Io sono figlio e uomo del Caos – Capitolo 17: Amico di Nino Martoglio

Di Pietro Seddio

Arrivai al 1924, anno di eventi felici e dolorosi, così come era stato l’anno 1921 per la morte di Nino Martoglio al quale ero legato da una amicizia sincera e salda. Provai un profondo dolore che esternai scrivendo, sul “Messaggero”, il necrologio.

Io sono figlio e uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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Pirandello. Autobiografia immaginaria. Capitolo 17
Nino Martoglio (1870 – 1921)

Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 17
Amico di Nino Martoglio

Arrivai al 1924, anno di eventi felici e dolorosi, così come era stato l’anno 1921 per la morte di Nino Martoglio al quale ero legato da una amicizia sincera e salda. Provai un profondo dolore che esternai scrivendo, sul “Messaggero”, il necrologio. Poi un’altra tegola, Lietta si divise dal marito e questo provocò in me un’altra grave ferita. Per anni era stato il mio punto di riferimento, la mia consigliera e l’unica presenza femminile che mi desse segni di affetto e di effusione. Per un attimo sono stato costretto a ritornare indietro, nel passato, ricordandomi delle pene patite quando ancora vivevo con Antonietta.

Ricordo allorquando lei improvvisamente prese i tre figli portandoli in Sicilia. Era vicina a parenti, ma lei prese in affitto un villino ai margini della città. Tre mesi trascorsero. Poi li andai a prendere incontrando resistenze da parte della madre. Ma alla fine mi lasciò partire, lei rimase con una vecchia serva. Tutto sembrava essere ritornato alla normalità, almeno apparente.

Io vissi ancora, con i tre figli, altri quattro mesi, quando venni a sapere che Antonietta aveva dato in escandescenze e si era messa a gridare a squarciagola in piena notte.

Ci fu come un terremoto:: i vicini che cercavano di capire cosa stesse succedendo, si accorsero che la porta d’ingresso era sbarrata. Lei continuava a gridare di essere accerchiata. Si provvide a chiamare il fratello e la folla continuava ad essere numerosa mentre cento finestre erano ormai illuminate. Si sentivano le grida di Antonietta. Ricevetti una telefonato da mio cognato, e in men che non si dica cercai di raggiungere Agrigento. I fratelli ormai avevano preso la decisione, ma quando Antonietta mi vide, mi abbracciò, dicendomi: “Salvami. Salvami!”.

Con mio cognato ci recammo a Palermo per vedere se era possibile ricoverarla. Mi si disse che quella donna non si poteva più curare. Che fare allora? Pensavo ai ragazzi e certo non potevo continuare lontano da lei o lontano dai figli. Intervenne anche la magistratura per mettere a riparo Antonietta. Decisi, di riportarla a casa dove continuai a farla curare. Sembrò che per qualche tempo fosse calma, fino a quando una sera esplose ancora in modo violento e presa dalla collera mi venne incontro armata, ma non riuscì a colpirmi. Più volte la morte aveva bussato alla mia porta, ma questa alla fine non arrivò per nessuno, almeno fino ad un certo momento della mia esistenza.

Dopo il matrimonio, Lietta si era trasferita in Cile ed io ho sofferto molto per quella lontananza e in più occasioni pensai di raggiungerla.

Non fu possibile, ed io dovetti registrare un altro allontanamento, dopo quella di Antonietta, forzato, questo in modo deliberato perché la moglie segue il marito. Giusto. Ma fino a quando?

Comunque, trascorso un certo periodo fui allietato dalla notizia che Lietta era diventa mamma. Io rividi mia figlia nel 1924, poi nel 1927 la stessa ripartì per il Cile, ma confesso che intanto si erano venute a creare nuove situazioni mutando determinati intimi sentimenti. Poi fu la volta del successo relativo all’altra opera teatrale “Enrico IV” che fece il giro del mondo, e da questa opera, alcuni critici, altro non fecero che parlare solo della “pazzia” rappresentata da Enrico IV, senza andare nel substrato di quella mia considerazione tematica così presente in tutta l’opera. Nonostante il successo io continuavo a sentirmi in gabbia, riottoso dall’andare da un punto all’altro del globo, convinto che la vita tanto male mi aveva arrecato.

Mi sentivo tirato da una parte dalla voglia di partecipare alla vita attiva sospinto dal successo e dall’altra rimanere in silenzio, a casa, a curarmi le ferite che ancora piagavano la mia anima. Non dimentico che mi arrivavano inviti da tutte le parti, proposte di premi, di presentazioni e di interventi letterari, ma quasi sempre, con cortesia, rinunziavo a parteciparvi. Non nascondo che, siamo nel 1922, la mia fama aveva superato qualsiasi confine e quindi, di conseguenza, ero costretto ad adeguarmi alla realtà.

Mi soffermo un momento per ricordare che in Europa, in alcune grandi città dove le mie opere vennero rappresentate, il successo fu contrastante ed anzi posso affermare che passata la prima ondata di euforia questa venne lentamente a scemare, ma fui anche capace di comprendere le ragioni e motivazioni, anche perché qualche regista, secondo il mio modo di analizzare, aveva inteso stravolgere alcune rappresentazioni facendo in modo che il pubblico poco intuisse di quello che in effetti era il mio pensiero come autore.

In Italia, non mi potevo lamentare anche perché, mi sembrava, non c’erano sulla breccia autori che si potessero misurare con me, a parte qualcuno che ho già citato. Io intanto continuavo a scrivere altre opere seppur l’attenzione era sempre rivolta a quelle poche ma significative che continuavano ad essere rappresentate e a destare l’attenzione soprattutto della critica. Avevo, per le rappresentazioni, l’imbarazzo della scelta per gli attori e attrici, soprattutto quando decisi di diventare capocomico. Ne parlerò più avanti.

Pensavo, ritenendomi famoso, che l’attrice assai famosa del momento, Eleonora Duse, fosse disposta ad interpretare un ruolo nell’opera “La vita che ti diedi”, ma la stessa elegantemente rifiutò. Venne sostituita dalla Borelli. Io comunque sapevo che la Duse era l’attrice prediletta di D’Annunzio (ne era anche la sua amante) ma speravo che potesse accettare la proposta di essere protagonista di qualche mia opera. Non avvenne mai e questo mio desiderio non si realizzò.

Intanto mi si erano aperte anche le porte dell’America dove l’opera “Sei personaggi” era stata rappresentata con buon successo. Affermo di essere stato popolare in quel periodo anche perché erano diverse le mie opere che, in zone più disparate, venivano rappresentate. Nel 1923 mi trovai in America chiamato da molti critici interessati sempre di più per la mia così proficua produzione teatrale.

Tutto sembrava inverosimile se pensavo che questo successo era arrivato quasi improvviso e, da più parti, erano convinti che riuscivo ad accontentare i gusti e gli interessi degli uomini che seguivano le più opposte ideologie, dai capitalisti, ai bolscevichi, ai democratici, ai fascisti ed anche ai cattolici. Aggiungo che alcuni giudizi non furono così positivi e soprattutto in Italia mi trovai a contrastare con il grande Benedetto Croce sul tema dell’umorismo, avendo io scritto e pubblicato proprio un saggio che tale titolo portava.

Fu un conflitto aspro, duro, che interessò l’Italia letteraria per molto tempo, ma alla fine né io né Croce potemmo affermare di essere vincitori. Rimanemmo con le nostre idee e da allora, al di là di altri scritti critici, niente è cambiato nel senso delle mie tematiche e prese di posizione, come quelle di Benedetto Croce, rimangono pietre miliari, ma equidistanti perché scritte da due autori con idee contrapposte, ma soprattutto con visioni che non avrebbero mai potuto collimare.

E questo è stato un bene in quanto le nostre rispettive personalità sono rimaste integre, libere, non assoggettate a nessuno dei due.

Prendo spunto da questo mio dire per confermare che ho sempre sostenuto la libertà di pensiero nel senso che ognuno, forte del proprio convincimento, può esprimerlo e non essere artatamente attaccato da chi la pensa in modo diverso. Il pensiero, nella concezione di assoluta libertà, quindi giusto e propositivo, deve essere accettato e se non condiviso non combattuto strenuamente.

Ogni azione che l’uomo compie, non nefasta o cruenta, dimostra la capacità intellettiva, matura, di chi la promuove ed è per questo che i tanti denigratori vanno condannati, utilizzando le stesse armi: il pensiero che, come ho già detto, è libero, vola e nessuno può coartarlo, cosa che è sempre accaduto e questi denigratori dimostrano la loro meschinità intellettuale che tale rimane in menti contorte e poco allenate al pacifico confronto.

Ritornai, un po’ deluso dall’America in quanto non avevo trovato, al di là di momenti ludici, quella essenza spirituale e non solo in campo letterario, ma anche in quella politica e siccome tutto, secondo me, era portato all’eccesso, si rischiava che alla fine si sarebbe distrutto. No, non mi sono trovato bene, a mio agio in America, nonostante riconosco che è una grandissima terra, ma forse io nel “grandissimo” non mi ci sapevo trovare e meno che mai vedere l’orizzonte che mi permetteva di essere creativo.

Fui in Spagna, nel 1924, e poi tornai in Sicilia, a Catania, dove vennero rappresentate alcune delle mie opere teatrali. Fu poi il turno di “Ciascuno a suo modo” rappresentata a Milano. Per questa commedia non mancarono le critiche portate avanti da alcuni giornalisti che scrivevano sulla “Gazzetta del Popolo”, a Torino e su “Il Secolo”. Il più feroce tra i giornalisti fu Domenico Lanza che non mancò mai di infierire sul mio conto e debbo dire che questo signore alla fine mi aveva rotto le scatole. Si, le scatole caro Seddio ma solo perché le sue critiche, era ovvio, si presentavano gratuite segno che lui non era riuscito a leggere “tra le righe”, quindi un citrullo che si sentiva una mazza.

Ma per onestà, come sempre, riferisco che altri dalla penna facile continuarono a tenermi sotto scacco, ed io, siculo sono, non mi lasciai condizionare perché continuai a scrivere, scrivere e loro a perseguitarmi, perseguitarmi. Vuol sapere una cosa? Per me quella vicenda era diventata “Il gioco delle parti”.

Potrei ricordare anche coloro che hanno scritto positivamente, ma delego il lettore a trovare questi nomi tra i testi che sono stati pubblicati, mentre mi preme dire che la specifica opera, nonostante il successo avuto con la Compagnia Niccodemi e con la interpretazione di Vera Vergani e Luigi Cimara, mentre io sono rimasto in vita, non venne mai più rappresentata, e le motivazioni possono essere: una, nessuna e centomila.

Come è facile intuire, leggendo le vicende che mi hanno coinvolto direttamente, ho avuto l’occasione di incontrare tantissime persone autorevoli (ho incontrato anche Einstein, il grande genio) in ogni parte dove mi sono trovato e soprattutto dopo che la mia professione di scrittore era diventata di pubblico dominio.

Ma tra questi, come è stato più volte sottolineato, uno in particolare ha segnato la mia vita artistica per essere stato l’unico a dare un senso logico alla mia produzione con tutti i riscontri e risvolti evidenti o meno.

Fu presente fin dal 1922 e il suo nome, Adriano Tilgher, che in primis sembrò essere un malo consigliere mentre, successivamente, si rivelò molto determinato per la mia opera. Ci intendemmo, seppur da principio non fu facile, ma alla fine, frequentandoci, diventammo amici riuscendo a creare un dualismo che molti critici hanno sempre analizzato.

Persona colta, amante della letteratura e del teatro, fu un filosofo sensibile soprattutto alle voci dell’irrazionalismo spiritualista contemporaneo, che si preoccupò, con qualche altro, di importare in Italia.

Ed anche questo passaggio è stato autorevolmente messo in evidenza.

Fu anticrociano e antigentiliano, e si dimostrò il più adatto, tra gli uomini di cultura di quel tempo, a dragare in senso filosofico la mia opera per sceverarvi e mettere allo scoperto alcune intuizioni, che erano quelle stesse da me perseguite sul piano teoretico.

Per la prima volta mi trovai di fronte ad un profondo analista, per niente superficiale, né di parte, né compiacente, né prevenuto. Se occorreva lodare lo faceva, come parimenti quando doveva attaccare, anche a muso duro, perché non convinto o peggio consapevole che quanto da lui analizzato era spazzatura, anche se a scriverla era un celebrato scrittore.

Io, confesso, ancora una volta, che non ho mai pensato di appartenere alla categoria dei filosofi, ero pronto a dare ascolto al primo impulso che mi solleticava rivelandosi di natura quasi biologica, uno stimolo immediato e profondo.

Mi sono sempre fatto carico delle mie azioni, argomentazioni, pensieri, tanto che ho scritto (anche queste parole riportate in saggi):

“I miei lavori nascono da immagini vive, quelle che sono la fonte perenne dell’arte, ma queste immagini passano attraverso ad un filtro di concetti che hanno preso tutto me stesso. Senza dubbio la mia opera d’arte non è mai un concetto che cerchi di esprimersi per mezzo d’immagini; è, al contrario, un’immagine, spesso vivissima immagine di vita, che, nutrendosi dei travagli del mio spirito, assume da sé, per sola e legittima coerenza d’arte, un valore universale”. 

Non potevo essere più chiaro e fu per questo che l’amico, intuendo il mio travaglio, tentò di sistemare ogni situazione, citando alcuni importanti filosofi, che alla fine mi erano congeniali. Fu il primo ad evidenziare un mio specifico pensiero, enucleando in due parole, tutto un sistema di riflessione che toccava punti anche disparati: Vita e Forma diventati, nel tempo, la vera individuazione della mia tematica.

Continuando nella sua profonda disamina arrivò a parlare di relativismo ed è per questo che fui indicato come colui che nega una realtà e verità fuori di noi.

Sostenevo, secondo questa tesi, che per ognuno, essere e apparire sono la stessa cosa, che non vi è scienza ma solo opinione e che tutte queste si equivalgono appunto perché per me tutte le affermazioni e teorie e leggi e norme non sono che le forme effimere in cui per qualche istante si cala la vita, in se destituite d’intima verità e consistenza.

Ecco l’analisi fatta da Tilgher. Elementi scaturiti dall’aver esaminato con attenzione due opere in particolare: “Così è se vi pare”, e “Ciascuno a suo modo”, e posso ancora dire che con quell’acuto esame con cui seppe ricavare la formula “forma e vita”, il tanto decantato relativismo dallo stesso è stato ridotto e depauperato con riflessi nei confronti di tutta la mia produzione letteraria.

Scrisse, lo ricordo, “Studi sul teatro contemporaneo”, un saggio di assoluto valore letterario che ho sempre considerato uno dei testi più interessanti che hanno evidenziato tutte le problematiche relative all’arte teatrale. Mi preme dire, ricordando brevemente questo incontro letterario, che dopo l’interesse critico di Tilgher, la formula, da occasionale che era confusa nella giungla molteplice delle idee e dei sentimenti, andò scemando, assunse anche una qualità astratta, finì in parecchie occasioni per farsi schema pregiudiziale e rigido che inevitabilmente venne a coinvolgere tutta la mia produzione.

Ancora mi chiedo se è stato fatto con dolo o perché risultante da analisi contrastanti verso le quali io avevo contribuito, evidenziato, con le mie opere, le mie tesi, le vie vicissitudini, le mie elucubrazioni, ma anche le mie speranze e certezze. E come sempre accade non tutto torna a proprio favore, quasi mai.

Lungo la mia strada lastricata di incomprensioni, di attacchi, di invidia, debbo sottolineare, con immensa soddisfazione, che un altro grande letterato T. S. Eliot, ebbe a rilasciare una dichiarazione che mi ha commosso e mi ha inorgoglito, che voglio riportare per intero, e questo perché in ogni caso avvalora in me il preciso senso della vita:

“Pirandello è un drammaturgo al quale tutti i drammaturghi seri della mia generazione e anche della prossima debbono riconoscere un debito di riconoscenza. Egli ci ha insegnato qualcosa di ciò che sono i nostri problemi, e indicando la direzione in cui può essere cercata la loro soluzione”.

“Dico una corbelleria se affermo che una dichiarazione di questa portata, detta da un gigante, è come avere avuto assegnato il Premi Nobel?”

Pietro Seddio

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