01. Padron Dio

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Padron Dio Poesia

01. Padron Dio

I

     Ora anche tu, poi ch’ogni can m’abbaja,
m’abbaj: non me ne lagno; anzi hai ragione.
Ha torto, cane, ha torto la vecchiaja
che m’ha cosí ridotto.
La coda tra le gambe, chiotto chiotto,
già mi seguivi, a un cenno del bastone:
pascolava la mandra, ed io, sdrajato,
ora un tozzo di pane:
– To’, cane! –
or ti buttavo un sasso: – ero il padrone!
Non hai dovere d’essermene grato. –

E il vecchio (lo chiamavano Giudè,
chi sa perché)
s’allontanava e ritentava altrove:
a un’altra villa. Prove
tristi, quotidiane,
per un sorso di vino,
per un boccon di pane.

Pur non chiedea: facendosi al cancello,
diceva al contadino:
– Di’ al tuo padrone che c’è l’esattore.–
E quello,
sorridendo, al fattore
lo annunziava, ché l’arguta frase
or gli era nota. Ma, la prima volta
che la disse, il Giudè dové spiegarla
e la spiegò cosí:

– Tanto quei che vi parla,
quanto ognun che m’ascolta,
tutti siamo inquilini del Signore,
il quale è proprietario di due case.
L’una, noi la vediamo: eccola qui;
e sarebbe il Signor per tutti a un modo
buon padrone, se molta e molta gente,
avara o prepotente,
non se ne fosse fatta casa propria,
quand’essa
dovrebbe invece esser casa comune.
C’è chi ha granajo, dispensa, rimessa,
e chi non ha né fune
né tanto muro da piantarvi un chiodo
per potersi impiccare,
e i piú son questi e sono come me.
Quegli altri intanto debbono pensare
che è pur padrone Iddio
di un’altra casa: – la casa di là! –
della qual vuole che ciascuno paghi
anticipata la pigione qua.
I poveri, com’io,
la paghiam puntuali, con le pene
nostre: il freddo, la fame, a tutte l’ore;
ai ricchi invece, per pagarla, basta
che facciano ogni tanto un po’ di bene.
Or non ne viene
ch’io son di padron Dio
dunque davver pe’ ricchi l’esattore? –

Dopo la frase arguta,
la modesta limosina ottenuta,
in via di nuovo. E, camminando, privo
d’ogni meta, qua e là gli alberi suoi
(o che avrebbero almeno
dovuto essere suoi) riconoscea: suoi,
perché quell’olivo,
quel melagrano,
eran nati per lui che un dí, passando,
la terra con la mano
avea scavata e poi
buttato il seme; e la terra, ecco, l’albero
gli avea dato, e lui bene
potea dir come e quando.
E non ad altri, l’avea dato a lui,
naturalmente, lì nel campo altrui,
ché la terra sa forse a chi appartiene?

D’un affetto paterno egli quei vecchi
alberi amava e i frutici novelli:
sembravangli i piú belli
de la campagna: a ciascuno la data
avea nel tronco incisa, e or si fermava
a lungo ad ammirarli, il capo folto
di ricci ferruginei capelli
scotendo, poi che i rami lo tentavano:
lo invitavano a cogliere i lor frutti,
chè tutti
eran (ben essi lo sapeano! suoi.
Ma egli, no: mai colto
non ne avea, neppur uno: e, sospirando,
abbassava la mano
che già s’era levata.

 

II
     Cosí, per le campagne altrui, vivea
il Giudè, senza tetto. Entro un casale
diruto, abbandonato,
dormia la notte; all’alba si destava,
e, per la via piú piana,
ad errar si mettea per quelle immense
solitudini, intense
pure di tanta vita, entro al silenzio
tutto di foglie palpitante e d’ale
e ad ora ad or tentato
dal trillo d’un uccel che s’allontana.

Stanco, per terra si sdrajava; e allora
a ruminar si dava
una sua vecchia idea.
Poco da lui discosto, un grillo pure
forse un pensiero avea,
un rodío dentro che gli dava pena,
e v’insistea, cocciuto. A un soffio d’aura
i fili d’erba si moveano appena,
e le farfalle bianche, in tanta pace,
volitavan sicure.

– O perché mai nascevano cert’erbe?
Non per gli uomini, certo;
per le bestie, neppure:
nascean perché le avea volute Iddio
e le facea la terra, a cui non cale
se a gli uomini dispiace.
Tanto è ver che, strappate, essa tornava
a farle, e lì, ch’era terreno aperto
e nessun le toccava, esse cresceano
della lor libertà quasi superbe.

Ora il vecchio Giudè pensava: – «Ed io?
Iddio
ha voluto anche me. Padrone, Lui!
Non ho un palmo di terra intanto, in cui
possa stare, dicendo: questo è mio.
Son come quest’ erbacce che nessuno
nel proprio campo vuole.
A guardiano fu promosso il pruno,
ma le altre alla ventura
crescono sotto il sole – come me.
Solo dov’esse crescono
indisturbate, posso stare anch’io:
vuol dire che il padron forse non c’è
o che non se ne cura». –

Conosceva il Giudè
certe immense distese abbandonate,
per cui mai non passava anima viva,
e nelle quali egli, da che vivea
(cioè per tanti e tanti anni che piú
non ricordava il numero),
avea sempre veduto, indisturbate,
quell’erbe, e mai qualche lontana traccia
di coltura, né mai
alcun segno, anche antico, del dominio
di qualcuno.–
– «Da tempo immemorabile,
almen per me, queste terre a se stesse
appartengono, dunque; e sono libere
di produrre, non già quello che gli uomini
voglion, ma ciò che a loro meglio piaccia.
Bene, e ora se tu
(pensava il vecchio, tutto assorto e intento),
in mezzo ad una d’esse,
nel punto piú lontano,
ti scegli un breve lembo, strappi via
le erbacce, e butti un pugno di frumento,
non ti darà la terra un po’ di grano?
Oh, lo darebbe a te come a chiunque…
Il padrone, anche ammesso che ci sia,
trar mai non ha voluto alcun profitto
dal suo fondo: né lui l’ha coltivato,
né l’ha dato in affitto.
Dunque? – Per lui lo stesso ora non è
se qui invece di sterpi un po’ di grano
la terra buona produrrà per te?» –

 

III

     D’allora in poi, del suo divisamento
il vecchio Giudè lieto,
oltre al tozzo di pane consueto,
chiese una manatella di frumento.

– «Padron Dio – domandavangli i fattori,
ha rincarato forse la pigione?»
Se volete, signori… –
rispondea, sorridendo, il vecchio. E intanto
che raccogliea cosí da seminare,
lì, nella solitudine,
apparecchiava alla meglio il terreno,
futuro campicello!
Ah se una vanga avesse avuto almeno:
avea soltanto un logoro marrello,
col quale, zappettando, prima via
cavò la mala erbaccia,
poi scavò scavò quanto
gli permise la forza delle braccia:
e questo al suo terren dovea bastare.

Ma non a lui che, stanco, invidiando
seguia con gli occhi l’opra, da lontano
del grave aratro, delle vacche lente.
solenne come un rito:
dietro, i seminatori
si gettavano innanzi a tondo il grano.
fiduciosi nel lavor fornito
coscenziosamente.
Mentr’egli non avea nemmen potuto
i semi incalcinar: li avea cosí
buttati a la ventura
a quelle zolle appena appena smosse.

Vennero le prim’acque, e dal diruto
casal notturno, udendo
Giudè Io scroscio, non sapea che fosse;
poi dell’acqua abbondante la frescura
odorosa sentí. Non era un nembo
fugace: era buon’ acqua, a cielo pieno.
Anche su quel suo lembo
di terra in quel momento
piovea… – Giú, acqua! Bevila, terreno!–

E dopo alcuni dí
sbullettar vide il grano, – oh gaudio senza
parole! – Dalla terra umida uscite
eran timidamente
già le prime pipite.
Baciò la terra per riconoscenza,
la terra che gli dava il grano, il grano
ch’era suo! Si guardò d’attorno, come
se volesse difenderlo: era suo!
Il cielo guardò poscia,
donde l’acqua clemente
era caduta; ma la vista immensa
del ciel gli diede un’inattesa angoscia:
egli avrebbe voluto cosí basso
vederlo, da nascondere, da escludere
quel suo piccolo lembo da ogni passo.

Le pipite man mano
sfronzarono, accestirono. Ed ormai
il Giudè con la sua terra parlava:
– «Oh brava terra, brava:
verrà la state, avremo un gran da fare…
Non hai veduto mai quel che vedrai!» –

E, non ostante il freddo e le intemperie,
quasi a covar con gli occhi quel suo grano.
passava lì le intere
giornate, e nel vedere
l’aura avvivar di tremiti
le foglioline tènere
tutta l’anima pure gli tremava.

 

IV

Se non che un dí di quelli
dal notturno abituro,
al canto mattiniero degli uccelli,
trâr non si seppe il povero Giudè:
avea tutte le membra come rotte;
seduto a terra, con le spalle al muro,
le ginocchia abbracciate,
guardava innanzi a sé,
stordito ancor dai sogni della notte.

Ov’era il campicello? Già l’estate
era venuta… Ov’erano i granaj?
Ah, tutti quei granaj pieni, con tanti
misuratori allegri, anzi festanti,
che davan via frumento
e frumento e frumento, senza togliere
con la rasiera il colmo dagli staj!
e che andare e venir polverulento
d’uomini e mule!
e quella donna accorsa col grembiule
bucato, donde tutti i chicchi giú
scorreano, a sgorgo, giú,
cosí che si votava la grembiata
prima ch’ella la porta del granajo
raggiungesse… Ah, che guajo!
La misera tornava
sempre indietro, daccapo, disperata,
spinta in mezzo alla ressa
fitta degli altri poveri accorrenti
senza fine; ma invano:
mai nessun chicco in grembo le restava…
«Date via! date via!»
incitava il Giudè, ch’era il padrone,
ora questo ora quel misuratore:
«Cosí dell’altra casa del Signore
mi pago la pigione;
e nessun piú di pane avrà bisogno…»
E tutti quei granaj
non si votavan mai:
dalle finestre in alto, sopra i mucchi
addossati alle altissime pareti,
il frumento sgorgava, venia giú
sempre piú, sempre piú,
come cascata d’acqua, senza fine,
frusciando.

E ora… ah ecco, quel fruscio
continüo nel sogno
gli era rimasto negli orecchi. Oh Dio,
avea la febbre, gli batteano i denti…
«Se a camminar provassi…»
Si levò in piedi a stento: vacillava…
Pian pian si trascinò fuor del casale
per ritornare al campicel lontano;

ma, fatti alcuni passi…

 

V

     Si ritrovò, tra stupito e sgomento,
sur un bianco lettuccio d’ospedale.
«Or se qui m’hanno accolto,
è segno che son morto!» –
E abbandonò,
disajutato, il vecchio corpo affranto,
alle cure dei medici; chè, tanto,
meglio era morir tosto, se guarire
a tempo non potea per il raccolto.

Con gli occhi chiusi, tutto rannicchiato.
quasi a schermirsi dai taglienti brividi
della febbre incalzante,
spingeva ora il pensier lontan lontano,
al suo lembo di terra seminato,
e lì sovr’esso, stanco ed anelante,
s’addormentava.
Allora, a lui d’attorno
sentia, vedeva il grano
mandar sú sú sú il gambo della spica.
ma troppo alto… troppo alto…
no, cosí no! – possibile? ogni gambo
piú alto assai d’un pioppo! Ah, che fatica,
lì chino
sopra ogni gambo, ad impedir quel rapido
rigòglio strambo,
rigòglio dispettoso, inverosimile…
e invano, invano: i gambi s’allungavano
visibilmente, da ogni lato, fino
a quell’altezza, e già lo seppellivano…
L’arïa smaniando, una bracciata
dava il Giudè, si rizzava… oh portento!
piú delle spighe egli era, assai piú alto…
Smarrito, intorno si guardava; il cielo
poi guardava, e la luna ecco a portata
della sua mano: alza un braccio, la prende
e con essa a falciar si mette… A un tratto
crollava il sogno, e il Giudè si destava
di soprassalto.

In contrapposto allor, gracile, a stento
e rado il grano vedea venir sú…
Ah quei poveri gambi dalla pioggia
acquattati, dal vento
spezzati… E sospirava che l’aratro,
l’aratro ci volea… Poiché, la terra,
certo, da quel suo logoro marrello
neppur s’ era sentita vellicare.

E non passavan piú
le febbri, e i dí passavano:
già perduto il Giudè del tempo avea
la memoria, ma pur non s’arrischiava
di domandar se bionda era la messe,
per timor che qualcun gli rispondesse:
– È finita l’està! –
Sú dal guanciale
si provava a levar la testa
quanto gli concedea la gravezza del male:
guardava in fondo, di su gli altri letti,
l’ampia finestra: intravedeva appena
il cielo azzurro, limpido, e fiammante
il sole sopra i tetti
delle case vicine… Sí, ma era
forse ancor primavera….

Chi sa, però – pensava – se qualcuno
di là passando non abbia scoperto
per caso il grano mio…
e l’avrà fatto suo! Ma se nessuno
lo scopre, non sarà peggio? Aspettando
sotto il sole, laggiú, la falce invano,
si perderà tanta grazia di Dio;
e la terra avrà dato
inutilmente il grano.

 

VI

     Come però Dio volle (e fu Dio certo,
dopo tante preghiere),
su la metà del giugno l’ospedale
egli poté lasciar tutto rifatto.
Sú, vecchia tartaruga, prendi a nolo
le gambe d’un levriere, d’un cerbiatto!
Via di lungo, di volo
al campicello…
– C’è? Si, là, là in fondo…
Eccolo: c’è! s’affaccia!
folto, alto, biondo…

Ma le gambe ad un tratto
sentí mancarsi, cascarsi le braccia.
Tutt’intorno alla messe
quasi miracolosa
(tanto era folta e tanto era il rigòglio!)
una siepe correa; sorgeva a un canto
il pagliajo, ed un cane,
udendo tra le erbacce lì vicino
fruscio di passi, si mise a latrare.
S’affacciò dalla siepe il contadino
di guardia:
«Oh, benvenuto! T’aspettavo,
Giudè. Stai bene? Bravo.
Che cerchi adesso qui?» –

Per terra il vecchio si pose a sedere,
calandosi pian piano,
appoggiato al bastone – dal cordoglio
e dalla corsa affranto.
– «Non voglio nulla… Quieta il tuo cane, –
poi disse: – Son venuto
soltanto per vedere
codesto gran miracolo del grano
che solo e cosí bello
t’è nato, è vero? t’è nato da sé…»
Rispose il contadino:
«Oh di chi era la terra, Giudè?»
«Era di queste erbacce qui, che pane
non fanno… – il vecchio Giudè gli rispose:–
Diglielo al tuo padrone…» –

E rimase per terra a lungo, lì,
a mirar quelle spighe che, dal vento
mosse, pareva accennasser di sí
nel lor compatimento…

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