217. I galletti del bottajo – Novella

Prima pubblicazione: Cenerentola, giornale per fanciulli diretto da Luigi Capuana, 23 settembre 1894.
«”Me l’ha fatta! Me l’ha fatta!”, si diceva intanto la donna tra i denti, strin­gendo i pugni e rodendosi dentro dalla rabbia. “Oh, ma l’hai da far con me, adesso! Vedrai.” – Come sta, come sta, signor curato? Quanto onore… quanto piacere…»

Novella dalla Raccolta “Appendice” (1938)

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I galletti del bottajo
Immagine dal Web

I galletti del bottajo – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
I galletti del bottajo – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
I galletti del bottajo – Audio lettura 3 – Legge Giuseppe Tizza

6. I galletti del bottajo – 1894

             Struggevasi la moglie del bottajo Màrchica dal desiderio di desinare una volta sola almeno, nelle feste, in compagnia del marito, il quale ogni anno, il primo dì e a Carnevale, a Pasqua, a Natale, era solito di raccogliere intorno alla sua tavola parenti e amici con vivo rincrescimento della moglie, anzi a suo marcio dispetto.

             Aveva la buona donna quest’anno, per Natale, allevati due bei galletti; e mo­strandoli al marito, la vigilia, disse:

             – Guarda che bei galletti! Se mi dai parola, che dimani non inviterai nessuno a desinar con noi, io stirerò loro il collo, e vedrai come son brava in arte magirica! Avrai un manicaretto da re.

             Il bottajo promise; e la moglie tutta contenta.

             Venne la dimane, e il bottajo, vestito da festa, salutò la moglie prima d’an­dare a messa.

             – No, marito mio; abbi pazienza; tu oggi non uscirai di casa. Son sicura, che se affacci il naso alla porta, mi tiri in casa qualcuno. Di messa, te ne basta una, quella di questa notte.

             – Ma io ti prometto…

             – Non sento promesse! Qua, a me, il berretto; oggi starà sotto chiave.

             Il bottajo sospirò, e diede alla moglie il berretto. Seduto nella cucinetta, e rimirando la moglie più vispa del solito, accesa in volto dal calore del fuoco sotto la pentola, stretta la vitina da una veste nuova a fiorami, protetta dal mantile, egli pensava: «Ha ben ragione, la poverina! È così dolce star soli in­sieme, nell’intimità, senza visi estranei a tavola, che ti tengan sospeso, non abbia tu bene soddisfatti i loro gusti… È tanto carina mia moglie! Par ch’io me n’accorga soltanto oggi per la prima volta! E in fin dei conti, che chiede ella? Ha piacere di restar sola meco, di godersi la festa soltanto in mia compagnia… Oh, cara, cara!».

             E internamente si riprometteva di mai più per l’avvenire fare scontenta la moglie con l’invitar nelle feste parenti o amici.

             Ma il diavolo, anche quella volta, volle metterci la coda. La donna, nel com­prar tutto l’occorrente pel manicaretto, la vigilia, s’era dimenticato il prezze­molo: due centesimi di prezzemolo.

             – Ah, marito mio! e come si fa?

             – Da’ a me; vo a comprartelo io.

             – No, tu no! Tu oggi non esci di casa, ti ripeto.

             – Eh via, sciocchina! Credi che… L’erbaiola è qui, a due passi…

             – Inutile! Non sento ragioni…

             – E allora, vacci tu.

             – Io non posso, capisci? Come lasciare? Dio mio! Senti; io sto qui sulla porta a guardarti; andrai senza berretto, lì di faccia: due centesimi di prezzemolo.

             – Un lampo, lascia fare! Vo e torno.

             – Bada!

             – Non dubitare…

             Ma appena a cinque passi dalla soglia, paffete! il vecchio curato del villaggio vicino, dove il bottajo Màrchica aveva dimorato tre anni.

             – Oh, signor curato! Beati gli occhi che la vedono! E come va? Da queste parti?

             – Affarucci, affarucci, – rispose il vecchio curato sorridendo, con gli occhi che gli scomparivano tra le rughe.

             – Evviva veramente! Come va? Come va? Che si dice a Montedoro?

             – Eh! Che s’ha da dire? Tanto bene, figlio mio. Il mondo è vecchio…

             E il buon curato si fregava le mani secche, tremanti, fatte davvero per regger l’Ostia soltanto.

             – Lei, lo vedo, – rispose il bottajo; – sempre in salute, Dio la benedica! Oh, anch’io, sì; ringraziamo Iddio! E lavoro, non me ne manca… Sissignore… Vo a comprar due centesimi di prezzemolo per mia moglie… Anche lei, benone! E si ricorda sempre del suo vecchio curato, sa? «Quel buon curato!» mi dice sempre. Mia moglie, chiesa e casa – già lei lo sa. Oggi mi prepara un pranzettino proprio coi fiocchi e, a tavola, noi due soli – io, qua, lei, là!… Ma… e dove desina lei oggi, signor curato? Certo mia moglie avrà tanto piacere di ri­vederla… Mi vuol fare un favore? Non mi dica di no.

             – Pronto, figlio mio, se posso…

             – Deve desinar con noi oggi, pel Santo Natale…

             – Non posso, figlio mio…

             – Come, non può? Sdegna la casa dei poveri! Lo so, cose da poverelli… due galletti, e lì…

             – Non è per questo, figlio mio; tu mi conosci. Devo ripartire a momenti.

             – Ripartirà più tardi !

             – L’asinelio m’aspetta al fondaco…

             – Lo lasci aspettare; si riposerà meglio… Non lo lascio partire, ecco! Mi deve fare questo favore. Sì?

             – Giacché lo vuoi per forza… Tante grazie, figlio mio…

             – Grazie a lei, signor curato, dell’onore… Entri, entri in casa… Guardi: quella porta lì di faccia… C’è mia moglie, guardi, sulla soglia… Io vo e torno: due centesimi di prezzemolo…

             Il vecchio curato sorrise, guardando la moglie del bottajo, e la salutò con la mano, avvicinandosi alla porta.

             «Me l’ha fatta! Me l’ha fatta!», si diceva intanto la donna tra i denti, strin­gendo i pugni e rodendosi dentro dalla rabbia. «Oh, ma l’hai da far con me, adesso! Vedrai.» – Come sta, come sta, signor curato? Quanto onore… quanto piacere…

             – Vostro marito ha voluto per forza così… Non mi son potuto rifiutare…

             – Ah, padre mio! – sospirò la moglie del bottajo, atteggiando di grave mesti­zia il volto.

             – Che avete, figliuola mia? – domandò il curato sorpreso.

             – Le dirò, le dirò, signor curato… Aspetti un momento. Entrò il bottajo, sorridente, col prezzemolo.

             – Ecco il prezzemolo! Vedi, moglie mia? Il tuo buon curato! Chi poteva aspettarselo? Ed ha avuto tanta degnazione d’accettare il nostro umile invito… Già gliel’ho detto: cose da poverelli… Ma che fa, è vero? supplisce il buon cuore…

             – Certo, certo…

             – Sa, signor curato? Mia moglie mi aveva detto: Oggi, nessun invitato… E io, difatti… Ma poi ho visto lei, e per lei son sicuro che… È vero, moglie mia?

             – Senza dubbio, senza dubbio, – rispose la moglie con le labbra strette. – Piuttosto, ora che ci penso… e il vino? Mi son dimenticata anche del vino… Guarda, che testa. Farai un’altra corsa tu, è vero, marito mio? Abbi pazienza…

             – Ma certo, subito! Dammi il berretto, dammi.

             – Ecco il berretto. Una corsa, mi raccomando!

             – Non dubitare.

             Appena uscito il marito, disse la donna al curato:

             – Ah, padre mio! Fortuna che s’è lasciato indurre ad andar pel vino!

             – Perché, perché, figliuola mia?

             – Ah, se sapesse, signor curato! Vino in casa ce n’avevo d’avanzo; ho detto di non averne per carità cristiana…

             – Come!

             – Per salvar lei, padre mio! – Me?

             – Sissignore! Non sa dunque nulla? Non sa che mio marito… E fece un gesto espressivo con la mano.

             Il povero curato fece, alla sua volta, una faccia lunga due palmi:

             – Matto, dite? Matto? Come mai! Povero ragazzo! – e batté una mano con l’altra. – E come mai!

             – Sissignore! Sissignore! – incalzò la donna. – Io non ho più lacrime da piangere in segreto, padre mio! (e intanto piangeva). Quante lacrime, que­st’occhi! E se sapesse che sorta di pazzia gli è venuta! Non può veder gli occhi della gente, che subito gli vien voglia di strapparli… sissignore!

             – Gesù, che guaio! Gesù, che guaio! – nicchiava con la lingua inaridita il po­vero curato.

             – Ah, padre mio! Io parlo per suo bene… S’immagini che onore per me, che piacere averla a tavola, oggi… Guardi: prenda i due galletti, uno almeno, non me lo rifiuti! Glieli avvolgo in un giornale, va bene? E se li porterà con sé. Ma non rimanga, per carità, se ha cara la vista, a desinar con noi! Sa, il povero pazzo? Invita la gente in casa, poi mette le spranghe alla porta e, a fin di tavola, vuole strappar gli occhi agl’invitati… Se vedesse, ogni volta, che lotta disperata! Adesso in paese si sa di questa pazzia e nessuno più accetta inviti da lui. Il buon curato non pigliava quasi più fiato dalla paura e balbettava:

             – E.,, e non m’era parso! Non m’era parso!

             Quando la donna terminò di parlare, egli, non ostante la grave età, balzò da sedere e, ravvoltosi nel tabarro, calcatosi sulla fronte il cappello:

             – Grazie, figliuola mia, grazie! – disse. – Lasciatemene andar via subito… Grazie, veramente… Vi devo la vita…

             – Prenda i galletti, mi faccia il favore!

             – No, niente! Che galletti, cara figliuola! Oh, povero ragazzo! Il Signore v’assista, povera figliuola! Addio, addio… e grazie di nuovo…

             La donna lo lasciò partire.

             – Oh, e questo è fatto! – esclamò.

             Si recò in cucina, trasse dalla pentola i due galletti, e li nascose.

             – Adesso a noi, signor marito!

             Il bottajo rincasò con un buon fiasco di vino, tutto ansante, trafelato. Trovò la moglie, in cucina, in pianto dirotto, coi capelli disfatti.

             – Che t’è avvenuto?

             – Ah se sapessi! Ah prete cane! – piangeva la moglie.

             – Il curato? Dov’è? Che t’è avvenuto?

             – Metterai senno, ora? Mi porterai ancora gente in casa? Vedi che m’ha fatto il tuo signor curato? Vedi che m’ha fatto?

             – Che t’ha fatto?

             – Ah mamma mia! Madruccia mia, tu non hai certo sospettato che l’uomo al quale m’affidavi m’avrebbe un giorno lasciata così esposta alla discrezione della mala gente! – continuava a piangere inconsolabilmente la donna.

             – Insomma, posso sapere che t’è avvenuto? – Che?

             La moglie, calcolando che il buon curato a quell’ora, spinto dalla paura, su asinello, doveva esser già a bastanza lontano dal paese, si levò da sedere in gran furore:

             – Che m’è avvenuto? il tuo buon curato, capisci? Il tuo buon curato mi s’è cacciato in cucina e… guarda, guarda lì, la pentola! Vedi? Non c’è più nulla…

             – Rubato? – fece con tanto d’occhi il bottajo.

             – Tutti e due i galletti!

             – Ah birbante! Dici davvero? Possibile? Ah birbante! E dov’è? Dov’è? Per dove è andato via?

             – Io non lo so! Non l’ho veduto…

             – Ah, prete ladro! Ah, vecchia volpe! Lasciami! Vo’ corrergli dietro! E se lo raggiungo… se lo raggiungo… Lasciami!

             – Sì, brutto smargiasso! Mettiti con un vecchio, adesso…

             – M’ha rubato!

             – Per colpa tua! Pigliatela con te stesso invece! E ti serva per esempio, ti serva!

             – No, così non m’accontento… Lasciami, lasciami… ti dico, lasciami…

             E scioltosi a forza dalle braccia della moglie, si mise a correre furiosamente per lo stradone che conduce a Montedoro.

             Tutto impolverato, stanco da non poterne più, dopo aver percorso buon tratto dello stradone fuori del paese, vide in fondo, lontano lontano, il vecchio cu­rato che trotterellava sull’asinello, tra un nuvolo di polvere. Raccolse allora tutte le forze che gli restavano, e si mise a gridare:

             – Signor curato! O signor curato!

             Il vecchio curato si voltò dal fondo dello stradone a guardare di su l’asinello che trottava, trottava…

             E il bottajo dal fondo dello stradone, a gran voce:

             – Almeno uno, signor curato! Me ne dia almeno uno!

             – Caro, to’ ! Almeno un occhio, dice! Addio, caro! Addio, caro! E botte da orbo all’asinello.

             – Almeno uno! Almeno uno! – continuava a gridare il povero bottajo rifinito dalla corsa.

             Nel frattempo la moglie, in cucina, si spolpava comodamente i due saporitis­simi galletti.

Raccolte Appendice e Novelle estravaganti

Appendice
01 – Capannetta (Bozzetto siciliano) – 1884
02 – La ricca – 1892
03 – L’onda – 1894
04 – La signorina – 1894
05 – L’amica delle mogli – 1894
06 – I galletti del bottajo – 1894
07 – Il «no» di Anna – 1895
08 – Il nido – 1895
09 – Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me – 1895/1906
10 – Chi fu? – 1896
11 – Natale sul Reno – 1896
12 – Sogno di Natale – 1897
13 – Le dodici lettere – 1897
14 – Creditor galante – 1897
15 – La paura – 1897
16 – La scelta – 1898
17 – Alberi cittadini – 1900
18 – Prudenza – 1902
19 – La signora Speranza – 1903
20 – La Messa di quest’anno – 1905
21 – Stefano Giogli, uno e due – 1905
22 – Maestro Amore – 1912
23 – Colloquii coi personaggi – 1915
24 – I due giganti – 1916
25 – Frammento di cronaca di Marco Leccio e della sua guerra sulla carta nel tempo della grande guerra europea – 1919
26 – Sgombero – 1938
27 – Lillina e Mita – 1906

Novelle estravaganti (non comprese in nessuna raccolta)
01 – Pianto segreto – 1903
02 – I muricciuoli, un fico, un uccellino – 1931
03 – Personaggi – 1906
04 – Incontro – 1898
05 – Disdetta – 1898
06 – Disdetta (continuazione e fine) – 1898

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««« Elenchi di tutte le novelle
««« Elenco delle raccolte

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