Di Pietro Seddio.
E’ questo il vero dramma dei miei personaggi: l’incapacità di realizzare la propria libertà tanto sospirata, schiavi come sono dei pregiudizi sociali. Gli stessi alla fine rappresentano la crisi dell’io, che si sente disperato. Ne viene a risultare che l’esteta è feroce, la vita associativa è una farsa che mette l’uomo in una camicia di forza e lo costringe ad assumere dei ruoli.
Io sono figlio e uomo del Caos
Per gentile concessione dell’ Autore
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Io sono figlio e uomo del Caos
Capitolo 16
Drammaturgo importante
Il Teatro, già, caro Seddio. Lei sa di cosa intendo parlare, come è giusto che io ricordi che espressi il mio diniego ad avvicinarmi a questa forma d’arte. A sapere poi cosa sarebbe accaduto. Ma i pensieri sono volatili e possono mutare non solo direzione ma anche l’intenzione dapprima espressa. Difficile imprigionare i pensieri e renderli schiavi dei nostri desideri. Così è accaduto anche a me.
Voglio subito precisare che la nascita dell’interesse nei confronti del teatro per quanto mi riguarda non è stato un momento importante, seppur fin da giovane avevo tentato alcuni approcci sia come autore che come regista, tutti andati male e dimenticati.
Nel 1893 avevo scritto un dramma in tre atti “Il Nibbio” e a quindici anni altri atti unici: “Lumie di Sicilia”, “Il dovere del medico” e “Cecè” quasi tutte opere derivanti dalla mie novelle. Scrivevo, ma non mostravo particolare interesse, lo riconfermo.
Si ricorderà, anche, che ho parlato degli amici intellettuali che frequentavo e proprio due di questi, in particolare, Capuana e Martoglio, mi spinsero ad interessarmi meglio e di più cercando di creare interessanti testi per il teatro. Martoglio era già un regista e scrittore conosciuto e le sue commedie erano rappresentate almeno in gran parte della Sicilia. Ci si mise Lucio D’Ambra, che dirigeva un teatro “Teatro per tutti” che ebbe l’idea di mettere in scena “Il dovere del medico” che mostrò interesse di pubblico e critica, se non altro per il contenuto della trama.
Aumentò il numero degli amici estimatori che a gara concorsero perché io continuassi a scrivere nonostante io poco li ascoltassi. Ma era accaduto lo scontro con l’Andò e questo sembrò cambiare il mio atteggiamento. Poi la svolta, quando un mio testo “Il Nibbio”, a cui cambiai titolo chiamandolo “Se non così”, fu rappresentato a Milano con la partecipazione di attori come Irma Gramatica, Talli, Ruggeri, Betrone e la Maria Melato. Ma anche questa volta non rimasi soddisfatto per una interpretazione errata da parte di tutti gli attori, in particolare dalla protagonista, ed infatti il pubblico comprese e non si esaltò più di tanto, la critica gli fu dietro.
Molti critici hanno più volte parlato del mio pubblico disaccordo con l’attrice alla quale inviai una lettera risentito e questo lo si può catalogare come il primo incidente di percorso, perché non fu l’unico e non poteva esserlo giacché io, anche se non ancora famoso, sul teatro avevo le mie idee chiare che non collimavano con quelle di molti attori e attrici e registi che prendevano un testo per rappresentarlo a uso e consumo proprio, spesso anche cambiando il senso delle battute.
Una vera indecenza, secondo il mio metro di valutazione.
Tornai a Roma, dopo l’esperienza milanese e in Martoglio ebbi un supporto e un aiuto psicologico fortissimo che mi convinse a scrivere testi dialettali di sicuro effetto e certo che sarebbero stati rappresentati ad un pubblico competente, seppur abitava nell’isola. Tra gli attori siciliani che erano sulla cresta dell’onda, Angelo Musco, vero mattatore, trascinatore di folle, capace di ricevere lunghi e sonori applausi. Una commedia da lui rappresentata era certo che sarebbe stata un successo.
Il Musco rappresentò “Lumie di Sicilia”, mentre io scrissi altri testi, tutti in dialetto, a cominciare da “Pensaci Giacuminu!”, “A’ birritta cu i ciancianeddi” e “Liolà”.
Sempre Martoglio mi coinvolse a scrivere un testo a quattro mani che fu intitolato “L’aria del continente” che ebbe un lusinghiero successo sempre grazie all’interpretazione di Musco, che a me personalmente, (lo dico senza farmi sentire dall’interessato) non piaceva tanto. Troppi gesti, troppi movimenti inutili, intonazioni false, e dicevo che quell’attore non somigliava nemmeno a quelli della Commedia dell’Arte.
Ogni volta che lo vedevo provare e recitare mi si stringeva lo stomaco, ma non intervenivo per non guastare i rapporti con Martoglio che lo celebrava da mattina a sera. Comunque sia i rapporti cominciarono ad incrinarsi quando si iniziarono a fare i conti sui soldi che erano entrati e per come erano stati divisi.
Comunque al di là dei primi dissapori, si tentava di andare avanti: io scrivevo e Musco interpretava e non solo le commedie mie, ma anche di Martoglio e di qualche altro autore siciliano che si cimentava a scrivere in dialetto. Ero preso tanto dall’entusiasmo che sono riuscito a scrivere la commedia “Liolà” in quindici giorni che fu provata al Teatro Argentina, senza la mia presenza in quanto impegnato per gli esami al Magistero.
Doveva accadere e il giorno della prova generale con Musco, più che mattatore, decisi di togliere il copione e vietare la rappresentazione, ma per contro l’attore mi rispose che l’avrebbe rappresentata egualmente, tanto avrebbero recitato a soggetto. Così la pensavano e per questo io non ero d’accordo. Ma l’opera ebbe un clamoroso successo e io non lesinai gratitudine al mattatore. Poi fu il turno di un altro atto unico “‘A giarra”, e anche qui quell’attore sornione diede prova di bravura e fu rappresentata in parecchie città d’Italia.
Tradussi quest’opera in lingua italiana e sono molti ancora oggi a dire che tra le due opere esistono sostanziali divergenze e la prima stesura nei confronti della prima perde molta spontaneità. E’ vero che io sui dialetti avevo idee diverse anche forte dei miei studi che mi avevano portato alla laurea. Così mentre le mie prime opere teatrali iniziavano a farsi conoscere io continuavo a scrivere novelle e qualche romanzo.
Poi nel 1911 fu scritta l’altra opera teatrale “La patente”, anche questa rappresentata con notevole successo, anche se mi sono accorto che spesso il vero senso dell’opera, il mio pensiero, venivano travisati facendone una commedia quasi d’avanspettacolo.
Confesso che non ero tanto contento per come andava l’andazzo tanto da informare mio figlio Stefano affermando che tutta la mia vita, in quel preciso momento, sembrava svuotata d’ogni senso, e non per gli atti da me compiuti, né delle parole pronunciate, quindi mi meravigliavo che altri potessero muoversi fuori di questo mio incubo e agire e parlare. Volete chiedermi cosa cercavo e cosa volevo? Non saprei dirlo, ero frastornato non dimenticando che continuavo a vivere la tragedia familiare. Una piaga mai più rimarginata.
Ero convinto che il mondo fosse senza alcun valore e quindi non esistevano ragioni profonde di fare questo o quell’altro. Ogni buona volontà la consideravo fallita pensando, a ragione ben veduta secondo il mio parametro di valutazione, che la corrente prevalente nel mondo altro non era che quella che scatenava l’odio. E di questo ne tenni informato sempre mio figlio Stefano che, povero giovane, cercava di starmi dietro, comprendermi. A volte pensavo se non avesse sentore che in suo padre non esistesse qualche rotella sbilanciata, ma per correttezza, mi assecondava e mai che mi abbia contraddetto, almeno io non l’ho mai rilevato.
Già iniziava a frullare nel mio cervello quell’opera che tanto scalpore avrebbe suscitato, dichiarata favola, secondo alcuni ma dove io avevo inteso profondere tutti i valori di annichilimento.
Mi sono servito di questa tecnica teatrale, dei continui colpi di scena, inventati ad arte, per fare in modo che la verità si annullasse continuamente, quella verità che si dava per scontata. Un’anguilla che sguscia via e fai fatica a riprenderla. Ma poi, quale verità? Io, lo dico apertamente, per la prima volta ho avuto l’occasione di incontrarmi con il nulla. Ho voluto ridisegnare un relativismo nichilistico scoperto non più a livello teorico o di riflessione, ma a livello della vita di ogni giorno, a livello sociale, a contatto di gomito con gli uomini della provincia italiana. Fu un esperimento e debbo dire ben riuscito, visti poi i risultati che non arrivarono subito, anzi da principio camionate e camionate di improperi, di feroci critiche. E va bene, lo dicevo io che i pensieri sono volatili? Prendeteli se ne siete capaci.
E’ d’accordo anche lei caro Seddio con queste mie dichiarazioni? So che non mi darà risposta, potrà farlo, se vuole, quando si metterà a scrivere qualche saggio critico su una delle mie opere.
Mi trovavo imbrigliato in quella nuova atmosfera elettrizzante, convulso che sembrava inglobarmi ma nello stesso tempo sentivo una certa soddisfazione, ero riuscito, con quello che avevo scritto, così tutti coloro che per tanto tempo si erano fermati dietro la porta del mio studio, a volte infastidendomi, ora avevano una connotazione, un nome, un cognome, un ruolo, in breve: una vita che consentiva loro la libertà, l’identificazione, la possibilità di girare in tutto il mondo.
Quindi non più fantasmi, ma personaggi e come tali con un proprio ruolo e identità, come dicevo. E’ il miracolo, questo, dell’arte e io sono stato un attivo protagonista.
C’era anche un altro particolare che qualcuno, in verità, ha evidenziato e che mi piace ripetere. Con quello che iniziavo a scrivere, facendolo dire ai miei personaggi, mi sembrava di prendermi una rivalsa, quasi una vera vendetta sul mondo. Molto probabilmente avvertivo che questo mondo potesse avere la meglio, ed ecco perché ho iniziato ad estraniarmi e quindi evitare ogni giudizio. Era una lotta impari tra le mie idee e le esigenze squisitamente materiali.
Avevo la visione nitida di quanto era accaduto in guerra, l’assassinio di tanti innocenti, il mondo intero sconquassato da quanto era successo in quegli anni terribili di ingiusta guerra. Ora tutto quanto mi circondava sembravano essere ombre e sentivo il vuoto assoluto attorno a me. Tornavo ad essere solo, contrastato da tutti, abbandonato, ma non avevo intenzione di mollare, capivo che quella era la strada da percorrere fino in fondo. Me lo chiedevano anche i miei personaggi che scalpitavano per salire sui palcoscenici e presentarsi ai pubblici di tutto il mondo. Avrebbero capito?
Non era questo il mio problema, ma quello di dare loro la voce, quella mia, che diventava la loro perché ora esistevano, erano personaggi a tutti gli effetti. Non più fantasia, ma realtà.
Mio figlio Stefano era stato informato, mi rispose suggerendomi di scegliere, eventualmente, il meglio del cast attori e mi citò Maria Melato, Annibale Betrone e il Talli. Il testo “Così è (se vi pare)” ebbe un successo convinto per non dire che fu un vero trionfo tanto che la critica lo giudicò fin da subito il mio capolavoro. Anche questo testo era stato ricavato da una mia novella già scritta. Rispondo subito alla domanda che vuole farmi: si, cominciavo ad assaporare il successo e penso che sia umano e poi ne avevo diritto se non altro per sanare alcune di quelle piaghe che per tanto tempo mi avevano segnato.
Ormai i giornali parlavano di me, delle mie opere, ed anche il Talli mi chiese di scrivere un’altra commedia, ed io l’avevo già in mente. Ormai mi sentivo preso dalla frenesia di scrivere, creare, caratterizzare, dare voce a più personaggi.
L’unico mio rammarico, era che fossero considerate commedie, ma pensai che anche io avevo contribuito a dare questo senso giacché parlando del senso di vita, avevo detto che alla fine la vita era una pupazzata, e come tale da considerare una commedia.
Così videro la luce opere come “Sei personaggi in cerca d’autore”, “Ma non è una cosa seria”, “Il gioco delle parti”, e sempre con la presenza di Emma Gramatica, Ruggero Ruggeri, Vera Vergani. Per l’insieme dei temi trattati, anche quelli meno comprensibili, ho dato la possibilità a giornalisti, saggisti, critici, detrattori, di scrivere, scrivere e posso dire che ancora oggi si continua a scrivere, seppur non sempre con convinzione e approfondimento. Mi ricordo che si diceva, purché se ne parli, questo è importante. Un’altra caratteristica, quella di seguire personalmente tutte le prove e spesso, non per sostituirmi al capocomico, ero prodigo di consigli, magari leggendo personalmente ogni parte e mi accorgevo che si formava un girotondo e sentivo il loro respiro attento, gli sguardi fissi, qualche sorriso ma tanta, tanta attenzione.
Alla fine della mia lettura non nego che qualche attore, seguito dagli altri presenti, mi regalava un convinto applauso. Ma com’era prevedibile non tutto si svolse come io speravo, qualche commedia non venne accolta con entusiasmo e mi ritrovai con la critica che si accanì contro di me, come se fossi stato al mio esordio. Dimenticare è sempre facile e quindi dovevo anche entrare in quest’ordine di idee.
Ero dentro ad un gioco perverso fatto solo di interessi che non si curavano d’arte. A loro interessavano i soldi che entravano al botteghino, non credo che la maggior parte abbia compreso fino in fondo quello che avevo avuto voglia di dire. Non credo che abbiano saputo leggere tra le righe.
No, mio caro Seddio, ed è per questo che sono stato, e lo sono ancora, attaccato così ogni mia frase, ogni mio atto, ogni mia decisione è stata oggetto di speculazione consentendo ai giornali di vendere più copie, ai saggisti improvvisati più libri, ad attori guitti capaci solo di cambiare i parametri delle mie caratterizzazioni. Non soltanto abbandonato, combattuto, evidentemente deluso. Si era arrivati a questo punto.
Ora mi preme dire che la mia drammaturgia si fonda sulla spontaneità del rapporto tra situazione e condizione, persona e personaggio, realtà e finzione scenica. Il che mi impose un lungo periodo di osservazione, da me compiuto sugli esseri umani e il loro comportamento. Dall’analisi della realtà derivò l’utilizzo di eventi grotteschi, casi apparentemente senza via d’uscita, una folla di creature dissociate, schiave di pregiudizi e desiderose di una libertà impossibile.
Coesistendo la narrazione come antefatto della nascita del personaggio assieme alla dimensione scenica e a una forte tendenza dialogica presente nelle mie novelle, sono giunto quasi spontaneamente alla scoperta del teatro.
Ciò avvenne al termine di una mia ricerca ideologica, che tendeva a delineare un bisogno irrinunciabile, la creazione del personaggio senza autore, che gioca alla roulette del “caso” e agisce in modo apparentemente del tutto autonomo. Ma quali dovevano essere le caratteristiche dei miei personaggi?
Generalmente il drammaturgo, all’interno di scelte realistiche quali la dimensione temporale e i contenuti borghesi, decide di andarli a pescare in situazioni grottesche, al limite della sofferenza umana (non tanto fisica, quanto dell’anima), uomini che non riescono a liberarsi da vincoli sociali dell’apparenza, spesso condannati alla solitudine oppure al riso beffardo dei loro compaesani.
E’ questo il vero dramma dei miei personaggi: l’incapacità di realizzare la propria libertà tanto sospirata, schiavi come sono dei pregiudizi sociali. Gli stessi alla fine rappresentano la crisi dell’io, che si sente disperato. Ne viene a risultare che l’esteta è feroce, la vita associativa è una farsa che mette l’uomo in una camicia di forza e lo costringe ad assumere dei ruoli. La società e la famiglia sono trappole che costringono l’uomo all’evasione a volte spingedoli, in certi casi, alla follia. Alla base della mia visione del mondo vi è una concezione vitalistica. Quindi, in questo contesto, la vita è in “perpetuo movimento”, inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all’altro, (flusso continuo, incandescente, distinto).
Tutto ciò che si stacca da questo “flusso”, e assume “forme” distinte e individuali, per il sottoscritto, incomincia a “morire”.
L’uomo tende a cristallizzarsi in “forme” individuali, in una realtà che noi stessi ci fissiamo, e la realtà è semplicemente illusione. Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la loro prospettiva particolare ci danno determinate “forme”.
Noi crediamo di essere “uno”, ma in realtà siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Queste forme sono una maschera che noi ci imponiamo e che ci obbliga il contesto sociale. Sotto questa maschera non c’è un volto definito ma è in continua trasformazione a seconda degli stati d’animo.
Tutto ciò porta quindi, alla “frantumazione dell’IO”, che era riflesso della società del ‘900, in cui era entrata in crisi l’idea dell’oggettività; pertanto l’uomo naufragava in un mondo di incertezze, e ciò generava la solitudine e lo smarrimento delle persone.
Queste “forme” sono sentite come una “trappola” in cui l’individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi. Si può affermare tranquillamente che alla base di tutta la mia opera si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti e dei ruoli che essa impone. L’uomo quindi deve fingere e crearsi delle “maschere” per avere legami con la società.
L’istituto in cui si manifesta per eccellenza la “trappola” della “forma” che imprigiona l’uomo è la famiglia. Per me, l’ambiente famigliare è opprimente, pieno di tensioni segrete, odi, rancori, ipocrisie e menzogne. E qui siamo al concetto di “trappola”.
L’altra trappola è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno al livello del piccolo borghese. Da questa “trappola” non esiste una via d’uscita storica: ecco spiegato perché il mio pessimismo è stato totale, non mi ha consentito di vedere altre forme di società diverse. Per me è la società in quanto tale, in assoluto, che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale.
Appare scontato che di fronte a queste mie visioni, confermate dai miei scritti, una certa critica mi ha attaccato e questo è avvenuto perché fino ad allora certi temi così delicati, complessi, non erano mai stati evidenziati e gli autori teatrali che si ponevano questi problemi non riuscivano a scavare fino in fondo, forse per evitare critiche, forse perché incapaci, forse perché a loro serviva l’opera, qualsiasi, da rappresentare e meno domande il pubblico si faceva, più assicurato era il successo.
Aggiungo che per fuggire da questa “trappola”, l’unica via di salvezza che sono riuscito a dare ai miei eroi è stata la fuga nell’irrazionale quindi nell’immaginazione dei personaggi che li trasporta verso un altrove fantastico, oppure nella follia, che è stato lo strumento di contestazione per eccellenza da me praticato ed utilizzato. Per questo motivo alla fine della fiera il mio eroe si presenta lontano dalla vita, si isola guardando vivere dall’esterno. Per me questa è da considerare “Filosofia del lontano”.
Intanto in quel periodo ebbi l’occasione di collaborare con la rivista “Ruota”, diretta da Bragaglia, che aprì anche delle mostre alle quali parteciparono artisti come De Chirico, Boccioni, Sironi, Prampolini, Malaparte, Marinetti che diedero vita al Movimento Futurista che intese rompere con la tradizione. Ne fui attratto a dire il vero e in un certo senso collaborai. Poi tornai a collaborare con Martoglio che dirigeva il “Teatro Mediterraneo” ed ebbi l’occasione di tradurre in siciliano “Il Ciclope” di Euripide, il “Glauco” di Morselli, ma questi affidò il dramma ad altri. Intanto continuava la rappresentazione di mie opere che diventavano sempre più numerose in quanto, ad onor del vero, non smettevo di scrivere, di intervenire nella vita sociale e politica con miei articoli e partecipavo pure a degli incontri letterari.
Debbo dire che ero assorbito e quasi alcuni miei gravi problemi venivano soffocati da questa bramosia di scrivere, aggiungo per fortuna.
Poi, si ricorderà, fu la volta della rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” che provocò un vero terremoto e fu in quella occasione che fui chiamato: pazzo. Ben mi stava, pensai, seppur ero convinto che tutti si sarebbero ricreduti, anche quei facinorosi critici che mi diedero addosso. Mi hanno riferito, considerato che mi ero allontanato precipitosamente dal teatro, che l’infuocata discussione tra avversari e condiscendenti durò parecchio tempo.
Bene, cosa ho voluto intendere dire con questa commedia (anche io la definisco in questo modo) seppur quei personaggi, soprattutto la famiglia senza nome, vivono un dramma abissale? Niente altro che una esorcizzazione per mezzo della coscienza, di stati di coscienza e di convinzioni intellettuali permanenti e ossessivi.
Avevo già comunicato a Stefano di avere inventato una “gran diavoleria”, ma proprio quei diavoli contro di me si accanirono e scagliarono. Tutto il seguito è stato abbondantemente raccontato nel corso degli anni che si sono succeduti per cui su questo argomento mi taccio. Se qualcuno vuole conoscere fino in fondo la verità, basta che legga un qualche autorevole saggio e potrà comprendere perfettamente. Mi risulta, e lo dico sorridendo, che anche lei ha scritto un saggio su questa mia opera, sottolineando che si tratta di “analisi critica”.
Mi piace solo dire che l’opera è nata in una sequenza extratemporale proiettata dal profondo, così come dalle stesse origini profonde erano suggeriti, o direttamente dettati, i simboli extratemporali dell’arte europea contemporanea. Nella zona in cui nascevano i gesti, le parole, il linguaggio dei personaggi questi diventavano vischiosi, attraevano a sé e si assimilavano i rimandi intellettuali più diversi e antitetici: l’esperienza culturale contemporanea si dissolveva in ironia e libertà.
Aggiungo che qualcuno iniziò a dire che, forse senza volerlo, avevo dato il via a quella forma di teatro che sarà conosciuta come “teatro dell’assurdo”, che tanta diffusione avrà in seguito grazie all’apporto di grandi autori come Ionesco, Adamov, Beckett, ed altri. Ma a quel tempo io questo non lo avevo previsto.
Mi sembra giusto anche chiarire alcune circostanze per evitare, ancora, che sul mio operato, sul mio pensiero, ristagni la confusione.
Perché dico questo? Ma perché qualcuno, in modo affrettato, ha riferito che io ero un provocatore di scandali riferendosi al mio “teatro nel teatro” dove sono presenti suicidi, morti e resurrezioni, colpi di rivoltella e terremoti sulla scena provocando un continuo scandalo nei personaggi, affermando, anche, che avrei obbedito a due costanti interne: sollecitato da una mia personale cattiveria e quindi da uno stimolo amorale e motivato da profonde ragioni psichiche, aggiungendo uno stimolo forte delle esigenze moralistiche. Niente di tutto questo, lo confermo.
Certo in me esisteva una molla che mi portava alla rottura, alla ribellione, alla protesta e se il campo della ribellione si riferiva alla questione moralistica, ciò avveniva in quanto così era più facile ritrovare l’equilibrio della coscienza. Strano a dirsi, ma qualcuno mi ha definito un modesto che trovava un “incomparabile diletto nello scandalo”.
Non si era capito che tutto questo per me significava un immediato istintivo gesto di ribellione. Si vede e si comprende che è un argomento complesso e riferendomi ancora alle idee e sentimenti volatili, questo passaggio ogni lettore può interpretarlo come meglio crede, a patto che si leggano con attenzione le mie opere, almeno quelle più significative.
Forse qualcuno ha dimenticato che non ho mai provato gusto nel fomentare la distruzione. Proprio i gesti di distruzione sono stati intervallati da quelli della pietà e della compassione che alla fine risultano essere i due tempi aritmici di una vicenda, sistole e diastole, carica e scarica. Chiaro il concetto?
Cosa c’è di vero in tutta questa analisi? Ecco, la provocazione, lo scandalo e il paradosso mi sono serviti come cunei e leve per smantellare i concetti falsi e veri della comunità sociale. Questo l’unico vero modo con il quale ho saputo prendere parte alla guerra, assimilare il mio lavoro in contrasto a quello micidiale dei guastatori e mi ero prefisso di fare “tabula rasa” di tutto. Da qui la necessità di ridurre gli uomini a maschere coprendoli di sventura, di un sadismo intellettuale seguito o accompagnato da lacrime di sincero compatimento.
Per forza di cose ho dovuto creare una poetica di compromesso che conciliasse le ambivalenze della crudeltà e della pietà, dell’avversione e della compassione, nell’umorismo. Per questo ho voluto, riferendomi al vasto vivere della storia, dell’umanità tutta, strozzarlo nella negazione, ridurlo alla pietosa illusione. Non mi rimaneva altro da fare.
Massima espressione di questa mia convinzione, il dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”. Si evidenzia che l’assoluto vi è intralciato, ironizzato, offeso dal principio alla fine. Le idee del bene sono state anche esse ridotte al compianto. Ancora non riesco a capire se ho fatto bene o male.
I tanti giudizi espressi a riguardo non mi hanno aiutato a capire il tutto.
Potrei continuare ancora, ma preferisco soffermarmi su altri argomenti.
Pietro Seddio
Io sono figlio e uomo del Caos
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