238. Lillina e Mita – Novella

Prima pubblicazione: Rivista di Roma, 10 aprile 1906. Ripubblicazione, con varianti, della novella Il «no» di Anna (Gazzetta letteraria, settembre e ottobre 1895).
«Come legata dalla tremenda commozione della natura, Mita se ne stava alla finestra, sferzata in faccia dalla pioggia, con le vesti inzuppate, sussultando a ogni palpito della sinistra luce tra le tenebre sul mare in tempesta.»

Novella dalla Raccolta “Appendice” (1938)

««« Introduzione alle novelle

Lillina e Mita
Knut Ekwall (1843-1912), Proposta (particolare), 1880.

Lillina e Mita – Audio lettura 1 – Legge Giuseppe Tizza

27. Lillina e Mita – 1906

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I. L’ampio terrazzo, coperto da una tenda che palpitava al vento, pareva il cassero d’una nave. Il mare, dapprima, veniva quasi a battere alle mura della casa; s’era man mano ritratto, lasciando un breve lembo di spiaggia, come per dar modo al paese d’estendersi, ora che le due scogliere del nuovo porto erano costruite e parevano due braccia tese ad accogliere le navi che d’ogni parte venivano per il traffico dello zolfo.

          Da quel terrazzo Lillina Lumìa le vedeva arrivare e poi ripartire. Partiva con esse, ogni volta, l’anima sua angosciata, via dietro a quelle vele, via dietro a quei pennacchi di fumo, verso ignoti paesi fantasticati.

          Si sentiva in esilio Lillina Lumìa in quel paesucolo che dalla mattina alla sera sbaccaneggiava di liti, tra stridori di carri e richiami alle bestie, giallo di zolfo e polveroso, in perpetuo arruffio d’affari insidiosi.

          Tutti quegli uomini imbestiati nella rissa del guadagno, bassa e feroce, le parevano pazzi, certe volte. Batteva le mani Lillina, guardandoli, e tirava giù gli angoli della bocca e alzava gli occhi al cielo, esclamando:

          – Oh, santa Maria, fanno sul serio?

          Qual era il senso, dov’era la ragione della loro vita? Si accanivano tanto ad arricchire, e poi – ricchi – che facevano? Eccoli là: si vestivano di festa, la domenica.

          Belli, con quelle facce cotte dal sole! belli, con quelle pance stipate di maccheroni, e le catene d’oro massicce, e le cravatte sgargianti, e i piedi piatti nelle scarpine di coppale, e le calze gialle e verdi!

          E passeggiavano, mandando le gambe in qua e in là, dondolando le braccia (e tutta la strada sonava dello sgrigliolìo delle loro scarpe) su e giù, su e giù, con mezzo sigaro pesto tra i dentacci neri.

          – Oh compare!

          – Compare carissimo!

          Tutti erano compari).

          – Come si va?

          – Si vive!

          – Baciamo le mani!

          E su e giù, e su e giù, vociando, sghignazzando, schizzando saliva.

          Questa era la vita, nei giorni di riposo. Per questo s’azzuffavano tra loro e con la fortuna. Volevano esser ricchi per questo.

          Nel pomeriggio, il passeggio si faceva al Molo Vecchio, ch’era un breve ponitojo da legni sottili. Aspettando che s’accendesse la lanterna verde, stavano a guardar le tartane e le paranze ormeggiate, i vaporini di costa, i luntri dei doganieri. Qua i mozzi facevano il lavaggio della Coperta; là si raccoglievano le reti tese ad asciugare; più là una nave con le vele sciolte e flosce se n’andava rimorchiata, e la campanella di bordo sonava mesta, per la preghiera della partenza

          Stupide come le galline, le signore, strette accanto ai loro uomini, andavano con gli occhi bassi, patite in volto, con le mani deformate dal lavoro, insaccate in guanti troppo larghi, ma vestite con uno sfarzo che avventava, sovraccariche d’ori.

          Sonava l’avemaria, e tutti a casa, tutti a cena, e poi a letto.

          Avessero mai pensato, con tanti denari, a procurarsi un qualche godimento, a edificare un teatro per esempio, per ricrearsi un po’ lo spirito, dopo tante fatiche bestiali! Nessuna luce d’intelletto, mai, in quell’incubo ch’era la loro vita. Non c’erano scuole nel paese, tranne le elementari. Con tanto mate lì davanti, mancava l’acqua potabile; e le fogne erano scoperte su la spiaggia; e l’illuminazione era ancora a petrolio. Nessuno ci pensava; nessuno se ne lagnava: a nessuno veniva in mente che avrebbero potuto migliorarsi quelle condizioni d’esistenza.

          – Ah, Napoli… Napoli! – sospirava Lillina Lumìa.

          E nell’anima le si accendevano a sprazzi le visioni lontane della grande, bella e gaja città tumultuosa e, abbassando le palpebre, chiudeva negli occhi le lagrime lei dolci ricordi angosciosi.

          Era cresciuta a Napoli, lei, presso una zia materna, che 18 aveva accolta bambina, dopo la morte della madre, ch’era napoletana. Rimasto vedovo circa nove anni, il padre s’era riammogliato con una del paese, e, non avendo avuto altri figli da questa seconda moglie, la aveva richiamata in casa, ormai da tre anni.

          Non era cattiva la matrigna, ma gretta, ah Dio, d’una grettezza opprimente, come tutte le donne di quel paese, schiave volontarie dei loro rozzi uomini affaccendati, tutte e sempre intese alle cure casalinghe più umili; e poi ombrose paurose, tenute da scrupoli, da pudori ridicoli, così esagerati, da non parer sinceri finanche.

          E Lillina, per non essere giudicata strana, o singolare a ogni modo dalle altre fanciulle, per non esporsi alla malignità pettegola della gente, s’era dovuta adattare a quella vita insulsa, vuota, odiosa. Aveva pianto e pianto nei primi mesi; piangeva anche adesso, certe sere, là, sola, sul terrazzo, guardando il mare, poichè sentiva già che lo spirito man mano le si chiudeva come dentro una scorza di stupidità. Avrebbe voluto ribellarsi, fuggire, fuggire di nascosto, su una di quelle navi… Ma capiva ch’eran lampi di follia. Là, là, doveva passare là, a quel modo, tutta la vita, la vita che si vive una volta sola… Si sarebbe maritata a uno di quei bruti, stringendo i denti per il ribrezzo di tutte le sue carni, e poi sarebbe divenuta come le altre donne del paese… Là, la pancettina bella piena e la calzetta in collo! Ah schifo schifo, schifo…

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         II. Lillina Lumìa non aveva ancora amiche nel paese. Non avrebbe potuto mai averne, come le voleva lei. Veniva a visitarla spesso una certa Mita Fiorica, lontana parente della matrigna.

         E nell’ampio terrazzo della casa, davanti al mare sconfinato, Lillina ascoltava le confidenze piccine, angustiose di costei, e la guardava freddamente negli occhi, in quegli occhi agglobati, verdognoli, che le smorivano sotto la fiamma dei folti capelli rossi cresputi, le guardava le labbra appassite e i denti malpari; sicchè Mita Fiorica si sentiva spesso costretta ad abbassar lo sguardo, e allora la voce le usciva più che mai velata e tremula dalla gola troppo larga, quantunque avesse il collo esilissimo e lungo. Talvolta gli occhi di Lillina si stringevano un po’ in uno sguardo di commiserazione che turbava peggio la Fiorica, le cui dita tremanti tormentavano allora le trine della manica. Peggio ancora poi quando Lillina traeva qualche lieve sospiro, guardando in alto.

          – Sai? Finalmente stamane mi sono vendicata.

          E la povera figliuola, così afflitta e magra, aveva nella voce quella certa baldanza di chi sappia di dir cosa che faccia piacere.

          Sì? Che gli hai fatto? – le domandava Lillina, senza curiosità.

          E Mita Fiorica rispondeva con gli occhi bassi:

          – Gli ho chiusa in faccia la finestra.

          Era innamorata perdutamente del giovane medico del paese, Filiberto Cimillino, detto Bertillino, pezzo di lanternone biondiccio, con due puntini cilestri per occhi e un naso aquilino, gracile come un’ostia, ma di così enorme dimensione che gli diventava pallidissimo ogni qual volta rideva.

          Pulito però, Bertillino, tutto lisciato e raffilato e profumato; si torceva come un serpentello di qua e di là, per non urtare nella gente, andando per via, e tirava su, su, le gambe di grillo, sperticate, per non insudiciarsi. Sentiva la dignità della sua professione, e aveva anche tanti altri meriti, oltre la professione, Bertillino: dipingeva, quando non aveva molti malati, sicuro! dipingeva chiari di luna e barchette nere su le pance di certi vasi di terracotta che si faceva fabbricare apposta su disegni suoi, e sonava a meraviglia sul pianoforte la Rondinella pellegrina del Petrella, con variazioni.

          Figurarsi se poteva pensare a quella povera Mita Fiorica! Già forse non aveva neanche il più lontano sospetto della passione di lei pensava Lillina. La quale perciò soffriva alle timide confidenze di quell’illusa, che non intendeva quanto fossero ridicoli quei dispettucci a uno che forse neanche se n’accorgeva.

          Mita Fiorica era adesso in misere condizioni; e il garbo con cui portava a spasso i segreti sacrifizi e le diuturne privazioni era veramente compassionevole. Rosario Fiorica, suo padre, stranissimo uomo, morto quattr’anni addietro, aveva buttato a piene mani tutte le sue sostanze nelle buche delle zolfare, preso dalla mania di trovar filoni di zolfo in ogni montagna del circondario. Appunto nell’infausta occasione della malattia del padre, Mita aveva conosciuto il dottor Filiberto Cimillino. E la sua passione era nata per le cure ch’egli le aveva prodigate allora. Oh Dio, era arrivato finanche a ordinar lui in cucina il brodo per lei, non sapendo tollerare che nè la madre, nè la sorella accorsa da Malta col marito, ancora in pianto per la recente morte, si prendessero cura di lei che era pur malata e gravemente.

          – Dottore, impossibile! impossibile! Non posso prenderne.

          E lui, Bertillino, premuroso, a mani giunte:

          Deve farmi questo favore. Guardi, una tazzina piccola così… Un atto di volontà e si manda giù…

          – Non posso, glielo giuro!

          – Lo faccia per me… Guardi, proviamo a cucchiaini Uno…

          – Oh Dio!

          – Un altro, avanti! Così… e due!

          – Basta! Non posso più… non posso più!

          – Senta, non me ne vado di qua, se lei non prende questa tazza di brodo.

          E allora Mita lo guardava coi grand’occhi verdognoli, come per dirgli – « Fo il sacrifizio per lei! » – Li chiudeva, e ingollava.

          – Brava! Così va bene! Vado via più contento, adesso. A questa sera, signorina.

          E Mita, dal lettuccio, lo seguiva con gli occhi fino all’uscio; poi nascondeva la testa sotto le coperte, e sospirava e sorrideva felice, struggendosi, e baciava il guanciale con le labbra aride chiamandolo Filiberto (il guanciale) Filiberto mio!

          E non era anche arrivato Bertillino, allora, ad assaggiar prima lui i medicamenti più amari per incoraggiarla a prenderli? Qual medico suole arrivare fino a tal punto? E quel che le diceva! E come la forzava!

          Lillina Lumìa le aveva lasciato trapelare i suoi dubbii su l’innamoramento del dottore e Mita rinvangava nei ricordi… No no! Non era inganno, il suo! Ma che! E la grasta dei garofani?

          Una bella grasta di garofani screziati, che ella teneva sul davanzale della finestra… Il dottor Cimillino andava matto pei fiori. Ogni qual volta veniva da lei a visita, non sapeva staccar gli occhi da quella grasta.

          – Che bei garofani! Permette, signorina?

          – Tutti, dottore!

          Ne staccava uno, con le lunghe e secche dita, e se lo metteva all’occhiello.

          Mita, rimessa in salute, aveva voluto regalare da parte sua al dottore quella bella grasta di garofani. E Bertillino non portava mai altri fiori all’occhiello, se non quei garofani, quando sbocciavano.

          Non era un segno anche questo?

          Lillina pensava: «Forse quell’imbecille avrà preso veramente a godersela! » – E, in fondo, non s’ingannava.

          Se non che Bertillino, in coscienza, non aveva avuto l’intenzione di far tutto quel male alla povera malata. Egli si stimava sinceramente irresistibile; le sue maniere erano per natura garbate cortesi; insomma, era così, che poteva farci? E le ragazze s’invaghivano di lui, credendosi lusingate… Ma lui, nemmen per ombra, parola d’onore!

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         III. – Guarda, guarda… si volta! si volta!

         E Mita Fiorica spingeva col gomito, su la ringhiera del terrazzo, il gomito di Lillina.

          – Sta’ seria, Mita! – l’ammonì questa, fingendo di non vedere.

          Filiberto Cimillino passava, lungo lungo, secco secco, per la spiaggia, guardando al terrazzo, ove le due amiche erano affacciate.

          Passava quasi ogni giorno, alla stess’ora; e guardava ogni volta, a lungo, anche quando Mita non c’era.

          Questa intanto, felice di quel lungo sguardo che riteneva rivolto a lei:

          – Vedi? vedi? ci credi ora?

          – Io no, – le rispose asciutta Lillina, guardando il mare.

          – Come no? Perchè? Te l’assicuro io…

          – Ebbene, a cose fatte crederò. Se fossi in te, diffiderei.

          – Sai qualche cosa? Sai forse qualche cosa?

          – No, nulla. Così…

          – Eppure… sospirò Mita, lì lì quasi per piangere.

          Lillina la guardò ed ebbe pietà di quelle labbra pallide, tremanti, di quei grand’occhi smarriti, e rimorso d’aver così recisamente manifestato ciò che pensava.

          – Non ci badare! – soggiunse. – Sono di pessimo umore, quest’oggi. Per altro, nessuno può saperlo meglio di te. E se tu lo dici…

          S’interruppe, e propose:

          – Andiamo a sonare un po’? Via, via! Andiamo giù.

          Filiberto Cimillino ripassava sotto il terrazzo. Mita lo scorse, mentre stava per seguir l’amica, e si trattenne con una mano alla ringhiera, facendosi violenza.

          Bertillino passò diritto come un palo, senza alzar gli occhi.

          – «M’ha veduta? Non m’ha veduta?» – pensò Mita, trepidando. – «O c’è qualcuno affacciato a qualche finestra vicina?»

          Guardò: nessuno! E quelle parole di Lillina..

          Discese, angosciata.

          Lillina sonava con molto slancio una delle Rapsodie Ungheresi del Liszt. Appena Mita entrò nel salotto, ella volse il capo, senza smettere di sonare:

          – È ripassato?

          – Sì.. non m’ha veduta…

          – Non s’è voltato?

          E Lillina, con uno strano sorriso a fior di labbra, levò le mani dalla tastiera e prese quelle di Mita, guardandola negli occhi. Dio, come erano fredde quelle povere mani… Su, su! E le fece saltare un po’ su le sue.

          – Se intende scherzare, l’avrà da fare con me, – disse Mita con gli occhi bassi, e si morse il labbro.

          – E che puoi fargli tu? – le domandò Lillina, ancora con lo strano sorriso su le labbra.

          – Oh, – disse Mita Fiorica, col volto d’un subito avvampato, – se crede ch’io sia come la figlia del capitano del porto, quella civettona continentale tutta cascante di vezzi, o come quel pesce infarinato di Sarina Scoma, che fa all’amore in pubblica piazza con l’ufficiale del distaccamento…

          – Cara mia, – l’interruppe Lillina, ridendo forte. – Tu l’ami, è vero? Bene, egli si mette a civettare con un’altra. Poi, poniamo, la sposa, e ti pianta. Che gli fai tu?

          Voglio vederlo… – disse Mita, impallidendo e stringendo le pugna

          Lillina la guardò e, presa dalla stizza, fu proprio per gridarle: – Stupida! cieca! grolla!

          Quella stessa mattina il padre le aveva fatto dire in gran segreto dalla matrigna che il dottor Filiberto Cimillino gli aveva chiesto la mano di lei. Ella, naturalmente, le aveva subito risposto di no, e non aveva voluto neanche sentire le ragioni per cui tanto la matrigna quanto il padre credevano che quello non fosse un partito d. rifiutare così, a occhi chiusi.

          Si teneva sicurissimo, Bertillino, che tutte le ragazze del paese, a un cenno solo, si sarebbero buttate dalla finestra a terra per lui:

          – Prendimi! Prendimi!

          Una sola forse gli avrebbe resistito: Lillina Lumìa. Ed era senza dubbio la più bella, la più intelligente fra tutte: «Educazione da gran signora, suona, ricama, parla il francese, famiglia rispettabilissima, dote discreta… »

          E da un pezzo passava e ripassava sotto il terrazzo. Lillina se n’era già accorta.

          – Mi fa il ragno sotto, – aveva pensato, ridendo. – Ma non son mosca per te, caro mio.

          E s’era ritirata, ogni volta, dal terrazzo, perché quell’imbecille non si fosse sentito lusingare. Oh, quella povera Mita!

          Filiberto Cimillino, persuaso alla fine, che col passare e ripassare, sciupo di scarpe e nessun pro, s’era deciso quella mattina al gran passo. Addio vita da scapolo! Addio sospiri! Addio temporanee avventure!

          Un no – tondo così – lo aspettava in casa, quella sera.

          Il naso gli crebbe, povero Bertillino, e gli occhi gli diventarono più piccoli, leggendo la lettera del signor Lumìa.

          – No? Come no? Perché?

          E tornò a leggere la lettera. La rilesse cinque o sei volte, senza mai riuscire a mutar senso alle parole. Possibile? Non se ne poteva dar pace. Sì, perché, via, in fin dei conti, rispetto all’età, una giusta proporzione: trent’anni, lui; ventidue, lei; otto anni di differenza. Brutto non era per uomo, via, così così… bella statura, biondo, una professione nobilissima e lucrosa, famiglia ragguardevole sotto ogni rispetto.

          Io non capisco!

          Aspirava forse a qualche principe la signorina Lumìa?

          «Mia figlia per adesso non ha intenzione di sposare».

          – Bella intenzione! A ventidue anni… E che aspetta? Ma già, scuse!…

          Per tre giorni non volle uscir di casa.

          – Signor dottore, un cliente.

          – Dite che sono raffreddato, a letto.

          – Signor dottore, la desiderano d’urgenza in casa Fiorica.

          – La signorina Mita? Si faccia benedire!

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         IV. Fu per Mita Fiorica un colpo mortale.

         Ella aveva già notato nelle parole, nell’espressione del volto di Lillina Lumìa, ogni qual volta lei le parlava del dottore, una certa stizza mal frenata, un acre dispetto, in luogo del compatimento di prima; e aveva già accolto in sè il sospetto che l’amica doveva essersi accorta di qualche cosa, che le teneva celata. Riflettendo, in casa, sul lungo sguardo rivolto dal dottore al terrazzo, quando c’era Lillina, e su ciò che questa poi le aveva detto giù in salotto, si vide costretta, forzata ad ammettere che Lillina doveva senza dubbio sapere che il dottore… Non volle andare avanti in quella supposizione odiosa; ma deliberò di parlare francamente e coraggiosamente all’amica, il giorno appresso.

          – Tu mi devi dir tutto, Lillina! Tanto, io lo so e me l’aspetto. È  vero che il dottor Cimillino…?

          – Chi te l’ha detto? – le domandò quella, sorpresa, turbata nel vedersela davanti pallida, vibrante, scontraffatta in volto.

          – Nessuno, nessuno: l’ho sospettato da me…

          – Che ho rifiutato?

          – Ah, – fece Mita, smorendo a un tratto e abbandonandosi, con un riso squallido su le labbra. – T’ha chiesta anche in isposa?

          – Se lo sapevi… disse Lillina, stordita.

          – Questo no… questo no… T’ha chiesto, dunque in isposa?

          – Ieri. E ho rifiutato.

          – Per me? domandò Mita.

          Lillina la guardò ed ebbe un impeto di superbia. Le parve che Mita con quella domanda volesse tirarla giù, fino a lei. Alzò le ciglia, si strinse ne le spalle:

          – Oh senza merito, sai? – le rispose. – Perché l’avrei rifiutato lo stesso, anche non sapendo del tuo amore. Per me è stato sempre uno sciocco ridicolo, e non l’ho potuto mai soffrire.

          Lottarono nel cuore di Mita l’onta, l’amore, la gelosia, l’avvilimento di fronte all’amica. Da un canto avrebbe voluto dilaniare con ogni sorta di vituperii il dottore, dall’altro soffriva a sentirne dir male da Lillina: avrebbe voluto impedire che questa avvilisse colui ch’ella aveva stimato tanti anni degno del suo amore, ma l’amor proprio offeso non glielo consentiva. Così contrariata e straziata, scoppiò finalmente in un pianto convulso.

          – Sono senza dote, ecco perché!

          Lillina allora ebbe una grande pietà per lei, cercò di offrirle uno sfogo, cercò di confortarla, ma invano. Ringojate a stento le lagrime soffocati i singhiozzi, Mita volle tornare a casa.

          La madre ignorava la passione di lei per il dottore, ed ella le disse che s’era sentita male in casa dell’amica.

          – Nervi! Sarà il tempo…

          Il cielo, di fatti, era coperto da neri nuvoloni minacciosi. Mita non poté cenare, e presto andò a chiudersi nella sua cameretta.

          La notte precipitò orrenda sul paese con un rovescio strepitoso di pioggia. Lampi spaventevoli squarciavano il cielo, seguiti quasi immediatamente da formidabili tuoni.

          Come legata dalla tremenda commozione della natura, Mita se ne stava alla finestra, sferzata in faccia dalla pioggia, con le vesti inzuppate, sussultando a ogni palpito della sinistra luce tra le tenebre sul mare in tempesta. Bruciava dalla febbre e piangeva. Vinta da un profondo intenerimento per sè stessa, a ogni pensiero che le ribadiva su la coscienza il concetto della propria infelicità, sentiva che le reni quasi le si aprivano, e tremava convulsa, strozzata dall’angoscia. Oh in mezzo a quel mare, in mezzo alla tempesta, felici, felici i marinai sotto l’imminenza della morte! Oh morire, morire… mille volte meglio morire!

          La mattina appresso, la madre entrando nella cameretta della figlia, trovò Mita buttata sul letto, ancor vestita e tutta fradicia di pioggia, la finestra ancora aperta, il pavimento allagato.

          – Hai dormito così? Sei pazza? Mita! Mita! Ti senti

male? Dio, scotta! Mita, che ti senti? Che è stato?

          – No no… – si lamentava ella, col capo affondato nel guanciale, gli occhi stravolti, avvampata in volto.

          La povera madre spaventata, mandò subito per il medico.

          – Raffreddato, a letto signorina mia; non può venire, – le annunziò la serva di ritorno.

          Venne però il giorno appresso, il dottor Cimillino. Pallido e grave.

          La prima furia della febbre era abbattuta, ma perdurava la gravezza del capo, e fitti dolori al petto impedivano all’inferma il respiro.

          Ella accolse il dottore come se non l’avesse mai conosciuto. Non rispose (forse perchè la voce non tradisse l’interna agitazione) a nessuna domanda di lui. Il dottor Cimillino allora si rivolse alla madre.

          – Come? come? Sotto la pioggia? Una notte con la finestra aperta? Ma codeste son pazzie! Oh che sproposito!

          Mita strinse i denti, e trasse con gli occhi chiusi un lungo sospiro per le nari. Poi tossì.

          Un tempaccio maledetto! Se io, senza fare spropositi… vede signora mia?

          E a provare il suo raffreddore, Bertillino si soffio il naso strepitosamente. Poi scrisse una ricetta, e andò via:

          – Ripasserò questa sera.

*******

          V. Seguì al rifiuto di Lillina Lumìa una serie impreveduta di fiaschi per Filiberto Cimillino.

          A breve distanza di tempo lo rifiutarono:

          1. La figlia del capitano del porto: Nannina Vèttoli. Ventiquattro anni (ventuno diceva lei), bruna, non bella, ma simpatica. Dodicimila lire di dote e un bel corredo da sposa. Sonava il violino parlava il pretto toscano, e il francese così così.

          2. Melina Logiudice; diciott’anni; brunettina; un po’ scema. Venticinquemila lire di dote, compreso il corredo. Zero francese, zero italiano, zero musica. Venticinque mila lire di dote.

          3. Sarína Scoma (anche lei!); ventisette anni; carnagione incerta sotto lo strato di glicerina impastata con la polvere di riso, quindicimila lire di dote. Inverosimilmente ignorante, ma coraggiosa, parlava l’italiano a orecchio, e diceva per esempio così: – « Se saprei sonare, sonerei » – Ma sapeva sonare. Diceva anche: – La battaglia di Gaspare Monte – per Aspromonte, ecc. ecc.

          4. La nipote dell’avvocato Merca, Giovannina Merca. Suo padre era negoziante di cuojo; ragion per cui lei si presentava sempre come la nipote dell’avvocato Merca.

          – Di chi siete figlia?

          – Sono la nipote dell’avvocato Merca.

          Niente dote; il solo corredo da sposa; ricamava a perfezione; sonava bene il pianoforte; leggeva giorno e notte romanzi truci. Piuttosto brutta, ma nipote dell’avvocato Merca.

          Nannina Vèttoli lo rifiutò perchè il padre sperava in un prossimo trasferimento a Livorno, e lei non voleva incatenarsi lì, in quel paesucolo di Sicilia, sposando. Melina Logiudice, perchè le parve troppo alto di statura, e poi perchè Lillina Lumìa lo aveva rifiutato. Sarina Scoma, perchè faceva (giusto allora!) all’amore con l’ufficiale di distaccamento. Giovannina Merca, perchè in fiera corrispondenza amorosa con un ufficiale di porto trasferito da un mese a Messina.

          Filiberto Cimillino fu quasi per impazzirne.

          Adesso, a parte il casato, a parte la persona: era medico, sì o no? un medico, per sè stesso, è o non è un personaggio ragguardevole, specialmente in un piccolo paese di piedi scalzi? Ah, evidentemente, a tutte quelle ragazze aveva dato di volta il cervello! Sì, perchè, via! a ragionarla, a parte il casato, a parte la persona, qual partito più conveniente di lui? E lo argomentava dal dispiacere vivissimo con cui i padri e lo zio avvocato avevano risposto negativamente alle sue domande.

          E ora? Filiberto Cimillino non avrebbe sentito tanto il peso di quei fiaschi, se non avesse dovuto esercitare la professione, se non fosse stato costretto cioè a recarsi, in qualità di medico, ora in casa Scoma, ora in casa Merca, o dal Vèttoli o dal Logiudice o dal Lumìa. Che rimedio c’era? Uno solo; questo: farsi di quelle disgrazie amorose come una specie di fatalità, ecco, una fatalità che gli pesava addosso, incomprensibile.

          E Bertillino s’immalinconì.

          Mita Fiorica, intanto, peggiorava di giorno in giorno. Domata la fierissima polmonite, le era rimasta una febbretta lenta, che la coceva, sintomo di più grave male. I timori del dottor Cimillino, fondati già da tempo su la misera complessione di lei, si avveravano pur troppo! Ed egli, accanto a quel lettuccio, senza saper perché, si sentiva crescere la malinconia.

          Mita, durante la malattia, si era alquanto rasserenata, come se il torbido dei sentimenti le si fosse man mano posato in fondo al cuore. Ella ora rispondeva brevemente a qualche domanda di lui.

          – Come si sente oggi, signorina?

          – Meglio, dottore.

          Diceva sempre meglio; e lui fingeva di crederlo, e si tratteneva lì, accanto al letto di lei, e la forzava a parlare, e conversava a lungo con la madre. Dopo una mesta riflessione su la vita o su l’erroneo concetto che spesso ci facciamo degli uomini, della società in genere, sorrideva amaramente e sospirava. Mita pareva non udisse; beveva invece con amara voluttà tutte le parole di lui, che avevan sapore di pentimento.

          – «Ingiustizie della natura umana!» – pensava Bertillino, quando andava via. – «Costei muore per me! La vedo male… Muore per me, ed io non seppi amarla: l’unica che non me lo avrebbe lasciato dire due volte! »

          Gli venne a un tratto in mente di farla, se non altro, morir contenta.

          – Sarà un’opera di carità!

          Gliela doveva, non solo per lo stato in cui ella s’era ridotta per lui, ma anche perché un giorno egli – doveva riconoscerlo – s’era mostrato troppo affabile con la povera ragazza.

          Lillina Lumìa assisteva Mita da una settimana come una sorella. Non sapeva scostarsi dal lettuccio dell’inferma; le faceva piane letture, che non la stancassero; le parlava di cose liete, aliene.

          Soltanto ogni qual volta veniva il dottore, fuggiva dalla camera, per non farsi vedere.

          Una mattina però non fece a tempo.  Bertillino, entrando, udì il rumore della seggiola che Lillina scappando, aveva rovesciato. Mita era rimasta sola, a letto.

          – Disturbo, signorina?

          – No, – rispose Mita, seccamente.

          – Mi pareva che qualcuno fosse scappato.

          – Sì, Lillina Lumìa, – rispose allo stesso modo Mita.

          – Oh! – fece Bertillino, sorridendo. – E perché scappa? Faccio anche paura?

          Sedette accanto al letto e prese tra le dita l’esile polso di Mita.

          – Ho avuto il torto, signorina, – riprese, senza lasciarle il polso, – di bussare a certe porte, a cui non dovevo, e ne sono pentito… Oh se sapesse quanto! Molto… molto… mi creda! Mi sono smarrito come un cieco, signorina! Apro gli occhi adesso, ma spero, non troppo tardi… se lei vorrà credere al mio pentimento, e perdonarmi.

          Mita non traeva più fiato, a queste parole, e ritrasse pian piano il polso di tra le dita del dottore.

          Queste cose non deve dirle a me… – gli rispose senza guardarlo, con voce che voleva parer ferma.

          Entrò in quella la madre, mandata da Lillina.

          – Alla mamma, allora? – domandò egli sorridendo alla signora Fiorica.

          – Come dice? – fece questa, sedendo a piè del letto della figlia.

          – Dicevamo… o meglio, io dicevo alla signorina, che è necessario stia presto bene perché abbiamo bisogno di lei, è vero, signora? Ne ho bisogno anch’io… sì, perché mi ero smarrito come un cieco, le dicevo… e mi ritrovo adesso qua, accanto a questo lettuccio… capisce, signora mia? qua… accanto alla signorina Mita… Che ne dice?

          La madre, non comprendendo le parole del dottore né il tono insolito della voce, lo guardava, stordita. Comprese alla fine, a uno sguardo che egli rivolse alla figlia appena ebbe finito di parlare e dall’atteggiamento del volto di lei.

          Allora si fece rossa, e rispose confusa, quasi balbettando,

          – Come? ma s’immagini… io, io felicissima! s’immagini… Però, deve dirlo lei, con le sue labbra… È vero, Mita?

          Il volto di Mita pareva una maschera di cera. Teneva gli occhi semichiusi e alitava a stento, dilatando a volta a volta le pinne del naso.

          – A lei, dunque, signorina… – disse Filiberto Cimillino, sorridendo e chinandosi un po’ verso il letto.

          – Ebbene, no! – rispose allora con voce cavernosa Mita, aprendo gli occhi e aggrottando un poco le ciglia.

          Al no, Bertillino si ritrasse istintivamente e, impallidendo, col sorriso rassegato su le labbra:

          Come! No? Anche lei? – disse. – Mi ricompensa male, Signorina.. lo non credevo…

          – Mita! – esclamò la madre, in tono di rimprovero.

          – Lasci, è giusto, – s’affrettò a soggiungere Bertillino, – è giusto, signora… Forse lei non sa… Non la turbi… Non ne parliamo più! E creda che il mio zelo, signora, non verrà certo meno per questo. Procurerò anzi di guadagnarmi così, se non un po’ di affetto, un po’ di stima almeno dalla signorina. Farò per altro il mio dovere, per quanto mi sarà possibile.

          E cangiò subito discorso, con molto spirito, in quel momento – (così almeno stimò Lillina Lumìa, che origliava all’uscio).

*******

         VI. Gesù – vero ritratto preso dallo smeraldo inciso per ordine di Tiberio imperatore, nel trentesimo anno dell’era cristiana. Questa gemma, il cui inestimabile valore non supera il merito artistico, dopo varie vicende, fu posseduta dal tesoro turco, e da quell’Imperatore donata al Pontefice Innocenzo VIII per la redenzione di un fratello dell’Imperatore fatto schiavo dai cristiani.

          Lillina, assorta in pensieri a piè del letto di Mita, rileggeva meccanicamente, per la trentesima volta almeno questa iscrizione sotto una immagine di Gesù, appesa al capezzale.

          Da quest’immagine, come da tutti gli altri oggetti umili e antichi di quella cameretta raccolta, spirava un’aria di tanta intimità familiare e quasi un odor di vita così particolare, che dava a chiunque vi entrasse e osservasse con curiosità l’impressione e il sentimento d’essere un intruso. Avevano tutti quei mobili un’anima fatta di ricordi cari nella lunga consuetudine, una modesta anima, un po’ malinconica, ma rassegnata. Lillina la sentiva, e sentiva spirar da essa, nel silenzio della triste assistenza, mentre Mita riposava, come un pietoso ammonimento a lei, di piegarsi al destino, di circondarsi anche lei di oggetti cari, di non respingere lontano, fuori della vita a cui la sorte la condannava, i desiderii e le speranze; ma di fermarli là in un nido che ella avrebbe potuto comporsi con le sue mani Der sentirsi meno sola e meno infelice. Voleva ella che i giorni le passassero così vuoti, e i mesi e gli anni? Bisognava rassegnarsi, rassegnarsi a tutto… Non era già rassegnata anche alla morte la povera Mita, là?

          Dopo il suo no al dottore, era di molto peggiorata. Il male precipitava.

          Di tanto in tanto, ella si scoteva dal sopore, si voltava sul guanciale, tutta occhi e tutta capelli (oh quei capelli rossi arruffati, come le rendevano più squallido e sparuto il volto emaciato, affilato!), e diceva all’amica:

          – Non stare più qua, Lillina. Se fossi in te, io avrei paura a star qua…

          – Ma no, Mita! Scherzi? Tu stai meglio…

          – Sì… meglio…

          Non aveva più forza di sollevare le braccia dal letto, e lo mostrava sorridendo amaramente a Lillina.

          In verità il padre e la matrigna avevano già consigliato a Lillina di non andare più in casa Fiorica.

          – Sciocchezze! – aveva risposto ella finora. – Quando il medico mi dirà che non sarà più prudente andare, non andrò più. Per ora, non siamo a questo punto.

          Mita, a cui la malattia aveva straordinariamente acuito i sensi e l’indole un po’ sospettosa spiava dal letto l’amica con una certa diffidenza. Era sicura ch’ella avesse disapprovato il suo rifiuto al dottore, il quale ora, quasi in ricambio, si mostrava per lei (anche a gli occhi di Lillina) più premuroso d’un fratello. Perchè Lillina ormai non scappava più dalla camera all’arrivo di lui? Ella anzi, adesso gli rivolgeva qualche domanda o gli chiedeva qualche consiglio circa all’assistenza da prestare; ed egli allora le rispondeva a lungo, col garbo abituale e con evidente soddisfazione. E Mita dal volto di Lillina argomentava ch’egli non dovesse più sembrarle, come prima, sciocco e ridicolo. Provava da un canto un sentimento duro, e sordo di gelosia contro Lillina, ma godeva, dall’altro, nel sentir parlare lui, il dottore, così bene all’amica e nel vedere com’egli a poco a poco la vincesse e la piegasse a sè. E avrebbe quasi voluto dire a Lillina: – «Vedi, vedi com’egli è degno d’essere amato? Ah, lo stimi tu adesso com’io prima lo stimavo? Sta bene; e ora vattene di qua! Tu non stai accanto al mio letto per me, ma per veder lui e parlargli due volte al giorno… L’intendo, l’intendo forse più che voi stessi ancora non l’intendiate! Mostrate d’aver tanta pietà di me, perché in questa pietà è l’intesa del vostro amore. Vàttene, Lillina! Per me e per te, vàttene!»

          Ma Lillina non se n’andava; si mostrava impaziente se il dottore tardava cinque minuti a venire, e si recava a guardare dietro ai vetri della finestra, a cui Mita s’affacciava un tempo per veder passare Bertillino. E sinceramente lei stessa, dentro di sè, credeva che questa impazienza derivasse soltanto da disinteressata premura per l’amica infelice.

          Mita un giorno, per accertarsi fino a qual punto fosse arrivata l’intesa tra i due, volle simular di dormire proprio nel momento in cui era solito di venire il dottore.

          Quel giorno la madre non avrebbe assistito alla visita: Mita stessa l’aveva costretta a mettersi a letto per rifarsi un poco delle veglie durate.

          Il dottore finalmente giunse, e subito Lillina gli fe’ cenno d’avanzarsi adagio, su la punta dei piedi.

          – Dorme! – bisbigliò, quand’egli si fu accostato al letto.

          Egli contemplò un tratto la giacente, poi si volse a Lillina, socchiuse gli occhi e dimenò desolatamente la testa.

          Pare già morta! – sospirò senza voce Lillina.

          Egli annuì; poi a bassa voce, un po’ impacciato, disse:

          – Intanto lei, signorina, senta… non è giusto che si trattenga più qua… Capisco, è l’amica del cuore… Intendo tutta la squisitezza del suo sentire, ma creda che… io soffro, ecco, quando son fuori e penso che lei è qua… M’intende? Dunque mi faccia il favore di andarsene… di non venire più… Me lo promette?… Non è prudente…

          – Gliel’ho già detto! – gridò con voce rauca Mita aprendo gli occhi improvvisamente e volgendosi ai due con le ciglia aggrottate.

          Lillina e il dottore trasalirono.

          – Dico che non è prudente, – balbettò questi subito, – non per il suo stato, signorina Mita, ma perché… perché la signorina Lumia sta male… per le veglie… e perché soffre vedendo lei cosi…

          Ah, per questo? Se è per questo, la lasci, dottore; non soffre! l’interruppe Mita con amarissimo sorriso. – Soffro io! lo soffro, invece! Ah, per carità, lasciatemi morire in pace! Non venite più nessuno dei due… ve ne scongiuro! Che gusto provate ad amarvi qua, accanto al letto d’una moribonda?

          Lillina scoppiò in lagrime, coprendosi il volto con le mani, e Bertillino confuso, stravolto, non trovò una parola da rispondere e se n’andò in fretta, senza neanche ardire di salutar Lillina piangente.

          Ma subito Mita la chiamò a sè, dolcemente, già pentita, e com’ella le si inginocchiò convulsa innanzi al letto, prese a carezzarle i bei capelli biondi e a dirle:

          – Perdonami… perdonami, Lillina… Io anzi voglio, sai?… voglio che tu lo sposi… E vi ricorderete di me, è vero? Non piangere… non piangere…

Raccolta Appendice e Novelle estravaganti
01 – Capannetta (Bozzetto siciliano) – 1884
02 – La ricca – 1892
03 – L’onda – 1894
04 – La signorina – 1894
05 – L’amica delle mogli – 1894
06 – I galletti del bottajo – 1894
07 – Il «no» di Anna – 1895
08 – Il nido – 1895
09 – Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me – 1895/1906
10 – Chi fu? – 1896
11 – Natale sul Reno – 1896
12 – Sogno di Natale – 1897
13 – Le dodici lettere – 1897
14 – Creditor galante – 1897
15 – La paura – 1897
16 – La scelta – 1898
17 – Alberi cittadini – 1900
18 – Prudenza – 1902
19 – La signora Speranza – 1903
20 – La Messa di quest’anno – 1905
21 – Stefano Giogli, uno e due – 1905
22 – Maestro Amore – 1912
23 – Colloquii coi personaggi – 1915
24 – I due giganti – 1916
25 – Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della grande guerra europea – 1919
26 – Sgombero – 1938
27 – Lillina e Mita – 1906

Novelle estravaganti (non comprese in nessuna raccolta)
01 – Pianto segreto – 1903
02 – I muricciuoli, un fico, un uccellino – 1931
03 – Personaggi – 1906
04 – Incontro – 1898
05 – Disdetta – 1898
06 – Disdetta (continuazione e fine) – 1898

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