Pirandello e il realismo occidentale

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Di Noemi Ghetti

«Credo veramente ch’io stia componendo, con un fervore e una trepidazione che non riesco ad esprimerti, il mio capolavoro, con questi Giganti della montagna. Mi sento asceso in una sommità dove la mia voce trova altezze d’inaudite risonanze».

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Gruppo di autori a una Fiera del libro negli anni ’30. Si riconoscono Guelfo Civinini (secondo in piedi da destra) tra Massimo Bontempelli e Silvio D’Amico, dietro a Luigi Pirandello, a una Fiera del libro (Montecatini, anni ’30). Si riconoscono anche Marinetti e Trilussa (quinto e sesto da destra in piedi). Immagine da Wikipedia

Pirandello e il realismo occidentale

da Altritaliani

Era il 1898 quando nella rivista Ariel fu pubblicata La scelta. Nella “metanovella” Pirandello rievoca quando, bambino, nel giorno dei morti la mamma lo mandava con l’ajo Pinzone a scegliere direttamente i regali di rito. Alla fiera dei giocattoli il piccolo siciliano veniva fatalmente attratto dal banco delle marionette: tra i paladini di Francia e i cavalieri Mori avrebbe voluto portarsele via tutte, resistendo alle acide osservazioni del precettore, che mercanteggiando col venditore le svalutava a una a una.

Per la prima volta lo scrittore mette in scena questioni di poetica connesse con l’invenzione dei personaggi, palesando la propria insofferenza dei confini imposti dal realismo, dal rispecchiamento della realtà che Zola voleva “scientifico” ed “impassibile”, e che il verismo del conterraneo Verga aveva già trasgredito.

«Vedi, figlio mio – mi va ripetendo continuamente all’orecchio –, vedi che malinconia di fiera? […] E vedi che razza di eroi ti offre oggi la vita? Trionfano solo i ladri, gl’ipocriti, i birbaccioni! Scegli un eroe onesto? Sceglierai un impotente, un vinto, un meschino; e la tua rappresentazione sarà fastidiosa ed affliggente. […] Ora io ti domando: credi tu che per i posteri possa valer la scusa che l’arte tua ha rispecchiato la vita del tuo tempo? […] In certi momenti, o figliolo, la vita si fa così perfida, che gli scrittori non possono farci nulla; e quanto più son fedeli nel ritrarla, tanto più l’opera loro è condannata a perire. Che virtù di resistenza vuoi che abbiano contro il tempo le creature dell’arte nate dai pensieri nostri dissociati, dalle azioni nostre impulsive e quasi senza legge, dai sentimenti nostri disgregati e nella discordia dei più opposti consigli; questi miseri, inani, affliggenti fantocci che può offrirti soltanto la fiera odierna?

Queste e altre cose sconsolatissime mi va ripetendo di continuo Pinzone. Io mi guardo intorno, e non so rispondergli nulla. Ah, chi saprebbe, chi saprebbe crearmi, per tappargli la bocca, un eroe, non qual è, ma quale dovrebbe essere?»[[L. Pirandello, La scelta, in Dalle novelle al teatro, Bruno Mondadori, Milano 1990, pp. 5-9.]] .

“Un eroe quale dovrebbe essere”. Un’immagine inventata, una “forma” nuova di uomo, da contrapporre ai “fantocci” della vita reale. Per quei tempi, una sfida, anzi un’illusione: «Non è più tempo di scrivere nemmeno per scherzo» afferma Pirandello nel 1904 ne Il fu Mattia Pascal. Lo “strappo nel cielo di carta” ha trasformato l’uomo moderno, dall’Oreste che era, in pensoso Amleto, lacerato dal dubbio e incapace di agire. Scrivere significherebbe coltivare l’illusione di una centralità e di un valore dell’identità umana che non esiste[[ L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1985. È la “lanterninosofia” di Anselmo Paleari, che maledice Copernico per avere messo in crisi la superbia della centralità della Terra nell’universo.]].

Pubblicata nel 1899 a Vienna, L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud vantava una scoperta dell’inconscio che restava l’anima spirituale inconoscibile e tuttavia macchiata dal peccato originale del cristianesimo, rappresentata nella figura del neonato polimorfo, perverso, autoerotico e immediatamente narcisista. La definizione del sogno come “soddisfazione allucinatoria del desiderio” consolidava, anche per gli artisti, l’ingiunzione millenaria a tenersi ancorati alla coscienza, a non lasciarsi andare alle immagini della fantasia, irrazionali come quelle dei sogni [[S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp. 66-67. Sul tema cfr. M. Fagioli, Das erste Wünschen, in Left 2006, l’Asino d’oro edizioni, Roma 2009, pp. 100-103, e Das Unbewusste. L’inconoscibile. Lezioni 2003, Nuove Edizioni Romane, Roma 2007.]]. Pirandello, laureatosi a Bonn nel 1891 con una tesi in tedesco sui dialetti di Girgenti, era un intellettuale di precoci orizzonti europei, e la psicoanalisi freudiana – ricordiamo – fu presto importata anche in Italia: Edoardo Weiss, dedicatario de La coscienza di Zeno di Svevo, dal 1919 fu psicoanalista a Trieste e poi a Roma, e nel 1932 fondò la prima Società Psicoanalitica Italiana ufficiale.

Ma la storia del realismo occidentale è antica, ha inizio con la letteratura stessa, con Omero e con l’Antico Testamento [[E. Auerbach, Mimesis, Il realismo nella letteratura occidentale(1946), Einaudi, Torino, 2000. I primi saggi di Auerbach sul problema del realismo risalgono agli anni ‘30.]]. La codificazione restrittiva del realismo fu tuttavia opera di Platone, che nella Repubblica relegò gli artisti all’imitazione della realtà. Il mito della caverna è la crudele allegoria di un realismo della coscienza – obbligata ad attenersi alle percezioni, peraltro ingannevoli, dei sensi fisici – inestricabilmente congiunto con l’idea dell’inconoscibilità della realtà umana. Uomini condannati nell’arte come nella sessualità ad un destino di mera “riproduzione” sono per Platone i cittadini ideali della sua Repubblica, nella quale non c’è posto per i poeti [[Platone, Repubblica, X. L’arte è definita copia di copia, gli artisti ciarlatani, che ingannano con i loro fantasmi; il rimedio contro le illusioni della poesia e della pittura è la ragione, “la parte migliore dell’anima”, “la facoltà che giudica affidandosi alla misura e al calcolo”(X, 603).]]. Per la ragione come per la religione, la creatività è prerogativa divina: l’obbligo del realismo nell’arte, sempre in coppia con il pedagogismo, passò dal platonismo al cristianesimo per il tramite del dio incarnato, all’illuminismo e infine al marxismo, legato all’idea di un’origine perversa dell’essere umano, di un irrazionale detto di volta in volta animale, diabolico o pazzo.

Ma torniamo alla novella La scelta di Pirandello del 1898 e al contesto culturale in cui si colloca la denuncia dello scrittore siciliano, allora trentenne. Con il nuovo secolo nazionalismo e colonialismo si avviavano a confluire in futurismo, interventismo e infine fascismo. Neppure Giovanni Pascoli si sottrasse alla tentazione coloniale. Ne La grande proletaria si è mossa del novembre 1911 il poeta del “fanciullino” espresse entusiastica adesione all’impresa libica, con argomentazioni che sono una premessa all’interventismo nella prima guerra mondiale della maggioranza degli intellettuali italiani [[Pronunciato al teatro comunale di Barga, e pubblicato ne La Tribuna del 27 novembre 1911.]]. Accenti di violento populismo, sorprendenti nel poeta simpatizzante del socialismo, diventeranno il fondamento della retorica del fascismo e, a distanza di un secolo, ancora sollecitano a ricercare in che modo quell’ideologia totalitaria sia potuta scaturire dal seno di una dottrina egualitaria e democratica. Nell’ottobre del 1914 Giovanni Papini, anticristiano e nichilista, dalle pagine di Lacerba esalta il «bagno di sangue purificatore», e nell’articolo Amiamo la guerra proclama:

«La guerra è un’operazione malthusiana. Rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. La guerra lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. Leva di mezzo un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; mangiavano per vivere; lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza avere il coraggio di rifiutar la vita», e compensa le poche perdite degne di essere ricordate con «tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa».

Nel maggio del 1909 dalle pagine di Le Figaro con il primo Manifesto del futurismo Filippo Tommaso Marinetti fonda la nuova estetica sul «gesto distruttore dei libertari» sul «disprezzo della donna» e sulla glorificazione della guerra, «sola igiene del mondo». Nel Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912 proclama di voler distruggere l’«io», sostituendo alla psicologia dell’uomo, considerata ormai esaurita, «l’uomo meccanico dalle parti intercambiabili» e «l’ossessione lirica della materia». Parallelo è l’invito a distruggere – con musei, biblioteche e accademie – anche la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, usando i verbi all’infinito, abolendo aggettivi, avverbi, punteggiatura, da sostituire con le cosiddette «parole in libertà» [[F. T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Mondadori, Milano1983, pp. 46-54.]]. Equivoco “ante litteram” di un’“immaginazione al potere” non fondata su una nuova identità umana, appello a un realismo disumanizzato, che idolatra la tecnica negando la soggettività, il futurismo non produsse in letteratura risultati memorabili.

«Turco, per il fallimento della poesia della cristianità»

Nel «mondaccio vero», troppo stretto per l’artista, la ricerca di Pirandello procede. Nella novella Personaggi del 1906 la servetta Fantasia, che «quantunque vesta sempre di nero e legga libri di filosofia, […] ride spesso a scatti come una pazzerella», introduce nello studio dello scrittore riluttante «tutti i malcontenti della vita, tutti i traditi della sorte, i gabbati, i disillusi mezzi matti» che pretendono di essere rappresentati. La servetta ricompare nel 1925 nella “Prefazione” a Sei personaggi in cerca d’autore, aggiunta al dramma che alla prima del 1921 aveva suscitato la rivolta degli spettatori. Dispettosa e beffarda, continua a presentargli, perché ne tragga novelle e romanzi e commedie, «la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo di uscire; contrariati nei loro disegni; frodati nelle loro speranze; e coi quali insomma è spesso veramente una gran pena trattare».

È trascorso più di un ventennio, la guerra mondiale è finita. L’adesione spontanea al fascismo del 1924 lascia intravedere un’inerzia della fantasia che lo scrittore, ormai di successo, continua a lamentare, e noi ci chiediamo da quali libri di filosofia la servetta Fantasia tragga ispirazione. Certamente dall’idea di Bergson della vita come flusso continuo, ma più ancora dall’esistenzialismo, che propone la frammentazione se non l’inesistenza di una specificità umana, la fallacia di qualsiasi tentativo di dare una forma all’identità personale. L’irriducibile contrasto tra “vita” e “forma” percorre la poetica pirandelliana. Nel 1927 Essere e tempo di Heidegger, ricordiamo, propugnava un’idea di realtà umana come “da-sein”, un biologico “essere-gettati-nel-mondo” privo di qualsiasi valore psichico. Di fatto, era la concezione di un “essere-per-la-morte”, la logica dell’eliminazione di “vite indegne di essere vissute”, che presto si sarebbe sposata con il nazismo [[E. Faye, Heidegger. L’introduction du nazisme dans la philosophie, Albin Michel, Paris 2005. Prossima la pubblicazione della traduzione italiana per L’Asino d’oro edizioni.]].

Nondimeno l’idea della ricerca di una nuova identità personale, basata sul rifiuto del fallimento, rappresentata trent’anni prima ne Il fu Mattia Pascal, prende inaspettatamente forma nell’ultima opera di Pirandello. Nel 1934, drammaturgo di fama internazionale insignito del Nobel, in una lettera a Marta Abba annuncia la svolta:

«Credo veramente ch’io stia componendo, con un fervore e una trepidazione che non riesco ad esprimerti, il mio capolavoro, con questi Giganti della montagna. Mi sento asceso in una sommità dove la mia voce trova altezze d’inaudite risonanze». Teatro «insolito», «magico», «mitologico», in cui «le parole sbocciano come fiori che paiono loro stessi stupiti di essere nati» [[L. Pirandello, I giganti della montagna, Mondadori, Milano 1989, pp. 202-203.]].

Agli orli della vita, la scoperta: una scrittura “d’inaudite risonanze”, nata dalla trasformazione di un’immagine forse più intuita che consolidata – il dramma rimase incompiuto – che rappresenta la possibilità di un uomo che, avendo rifiutato le certezze borghesi, non sia un fallito. Il dramma potrebbe allora cessare di essere la tragedia fatale di un irrazionale originariamente perverso, ideologia passata dai tragici greci al cristianesimo a cui neppure Nietzsche seppe sottrarsi [[F. Nietzsche, La nascita della tragedia (1876), Adelphi, Milano 1989.]]. Ecco infine il personaggio lungamente cercato: Cotrone, “un eroe come dovrebbe essere”, un nuovo Prospero che con le parole crea le immagini, con il quale l’identificazione, indicata da Aristotele come finalità catartica della rappresentazione tragica, è impossibile [[Per Aristotele la tragedia è “mimesi di un’azione seria e compiuta in se stessa […] che mediante una serie di casi, che suscitano pietà e terrore, opera una catarsi di simili passioni” (Poetica, 1449b 23-27). Prospero è il protagonista de La tempesta, l’ultimo dramma di W. Shakespeare.]].

«Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi, e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati in ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi».

Gli “Scalognati” non sono più i “Vinti” di Verga. Nel momento in cui l’arte rifiuta, con l’idea negativa della realtà umana, la funzione pedagogica, l’artista disegna il sogno, vagheggiato dai tempi di Pigmalione, di un fare, vera poesia in senso etimologico, che possa aspirare ad essere attività trasformativa, dunque politica, nei confronti degli altri esseri umani. Parole vuote, angeli, spiriti, fantasmi, chimere, nel ritrovare l’immagine perduta, scaturita dall’animismo primitivo, trovano un nuovo senso: «Ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni» afferma Cotrone, e la scrittura delinea l’immagine di un poeta più vero di quelli reali, che con folgorante irriverenza dichiara di essersi fatto «turco per il fallimento della poesia della cristianità».

«La poesia non c’entra! chi è poeta fa poesie, non s’uccide» risponde Cotrone alla Contessa, pervasa dall’angoscia di espiare la propria anaffettività, che ha causato il suicidio del giovane poeta innamorato. E ancora: «Se lei, Contessa, vede ancora la vita dentro i limiti del naturale e del possibile, l’avverto che lei qua non comprenderà mai nulla. Noi siamo fuori di questi limiti, per grazia di Dio. A noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. È il libero avvento di ogni nascita necessaria».

E la invita a restare, a desistere dal disperato proposito di rappresentare La favola del figlio cambiato, il dramma che l’infelice poeta aveva scritto per lei, allo sposalizio dei Giganti: uomini rozzi, che «l’esercizio continuo della forza in opere immani» ha reso muscolosi, ma «duri di mente e un po’ bestiali».

Il dramma rimase incompiuto per la morte di Pirandello, avvenuta nel dicembre 1936. «Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta». Il funerale piacque pochissimo ai gerarchi: i giganti della montagna si reputarono defraudati del prestigioso spettacolo di un funerale di Stato.

Noemi Ghetti

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