Pirandellu ‘n sicilianu – Introduzione

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“La realtà che io ho per voi è nella forma che voi mi date”‘ (L. Pirandello) La realtà che un uomo vive agli occhi del mondo è la realtà che egli stesso esprime. Da sempre l’uomo ha avuto bisogno di “comunicarsi” da quando per farlo utilizzava disegni stilizzati a quando, evolvendosi e civilizzandosi, è arrivato a quella che per molti è la migliore forma di espressione: la parola.

 

Pirandello in siciliano
Angelo Musco (a destra) con Luigi Pirandello (primo a sinistra) ed il regista Gennaro Righetti, in una pausa delle riprese del film “Pensaci, Giacomino”, nel 1936. Immagine dal Web.

Pirandellu ‘n Sicilianu
  • 1915 – Liolà – Commedia campestre in tre atti (In siciliano)
    1915 – Liolà – Commedia campestre in tre atti (In siciliano)

    È stata definita da Pirandello «commedia campestre in tre atti». Se ne fa risalire la stesura in dialetto agrigentino all’agosto-settembre 1916. La trascrizione in italiano, a opera dello stesso Pirandello, fu pubblicata da Bemporad, Firenze, nel 1928. L’edizione in dialetto fu rappresentata dalla Compagnia Angelo…

  • 1916 – ‘A giarra – Commedia in un atto (in siciliano)
    1916 – ‘A giarra – Commedia in un atto (in siciliano)

    Commedia in un atto derivata dalla novella omonima (1909); fu scritta in dialetto agrigentino, col titolo ‘A giarra, probabilmente nell’ottobre del 1916 e rappresentata a Roma il 9 luglio 1917. La successiva versione di Pirandello in lingua italiana, scritta forse nei primi mesi del 1925, fu…

  • 1917 – ‘A vilanza – Dramma in tre atti (In siciliano)
    1917 – ‘A vilanza – Dramma in tre atti (In siciliano)

    ‘A vilanza. Non tutti sanno che Luigi Pirandello e Nino Martoglio scrissero ben due commedie a quattro mani; e non tutti sanno che in tali opere appare con decisione una Sicilia diversa: vera, bellissima e violenta, metafora di tutto un mondo e portatrice di valori…

  • 1917 – A birritta cu’ i ciancianeddi – Commedia in due atti (In siciliano)
    1917 – A birritta cu’ i ciancianeddi – Commedia in due atti (In siciliano)

    Commedia in due atti scritta nell’agosto 1916 in dialetto siciliano per Angelo Musco, col titolo ’A birritta cu’ i ciancianeddi derivata dalle novelle La verità (1912) e Certi obblighi (1912). Fu rappresentata dalla Compagnia di Angelo Musco a Roma, al Teatro Nazionale, il 27 giugno…

  • 1917 – Cappiddazzu paga tuttu – Commedia in tre atti in dialetto Siciliano
    1917 – Cappiddazzu paga tuttu – Commedia in tre atti in dialetto Siciliano

    Non tutti sanno che Luigi Pirandello e Nino Martoglio scrissero ben due commedie a quattro mani; e non tutti sanno che in tali opere appare con decisione una Sicilia diversa: vera, bellissima e violenta, metafora di tutto un mondo e portatrice di valori diversi. Una…

  • 1919 – ‘A patenti – Commedia in un atto in Siciliano
    1919 – ‘A patenti – Commedia in un atto in Siciliano

    È uno dei più originali e grotteschi atti di ribellione di un personaggio pirandelliano contro le ingiustizie della società. Pirandello mette in evidenza la tragica situazione in cui viene a trovarsi un poveretto bollato dalla società col marchio di menagramo, portasfortuna, jettatore: è odiato e…

Introduzione al teatro dialettale

Liceo Scientifico “Ettore Majorana” San Giovanni La Punta (CT)

MEDITATA SCELTA DI PIRANDELLO FRA DIALETTO E LINGUA

da  majorana-liceo.it (link non più attivo)

         “La realtà che io ho per voi è nella forma che voi mi date”‘ (L. Pirandello) La realtà che un uomo vive agli occhi del mondo è la realtà che egli stesso esprime. Da sempre l’uomo ha avuto bisogno di “comunicarsi” da quando per farlo utilizzava disegni stilizzati a quando, evolvendosi e civilizzandosi, è arrivato a quella che per molti è la migliore forma di espressione: la parola.

La parola non utilizzata soltanto come passivo modo per descrivere immagini, sensazioni, sogni ma soprattutto come mezzo per descrivere il mondo interiore. Quel mondo interiore che mai vedrà in ogni sua parte la luce perché l’uomo, nel rapportarsi con gli altri, utilizza sempre delle “maschere”, come afferma Pirandello, ma la scrittura è un nobile modo per comunicare. La parola diventa quindi non più semplice espressione verbale bensì chiave del nostro essere. Funge da perfetto tramite tra l’anima e tutto ciò che ci circonda. La parola ha seguito un’evoluzione incredibile e diversa in ogni sua tappa. Nasce dapprima come una semplice convenzione a cui si accomunano sensazioni, emozioni , e semplici oggetti. Si evolverà poi acquistando valori sempre più complessi dando origine alla “lingua” che a sua volta, essendo strettamente collegata all’evoluzione socio-storico-politica della terra, si arricchirà di diverse sfumature dando quindi origine ai dialetti.

Tutto ciò serve a renderci consapevoli del determinato effetto che certe parole possono creare al nostro sistema cognitivo e come certi scrittori possano abilmente utilizzarle per rendere chiaro il loro pensiero o per manifestare la loro idea. Così prendendo spunto dal discorso tenuto da Luigi Pirandello il 3 dicembre 1931 alla Reale Accademia d’Italia per la celebrazione del 500 anniversario della pubblicazione dei Malavoglia, che è il leit-motiv espresso fin dal 1920 nel Discorso tenuto a Catania per l’800 anniversario della nascita di Verga e ribadito in Dialettalità, fascicolo agosto-settembre-ottobre 1921, dedicato al “Teatro Sperimentale” e ripreso appunto nei Discorso del 1931, da cui non si può prescindere se si vuole affrontare la problematica della lingua e della parola in Pirandello e che è, dunque, necessario citare :

“Due lineamenti ben distinti e quasi paralleli corrono lungo tutto il cammino della nostra storia letteraria; due stili: l’uno di parole e l’altro di cose…” Intravediamo nel panorama letterario italiano artisti che hanno focalizzato la loro attenzione sull’estetica della parola ed altri che hanno concentrato i loro sforzi inserendo nelle loro opere, al di là di infiorate parole, dei significati profondi e sempre attuali (ciò ricorda la concezione pirandelliana del contrasto tra Vita e Forma).

Così artisti come Dante, Ariosto, Manzoni e lo stesso Verga, che hanno abbandonato la retorica per lasciar posto alle “cose”, alle scomode verità, alle dure realtà dell’esperienza umana, vengono preferiti da Pirandello ad artisti come Petrarca, Tasso, Monti, D’ Annunzio che hanno privilegiato quella che è l’arte tecnica dello scrivere in maniera persuasiva. Pirandello nella sua continua ricerca linguistica, fin dai tempi del ginnasio a Palermo e della sua dissertazione su “Suoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgenti”, intesa come esigenza di trovare il perché della sua lingua e del suo stile, scopre che “…fin da quando è nata la letteratura italiana, la generalità ha questo di particolare: la dialettalità, da intendere come vero ed unico idioma, vale a dire come essenziale proprietà di espressione, la quale, come Dante scrisse : “In qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla”.

Questa  “dialettalità”  denominatore  comune  alle  espressioni  della letteratura italiana sin dalle origini” ha riproposto il problema della mancanza di “tecnicità” nella parola che ha prodotto insicurezza nella lingua e difetto nello stile. Illuminante è il nesso che Pirandello istituisce tra lingua e stile: “la lingua è conoscenza, e oggettivazione; lo stile è il subiettivarsi di questa oggettivazione. In questo senso è creazione di forma; è, cioè, la larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolar sentimento e mossa da una particolare volontà”
Le opere di Pirandello vedevano l’alternato utilizzo di lingua italiana e dialetto siciliano, che mai si sono incontrati in un mix che può essere definito verghiano. La scelta linguistica che si poneva di fronte a Pirandello all’inizio di ogni opera era parecchio complicata. Come davanti a un bivio bisognava scegliere la direzione da seguire: utilizzare la lingua italiana, consentendo una facile comprensione da parte di un pubblico non siciliano o utilizzare il dialetto, adattandolo così perfettamente ai personaggi inseriti in un particolare contesto, delineandone meglio le caratteristiche.

Stefano Milioto, insigne studioso pirandelliano, afferma che : “La necessità di farsi uno stile e l’esigenza di impadronirsi della parola sono coeve alla vocazione poetica di Pirandello”. Pirandello poeta utilizzò la lingua manipolandone l’eleganza in modo eccellente, cogliendone ogni purezza, cogliendo la musicalità che diede vita ad una armonia di sensi mai sentita prima. La adoperò per esprimere la sua inadeguatezza al mondo, l’incomprensione fra l’uomo e la natura, analizzò la realtà della sua vita e la realtà che egli viveva per gli altri. Non utilizzò mai la lingua però per narrare della sua terra e di quei “goffi” uomini che la
abitavano. Perciò spesso adottò il dialetto, di cui dimostrò di avere profonda conoscenza nella sopracitata dissertazione di laurea. Seguito dal maestro Wendelin Foester, titolare della cattedra di filologia romanza dell’università di Bonn, stese la sua tesi “avvalendosi del metodo storico-comparativo dei neogrammatici e basandosi su. una raccolta di fiabe, canti popolari e improvvisi”. La tesi pubblicata dopo il suo dottorato (21 marzo 1891) fu strutturata in: premessa, in cui l’autore suddivide in aree linguistiche la provincia di Girgenti; bibliografia; ringraziamenti; segni diacritici, ove riporta i segni grafici dei suoni; vocalismo; consonantismo; vita e argomenti di discussione.

“La dissertazione di laurea non va vista soltanto come lavoro filologico in senso stretto, ma per le tracce indelebili che rimasero nella formazione linguistica e letteraria di Pirandello.Prima fra tutte una nitida coscienza della lingua, emergente sempre nella sua ‘teoresi letteraria ed artistica’, nelle varie articolazioni del connubio tra lingua parlata e lingua scritta, dell’uso comune della lingua, del rapporto tra lingua e stile un importante noviziato, dunque, per il futuro scrittore”. La parlata dialettale e in particolar modo quella siciliana differisce dalla lingua italiana nella concretezza e nella schiettezza delle espressioni. Il dialetto siciliano, infatti, permette a Pirandello di dar vita a dialoghi accesi pieni di risposte immediate e permeati di un tono velatamente sarcastico.

Altro discorso va fatto per la lingua italiana; le auto traduzioni dello stesso scrittore siciliano dimostrano come nel passaggio tra dialetto e lingua i dialoghi perdano molto della loro efficacia e della loro capacità di penetrare negli animi di un audience desideroso di passionali azioni siciliane. La Sicilia ricca di culture diverse a causa delle sue tredici dominazioni, pur non essendo mai completamente assimilata da alcune di esse, accoglieva apporti linguistici di notevole importanza che come metalli in un crogiuolo si sono fusi dando alla parlata della Trinacria una bellezza e una concretezza pari a poche altre, senza mai perdere i tre caratteri distintivi di popolo, costituiti, come notò pure Cicerone, dall’intelligenza, dalla diffidenza e dall’umorismo. Grande importanza ebbero le influenze latine, francesi, arabe, spagnole ma le dominazioni di cui sicuramente la Sicilia porta ancora i segni più evidenti sono state la dominazione dei Dori e quella degli Ioni.

Ma come dichiarò lo storico greco Tucidide “Noi non siamo né Dori nè Ioni ma siamo Siciliani”. Il dialetto siciliano non è solamente complesso ma anche affascinante. La “lingua” siciliana (da notare l’utilizzo di lingua, perchè data la vastità del suo vocabolario, il dialetto siciliano deve essere considerato una lingua) non solo presenta differenze sostanziali tra le diversissime nove province bensì svariate sfumature tra paese e paese. Nella lingua siciliana e in particolare in quella utilizzata da Pirandello troviamo parole come: “magasì”, derivata dall’arabo mahazan/mahazin, magazzino, “panaro” dal latino panarium (cesta di pane), “zuccu” dall’aragonese soccu e spagnolo zoque ed incroci come “assalarma” probabilmente derivata dal greco aksai (voce di richiamo dei niarinai, infinito aoristo di ago) e dal latino alma (derivato da alo) che dimostrano quanto numerose siano le influenze nella parlata siciliana.

Pirandello sicuramente sarà rimasto incantato dal fascino di questo dialetto, tant’ è vero che scelse addirittura di scrivere alcune delle sue opere, prima in dialetto per poi tradurle in lingua italiana. La commedia “Liolà” costituisce un esempio eclatante di quella che fu la precisa e netta scelta linguistica di Pirandello e di come la traduzione in lingua italiana abbia fatto perdere di particolarità il testo originale in dialetto siciliano, dove la concretezza più che i personaggi è la vera protagonista della commedia  campestre  in  tre  atti. Concretezza  linguistica  che contemporaneamente a rendere l’opera pirandelliana singolare ed unica in ogni sua parte ha creato l’incomprensione più grande fra Pirandello e il suo pubblico, illudendone uno e deludendone l’altro.

Purtroppo la prima rappresentata la sera del quattro novembre del 1916 dalla compagnia comica siciliana al teatro Girgentino di Roma non ebbe quel successo atteso dallo stesso Pirandello. Le cause dell’insuccesso non sono da ricercare nella scarsa vena artistica degli attori, infatti la Compagnia Comica Siciliana vantava nel suo organico attori come la Morabito, il Pandolfini e Angelo Musco, che avrebbero garantito un sicuro successo ai botteghini. Inoltre Pirandello definisce così, in una lettera datata 24 ottobre 1916 diretta al figlio Stefano prigioniero degli austriaci, la sua creazione : “E’ dopo il Fu Mattia Pascal, la cosa mia a cui io tengo di più: forse è la più fresca e viva. Già sai che si chiama Liolà. L’ho scritta in quindici giorni, quest’ estate ed è stata la mia villeggiatura.

Difatti si svolge in campagna. Mi pare di averti già detto che il protagonista è un contadino poeta ebbro di sole e tutta la commedia è piena di canti e di sole. E’ così gioconda che non pare mia”. Ma quindi a cosa si deve l’insuccesso della commedia?Le cause furono probabilmente: la presenza di un finale piuttosto atipico per quanto riguarda il teatro siciliano in quanto si aspettava, come erano solite le commedie di quel tempo, o un matrimonio o un assassinio e la scelta della lingua adottata da Pirandello per rappresentare la sua opera. Per quanto concerne il dramma della storia letteraria europea, nel periodo che possiamo definire pirandelliano, si evidenzia una profonda crisi la cui unica soluzione sembra essere quella del dramma negato.

Questa soluzione obbliga l’autore ad immedesimarsi nel ruolo dei suoi personaggi mettendo nelle loro bocche alcune spontanee parole che in effetti costituiscono il dramma. Nelle parole quindi possiamo intravvedere gli slanci o le paure dettati dal fervore delle persone bruciate da esperienze troppo scottanti. Altro discorso bisogna affrontare per la lingua adottata dal poeta agrigentino in Liolà. Il quadro linguistico di fine ottocento si presentava vario e difforme. Secondo Pirandello la lingua italiana è in disuso; ognuno parla il suo dialetto, lo stesso autore siciliano pur conoscendo le varie sfumature della “lingua siciliana” si rivolge al “pretto vernacolo”, alla parlata di Girgenti.

La scelta non dipese certamente dalla non conoscenza della lingua italiana o dall’incapacità di adoperarla adeguatamente. Essa fu dovuta, in particolar modo, all’impossibilità di rappresentare propriamente con una lingua non dialettale i sentimenti e le immagini caratteristiche del luogo in cui è ambientata la commedia. Pirandello giudica la parlata di Girgenti “la più pura, la più dolce, più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche che forse più d’ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana”. Nel dialetto agrigentino alcune espressioni come “p’u mezzu”, che differisce dal catanese-
siracusano “n’du menzu”, o “dritta” che in siracusano diventa “ritta”, dimostrano quanto più vicino all’italiano sia questo dialetto rispetto ai restanti della Sicilia.

Altri esempi delle differenze fonetiche li troviamo in espressioni conio ‘vogliu” che nel dialetto della parte sud-orientale della Sicilia diventa “vogghiu” o “figliu’t che diventa “figghiu” (da notare il raddoppiamento della g e la trasformazione della “l” in “h”). Inoltre la scelta del “pretto vernacolo” riflette esattamente la volontà di Pirandello di voler polemizzare contro quell’ibrido linguaggio tra dialetto e lingua italiana, che egli definisce “dialetto borghese” o “forma interna” che egli ravvisa nel dialetto arrotondato di Verga. Si potrebbe anche pensare che la scelta della “forma esterna” del pretto vernacolo agrigentino voglia testimoniare il profondo legame interno tra Pirandello e la realtà di Girgenti vista come la fonte dei sentimenti e delle immagini dello scrittore.

La lingua italiana in questo quadro non viene però definitivamente abbandonata. Molte espressioni puramente dialettali servono a spiegare forme italiane inconsuete che provengono da una stato originario chiaramente dialettale. Infatti nelle autotraduzioni troviamo nuove forme morfologico-lessicali. Queste forme possono essere raggruppate in tre sezioni: arcaismi, neologismi e creazioni effimere. Per quanto riguarda gli arcaismi essi spesso conferiscono all’opera pirandelliana un tono più raffinato e più nobile. Tale utilizzo pregiudica la vivezza del parlato creando così il rischio di cadere nell’anacronismo puro. Pirandello stesso scrive: “Mancando così la sicurezza della lingua, che debba mancare anche la tecnicità della parola e debba prodursi l’elasticità del senso della parola
stessa, vien di conseguenza.

Alcuni esempi di arcaismi sono: “alvo materno” in “Ciaula scopre la luna” (arcaismo raro), “agiati” in “Il Fu Mattia Pascal” (utilizzato nel senso di largo, grande, parlando di pantaloni), “greppina” in “Uno nessuno centomila” (divano da riposo in uso alla fine dell’Ottocento).  L’aspetto arcaicizzante viene comunque bilanciato dalla presenza, non indifferente, dei neologismi. Questi formano certamente la sezione più creativa del lessico pirandelliano, quello che si è integrato perfettamente con la lingua italiana e continua attraverso l’espressione poetica dei suoi posteri. In realtà i neologismi sono, più che altro, varianti morfologiche o semantiche di termini già in uso. Questa sezione comprende parole come “evi”, vocabolo già in uso dal Cinquecento nella forma singolare per indicare un periodo storico lungo, Pirandello ne modifica soltanto il numero creando la forma plurale indicante periodi; o “abluzione”  lavatura al  singolare.

Certamente le maggiori spinte innovative vengono dal  dialetto agrigentino. Infatti   nell’opera pirandelliana che precede il teatro dialettale sono presenti molti sicilianismi che, pur essendo espressi nella forma italiana, conservano il loro significato dialettale. Per esempio il verbo siciliano “avvertiri” verbo intransitivo badare, fare attenzione. Pirandello trasforma un verbo dialettale della terza coniugazione in -ere in un verbo italiano in -ire,
conservando però il significato del verbo dialettale. La parte del lessico pirandelliano che non si conforma all’italiano letterario mostra due componenti: quella tradizionalista con elementi che si ispirano al lessico antiquato e quella composta dai neologismi.

Queste creazioni vengono definite “effimere” in quanto  non intaccano più di tanto la realtà linguistica italiana ma mostrano palesemente la continua lotta per arrivare al traguardo di una. lingua italiana fortemente espressiva. Soprattutto per questo Pirandello usa creazioni che possiamo interpretare come libertà linguistiche personali, ad esempio l’uso dell’aggettivo bisillabico in funzione di avverbio: “ridere acre” ridere malignamente in analogia con “piangere forte” ed altri: o l’uso di composti verbali con preposizioni come : “abbruscato” (agg -‘ ‘abbrustolito’, “I vecchi e i giovani”) e “atticciato” (agg., ‘tarchiato’, ‘tozzo “Il Fu Mattia Pascal”). La ricerca della naturalità espressiva è un’ altra peculiarità dello stile pirandelliano.

Nella commedia “Liolà” ad esempio la naturalità espressiva raggiunge il massimo della concretezza nel dialogo tra il protagonista e Zio Simone, in cui alludendo all’impossibilità di procreare di quest’ ultimo,  Liolà usa delle espressioni che sembrano tratte dal linguaggio delle falloforie o dei fescennini, specie quando atavicamente identifica la fertilità della terra con la fecondità della donna: “Scusassì, cca’ cc’è un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza faricci nenti, chi cci fa a terra? Nenti. Comu a fimmina. Chi cci duna ‘u figliu? Vegnu iu, ni stu pezzu di terra; l’zzappu; la conzu; cci fazzu un pirtuso; cci jettu u civu: spunta l’arbulu”. (Scusi. Qua c’è un pezzo di terra ; la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero) o quando attraverso la sua logica stringente, tipica del contadino, dice che la terra è di chi la lavora. Concetto  da cui si potrebbe cogliere in nuce già una coscienza di classe: “A cù l’ha datu st’ arbulu ‘a terra? A mmia. Veni vossia e dici no, è miu. Pirchì? Pirchì a terra e so? Ma la terra beddu zu’ Simuni chi sapi a cu apparteni? Duna u fruttu a cù la lavura”. (A chi l’ha dato quest’ albero la terra? A me! Viene lei e dice di no, dice che è suo. Perché suo? Perché è sua la terra? Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora).

Da queste brevi battute si capisce come l’utilizzo della parlata di Girgenti risponda meglio alle esigenze di Pirandello. Liolà d’ altronde è una commedia campestre, nella quale solo  l’utilizzo del “pretto vernacolo” rende la giusta concretezza dei mondo contadino dell’entroterra siciliano. Le idee della roba come segno di potere, della prole come fonte di ricchezza e della donna come “mezzo” di procreazione sono idee appartenenti ad una cultura antiquata e retrograda. I termini “gistri” (dal latino canestrum, cesto), panara (dal latino panariuni, cesto per pane), antu (dai latino ante, il luogo dove lavorano i contadini), rappa (dal germanico krappa, granello d’uva) mettono in luce la natura contadina del popolo siciliano. I personaggi della commedia sono immersi in questo mondo agreste. Liolà è un “contadino ebbro di sole”. Egli è il perfetto opposto di quello che si potrebbe definire un personaggio misogino. Liolà è un Casanova siciliano, spensierato e amico della natura, accompagnato sempre da grande allegria che trasmette anche agli altri. Anche nel gioco dell’inganno riesce a speculare sulle parole e a confondere con espressioni ambigue ed equivoche il suo diretto avversario: Don Simone Palumbo. “U Zu’ Simuni” è il possidente della terra: lui ha la “robba”.

Questo termine ricorre spesso nella commedia, nella duplice accezione di “roba”, intesa come casa colonica (robba è la casa colonica di zio Simone e rubbicedda, diminutivo di robba, è la casa modesta di gna’ Gesa; da notare l’uso dei diminutivi per indicare le condizioni sociali dei meno abbienti) e “robba” nel senso di averi, terre possedute a cui corrisponde il verghiano “roba”. E’ proprio la “robba” che condiziona il mondo contadino. Don Simone deve avere un erede a cui poterla dare e dopo la morte della moglie decide di risposarsi, ma anche con la bella e prosperosa Mita non c è nulla da fare. Rimanendo sempre legati alla realtà contadina  siciliana d’ inizio secolo, la colpevolezza del mancato concepimento non è attribuibile all’uomo ma solo alla donna poiché la donna deve assolutamente essere capace di procreare. Anche la conformazione fisica della donna gioca un ruolo importante: la donna magra, ad esempio è indice di sterilità come si evince dall’affermazione di zia Croce che riferendosi a donna Rosaria, la quale non aveva avuto figli, dice:” Ma chi cci’ avia a ff’ari idda? Un filo a la porta, puveredda. D’ idda ‘un si putia aspittari”. Al contrario, la donna prosperosa e simbolo di fecondità e di salute e “strumento” sicuro di procreazione.

Proprio per dare un figlio a zio Simone nasce il gioco dell’inganno, in cui Tuzza voleva avere la meglio, ma “a jucata non ci vinni para” (la giocata non gli è riuscita). Quest’ insuccesso provoca in Tuzza uno scatto di pazzia abilmente sedato da Liolà. Pazzia necessaria e “sufficiente” per completare il passaggio dalle tre zone. Secondo tale teoria elaborata da don Nociu Pampina: il personaggio sostiene che “li paroli ca nescinu dì mucca ” sono come sono perché provengono da tre zone: la zona civile che serve “cchiù di tutti duvennu viviri in società” (più di tutte dovendo vivere in società), altrimenti “nni mancirriamu tutti… unu cu l’autru, comu tanti cani arraggiati” ( ci mordiamo tutti come cani arrabbiati) e che ricorda tanto la concezione di Hobbes “homo homini lupiis”; la zona seria che viene in soccorso quando le cose si mettono male e ognuno vuol difendere la propria causa la terza ed ultima zona è la zona pazza che viene utilizzata quando la situazione è ormai degenerata e il personaggio non riesce più a frenare gli istinti. Il dialetto della zona seria è per esempio quello di Liolà, bisognoso di capire le sue debolezze e di soddisfare il suo desiderio con un inganno e quello di don Simone, avvilito dal troppo lavoro e deciso ad avere un erede a cui lasciare tutte le ricchezze accumulate.

Il dialetto della zona civile è il più italianizzato proprio per dare risalto al carattere borghese che Pirandello conserva lasciandovi molta sintassi nella stesura in lingua. Il dialetto della zona pazza predomina generalmente nel finale della commedia ed è il dialetto concitatissimo e liberatorio. E’ il dialetto ingiurioso di zia Croce a don Simone: ” E ora v’ addifinniti a idda, vecchiu beccu, ‘nfacci a n’ autri” ( E ora, no? Non è più vera ora per vostra moglie, vecchio becco), quello di don Simone che libera la verità “E’ miu, e miu, e miu, sissignuri e miu! E nuddu s’ avi arrisicari di diri cosa contra di me muglieri ca vasannu vi fazzii a vidiri a Cristu sdignato!” ( E’ mio! mio! e guai a chi s’attenta a dir cosa contro mia moglie…). Quindi è proprio in questa zona che Pirandello trova parecchie difficoltà nel tradurre alcune espressioni dal dialetto in lingua.

Molte di esse perdono nella traduzione italiana la loro aggressività ed efficacia espressiva. La cosa particolarmente pittoresca sta nel vedere come espressioni formalizzate sotto lo schema dei dialetto serio si mescolano alla componente proverbiale-metaforico del parlar civile, come ad esempio : “Chi aviti forsi ‘u carbuni vagnatu ? l’avi bbonu addumatu e cuvatu dintra” (Avete forse il carbone bagnato? l’ha bene acceso e covato dentro), oppure “gaddina chi camina, s’arricogli c’ à vozza china” (gallina che va e gira, col gozzo pieno si ritira), o “cu cerca trova e cu secuta vinci” (chi cerca trova e chi seguita vince.), o “u tavirnaru voli i picciuli” (il tavernaio vuole essere pagato), o ancora “come s’ avissiru pigliato un ternu” (come se avessero preso un temo).

La più grande originalità di Pirandello sta nell’aver creato una specie di “stato d’ animo ” del mondo contemporaneo: cioè di avergli dato un nome, il suo. Oggi con il termine pirandelliano indichiamo qualsiasi situazione contraddittoria e grottesca. Eppure Pirandello fa la cosa più naturale: descrive la “semplice e complicata” realtà siciliana. Realtà che si può esprimere solo tramite le parole, che sono “…larve da riempire e ognuno le riempie del senso che ha per se, nel proprio intimo… e ben lo sa il Padre quando nei ‘Sei personaggi in cerca d’ autore’ esclama: ‘ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé del mondo come egli l’ha dentro?… “

Nonostante viviamo in un mondo tecnologico dove tutto sembra essere facile, si è avvertito il bisogno di analizzare la parola “secondo” Pirandello proprio perché, nell’intento di utilizzarla al meglio, non soltanto ne ha colto l’importanza ma soprattutto il limite.”… Crediamo d’intenderci non ci intendiamo mai”

BIBLIOGRAFIA

Antonio Trama, Vocabolario siciliano-italiano, Centro editoriale meridionale
M.Pasqualino, Vocabolano etimologico siciliano, Reale stamperia, Palermo 1785.
Sandro Attanasio, ‘Parole di Sicilia’, Mursia 1977
Salvatore Giarrizzo, Dizionano etimologico siciliano Herbita, Palermo l989
Sarah Zappulla Muscarà ‘Pirandello dialettale.’, Palumbo Palermo 1983
Luigi Pirandello ‘Maschere Nude’ Mondadori, 1968
Luigi Pirandello ‘Saggi, Poesie, Scritti vari’, Mondadori Milano
Leonardo Sciascia, Pirandello e il dialetto: ‘Liolà’., in La corda pazza, Torino, Emaudi, 1970
Luigi Pirandello ‘Tutto il teatro in dialetto’, a cura  Sarah Zappulla Muscarà, Bompiani 1994
A.A.V.V ‘Breve storia della Sicilia’, Mondadori
Luigi Pirandello ,‘La parlata di Girgenti’ a cura di Stefano Milioto, Vallecchi


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