Dalla raccolta “Mal giocondo” (1889)
»»» Elenco delle raccolte ed introduzione alle poesieÂ
02. Romanzi
I
Come tenace auriga antico, il quale
su lâagil biga per lungo discorso
frenĂČ lâardor de lâarabo animale,
subitamente, fatto arco del dorso,
i freni allenta e aizza con vocale
sprone la coppia dei focosi al corso,
e va, che par saetta, e scossa polve
lontano in una nube aurea lâinvolve;
tale il teso a fuggire interno duolo,
sciolto a la fantasia lâala gioconda,
pe âl fantastico ciel mi caccio a volo;
e la nube dei sogni mi confonda.
II
Udite. Da le pagine immortali
del divin Ferrarese a raccontare
una diversa favola di strani
versi a voi vengo.
Vi condurrĂČ sotto un velame antico
a intender novo caso e nova pena.
Chi nel giovin châio fingo sĂ© vedesse,
mesto acconsenta.
Corse infrequenti vie spronando a sangue
lâanimoso destrier fiero annitrente
in fuga impetuosa, erte le orecchie,
le nari ansanti.
Valli dal verno desolate corse
e inculti piani sterminati e soli,
fiumi guadĂČ, valicĂČ monti, ignaro
del suo vĂŻaggio.
Ira di tempo o sorriso dâaprile
giĂ mai noâl vinse o gli allentĂČ la furia:
Sprone dâinsani desiderĂź avanti
sempre lo spinse.
Lâinseguiron pe âl ciel nuvole fosche,
quasi a gittar su lui funereo manto;
e a lui sempre atterrita eco rispose,
nunzia di morte.
Raccolse al suo passar grida e sospiri
di genti grame, e mestizie profonde
di offesi campi da i venti autunnali
al verde infesti.
E gonfio il petto dâangosciose pene
senza mai posa andĂČ, come rapito
dietro un fantasma innanzi a lui fuggente,
lusingatore.
AndĂČ fin che a la furia il generoso
animale non giacque: allor fermossi,
compreso ancor da lâimpeto e stupito
di quel suo stare.
E in torno si guardĂČ: per ogni lato
una gran selva di misteri intensa
eragli sopra, e contendeagli il passo
silenzĂŻosa.
Raggio di sol non penetrĂČ giĂ mai
lâimmenso intrico di quei rami torti;
non mai furore di rapaci venti
spogliĂČ quel verde;
ma dâogni parte il guardo ansio escludendo,
senza limiti stava, in contro al cielo.
In lei lâin van per tanta via seguito
fantasma vano
era disparso. Il giovine ostinato
non disperĂČ, non imprecĂČ la sorte:
Dal rovesciato arcion tolta una scure,
mosse a la selva.
Ma al primo colpo su una quercia antica
udĂ levarsi in grembo al verde orrore
un clamor sordo dâindistinte voci
misteriose.
Ristette impaurito, ogni vitale
forza acuĂŻta ne lâorecchio teso:
Vasto silenzio ovunque. Era un inganno
dei sensi, certo.
E diĂ©ssi a lâopra immane. Un dopo lâaltro
vigorosi scendean su tronchi pregni
di selvatica vita i colpi, come
su membra umane.
Quando al fin tra stillanti offesi rami
sâaprĂ capace a pena un primo varco
e in esso si cacciĂČ, subitamente
al guardo un novo
inatteso spettacolo sâofferse:
tra le innumeri foglie erongli in torno
volti di leggiadrissime fanciulle
supplici in vista:
Da gli occhi loro immobili partia
un guardo intenso a lui chiedente pace
con promessa dâamor non mai provato
dâalcun mortale.
Eron le loro labbra piccoline
di sĂŒadevol sorriso atteggiate;
pace chiedean le labbra, e pur: ne bacia,
dicean, ma lieve.
A tale incanto il giovine perplesso,
senza respiro e tutto intento stava:
Parlar volea ma gliel vietava un nodo
stretto a la gola.
Se non che tosto, come sogno lieve
che a poco a poco si sciolga da i sensi,
stupor mesto lasciando; ecco vanire
le imagin belle.
Volle egli allor lanciarsi contro, preso
dâacre desio, ma si trovĂČ captivo
de la gran selva, per non sospettata
virtĂč dâincanto.
Rapito in quella visĂŻon fatale
scender non vide a lui silenziosi,
quasi furtive braccia, de la selva
magica i rami;
verdi non vide serpentelli arguti
da viluppi disciorsi, ed a le gambe
al collo al seno ai polsi attorcigliarsi
tenacemente;
mille steli di fior strani non vide
dâognâintorno allungarsi insidĂŻosi,
ne sentĂ de le spine, ondâeron aspri,
lâacuto morso:
tanta fu di quei volti femminili
la traditrice possente malia;
tanto di quegli immobili occhi valse
lâintenso sguardo.
Ora egli sta ne la gran selva chiuso,
de i verdi serpi, de i rami, de i fiori,
de lo stupor; de le spine in potere,
tutto tenuto.
Suoni lontani di danze e di cori,
dolci concenti dâarcani strumenti,
limpidi canti di ninfe gioconde,
ode ne lâombra.
E, scherno atroce, da presso gli splende
di tra le fronde allargate, sĂ come
un vivo sole, il fantasma agognato
Splende e lâirride.
Pria châegli il giunga, o sfiorir quellâimmensa
dee primavera, che avvinto lo tiene,
o lui le carni tra quegli aspri nodi
lasciare a brani.
III Â – Giove parla
Parve un sublime incendio del cielo
quellâultimo tramonto. E su le nove
cristiane genti stese un negro velo
la Notte. E disse, moribondo, Giove:
Le braccia, tra cui stretta il vecchio cerro
tenea la terra vigorosamente,
segĂČ il villano; ma il dente di ferro
de la rigida sega pazĂŻente
le braccia, che in profondo erono tese,
non raggiunse: la scure le troncĂČ.
Quindi un gemito sordo il tronco rese,
e maestoso il gran cerro crollĂČ.
IV
Quasi cristallo liquido, ondeggiante
con lieve moto, ne lâaccidia, lâonda
soverchiatrice, come
lâonda del tempo, copre
di pieghevol vestiti dâalga i resti
del greco porto dâAgrigento greca.
Vengo da i templi antichi
a tuffarmi nel mare.
O conscio mar di tante egemonie,
conscio di tante lotte, o mar conteso,
Mediterraneo, dammi
dammi lâoblio, lâoblio.
Pallade fiera, de la polve astersi
i fianchi ai suoi destrieri, e della spuma
(o idillio di Callimaco!)
lâumide nar fumanti,
a lâacque anchâella, lâelmo aureo gittato
e lâarmi ancor sanguigne, espugnatrice
di cittĂ bella, usa era
chieder ristoro e pace,
Me non achee fanciulle al sacro elette
uffizio dei lavacri accolgon baldo
su lo sciolto, treenne
poledro al mar veniente;
ma lâegra torma al desolato lido
de le memorie accoglie e dei rimpianti;
e solo ad oblĂŻare
entro ne lâonda fredda,
ad oblĂŻare il mal triste di vivere,
mentre il volgo trionfa e il culto muore
de la bellezza eterna,
divin nostro ideale.
Tra le colonne de lâintegro tempio
de la Concordia udii, dove un dĂ greche
a Dei greci le turbe
cantavan prosodie,
rozzo un pastor del gregge non curante,
cullar lâozio de lâanima villana
ne lâabbandon di molle,
araba cantilena;
e nel languor monotono del canto
la rinunzia del popolo sorpresi
aglâideali sacri
che fan le patrie forti.
O conscio mare, in te, cui la riviera
agrigentina in lieve seno abbraccia,
mar che mi desti primo
lo stupor de le grandi
visĂŻoni serene, ecco, io mi caccio;
ma in te pur cala il sol flammeo, solenne,
come lâeroe morente
V
Il paese che un dĂ sognai, del mondo
inesperto e dei mali, su la terra
giĂ lungo tempo lo cercai, fidente
nel vago imaginar che scorta mâera.
Molti paesi visitai deluso,
molti da lungi salutai fuggendo,
e su i lor tetti, declinante il giorno,
con la notte, la pace e il dolce inganno
sempre invocai dei sogni e il calmo oblio.
Ma per incerte vie, tra sassi e spine,
tacito andando nel desio pungente,
quanta parte di me viva lasciai!
Folle, e sperai; folle, ebbi fede. E solo
ai danni miei presiede ora crudele
la coscienza che mai, che mai dal suolo
in cui giaccio, menzogne pĂŻetose,
amor di donna o caritĂ dâamico,
a rĂŻalzarmi non varran – piĂș mai.
NĂ© a te, paese dei miei sogni novi,
ora piĂș credo; e tardi, ahimĂš, compresi
che vano era cercarti sotto il sole.
Se tristi grue pe âl ciel fosco passare
vedea mesto, tra gli alberi battuti
da i primi venti dâautunno, in mente
io mi dicea: âLĂ giĂș, lĂ giĂș, lontano,
nel bel paese dei miei sogni andranno,
ove eterna fiorisce primaveraâ.
E a lui credea nâandassero, portate
dal lungo vento, anche le foglie ai rami
strappate; a lui le nuvole, e le vaghe
da i petti umani illusĂŻon fuggite…
Era follia, follia certo; ma dolce.
VI
Un canto a lâArmonia;
e nasca lâimagin da âl suono,
sĂ come da le spume
del mare, tra ninfe e tritoni,
Venere nacque, e lieta
la drĂšpana rise marina.
Onda piĂș tersa e pura
sei tu veramente, Armonia:
In te sovrano il cigno
bianchissimo incede sognando,
in te le mie ferite
io lavo, oblĂŻando, e risano.
A salutar lavacro
le vergini figlie del Sogno
vengono a te (gittando,
del vivo candore gelosi,
a lâaura molle i veli)
e in te, senza un brivido, nude
si tuffano e sorridono.
O come, fresca onda, di dolce
abbracciamento cingi
le figlie del Sogno leggiadre!
Da âl cielo un verde lume
su loro riversa la Luna.
Fremon le vive spume
nel cavo del seno, ove lâuna
grazia e lâaltra ricolme
si partono, e pajono insieme
due ritondette pome
o due melograni ancor chiusi.
Vengon a te le figlie
del Sogno, e per quanti dâoblio
in te assetati sono
mortali, o sacra onda benigna,
hanno esse un bacio un riso
un atto dâamor che consola.
Ne la tempesta fiera
de i foschi pensieri, di un nero
odio ne lâozio nati
di questa, che inutile fugge,
vana vita mortale,
nel petto ruggenti malsano;
la tua voce, Armonia,
di teneri suoni vibrante,
serenatrice viene,
sĂ come uno stormo di bianche
colombe un picciol ramo
in bocca recanti dâulivo.
Mi fingo allor, lontana,
in grembo a la notte celata,
una vergine ignota,
che bianche colombe mâinvia;
ma deluso giĂ troppo
non credo a le nunzie dâamore.
Su lâangoscioso petto
su gli ĂČmeri esse e su âl capo
si posano, scuotendo
malferme con strepito lâale:
«Oh chiudete piĂș spesso
i tondi e neri occhi, o innocenti
colombe, e de le penne
su âl volto che brucia, la dolce
soavitĂ , qual mite.
materna carezza, provate.
Non per amor ben vedo
la vergine ignota vâinvia.»
Maliarda ella, toccando
le corde dâarcano strumento,
ne la notte, a un castello
attira dâinganni i mortali,
e, liberale, a tutti
ivi offre un veleno, che ambrosia
divina pare. E lei
che mille diversi racchiude
desiderĂź e speranze
e sogni, come astri, fulgenti;
lei che mille sprigiona
per lâaura che brucia, commossa,
de la sua febre istessa
fantasime vive di luce;
lei indarno, indarno invoco:
lâimmite, lâimmite non viene.
Sto con ardenti labbra
un morso agognanti, protese,
avidamente o un bacio
o un alito fresco, che il foco
ondâardo, muto, dentro,
lenisca; ma indarno invocata,
indarno ahimĂš bramata,
lâimmite, lâimmite non viene.
Oh verso qual mai lido,
o fievoli suoni languenti,
quasi parole vane
su candida neve segnate,
lungi or con voi la vaga
mia anima naviga incerta?
Innanzi, innanzi! il mare
di palpiti lucido trĂšmola,
lâagile nave fende
il cerulo piano de lâacque…
Innanzi, innanzi! oh questo
non Ăš lâarcipelago stretto
quasi corona in torno
la greca Penisola madre?
e questi suoni adunque,
te, Grecia sospirano antica,
forte, dal vario suolo
la varia potenza nei canti
dei rapsodi spirante
giĂ sotto lâeterno cilestre
del ciel dâOmero? Salve,
o Lesbo, dolce isola, salve!
Non trema de lâardente
di Saffo fatal passĂŻone
qui lâonda consapevole?
i lieti convivi gli amori
del mitilĂšneo Alceo,
poeta e guerriero, non dice?
Or sĂș, vergini achee:
con sette dolcissime corde
dâuna vaga partenia
al canto la cetra vâinvita.
E io vorrei a un sonno
di miti fantasmi affollato
abbandonarmi, a un sonno
che lâultimo, lâultimo sia…
o morir lentamente
da un nugol leggiero di foglie
di rose soffocato
intatta stillanti rugiada
e pioventi da lâalto,
dal divo tuo grembo, o Armonia..
VII
Co âl primo raggio del mattin dâaprile
ne la mia stanza irruppe Primavera,
dea giovinetta, e a piene man profuse
dal pieno grembo
rose dâogni color, su âl letto mio,
rose dischiuse al bacio de lâaurora,
rose stillanti ancor notturna brina,
rose su rose.
Sogno dâamor tra le sue dolci spire
me rattenea, di quellâarrivo ignaro;
ma ciĂČ vedendo Primavera, i labri
schiusi a un sorriso,
con un gambo di fior la fronte lieta
e il collo diéssi a vellicarmi, lieve:
allor balzai dallo stupor compreso
del sogno ancora.
Rise ella forte un riso schietto al goffo
destarsi dâun mortale. InebrĂŻato
de le innumeri rose su âl mio letto,
io travedea.
Ma tra le belle man lattee la testa
con dolce atto mi prese, e su me china
la bocca mi baciĂČ dâun fresco bacio
dicendo: Sorgi!
E quindi uscĂ. La vidi in una gloria
di luce errar pe i piani, e novo vidi
miracolo gentile: sotto i fini
suoi piĂš la terra
rifiorir di color vivi, diversi,
e lâaura al suo respir puro allargarsi,
e gir millâapi intorno a lei succhiando
i fior novelli.
Poi da lungi ver me si volse ancora:
Chiara nel ciel vibrĂČ (tacquer gli uccelli)
sua voce e disse: «Cantami la sacra
pasqua di Gea».
VIII
Saturno, la tua favola crudele
spietatamente il secolo rinnova,
e noi, suoi figli (latte no, ma fiele
sugger ci dette giĂ ne lâetĂ nova,
genitrice di vittime, Cibele)
nati a la morte senza lâardua prova
de la vita, che pur triste innamora,
noi, suoi figli, non sazio mai, divora.
Di sua man cadde un regno, e le rovine
or gli son trono, e chiede a la consorte
vittime ancora. O tu, Cibele, al fine
un novo scampa ultor Giove a la morte.
IX Â – Cavalleresca
O messer Lodovico, in su âl cimiero
dâOrlando, una cornacchia si posĂČ:
«Sii tu la spada, io sarĂČ il tuo pensiero»
disse, e Orlando Margutte diventĂČ.
Ora, ei lascia che Angelica e Medoro
sfoglino in pace il fiore de lâetĂ ;
e senza freno in tanto, Brigliadoro
springando via per selve orride va.
Va senza freno, e quanti su la groppa
audaci cavalier tentan saltar,
egli atterra, indomabile, e galoppa
nĂ© sa dove lâadduca il folle andar.
Ma su lâirta criniera io me gli avvento:
le braccia al collo, e stretto ai fianchi il piĂš,
lo domo, e volo come in preda al vento,
ogni cura oblĂŻando e il mondo e me.
*
De lâalte querce il bosco secolare
ha lungo e grande fremito dâorror,
e le Ninfe che in quelle aman sognare
de la mia corsa destansi al romor.
Basta un acuto sibilo di freccia
a rompere il lor sonno vegetal:
Svegliate, esse, stracciando la corteccia
tendon da i tronchi il bel capo ninfal.
Or mille voci chiamanmi frementi,
tra spasimi di fiera voluttĂ :
âVieni!… mi bacia!… toglimi!… rattienti!…
son tua!… ti voglio!… tâamo!… ardo!… ristĂ !â
Ha unâanima ogni foglia ed ha una voce,
e fiamma Ăš lâaria, che in contro mi vien…
Ahi, de la febre che il mio sangue coce
brucia la selva, e in sé chiuso mi tien.
Via, Brigliadoro, e contro tutti in guerra;
tutto calpesta, e avanti sempre piĂș!
Ebro di lotta, ogni ostacolo atterra,
la pace un sogno ne lâignavia fu.
A questâaura fischiante tra gli orecchi,
da lâimpeto commossa, al tuo fuggir,
lasciam le vecchie cure e i sogni e i vecchi
affetti, e andiamo in contro a lâavvenir.
*
O paese dei sogni, ove non suona,
di mie catene il lugubre stridor,
a te, lontano, io volo, a te mi sprona
necessitĂ dâoblio, sete dâamor.
Che van tu sia, lo so; ti cerco in vano;
so che giĂ mai non giungerĂČ il mio fin,
ma in questo mio fuggir sdegnoso e strano
sprezzo la vita, irrisa dal destin.
Via dunque, avanti, ove il sentier ne mena,
fino al punto, che dato Ăš a noi toccar:
anchâio vorrei veder quella Sirena,
che coâl suo dolce canto accheta il mar…
*
Alcina, fata crudele e diversa,
da lungi non sorridermi cosĂ:
La turba rea, che il passo tien, dispersa
non ho per anco, e pugno notte e dĂ.
Una vecchia maledica e rissosa
schizzando fiele aizza contro me
lâiniqua turba, e senza tregua e posa
la meta mi contende: o Alcina, te.
Vengan, châĂš tempo, come un dĂ a Ruggero,
le miti ancelle, e porganmi la man,
le ancelle tue di pace, e con lâaltero
gesto, dĂČmin lo stuolo aspro e villan.
*
O vaga Alcina, al fin tra le tue braccia,
se non Ăš sogno, stretto anchâio mi sto:
Fa che una notte sola io teco giaccia,
e lieto e pago i giorni chiuderĂČ.
Perché sà bella e pur sà trista sei,
dimmi, dolce amor mio, dimmi perchĂ©…
Prendi tutto il vigor degli anni miei,
ondâio, felice, mi distrugga in te.
Vecchia sei tu, ma celami la vera
essenza tua con vista giovanil,
come la vecchia Terra a primavera
le rughe cela coi fiori dâapril.
Quando una notte avrĂČ di te goduto,
uno sterpo fammi, e non trarmi mai piĂș.
Io ti dirĂČ, co âl mio miglior saluto:
«Come sei brutta, o bella Alcina, tu…»
X
Andiamo altrove. Qui, tra queste mura
(dâaltri qui fosti non amata sposa:
sanguina il cuore sotto la gravosa
oppression de la memoria oscura)
come in angusto vaso albero a forza
costretto perde il natural rigoglio,
né foglia mette né caccia germoglio,
e impietra sotto la cinerea scorza;
cosĂ tra queste mura dolorose
racchiuso langue e a poco a poco manca
il grande amor châa te mi lega e franca
piĂș non ti dice lâanima le cose.
Altrove andiam: Qual nugolo sonoro
di fini insetti, le memorie incerte
sento gridar per le stanze diserte,
in questa calma che non Ăš di pace.
Echi irrisori, o sia che tu mi parli
dolci dâamor parole, o che mi baci,
in torno a noi risvegliansi. Deh, taci,
altro mezzo non Ăš per acchetarli.
«A te, lâeco mâinsinua, ella ripete
ciĂČ che ad altri giĂ disse, al tempo amico,
cosi comâio sue parole or ridico:
Qui non avrete mai pace e quïete.»
Andiamo, andiamo altrove: Sotto il sole
son tetti a mille, ove non sdegna il nido
appendere la rondine. PiĂș fido
uno ci accoglierĂ , come amor vuole.
XI
O superbi dei pubblici giardini
schierati alberi lungo i bei vĂŻali,
quasi a scortar gli sciocchi cittadini
e le piĂș sciocche vanitĂ mortali;
quanta pietĂ , superbi alberi, sento
ora che foschi chiaman gli autunnali
mesi le piogge a flagellarvi e il vento,
di voi, dannati da contraria sorte
a far da malinconico ornamento.
Co âl pomeriggio le sue ferree porte
apre il giardino, e la comedia vana,
sotto le vostre nude rame torte,
dâuna folla, che a voi par certo nana,
torna a svolgersi, piena di languore
e di menzogne – umana, umana, umana!
LĂ giĂș, di tra le nuvole, il rossore
cupo del vespro tinge di sanguigno
le cupole lontane e i tetti: Muore
cosĂ, senza il sorriso dâun benigno
raggio di sole, un altro giorno ancora.
Io guardo voi, grandi alberi, e un maligno
e tristo accenno parmi a ora a ora
mi facciano per lâaria i vostri rami
torcendosi, e il mio viso si scolora:
Parmi che ognun di voi freddo mi chiami
con la notte a finir, che fosca incombe,
a un tronco appeso: «Or su, folle, che brami?
Pace hanno i morti giĂș, ne le lor tombe!»
XII
Quale di rose pioggia purissima
da i cieli accesi piovve lâaurora
su Roma grave, da un gran silenzio
tenuta ancora,
il dĂ che, dietro lâombra fuggevole
rapito io folle dâun sogno vano,
tâabbandonai senza una lacrima,
o amor lontano.
Del bel Tritone fuor da la buccina
sentii, correndo la piazza ratto,
al cuor lâarguto zampillo gelido
piombarmi a un tratto.
InebrĂŻate del lume roseo
le vaghe rondini garriano intorno,
e le campane lontan squillavano,
nunzie del giorno.
Quale di rose pioggia purissima!
Da lungi i vetri de le dormenti
case romane mi salutavano,
razzando ardenti.
Su le memorie care, su i fervidi
amor miei vani, su âl van desio
cadeva in Roma di rose pallide
il nembo pio.
XIII
Giacea su âl virginal letto la pia:
le amiche inginocchiate in torno al letto
teneano un giglio in mano, e il buon Baldia,
vescovo dotto, orava. Al sacro detto
rispondea la giacente: «Cosà sia»
con le braccia incrociate sopra il petto.
Poi lâostia santa ricevette, e al piede
e al fronte il bacio estremo della fede.
Ma ne la stanza irruppe in quel momento
un giovin fiero. Ella rizzossi, tese
le braccia, e al sen dâun forte abbracciamento,
lâavvinse stretto: «Tâho aspettato un mese!»
E stretto il tenne, e al ciel lieta mostrava
la bianca fronte, ed un sorriso pieno
dâalta beatitudine, e tremava,
poi châegli le sue lagrime su âl seno
purissimo coi baci le asciugava;
ma, cerea, a tanto ardore venia meno,
quasi da i baci suggersi la vita
dolcemente sentisse, illanguidita.
Quando da i suoi capelli a poco a poco
il giovine sentĂ sciorre le mani,
e del seno sentĂ spento ogni foco,
levossi e disse: «Attendimi dimani.»
XIV
Scendea pensosa lâampia scalinata
marmorea de la villa signorile,
ne la luce del vespero pacata,
quandâio la vidi e la nomai gentile.
Un rosso fiore in man pe âl lungo stelo
teneva; erono i miti idi dâaprile.
Lâocchio stellante del color del ciclo
vĂšr me rivolse, e chinĂČ tosto il mento
su âl petto ansante sotto il fosco velo.
Poi seguitĂČ a discendere, ma a lento
passo e indolente. Giunta quasi al piede,
fosse per caso o per divisamento,
mise un piedino in fallo, e insieme diede
un breve acuto grido. Accorsi io ratto,
e per la vita la sostenni in piede:
Ella tremante mi sorrise. Il fatto
fu senzâaltro cosĂ; ma, lusinghiera,
il fior mi porse, e andando disse: «A patto
che me âl riportiate questa sera…»
XV
Quando ella sola, o mar perfido e bello,
tranquilla siede, e di mille astri viva,
su te la Notte, e in te versa la Luna
il suo bel raggio;
allor lâimmensitĂ cerula tua,
da lâampio lido a lâorizzonte estremo,
correr tutta voglâio, come veloce
delfino, o Mare.
Infaticato nuotator gagliardo,
correr voglâio la luminosa via
del lunar raggio su le palpitanti
acque infiammate;
e del cielo e del mar le paurose
profonde immensitĂ su âl capo e in torno,
nel silenzio, sentir, rotto da i lievi
romor del nuoto.
Ora, la Luna attendo, e le mie forze,
sĂ come antico lottator, preparo:
Io voglio, io voglio in voi tutto, o vaste acque
purificarmi.
Di tanta ignavia e dei lunghi ozĂź voglio
purificarmi. Inascoltato padre,
immenso Mar, ridammi tu le fiere
audacie prime;
i miei ritempra tu muscoli rosi
da i mal de la cittĂ , dove Ăš menzogna
tutto, e per cui te, Padre, un di lasciai,
non piĂș contento
del plauso schietto, onde gli adusti tuoi
figli eron larghi al giovinetto, ardito
nuotatore, allorchĂ© tutti su âl lido
raccolti e intenti
me, de gli emuli destri sfidatore,
ne i trionfi seguian, forte acclamando
da lungi, e quindi, innanzi a te plaudente,
mâoffrian da bere.
1889 â Raccolta âMal Giocondoâ
Introduzione
01. A lâeletta
02. Romanzi
03. Allegre
04. Intermezzo lieto
05. Momentanee
06. Triste
07. Solitaria
»»» Elenco delle raccolte ed introduzione alle poesie
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