendo che avevo pensato, in tempo, a quello che doveva accadere dopo morto. Avevo fatto testamento, in un fogliettino, carta oleata, dove con poche parole dettavo le mie ultime volontà.

E sapevo, anche, che quell’insignificante pezzo di carta avrebbe rinfocolato le polemiche e dimentichi che ero morto non mi sono mancati gli attacchi, rispolverando antiche offese nei miei confronti. Nemmeno la morte mette a tacere le beceri idee di coloro che mercificano ogni evento.

Mi risulta, caro Seddio, che anche lei non si è sottratto a scrivere un testo, con una differenza, che ha sostenuto (anche con molto acume) che quella raccolta di poche parole, può essere considerata la mia opera più importante e significativa. In effetti questo era stato il mio intendimento, ma come sempre accadeva, ogni mio periodo dava l’occasione per stravolgere il tutto, quasi una intenzione maniacale perché parlando male di me, si poteva aspirare ad essere noti e magari celebrati.

Bisogna sottolineare che in quelle mie volontà era condensato il “senso della vita” e in un certo senso anche “il senso della morte”, e questo senso non era il desiderio di una morte lirica.

Avevo incaricato il vento a liberare le mie ceneri e per la mia vita, che avrei voluto scrivere, non vivere, alla fine mi ero convinto che la morte fosse come un aiuto a viverla. Di questa mia decisione mi ritenevo soddisfatto, certo avrei messo in difficoltà molte persone, sembrava una rivincita, anche innocente, e ritenendomi sempre un uomo libero, avevo pensato che era giusto decidere anche per quanto riguardava la mia morte.

Sapevo cosa avveniva, soprattutto in Sicilia, ed io volevo evitare la ressa, la confusione, i falsi pianti, gli affrettati e inutili commenti (tutti a dire che ero stato un grande uomo, ma per favore!) e poi non avevo intenzione che il mio corpo diventasse pasto di vermi. No, meglio dare tutto al fuoco e quello che sarebbe rimasto, un mucchio di nera cenere, sparsa, “così niente sarebbe rimasto di me”.

Certo, il mio nome, le mie opere, tutto quanto faceva parte del mio mondo artistico, ma poi basta, di me niente, se non i soli cimeli che certamente qualcuno avrebbe conservato e magari poi esposti… a futura memoria.

Non sarei stato più in grado di intervenire, quindi ormai ero rassegnato ma nel contempo, al di là di tutte le vicende, soddisfatto perché quel mio eterno peregrinare, alla fine aveva dato frutti tanto che da quel seme nato in quel lontano Caos, aveva fatto germogliare una pianta nodosa, ubertosa, piena di foglie e di frutti ed è per questo, per analogia, che mi ricordavo di quel pino che mi ha visto bambino, seduto sotto a prendermi il fresco e ad ammirare il meraviglioso mare africano.

Mi è doveroso ricordare che in quegli ultimi giorni ero stato colto ripetutamente dagli attacchi del male, così era stato durante il mio soggiorno a Parigi dove per qualche tempo ho vissuto da solo. Erano attacchi, a detta dei medici, di angina pectoris che provocava lancinanti dolori fino a farmi quasi soccombere. Poi trascorsi un periodo a Viareggio dove certamente non mostravo tanta salute ed anzi mi presentavo, agli amici, silenzioso, quasi assente.

E’ vero, le mie ultime immagini riflettevano un uomo melanconico, distratto, assorto in un proprio esclusivo limbo, e mi limitavo a poche ma ferme attività.

Di tanto in tanto non mancai di far sentire la mia voce. Mi accorgevo che gli amici che mi erano vicini mi guardavano con una certa apprensione seppur dalle loro labbra vidi sempre sorrisi e tanta, ma tanta comprensione e questo mi aiutava a risollevarmi.

C’erano, soprattutto, i miei nipoti, i miei figli, la mia famiglia, a darmi il senso di unità, di calore e qualche volta, aiutavo i miei nipoti a recitare in terrazza. Giuro che sentivo di essermi riconciliato con la vita, assai soddisfatto e contento per quella realtà familiare che mi circondava e mi concedeva una certa felicità assai visibile.

Porca miseria, sentivo che la salute, per uno dei suoi scherzi tragicamente dolorosi, mi abbandonava, a poco a poco, centellinava i miei momenti di vita quasi sornionamente e sorridendo. Era certamente un dispetto. Mi faceva vedere il mio trapasso con il rallentatore, ma io certo non mi illudevo tanto che quando il medico venne a visitarmi non esitai a dirgli che sapevo di essere in punto di morte e lo incitai a non dirmi bugie. Sapevo, altresì, che i minuti ormai erano ridotti al lumicino e quella prima lampadina, laggiù al Caos, che aveva iniziato ad illuminare la mia vita, la mia attività, stava per spegnersi inesorabilmente. Potevo ancora affermare che si trattava del “gioco delle parti”, ineluttabilmente.

Ma prima, a margine di questo racconto, voglio soffermarmi ancora su un altro aspetto che qualche critico ha evidenziato e che riguarda la scelta dei cognomi da me effettuata nel corso della lunga attività.

C’è subito da dire che “l’attribuzione” del nome è l’atto primario per la nascita del personaggio alla luce dell’arte, la certificazione della sua esistenza in vita, ma anche l’atto di riconoscimento e di affiliazione da parte dell’autore. Mattia Pascal è certamente il personaggio più prediletto da me.

A lui, “alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”, ho dedicato il saggio L’Umorismo perché, anche per le vicissitudini identitarie, rappresenta da sempre la personificazione di quella poetica. “Il fu Mattia Pascal” è il romanzo del valore antinomico del nome. Inizia con una certezza cartesiana: “Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”.

Certezza che svanisce nell’arco di poche righe: “Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo”. Tra la fiduciosa affermazione iniziale e la conclusiva alienata constatazione si consuma la vicenda della inaffidabilità del nome. Per attuare il suo disegno di palingenesi, Mattia s’era dovuto cercare un nome nuovo. Ma quello trovato di Adriano Meis si rivela presto una soluzione fallimentare che lo consegna allo sradicamento sociale. Il romanzo registra una duplice mancata resurrezione (il vocabolo è ripetuto tre volte nelle ultime pagine): il progetto di rinascita di Mattia in Adriano, alla notizia liberatoria della presunta morte, e la ‘rincarnazione’ (così recita il titolo del penultimo capitolo) di Adriano in Mattia dopo la nuova esperienza di deiezione esistenziale.

Del significato della fabula dovrebbe dar conto il significante dei nomi del personaggio, quello anagrafico assegnatogli dall’autore e quello fittizio scelto occasionalmente da solo.

Voglio anche ricordare che in un vecchio saggio, intitolato “Il personaggio risorto”, si era voluto collegare il nome e il cognome di Mattia Pascal all’evento della resurrezione esplicitamente richiamato da me personalmente per l’anelito liberatorio del protagonista. Il nome Mattia, negli Atti degli Apostoli (I, 15-26), è quello del seguace di Cristo che, dopo il tradimento di Giuda, “fu associato agli undici apostoli” come testimone della Resurrezione.

Il cognome Pascal rimanda evidentemente alla Pasqua e alla Resurrezione. Mattia è dunque allusivo del testimone dell’evento; Pascal testimonia l’evento stesso. Nome e cognome ribadiscono l’ansia di resurrezione del personaggio. Di quest’ansia Mattia Pascal è “l’eponimo”. Voglio anche precisare che l’eponimo (dal greco ἐπώνυμος, composto di ἐπί, “sopra”, e ὄνομα, “nome”; cioè “soprannominatore”) è un personaggio, sia esso reale o fittizio, che dà il suo nome a una città, un luogo geografico, una dinastia, un periodo storico, un movimento artistico, un oggetto o altro.

Il termine viene spesso utilizzato per indicare il personaggio, in genere mitico, a cui si attribuiva la fondazione di una città o di una stirpe. Poteva altresì indicare la divinità protettrice: per esempio Atena protettrice della città greca di Atene. Nel cap. VIII del romanzo assistiamo alla nascita di un nome. Il protagonista si ribattezza in Adriano Meis secondo le modalità di scelta onomastica seguite da me stesso. L’occasione a Mattia è offerta dall’incontro su un treno diretto a Torino con due compagni di viaggio, un giovane “dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera” e un “vecchietto magro magro”.

Per ragioni di credibilità e di misura non può assumerne il nome ma, con uno spostamento metonimico, prende il nome di Adriano, di colui che nella fattispecie iconografica delle due statue di Paneade può essere scambiato con Cristo. Il cognome l’ho tratto da Camillo De Meis, lo studioso che, secondo il vecchietto, avrebbe sostenuto (ma infondatamente) la tesi che una delle due statue rappresentava non Adriano ma Cristo.

Mattia aveva già provato a forgiarsi un nome, accozzando a caso delle sillabe, Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi, ma non vi aveva trovato “alcuna proprietà, alcun senso”.

E aveva concluso: “Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne…”. Lo stesso convincimento espresso da Perazzetti secondo il quale, per la sua convenzionalità, il nome “non è una cosa seria”. In Adriano Meis invece la proprietà e il senso Mattia li ritroverà. Sul piano onomastico Adriano Meis e Mattia Pascal sono infatti omologhi.

Entrambi i nomi, riconducibili alla figura di Cristo, attengono alla significazione esistenziale del personaggio, alla sua duplice mancata resurrezione da rapportarsi antifrasisticamente all’archetipo cristiano.

A Mattia Pascal perciò, con convinzione, avevo potuto giustamente dedicare L’Umorismo, perché già il suo nome e cognome, con quell’implicita allusione alla trionfale resurrezione di Cristo degradata nel fallimento esistenziale del personaggio, attivano il sentimento del contrario e assumono una connotazione umoristica. Un nome proprio, sia pure quello di un cane, promosso poi al rango di personaggio (il “filosofo Mob”, della poesia Ritorno), non può essere parola vuota, puro significante. Per me valeva quello che Barthes a proposito di Proust diceva del nome letterario: “…è un segno, e non già un semplice indizio che designa senza significare […]. Come segno il Nome proprio si offre a una descrizione, a un deciframento”.

Questa identificazione determina anche il carattere non convenzionale e la natura ontologica e mitica del ‘Nome’ proprio letterario. Nel 1895 nella recensione alle Vergini delle rocce, (opera di D’Annunzio), da me scritta, ribadivo il legame nome-personaggio, “esistente come persona viva” per lo scrittore. Eppure nella gestazione di un’opera rimodellò il nome del protagonista. In una lettera a Bontempelli del 26 maggio 1910 scrissi:

“Se sapesse in quale tetraggine io mi sento avviluppato, senza più speranza di scampo! Lo vedrà dal mio prossimo romanzo: Monarda Uno, nessuno e centomila”.

Il primitivo cognome del protagonista del romanzo, ricordo che ebbe una lunga gestazione e fu pubblicato solo nel 1926, era dunque Monarda, dal greco mónos ‘solo, unico’ e il suffisso con valore negativo -arda. Un antroponimo che in maniera troppo scoperta segnalava la disperata aspirazione di chi vuol sentirsi “Uno”, ma si scopre “Nessuno” perché angosciosamente “Centomila” per gli altri. L’eccessiva trasparenza del significato mi indusse a occultare Monarda nell’assonante Moscarda, un cognome anagraficamente più plausibile e legato a una metafora della poesia “La caccia di Domiziano” (1902), nella raccolta” Fuori di chiave”. Negli ultimi versi mi sono accidiosamente identificato in una mosca:

“… la mia vita vorrei, mosca senz’ale, / anch’essa, ne lo stil freddo infilzare”. 

Il cognome Moscarda, mascheramento dell’originario Monarda, può leggersi quasi come uno pseudonimo che mi appartiene e che è correlato al nome Vitangelo attivando un onomastico sentimentale del contrario per la contrapposizione della figura angelica librata nel nome e l’insetto imprigionato nel cognome.

Qualcuno ha sostenuto che “Vitangelo Moscarda porta il mio nome come una condanna e una promessa di liberazione”. La forma sgradevole del cognome “brutto fino alla crudeltà” sconta il lascito di infamia del padre usuraio, la lievità del nome, angelo della Vita, connota invece l’ansia di liberazione dalle forme del vivere. Mi piace citare il mio conterraneo Leonardo Sciascia che ha affermato come il processo di formazione del nome letterario sfugge così alla coscienza dell’autore.

L’onomastica dei personaggi segue in me un percorso strano. Tanto per fare un esempio: ho dato il nome di Amar al capo di un partito molto somigliante al comunista nel Contesto. Qualcuno è arrivato a sospettare che ci fosse Amendola nell’Am. Io ho scoperto qualche anno dopo, rileggendo l’Henri Brulard di Stendhal, che il nome era quello di quella specie di commissario del popolo che aveva arrestato il padre di Stendhal come nemico della rivoluzione.

Per il cognome, dal momento che il personaggio, per travagliate esperienze, mi sono dovuto contentare “non più di vivere per sé, ma di guardar vivere gli altri” e anche se io stesso ma da fuori, con “un godimento meraviglioso: il giuoco appunto dell’intelletto”, da quel ‘giuoco’ amaro l’ha voluto denominare. Gala infatti deriva dal francese gale (sec.XIII), ‘divertimento, spasso, piacere’, deverbale di galer ‘divertirsi, spassarsi’.

Simile la procedura adottata nel “Piacere dell’onestà” (1917) per il cognome di Angelo Baldovino, personaggio accomunato a Leone Gala dalla problematica della ‘parte’. Baldovino disserta sull’irriducibile componente bestiale della natura umana:

“Non siamo soli! Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. Vada a persuader l’asino a non andare rasente ai precipizii: si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lì, perché non ne può far di meno”. 

La metafora dell’asino non è casuale, perché il personaggio ne è segnato nel cognome che risponde all’antico significato di ‘asino’. Dal francese Baudouin (francone Baldowin), Baldovino è nome proprio passato, nella letteratura in francese antico, a designare l’animale. Il nome Angelo rappresenta invece il libero volo dell’intelligenza nello “assoluto di una pura forma astratta”. Dice il protagonista: 

“Sospeso nell’aria, mi sono come adagiato su una nuvola: è il piacere dei Santi negli affreschi delle chiese!”. 

Angelo Baldovino è un ossimoro onomastico, come Vitangelo Moscarda, e segnala la duplicità di un personaggio “dalla vita trarotta” che assapora il piacere dell’onestà e la impone a chi vuole servirsi di lui.

Baldovino, stretto nei termini di una pièce borghese, con scarti imprevisti ma con un finale lieto, non si pone il problema del nome che invece, assieme a quello dell’identità, diviene l’assillo di Vitangelo Moscarda. Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante.

“Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno staccato che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda”.

Il personaggio non si riconosce nella tesi di Cratilo sulla “giustezza” per natura del nome. Al contrario la sua convenzionalità impedisce che possa rappresentare il mondo indivisibile e vario dell’anima.

La profonda identità individuale non può essere colta dagli altri che inevitabilmente legano al nome un soggetto estraneo all’interiorità del portatore. Su una linea di rifiuto del segno denominativo Vitangelo Moscarda, al termine della sua vicenda di estraniazione, aggiunge:

“Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita”. 

Moscarda, come Perazzetti, Mattia Pascal e Cotrone, per mimesi naturalistica si esprime in veste di persona che denuncia l’interiorità tradita dalla convenzionalità onomastica e non può riconoscere la “giustezza” del nome dettato dall’autore, dal carattere e dal destino della sua creatura. All’anticratilismo dei personaggi si oppone il mio cratilismo perché ho saputo sentire il legame tra il personaggio e il nome, attribuito già nella fase germinale dell’ispirazione. Ne sono testimonianza due foglietti, forse tracce di future novelle, in cui ho voluto connettere spunti di situazioni narrative al nome delle creature che dovranno viverle: “Il signor Mosanni sposa a quarant’anni Dreetta di ventidue”, “Paolo Fenghi, insigne grecista, a trentacinque anni, vecchio”.

A riprova della consustanzialità di nome e personaggio si legga la novella La tragedia di un personaggio del 1911 in cui, con un rovesciamento di prospettiva rispetto alle poetiche naturalistiche, a me riconosciuto demiurgo di un universo fantasmatico, si manifestarono le creature dell’arte dotate di iniziativa e di virtualità.

Ho già detto che riservavo ai personaggi una udienza domenicale, cinque ore dalle otto alle tredici, e di trovarmi assediato dalle pene della “gente più scontenta del mondo”, ingarbugliata in strani casi, con la quale era difficile trattare. Tuttavia ho ascoltato tutti “con sopportazione”, li ho interrogati “con buona grazia”, preso nota dei nomi e tenuto conto “de’ loro sentimenti e delle loro aspirazioni”. Dunque i personaggi germinano nella fantasia già segnati dal nome. Ne prendono solo atto insieme ai dati della loro pena, riservandomi di immetterli nel mondo dell’arte al “momento più opportuno”.

In questa immaginaria udienza domenicale sono riuscito a creare (magari inscenandolo) il rapporto autore-personaggio, un dialogo interiore nel canone dell’umorismo.

E’ avvenuto che a certe mie domande più d’uno si sia adombrato, impuntato, recalcitrando furiosamente, perché forse gli sembrava che io provassi gusto a scomporlo dalla serietà con cui mi si era presentato.

E allora io, che in fondo sono di buon cuore, li compativo. Ma è mai possibile il compatimento di certe sventure, se non a patto che se ne rida? L’atto dell’autore di scomporre, senza provarne gusto, le seriosità dei personaggi rimanda a una pagina del saggio L’Umorismo, e di questo ne sono stato sempre convinto. Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio il cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene, ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il” sentimento del contrario”. Nel mio rituale dell’udienza si poneva innanzi al sentimento di cui sono permeati i personaggi, e con la riflessione, “una specie di projezione della stessa attività fantastica”, da giudice “li analizzavo spassionandomene” riuscendo ad attivare il sentimento del contrario. Fra i personaggi in attesa dell’udienza domenicale, ignari dell’umoristica accoglienza, s’era insinuato un dottor Fileno, protagonista di un mediocre romanzo letto, la notte precedente.

Fileno, teorico di una “Filosofia del lontano”, è scontento di tutto, della trama artificiosa in cui l’ha immesso l’autore, della moglie per l’imposizione del nome che gli ha attribuito. Non riconosce la “giustezza” del suo nome, in realtà riadattamento del latineggiante Paulo Post, apparso due anni prima in una serie di articoli da me scritti intitolati “Da lontano”.

Gli era morta infatti una figlia, ma pochi giorni dopo, con il balsamo di quell’antidoto filosofico, appariva, “già così consolato, come se quella figliuola gli fosse morta da più che cent’anni”. Al contrario di Mattia Pascal, di Perazzetti, di Vitangelo Moscarda e del Mago Cotrone che, da persone fittizie, lamentano la convenzionalità del denominativo, Fileno con lo status di personaggio dovrebbe sentire la “giustezza” del nome.

All’oscuro delle procedure onomastiche seguite dall’autore, invece, non riconosce il giusto referente semantico, ma si appunta stizzito sul significato corrente e certo sgradevole di ‘fileno’, da Philaenus spumarius, insetto omottero detto comunemente ‘sputacchina’.

Una recriminazione, la sua, analoga a quella di Vitangelo Moscarda che, ignaro dell’originario e appropriato Monarda, lamentava nel nome “brutto fino alla crudeltà (…) la mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante”. Il nome letterario, frutto di complesse e spesso insondabili associazioni analogiche, antifrastiche o fonosimboliche, è dominio esclusivo dell’autore-nomaturgo. Fra i miei personaggi quelli con più risentita coscienza di persona si rapportano diversamente alla maschera del nome. Mattia Pascal, dato per morto e determinato a risorgere a nuova vita, adotta il metonimico Adriano Meis, “falso” e ingestibile per mancanza di riscontri anagrafici.

Spogliatosi delle fittizie generalità e ridotto a fantasma di se stesso recupera il lascito del primo nome, preceduto da un fu commemorativo.

Perazzetti con degnazione filosofica accetta il nome, irridendolo. Vitangelo Moscarda sente che il denominativo personale non rappresenta la mutevole ricchezza dello spirito e lo rifiuta abbandonandosi al flusso della vita che non conclude.

Cotrone infine, dimissionatosi da tutto per liberare le risorse dell’anima “superflua e misteriosa materia di prodigi”, con l’autorevolezza di Mago di lontana scuola teosofica, ammonisce di non riconoscersi nella scorza limitante del corpo e del nome. Questo disagio in verità era stato già segnalato nel saggio “Il nome e l’anima” volendo accomunare i miei personaggi con due omologhi della letteratura europea di quel tempo: il siciliano “Filippo Rubè” di Antonio Borgese e “l’Irlandese Stephen Dedalus” di James Joyce.

Tralasciando di continuare su queste disquisizioni per non appesantire il mio racconto e l’eventuale lettura da parte degli interessati, posso dire che fui appagato in modo certo dalla ‘dolcezza’ del nome, Zuccarello il “distinto melodista” dell’omonima novella, scovato dal solito Perazzetti, in vena di scoperte filosofiche, in un catacombale caffè-concerto romano.

Zuccarello, un cantante di modesta taglia fisica e canora, che “dava quel che poteva e perfettamente sapeva quanto poteva dare”, si riconosceva nel suo nome al punto da averlo fatto stampare a grossi caratteri nel manifesto, illuminato da due lampade sbarbaglianti, affisso fuori del locale dove si esibiva.

Voglio concludere affermando che quei personaggi che vivono il dramma di vedersi realizzati anziché vivere, non sono i precursori della nostra epoca mediatica in cui vivi solo se ti vedi e ti rendi visibile, se appari in video e ti filmi in un clip, se fai l’autoscatto, il relativismo dei valori e delle situazioni, il teatro dello specchio, la solitudine del narcisismo cerebrale, non riflettono la condizione odierna e la perdita della realtà nel nome della sua immagine?

Alla fine alcuni critici hanno ritenuto giusto definirmi “il sismografo dell’uomo contemporaneo” mentre per quanto attiene Tilgher fui definito “il mio profeta”.

Il mio relativismo tragico è di una specie ulteriore rispetto a quello che divide i credenti dagli atei; per me sapere, conoscere, vuol significare patire, conoscersi è soffrire, ma non puoi sottrarti. Ho tentato di rovesciare il rapporto tra l’esterno e l’interno; vedere col cervello, pensare con gli occhi. Tutto si fa relativo, solo il caos resta assoluto.

Caro Seddio, tornando a noi, voglio dirle che la natura era pronta a compiere il suo ciclo ed io, ancora lucido, pronto ad affrontare il trapasso, con coraggio e consapevolezza. Durante la mia attività letteraria tanti personaggi avevo creato e tanti ne avevo fatto morire, così ora faceva la natura: mi aveva creato ed ora era pronta a fami morire.

Non ero così stupido da non capire il gioco della vita già avendo intuito che pupi siamo e pupi restiamo, altro che i re dell’universo. Ma figuriamoci!

Mi erano comparse alcune linee di febbre, ma continuavo a lavorare, seppur con qualche difficoltà, e proprio avevo già scritto i due atti del mio nuovo testo drammatico: “I giganti della montagna”. Rimanevo per gran parte della giornata a letto mentre mio figlio Stefano mi era sempre accanto e proprio a lui avevo illustrato la struttura del terzo atto che speravo completare nei prossimi giorni.

Questo gli dissi, immaginando la scena:

“C’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. 

Mio figlio successivamente riferì che la mia ultima nottata fu affollata dai fantasmi e la mattina, quasi stremato, gli dissi che avevo scritto (nella mente) tutto il terzo atto e che ora potevo concedermi il meritato riposo, sicuro che sarei guarito al più presto per completare il terzo atto e quindi l’opera.

Arrivò, inesorabilmente, la mattina del 10 dicembre del 1936 ed io, ancora quasi del tutto cosciente, mentre osservavo nel vuoto che mi appariva, serenamente, finii di essere peregrino su questa terra e mi accompagnai a quel gruppo di fantasmi che era fuori la porta e che lentamente mi fece strada, quasi una processione, mentre vidi una strada illuminata lunga che si perdeva mentre io, leggero, leggero, sereno, la iniziai a percorrere sempre seguito e circondato dai miei fantasmi.

Ora loro non erano più sensazioni, ma realtà ed anche io, pur nella nuova veste, questo ero diventato: una realtà che per tanti anni aveva convissuto però senza avere, allora, la possibilità di renderla concreta. Ora tutto era diverso e tutto mi appariva chiaro così come iniziai ad avere risposte certe, inesauribili, che venivano a soddisfare la mia curiosità espressa mediante tante e tante domande.

In quel momento, ancora, riuscii a comprendere che per molti quella morte rappresentava la fine di un incubo, non sapendo che di me avrebbero continuato a parlare, a bisticciare, ad analizzare e chissà fino a quando sarebbe durato.

Ma questa volta senza la mia presenza; io ero diventato un fantasma, ma un fantasma vero, palpabile, coperto, nudo, da quel bianco lenzuolo, sorvegliato da due suorine interdette, (certo vedendo quello spettacolo!): questa, mio caro Seddio, è stata la mia vera vittoria e rivincita.

Debbo ancora aggiungere che subito dopo la mia morte, i familiari, constatato il mio decesso, mentre l’amico Ojetti pensò di chiudermi gli occhi, iniziarono a piangere, mentre la casa si animò e tutti si misero a girare a vuoto. Si preparavano a vestirmi, ad accendere i ceri, incensi. Qualcuno si preoccupò di farlo sapere a qualche fiorista per avere subito qualche vaso di fiori o fiori recisi.

Un vero casino, ma io ormai riposavo sereno non curandomi di quell’assembramento. Sapevo e ricordavo il mio testamento. Ed infatti, quando Ojetti, fece vedere quel biglietto, quasi consunto “le mie volontà”, tutti rimasero delusi e quell’insignificante scritto divenne un testo che tanto discutere avrebbe suscitato.

Sbigottimento, silenzio che sembrava sepolcrale, in tema con quel momento, pensando che avevo giocato a tutti un brutto tiro; li avevo gabbati e così come i parenti delusi, lo furono, ma con meno convinzione, tutti coloro che, pregustavano sapendo della mia morte, la celebrazione ufficiale pronti a incensarmi, ad onorarmi.

Questa soddisfazione non gliela diedi e tutti rimasero con un palmo di naso. In verità, da tempo, avevo previsto tutto e quindi ora me ne stavo, ripeto, coricato tranquillo riuscendo a vedere i loro volti strabiliati, incomprensibilmente confusi.

Non poterono derogare alle mie volontà, per cui non fui vestito, coperto con un lenzuolo bianco e poi lasciato in compagnia di quelle due suorine, che tanta pena mi facevano, dal volto pallido, che certamente pregavano, ma non nego che a vedere quel lenzuolo bianco, come detto, con quello che c’era di sotto, non erano tanto tranquille.

Avranno pensato che sotto quel bianco lenzuola si nascondesse un fantasma. Ed io, senza essere visto, vedevo tutto, miracolo della morte, caro mio.

I parenti e gli amici erano scesi al piano di sotto, commentando, certamente quelle frasi scritte in quel piccolo, insignificante, foglio di carta che diventava il fulcro della vita che io continuavo a vivere, a dispetto di tutti; ma loro non capirono e dovettero trascorrere tanti anni per dare il giusto significato a quelle crude e semplici parole.

Mi ero preso gioco della morte proprio nel momento in cui esalavo l’ultimo respiro. Ma nessuno lo sapeva, piangevano e si disperavano. Ormai io li osservavo senza che nessuno potesse vedermi e in un certo senso mi divertivo. La morte ormai non mi avrebbe più colpito ed io avrei continuato a vivere come tanti altri non avrebbero potuto fare.

In una piovosa mattina, con la strada un po’ sconnessa lastricata alla men peggio e piena d’acqua piovana, fui posto in una semplice bara di legno, infilato in quel carro funebre d’infima classe, e solo, come da mio desiderio, fui portato al Verano dove sono stato sepoltEo. siccome la mia vita, come da me affermato, era stata una vera pupazzata, anche quello che accadde dopo essere entrato al cimitero divenne una vera rappresentazione, della peggiore della specie.

Mi dispiacque che non potei essere io a dirigere, come capocomico, quell’evento che tanti problemi creò in seguito, soprattutto quando si decise di rimandare le mie ceneri, quel poco che rimaneva, a Girgenti ed essere disperse. In questo ultimo passaggio non sono stato purtroppo esaudito; dopo tanti anni di contrasti con la chiesa agrigentina, con il vescovo e la Curia di quella città, che si opposero strenuamente al mio ritorno nell’agognata terra, grazie all’interessamento di taluni amici, finalmente le mie ceneri, racchiuse in un vaso greco, poi traslate, sono state chiuse dentro ad un masso a poco passi dalla mia casa del Caos, sotto quel famoso pino mio unico e vero punto di riferimento.

Caro amico, penso di aver raccontato tutto, o quasi, certamente le cose delle quali meno si è parlato e sono anche consapevole che non è stato tutto detto; ma il tempo, anche per me, è tiranno e devo ritornare da dove sono venuto esclusivamente per svolgere questo compito. Sono anche certo, è già accaduto, che altri continueranno a sviscerare la mia vita, i miei scritti, i miei pensieri e si continueranno a scrivere libri, saggi, che saranno pubblicati e distribuiti, seppur sono anche convinto che molti non si leggeranno mai.

Ma averli in qualche scansia di libreria, dà un certo tono di cultura, di apprendimento e leggendo il mio nome, l’amico o gli ospiti, diranno: “Però… Pirandello, ma riesci a comprenderlo? Io non lo leggerò mai”. Non mi offenderò sa, ormai appartengo al mondo dei fantasmi materializzati e quindi… Il mondo della cultura è notevolmente cambiato in peggio. La letteratura, gli scrittori (almeno quelli veri) non vengono più considerati, anzi volutamente dimenticati per dare spazio ai nuovi protagonisti di carta, effimeri, ma che colpiscono la fantasia di tutti, anche dei ragazzini che non leggono più libri di favole, di avventure piacevoli, preferendo le trame violente, i personaggi macabri e odiosi.

E’ così, ma io sono felice di essere nato nel tempo in cui la letteratura e i letterati godevano di attenzione, prestigio, fama ed è per questo che ci siamo impegnati a lasciare un patrimonio di inestimabile valore. I nostri libri occupano, ormai, poche librerie; si possono trovare nelle cantine o solai tutti impolverati, alcuni mai aperti.

Dispiace tutto questo, ma chi non è più non ha alcun potere di cambiare il mondo che segue proprie strade, seppur è quasi certo che queste e quelle generazioni che verranno si troveranno ad avere le menti appannate, i cuori aridi, gli entusiasmi cessati, le speranze naufragate e sarà il tramonto, la fine. Che ne sarà di loro? Io, nonostante tutto, continuo a sentirmi Figlio ed Uomo del Caos, essendomi impegnato a portare avanti tutta una serie di teorie, convincimenti (anche contrastanti tra di loro), con la determinazione che quello che consideravo il mio peregrinare su questa terra, alla fine non è stato infruttuoso se ancora se ne parla.

Mi ripeto: purché se ne parli: questo è l’obiettivo, mi creda caro Seddio. A questo punto, per concludere, non posso non ricordare un passo, importantissimo, della biografia autentica che ha scritto il Nardelli, il fedele biografo, che mi ha seguito come un ombra, (anche lui fantasma?) a chiusura della stessa in quanto la reputo significativa, esplicativa e che dovrebbe far comprendere a tutti chi era questo Luigi Pirandello, nato al Caos (località fino ad allora del tutto sconosciuta) per poi essere insignito del Premio Nobel consacrando la sua attività che rimane, scusi la presunzione, un faro che mai più si spegnerà.

“In lui ha scritto Nardelli convivevano, operando in combinazioni, lo stesso acume Ateniese e l’Italia di Cassiodoro, conventuale; l’Italia dove albeggiò un superamento della cultura. Pirandello smaterializzò la propria esistenza vieppiù, ad ogni anno, a ogni dì che visse. Per esigenza che Voi, Lettori, potete adesso apprezzare, Adesso Voi sapete perché Pirandello non s’attaccasse ad alcuna cosa terrena; meno che meno al denaro di cui faceva, da isolano cauto, un gran conto. Pervenuto alla cime di se stesso, alla propria verità, seppe d’esistere tutto nel proprio pensiero e nulla più nella persona. Pirandello era un fatto mentale, sopra un’appassionata natura. Dunque, un fatto sentimentale. Egli accertò, lavorando, di tramandarsi con l’opera propria; e, per non farle ombra in alcun modo, volle corporalmente sparire… C’era di che, Pirandello aveva voluto cancellarsi in carne e ossa per amore di verità: intesa la verità come novità. Infatti, una volta la verità fioriva, adesso esplode. Onde nasce il rapporto dei messianici dell’Asia antica al mondo moderno… L’interrogativo pirandelliano era di natura spirituale, vivere o sopravvivere. Ora la catena delle grandi intuizioni dell’arte domanda d’essere conchiusa in dottrina, al servizio della vita sociale”. 

Improvvisamente avverto una improvvisa solitudine. Mi accorsi che dentro al portacenere fumava ancora mezza sigaretta, Xantia, e comprendo.

Lentamente mi alzo e mi affaccio alla finestra osservando quel magnifico tramonto d’ottobre con colori pastello che sembrano dipinti da una mano divina.

Poi mi accorgo d’una nuvoletta, all’orizzonte, che quasi passeggia lentamente, sembra godersi lo spettacolo della natura. E poi, ancora, alcuni uccelli multicolori che piacevolmente seguono quella nuvoletta.

No, non sono fantasmi, ma uccelli veri e solo ora comprendo che il Maestro è ritornato nel suo meraviglioso e misterioso mondo che da sempre ha voluto scoprire. Ora, sono certo, le sue ansie, i suoi dubbi, non avranno più ragione di esistere.

Porto, quasi trasognato, il mio mezzo sigaro sulle labbra, lo aspiro un po’ e vedo il fumo alzarsi, uscire dalla finestra e sparire.

A questo punto mi chiedo: E’ Sogno?…, No, realtà. Torno a sedermi, osservo tutti quei fogli scritti sotto dettatura e sorridendo, dico a me stesso se questa mia esperienza è stata:

Finzione o Realtà?

Le mie ultime volontà 
Sia lasciata passare in silenzio la mia morte.
Agli amici, ai nemici preghiera, nonché di parlarne sui giornali, ma non farne pur cenno.
Né annunzi né partecipazioni. 
Morto, non mi si vesta, Mi s’avvolga nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. 
Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo.
E nessuno m’accompagni, né parenti né amici.
Il carro, il cavallo, il cocchiere e Basta, 
Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare, sia l’urna cineraria
portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti dove nacqui.

Pietro Seddio

Io sono figlio e uomo del Caos

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