Randone, Eduardo, Stoppa: Tre messeinscena de “Il berretto a sonagli”

Di Paolo Diodato

«Il Berretto a sonagli» si configura come un’importante laboratorio linguistico e scenico. Le sue stesse varianti testimoniano una serie di operazioni che Pirandello svolse a più riprese avendo come obiettivo una resa sulla scena di maggior sintesi ed efficacia.

Indice Tematiche

Il berretto a sonagli - Messinscena
Eduardo e Luca De Filippo, Il berretto a sonagli, 1979. Immagine dal Web.

Randone, Eduardo, Stoppa:
Tre messeinscena de “Il berretto a sonagli”

Introduzione
Lezione I – MUSCO E GLI INTERPRETI DIALETTALI DE IL BERRETTO A SONAGLI
Lezione II – SALVO RANDONE INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI
Lezione III – EDUARDO INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI
Lezione IV – EDUARDO INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI,  parte 2
Lezione V – PAOLO STOPPA INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI  DI PIRANDELLO
Lezione VI  – INTERVISTA A LUIGI SQUARZINA SU IL BERRETTO A SONAGLI  DI PIRANDELLO

da Theorein.it (con note al testo)

INTRODUZIONE

Il 1916 rappresenta una tappa significativa dell’ “itinerario” di Pirandello al teatro. Fin dalla giovinezza (già diciannovenne) oscillò tra la chiara volontà di entrare con i propri lavori nei rapporti produttivi e professionali di questo mondo e la progressiva rassegnazione che lo accompagnò negli ultimi tentativi di far rappresentare i suoi numerosi e in gran parte sconosciuti drammi giovanili. Questi tentativi si protrassero fino ai trenta anni compiuti, inducendolo a dire in una lettera ai familiari del 26 luglio 1897:

“Non mi resta che fabbricarmi un teatrino di marionette per mettervi in scena da me tanto L’Epilogo quanto Una Signora“.

Va sottolineato che Pirandello scrisse tra i venti e i trent’anni almeno nove drammi e che tra i trenta e i quarantacinque anni non ne scrisse neppure uno.

Ma c’e ancora un’altra tappa che va evidenziata nell’itinerario di Pirandello al teatro e che è testimoniata dalla collaborazione con Nino Martoglio a cui si deve la rinascita del teatro siciliano.

Personaggio eclettico, dagli svariati interessi culturali, Martoglio fu pubblicista, poeta dialettale, regista cinematografico e scenografo, fertile commediografo, organizzatore di convegni, di poeti dialettali, fu soprattutto un appassionato direttore di compagnie teatrali, scopritore di attori di talento e a lui si deve la rinascita, o meglio la nascita del teatro siciliano.

Sebbene si possa parlare di teatro dialettale siciliano sin dalla seconda metà del ‘700 con le vastasate e la rappresentazione de I Mafiusi di la vicaria di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto nel 1863 la situazione del teatro siciliano, al tempo di Martoglio, era quella di un teatro a cui mancava un repertorio, circolavano soli pochi canovacci drammatico-passionali e mancava un cast valido ed organico di interpreti.

Martoglio si impegna alla realizzazione del progetto di una compagnia teatrale con un repertorio che superi i “drammoni patetico–sentimentali”, le “farse” e i semplici canovacci, puntando alla collaborazione con gli scrittori isolani di maggior prestigio. In una intervista rilasciata nel 1906 Martoglio afferma :

“Io voglio rispecchiare, con la dovizia che ho di lavori paesani dei più illustri scrittori nostri, tutte le facce del brillante poliedro che è l’anima popolare della nostra gente, e nelle diverse classi, e in tutte le gradazioni sociali, soffermandomi d’avvantaggio su tutto quanto vi è in Sicilia di più caratteristico, colorito e mite insieme. Con ciò non è detto che non avrò anch’io dei drammi passionali e violenti, ma essi non saranno il fulcro del mio repertorio. Questo sarà, invece, rappresentato da lavori pieni di freschezza e di poesia, pur essendo vivi ed interessanti […]. Ho molti lavori che vado raccogliendo da tre anni a questa parte, pel mio scopo, ne ho di scrittori illustri e darò certe primizie che solleveranno a rumore il campo letterario e teatrale”.

Intanto già tre anni prima di questa intervista (1903) era nata la “Compagnia Drammatica Dialettale Siciliana” i cui componenti erano, tra gli altri, Giovanni Grasso, Angelo Musco, Marinella Bragaglia e Totò Majorana. Gli stessi che nel 1902 erano stati oggetto di una critica positiva da parte di Stanis Manca in occasione di alcune recite di beneficenza al teatro Argentina, in cui per la prima volta il teatro siciliano si impone all’attenzione nazionale.

E’ in seguito a queste iniziative culturali e teatrali che Pirandello decide di collaborare con Martoglio, accogliendo le sue sollecitazioni a comporre opere per la Compagnia Siciliana di teatro.

Nel 1910 Pirandello dà a Martoglio due atti unici, La morsa e Lumìe di Sicilia; quest’ultimo verrà ripreso da Musco nel luglio del 1915 e sarà la sua prima interpretazione pirandelliana.

A spingere Musco verso Pirandello, con la mediazione di Nino Martoglio (che fu lo scopritore dell’attore catanese), fu la necessità di arricchire il proprio repertorio con lavori di autori siciliani significativi evitando testi stranieri spesso tradotti alla meglio. Ma tale incontro non fu dettato solo da motivi di repertorio. Infatti, la personalità artistica di Musco non era riducibile ad un modello di attore dialettale comico specializzato in determinate caratterizzazioni farsesche, dato che “la sua attività, i suoi contatti culturali e infine il suo stile interpretativo raggiunsero una dimensione nazionale e sovranazionale che lo sollecitarono ad aprirsi ad un teatro più complesso. E lo stesso Pirandello, del resto, scrisse le sue opere dialettali più mature pensando ad un attore come Musco di cui aveva intuito potenzialità attoriali adatte ai suoi personaggi.

Nell’incontro Musco-Pirandello va sottolineato un passaggio da parte di entrambi. L’attore catanese, divenuto ormai capocomico si diversifica dalle gestioni delle compagnie teatrali precedenti sia aprendosi a prospettive nazionali sia accentuando un rapporto “imprenditoriale” con gli autori che gli permetta di crearsi un repertorio adatto a sé e ai suoi compagni. Pirandello da parte sua da autore entra sempre più in un ruolo registico imprenditoriale che prima non aveva.

Quindi la svolta vera e propria del teatro pirandelliano va individuata nel 1916, data nella quale si realizza la produzione dialettale più significativa.

Di quest’anno sono Pensaci Giacuminu, ‘ A Birritta cu’i ciancianeddi, Liolà e ‘A giarra, tutti interpretati dallo stesso Musco.

Si può dire che Pirandello dal 1916 in poi è definitivamente inserito nei rapporti produttivi del teatro, delle compagnie e dei primi attori. In altre parole Pirandello si è, ormai, incontrato con la scena vera e propria.

Una delle opere in cui è particolarmente evidente l’incontro di Pirandello con il mondo e gli uomini di teatro è il Berretto a sonagli. Opera complessa e significativa nel panorama teatrale pirandelliano permette una lettura che è possibile fare a più livelli. La sua stessa travagliata genesi sia compositiva che scenica ne fanno un lavoro particolarmente indicativo del rapporto multiforme e spesso contraddittorio di Pirandello con il teatro.

Il Berretto a sonagli si configura come un’importante laboratorio linguistico e scenico. Le sue stesse varianti testimoniano una serie di operazioni che Pirandello svolse a più riprese avendo come obiettivo una resa sulla scena di maggior sintesi ed efficacia. Ne è prova l’alleggerimento della struttura linguistica del testo ancora troppo letterario e l’attenzione che mostra verso gli aspetti più concreti del fare teatro come i costumi, la scenografia e lo stile recitativo.

La Birritta cu’ i ciancianeddi si caratterizza pertanto per un accurato ed insistente lavoro di correzione e di rielaborazione che ne fanno una delle più riuscite esperienze del teatro siciliano.

Lezione IMUSCO E GLI INTERPRETI DIALETTALI DE IL BERRETTO A SONAGLI

Angelo Musco interprete de Il berretto a sonagli

La decisione di dedicare un capitolo a Musco e agli attori dialettali siciliani, in rapporto a Pirandello, nasce dalla consapevolezza che le opere dialettali pirandelliane maturano come lavori in cui l’interprete gioca un ruolo significativo. Del resto, è nella cultura stessa degli attori dialettali e primi interpreti pirandelliani, rivendicare un proprio spazio elaborativo teatrale e scenico che incide fortemente sull’opera stessa. Musco, in una lettera così condensava i suoi canoni interpretativi :

“Quando mi portano un lavoro, mi portano una stoffa. Sono io che ci faccio un abito per me. Tornasse dall’altro mondo a portarmi uno scampolo la buon’anima di Giovanni Verga, io lo ritaglio, lo cucio, ci faccio il bavero, le tasche e le maniche, me lo infilo, e ci metto il fiore all’occhiello: ecco !”.

Il berretto a sonagli - Messinscena
Angelo Musco, 1934

Ma, oltre al fatto che Musco è stato uno dei primi interpreti pirandelliani, vi è anche un’altra e più profonda motivazione che lo distingue dagli altri attori siciliani. Egli, infatti, concentrò in sé dei caratteri che sono riscontrabili solo nei grandi attori, i quali sono in grado di costruire un modello di recitazione libero da localismi e stereotipi. Ma quali furono i modelli recitativi assorbiti da Angelo Musco, o meglio che cosa gli forniva la tradizione teatrale siciliana precedente?

Angelo Musco nasce a Catania in un quartiere popolare il 18 dicembre 1871.Sono anni in cui la città etnea si presenta come un importante centro culturale, in cui Musco si sperimenta nello stesso tempo come manovratore di marionette, canzonettista, dicitore, macchinista, buffo, amoroso, generico e ballerino.

Le due linee portanti della sua formazione attoriale furono il teatro di varietà da una parte, e il teatro naturalista siciliano che nello stile di Giovanni Grasso trovava il suo interprete emblematico. Musco riallacciandosi in maniera non del tutto consapevole alla grande tradizione comica della commedia dell’arte, coglie dal varietà la possibilità di crearsi un carattere e un tipo personali, cioè un embrione drammaturgico d’attore “come prassi fattiva di fare teatro” capace di unire realtà e astrazione, individualità e spersonalizzazione. E’ proprio la sua esperienza di attore di varietà a consentirgli di avvicinarsi ad un teatro italiano ed europeo più complesso, come fu per esempio quello di Pirandello.

La sua cultura di siciliano o la tradizione naturalista che in Sicilia tendeva ad enfatizzare l’aspetto farsesco e patetico non sarebbero state sufficienti a promuovere un tale incontro.

Fu invece la complessità della strumentazione attoriale fornitagli dal varietà a permettergli di interpretare il teatro e la multiforme realtà dei personaggi pirandelliani e in particolare il protagonista del Berretto a sonagli.

Il loro rapporto, tuttavia, non fu senza contrasti. Riguardo all’allestimento del Berretto, Pirandello, benché avesse dichiarato di accogliere tagli e modifiche, gradualmente, assunse un ruolo di tipo registico, indicando, nel dettaglio, aspetti precisi della messa in scena e apportando nuovi tocchi alla caratterizzazione del protagonista:

“Mi raccomando poi per la truccatura di Musco. Parrucca con zazzera e fiaccagote (corciolani) basette usu mulinciani… Gesti, andatura, modo di parlare pazzeschi”

D’altra parte, Musco suggeriva tagli e modifiche al testo giudicato troppo “prolisso” e incompatibile con la sua arte recitativa che richiedeva uno spazio personale di invenzione scenica. Martoglio stesso informava Pirandello di difficoltà insuperabili nel dialogo, costringendoli a interrompere le prove.

Nella risposta di Pirandello a Martoglio riguardante la smontatura di Musco e di tutta la compagnia è evidente la sua fatica di far comprendere all’attore la sua particolare concezione del fare teatro :

“Se manca in essa [la commedia] quello SPIRITO ANIMATORE che deve sostener la parte e le parti, sicuro che non vi resta altro che una sovrabbondanza di parole e parole e parole! Le parole bisogna animarle perché vivano; ed è l’anima che è mancata al Musco e agli altri. Mancando l’anima si son trovati in bocca l’imbroglio di discorsi lunghi, incisi, da portare alla fine senza saper come!”

Ciò che a Pirandello interessava comunicare era un concezione del dialogo teatrale “non fatto mai di parole, ma di mosse d’anima”. Musco da parte sua scriveva a Martoglio:

“Io non ho mai detto che ’A Birritta cu’ e cianciani abbia delle scene o dei discorsi che non vanno, anzi io per primo ho detto : che è un capolavoro, come sono opere d’arte tutte quelle di Pirandello , ma ‘A birritta purtroppo bisogna tagliare, e per me, è un gran dispiacere perchè sono tutte belle parole ed è interessante; insomma tutta roba buona ma la commedia dev’essere scaricata e deve essere scaricata dallo stesso autore perchè a me fa pena tagliare”.

E’ evidente che la concezione dell’attore da parte di Pirandello non coincideva completamente con l’interpretazione e l’idea di attore di Angelo Musco.

Martoglio si trovò, dunque, a dover mediare tra due personalità complesse e molte diverse tra loro.

Il maestro siciliano, ebbe nei confronti del teatro il dubbio di fondo di non riuscire ad esprimere l’intera pienezza delle sue creazioni, coinvolgendo in questo atteggiamento di riflessione critica, anche la figura dell’attore, chiamato in prima persona ad materializzare l’ispirazione originaria e più genuina del personaggio.

Per Pirandello, comunque, l’identificazione completa attore-personaggio risulterà impossibile.

Questa sua problematicità verso il teatro in genere, si acuiva nei confronti di quello dialettale. Quest’ultimo, infatti, gli pareva troppo legato ad un contesto culturale e linguistico, che impediva un livello di comprensione e di comunicazione più ampio. Tuttavia, Pirandello giustificava il ricorso al dialetto, riconoscendogli, addirittura, dignità artistica quando la natura dei sentimenti dei personaggi è: “talmente radicata nella propria terra, di cui egli si fa voce, che gli parrebbe disadatto o incoerente un altro mezzo di comunicazione che non fosse l’espressione dialettale”.

La tensione tra attore e personaggio è molto ben espressa nella poetica presente nell’operaSei personaggi in cerca di autore, in cui è evidente l’incomprensione e l’inadeguatezza degli Attori ad esprimere il desiderio di vita dei Personaggi.

E’ proprio in questo sforzo di comunicazione profonda tra creazione artistica ed interpretazione attorica che Pirandello propone l’Autore, cioè se stesso, come l’intermediario, come colui che si relaziona anche alle realtà concrete della scena con gli stessi processi mentali dello scrittore.

Cosicchè la presenza sulla scena dell’autore Pirandello si giustifica nell’intima esigenza di rendere la rappresentazione teatrale il più intimamente rispondente ai personaggi, così come la sua intuizione creativa li aveva connotati.

Ciò fu particolarmente evidente nel suo concreto modo di lavorare con gli attori durante il successivo periodo del Teatro d’Arte.E comunque, sin dal rapporto con Angelo Musco, la sua peculiare esigenza di autore si fece presente nei frequenti interventi, sia per lettera che alle prove, sul modo di intendere il personaggio di Ciampa.

L’attore siciliano sentiva la commedia non del tutto adatta a sé. Soprattutto le lunghe battute filosofico-buffonesche che pronuncia Ciampa nel primo atto e che sono alla base di questo personaggio creavano un certa perplessità in Musco.

Ciampa era un personaggio che portava in teatro il mondo tematico pirandelliano e a Musco era difficile adattarsi, nonostante i parziali successi. Doveva ogni volta confrontarsi con un “senso della misura” e con uno sforzo di scavo interiore, richiesti dalla compresenza nel personaggio di diversi stati d’animo, che richiedevano uno studio preliminare, prassi quest’ultima, certamente, non alla base del modo di “costruirsi la parte” di Musco.

Poi c’era da tener presente il rapporto con il pubblico che si aspettava da Musco rappresentazioni di un certo tipo. A Martoglio e a Musco, il personaggio di Ciampa sembrava artificioso. Le preferenze dell’attore catanese andavano verso personaggi stereotipati, verso immagini convenzionali dei caratteri teatrali siciliani adatti alla recitazione farsesca e satirica. Ciampa invece si sottraeva a tali stereotipi per la non convenzionalità del suo atteggiamento verso il matrimonio e le donne, per la scelta di non ricorrere alla violenza, soprattutto per il suo filosofeggiare sugli uomini e i comportamenti.

A Pirandello, da parte sua, Il Berretto a sonagli appariva come opera riuscita non solo poeticamente ma anche drammaturgicamente :

“Possibile che io con il mio senso del teatro, con il mio senso di misura, mi sia ingannato, smarrito, perduto nello scrivere una commedia, non costruitaaffannosamente e non faticosamente, ma venuta di getto in meno di sette giorni: nata e non fatta”.

Si può dire con Alessandro D’Amico che:

“le incertezze e i continui rinvii a proposito della Birritta rivelano ancora una volta il dilemma tra Musco interprete e Musco farsante e i condizionamenti provenienti dal pubblico e dai proprietari di teatro”.

Le incertezze e i rinvii furono il preludio della rottura fra Musco e Pirandello, anche se, alla fine, la Birritta andò in scena, il 27 giugno del 1917.

Pirandello, riguardo al buon esito dell’opera puntava molto sull’interpretazione di Musco e soprattutto per il finale del secondo atto gli raccomandava, tramite Martoglio

“una comicità indiavolata, come la situazione gliene offre il destro. Se questo finale, che è veramente di voltata e del tutto imprevisto, ha il suo pieno effetto, potrà darsi che, contro ogni nostra previsione, il lavoro attacchi. Tutto sta che Musco trovi subito la linea grottesca del tipo che è veramente caratteristico, e, nel suo fondo, arcipieno di tragica umanità”.

Le preoccupazioni di Pirandello sull’effettivo successo dell’opera si rivelarono ben presto esatte dal momento che Il Berretto a sonagli non ebbe all’inizio una risonanza quale l’opera meritava e le recensioni, spesso anonime sottolinearono soprattutto la bravura di Musco generalmente presentato come il salvatore della serata. Anche se Pirandello, scrivendo al figlio prigioniero in guerra, dice:

“L’altra sera, intanto, Musco ha dato con clamoroso successo qua al Nazionale un’altra mia commedia Il berretto a sonagli e darà tra poco anche La giara in un atto, tratta dalla novella omonima”.

Il giudizio quasi unanime della critica, in seguito alla prima del Berretto a sonagli fu dunque l’apprezzamento dell’interpretazione di Musco, anche se non mancarono perplessità sulla struttura di fondo dell’opera. Mario Corsi in un articolo della Tribuna del 29 giugno 1917 scrive:

“Il pubblico a più riprese ne rimase sbalestrato, non riuscendo sempre a collegare i fatti con le idee ed a seguire l’autore nel labirinto delle sue astrazioni filosofiche: ma poi la vivace sottile arguzia di certi ragionamenti, e soprattutto la irresistibile comicità e forza drammatica di Angelo Musco finivano per riprenderlo”.

Eugenio Checchi da parte sua affermava che

“il ragionamento, incespica alquanto; ma è svolto con tanta arguta sottigliezza, con immagini così piacevolmente paradossali e condite di tanto umorismo, di quell’umorismo in cui Luigi Pirandello è maestro, che il pubblico casca nella rete […] Di quelli applausi una parte andava di diritto ad Angelo Musco che seppe fondere insieme, con bella efficacia, il comico ed il drammatico del complesso e un pò ingarbugliato carattere del protagonista. Ebbe anche lui un successo grandissimo”.

Il Vice del “Messaggero” confermava il successo di Musco che

“l’ha interpretata [la figura di Don Nociu] con efficacia grandissima. Assai ben truccato l’attore impareggiabile ha trovato e reso felicemente spunti gustosissimi di comicità al prim’atto; e con versatilità impressionante ha colorito l’angoscia estrema del marito tradito al second’atto”.

Da questi giudizi risulta chiaro che la fortuna dell’opera sin dall’inizio fu legata al suo primo e importante interprete Angelo Musco che la conservò nel suo repertorio fino alla morte.

Concludendo, si possono esaminare alcuni interessanti giudizi sull’arte recitativa di Musco, “che appare con tutte le disegualianze e le impulsività di un uomo ricco di vita interiore che in ogni interpretazione erompe selvaggiamente in manifestazioni di una plasticità sorprendente”. La sua arte sta proprio nell’avere innestato “sul vecchio tronco della mimica grottesca un ramo della mimica tragica” sicchè “con la stessa ebbra cecità con la quale si abbandonava all’estro comico poteva affondare nell’angoscia e disperazione” o per dirla con Silvio D’Amico “quando, umorista vero, attraverso le note della farsa, egli attinge la tragedia, il pubblico grosso può ben continuare a ridere: l’intelligenza trema”.

Gli altri interpreti de Il berretto a sonagli

Giovanni Grasso, anni Venti
Giovanni Grasso, anni Venti

Le sue caratterizzazioni pittoresche riflettevano gli aspetti più accesi e truculenti della vita siciliana. Il suo stile ed il suo repertorio si inserivano in una stagione del teatro dialettale isolano che affondava le sue radici nella tradizione dei drammi patetico-sentimentali, sulla presenza di canovacci a cui mancava una approfondita ed organica rifinitura scenica e drammatica.

Sarà Martoglio a cercare di inserire Grasso all’interno di un programma culturale di riordino del teatro siciliano alla cui notorietà in ambito nazionale e sovranazionale poco si accordava una certa qual “arte primitiva” di Grasso. Martoglio infatti parlando di Grasso affermava:

“Il suo specchio è la natura. Ecco spiegato il fenomeno. Egli studia, analizza e assimila meravigliosamente: ha una grande potenza d’intuito e uno spirito d’imitazione straordinario”

riconoscendo il suo grande talento ma al tempo stesso intuendo la necessità di un cammino verso una più organica e disciplinata formazione attoriale. Fatto sta che l’incontro di Grasso con l’opera di Pirandello si verifica nel 1919 proprio come interprete del Berretto a sonagli.. Ma se l’incontro Musco-Pirandello, come abbiamo già detto, non fu improduttivo, sebbene non privo di contraddizioni, quello dell’autore agrigentino con Grasso fu senz’altro episodico. Il pathos ed una certa arte primitiva e poco controllata allontanavano l’attore dall’arte “riflessiva” di Pirandello. Alla richiesta di Grasso di sfoltire nel Berretto a sonagli, le scene in cui non compariva il protagonista, Pirandello rispondeva negativamente.

“Le osservazioni di Grasso” -scrisse Pirandello a Martoglio- “se possono avere qualche valore, riguardo al suo temperamento artistico a cui si confanno più gli atti che le parole, mi pare che non ne abbiano nessuno riguardo al lavoro stesso, come opera d’arte. Non mi pare affatto che ci siano lungaggini. L’azione e i discorsi degli altri personaggi son tutti necessari, come quelli del protagonista”.

E più in là nella lettera definisce la propria “un’arte riflessiva”, poco interpretabile dal “temperamento” di Grasso considerato “troppo primitivo e bestiale”. Il forte legame di Grasso con un repertorio precostituito fatto spesso di drammi tratti direttamente dalla cronaca locale, oppure di opere storiche della drammaturgia siciliana ormai datate come I Mafiusi di la Vicaria di Palermo, di Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto e La zolfara di Giuseppe Giusti Sinopoli, gli rendevano difficile l’adesione ad un teatro più controllato e complesso quale era quello che gli proponeva Pirandello. La rappresentazione del Berretto a sonagli di Giovanni Grasso andò in scena a Napoli il 4 aprile 1919 e a Roma il 27 novembre di quello stesso anno. L’ultima ripresa, all’Eliseo di Roma risale al 1930. A quest’ultima rappresentazione si riferiva Silvio D’Amico considerandola

“una sua rauca ma, nella scena finale, orgiastica rappresentazione del Berretto a sonagli”.

Le precedenti rappresentazioni ottennero un notevole successo, tra i giudizi critici più interessanti ricordiamo quello di Saverio Procida che così affermava:

“Il Grasso fu iersera attore portentoso, d’una immediatezza di trasmissione che lo rende partecipe del gran successo, poiché di quel tipo [don Nociu], per due ore, visse e fece vivere il pubblico”.

Sulla scia di Grasso senior si può collocare il cugino minore Giovanni Grasso junior che si innestò sulla stessa tradizione interpretativa del primo dalla cui imitazione non si seppe del tutto sottrarre, pur mostrando un proprio talento naturale improntato a passionalità e sensilità artistica. Anche lui fu interprete del Berretto a sonagli di Luigi Pirandello, riscuotendo favorevoli giudizi come dimostrano queste recensioni:

“il Grasso junior ha un temperamento diverso da quello del Grasso senior; “vigoroso” ma non “impetuoso” negli eccessi di quel “calore siciliano” ch’egli, invece, sa utilizzare in una recitazione molto moderna di una naturalezza semplice e spontanea. Studia il suo personaggio con amore, lo sa penetrare con sottile acume psicologico e sa comporre il tipo con evidenza impeccabile. Ed appunto nelle commedie di carattere, come in genere Berretto a sonagli, la sua interpretazione può meglio eccellere”.

Un altro interprete significativo della schiera dei “siciliani” fu Tommaso Marcellini anch’egli partecipe della generazione degli attori che fondarono, con Martoglio, il teatro siciliano: fu primo attore nella terza “Compagnia Drammatica Dialettale Siciliana” del 19 luglio 1941. La sua interpretazione del Berretto a sonagli si caratterizzò per un suo stile personale che lo distinsero dalla “caratteristica impetuosità del Grasso senior e dalla magnifica buffoneria di Musco”, riuscendo ad imprimere nella figura del protagonista, come sottolinea Silvio d’Amico, “un’arte abbastanza personale, fatta di delicatezze e di sfumature rassegnate, piuttosto che di strazio urlante come quella di Giovanni Grasso, o di grottesco come usa Musco”.

Concludendo si può affermare che la stagione dialettale siciliana del Berretto a sonagli fu attraversata dai maggiori interpreti di quella tradizione teatrale, rinnovata e orientata verso orizzonti nazionali da Nino Martoglio. Questa esperienza incise profondamente nella fortuna e nella storia della Birritta che, dal 1918 al 1925 attraverso tre riedizioni successive, era intanto giunta alla sua attuale e per certi aspetti definitiva versione in lingua.

Lezione IISALVO RANDONE INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI

La carriera artistica di Salvo Randone

Salvo Randone, 1924
Salvo Randone, 1924

Salvo Randone in sessant’anni di carriera interpretò Il Berretto a sonagli di Pirandello una sola volta, e nemmeno in teatro, ma negli studi televisivi della Rai .

L’interpretazione di Randone, nel ruolo di Ciampa, del Berretto a sonagli di Pirandello, si verificò negli studi della RAI di Roma il 25 settembre del 1970, per la regia di Edmo Fenoglio. Gli altri interpreti furono: Anita Laurenzi (Beatrice Fiorica), Wanda Capodaglio (Assunta La Bella), Stefano Satta Flores (Fifì La Bella), Silvio Spaccesi (Il Delegato Spanò), Elsa Merlini (La Saracena), Italia Marchesini (Fana), Olimpia Carlisi (Nina Ciampa). Scene di Lucio Lucentini, luci di Guido Caracciolo, costumi di Vera Marzot, assistente alla regia: Olga Bevacqua, assistente di studio: Piero Bartocci e arredamento di Alberico Badaloni.

Il suo incontro, dunque, con questa opera nacque in un contesto particolare e sebbene episodico, per quel che può significare questo termine per un attore come Randone che fu interprete pirandelliano per eccellenza, fu un incontro importante.

L’originalità, quindi, del contesto nel quale nacque l’incontro di Randone con il Berretto a sonagli, ne determinò alcune caratteristiche. Del resto la mancanza del pubblico, che non influì direttamente sulla messa in scena, mentre, viceversa la presenza delle telecamere, l’uso delle luci, i primi piani, diedero a questa interpretazione del Berretto a sonagli una peculiarità evidente. Inoltre l’assenza di una rappresentazione esclusivamente teatrale e la mancanza di repliche ne hanno condizionato la risonanza di critica e di pubblico, determinando il vuoto pressoché totale di recensioni e di documenti.

Ma nonostante ciò, l’interpretazione del Berretto a sonagli di Randone si configura come un documento interessante della vitalità artistica di quest’opera, considerando che tutta la “consapevolezza pirandelliana” dell’attore siciliano confluì in questa interpretazione, tanto che per parlare di essa è necessario parlare di Randone interprete pirandelliano tout court. Non fu, dunque, per caso che Randone scelse di recitare nel Berretto a sonagli.

Quest’opera si prestava ad esprimere un suo peculiare mondo interiore, che in lui diventava metodo di vita e di lavoro. Salvo Randone, infatti, apparteneva chiaramente alla categoria di attori che avevano fatto del teatro non il luogo della rappresentazione, ma un luogo di autenticità in cui arte e vita erano chiamate ad arricchirsi e a sostanziarsi a vicenda.

Più che recitare, Randone amava vivere sul palcoscenico la storia dei suoi protagonisti, non con il metodo dell’immedesimazione, ma con quello dell’approfondimento, grazie al quale tutto ciò che caratterizzava le inquietudini e le crisi dei personaggi emergeva con i tempi ed i modi della quotidianità e non con quelli della rappresentazione.

“Scelto un personaggio, Randone se ne appropriava, gli infondeva i suoi umori, le dolcezze, gli isterismi, la verità, la dialettica, certe illuminanti interiorità che insieme, diventavano il suo modo di essere sulla scena, che favoriscono i toni, le note diverse, le pause lunghe e, a volte, disperate, immense; le smorfie, l’ironia, il distacco che arricchiscono il personaggio di tutte quelle tenerezze o scontrosità, indolenze o scontentezze, scetticismi o pigrizia, dubbi o sfiducia; di tutte quelle ambiguità che lo rendevano uomo tra uomini e, per questo, vicino a un pubblico che, vien giù dal palcoscenico quando Randone vi presta la sua arte”.

Il repertorio di Randone può essere diviso in tre categorie: i classici greci, i classici europei, la drammaturgia contemporanea straniera e quella italiana. Il suo, dunque, si presentava come un repertorio in cui poté esprimere la sua doppia natura di attore: quella classica e quella moderna, fino alla creazione di uno stile personale che lo preservò da facili adesioni ad esperienze artistiche che non lo coinvolgevano, tanto che Andrea Bisicchia afferma:

“Randone non si accorge né della riforma apportata dalla regia, né dello scoppio delle Avanguardie verso la fine degli anni sessanta. Per lui non esistono termini come: “laboratorio”, “training”; quelli privilegiati erano ancora: carisma, garanzia, mestiere”. 

Ciò che emerge dalla recitazione di Randone è uno stile personale che l’attore siciliano volle salvaguardare anche di fronte ad esperienze teatrali che, pur vantaggiose dal punto di vista economico e della sicurezza, gli si presentavano come non del tutto confacenti alla sua persona. Emblematico fu il suo rapporto con il Piccolo di Milano diretto da Strehler. A questo proposito Randone dice:

“…Sì perché i Teatri Stabili che questi signori amministrano, sono tutti abbondantemente finanziati dallo Stato, e cioè da tutti noi, con le nostre tasse. Lì, nessuno rischia nulla. Se il teatro resta vuoto, che importa? C’è lo Stato che paga. Importante per loro è fare cultura. Si riempiono tutti la bocca, di questa parola così grossa e arcana: uomini politici, direttori artistici, registi; pure gli attori, che oggi sono tutti colti, impegnati anche loro a fare cultura e sempre meno a fare teatro, quello vero, che la gente vorrebbe vedere. Lo facciamo noi, il teatro che la gente si ostina ancora a volere vedere: noi MODESTI ARTIGIANI DEL TEATRO, senza i soldi dello Stato, rischiando e pagando spesso di persona” .

Ed ancora, parlando direttamente di Strehler e del suo rapporto con il “moderno” modo di concepire la regia, Randone afferma:

“Di Strehler ho avuto ed ho grande stima. Abbiamo fatto insieme ottime cose, grazie  anche alla sua  intelligenza, sensibilità, cultura… . Poi è diventato un divo, e tutto è cambiato nei nostri rapporti. Quelli che non mi vanno, nello Strehler di oggi, sono i suoi metodi di lavoro. Tutti marionette nelle sue mani come con Fellini  nel cinema, statue  senz’anime; e lui, il grande “mattatore”, che strilla, gigioneggia, modella o cerca di modellare attori e personaggi come fossero creta. Le prove, per lui, sono anzitutto una grande esibizione personale… . Per me, la prima grande virtù di un uomo di spettacolo attore o regista che sia, è l’umiltà. Il divismo può andar bene per il cinema, non per il teatro. Ma se un mattatore deve esserci anche in teatro, dico io, è giusto che sia l’attore, non il regista: è lui che rischia di persona, nel confronto diretto con il pubblico,  sera per sera, non chi sta dietro le quinte; è lui che dà l’anima, se ce l’ha, se non  gliel’hanno tolta. O vorrebbe togliermi anche l’anima, il grande regista Strehler?”

Insomma Randone mostra una certa paura di essere “ingabbiato”. Più che la dipendenza da scuole, l’attore nella sua arte del dire, immetteva un lavoro capillare di studio lessicale e linguistico, con la volontà di “umanizzare” tutto, inserendo nella recitazione l’autenticità della vita.

L’arte di Randone e la resa interpretativa dei personaggi era caratterizzata da uno studio anche linguistico molto minuzioso. Non esitava a consultare lessici e dizionari sul significato di un termine o di un concetto e quando studiava, non giungeva mai direttamente al processo mnemonico, ma si creava uno spazio proprio per l’analisi del testo suddividendolo per brani. Sempre riguardo al testo, prima di esaminarne tutte le possibili accezioni, ne sviscerava la composizione letterale e quindi fonica. Aggettivi, sostantivi e verbi erano studiati sin nelle minime sfumature attraverso una riscrittura cadenzata da pause e dal ritmo del respiro.

Randone e Pirandello

Questo lavoro di approfondimento e di rifinitura si accordava splendidamente con il teatro di Pirandello che rompeva con le tradizioni e gli schemi della commedia borghese, scavando nell’animo umano, “facendo discutere e arrabbiare”. Randone parlando di Pirandello diceva:

“[…]Io non mi considero affatto il depositario del Verbo pirandelliano. E’ un autore che sento particolarmente, e non soltanto per una questione di corregionalità”. 

Randone aveva avuto il primo approccio con il teatro di Pirandello nel 1938-39: Vestire gli ignudi, con la compagnia Tòfano-Maltagliati e L’uomo la bestia e la virtù con quella di Cominetti.

Nel 1947, affrontò il teatro di Pirandello con una compagnia propria in Sicilia. Due le commedie scelte: Il piacere dell’onestà ed Enrico IV, entrambe con la regia di Stefano Landi (figlio di Pirandello), opere che l’attore conservò in repertorio fino alla fine della sua carriera teatrale.

Randone, sin dall’inizio dovette confrontarsi con la già lunga tradizione interpretativa pirandelliana, di cui i due maestri furono Ruggeri e Picasso. L’attore siciliano, fin da giovanissimo aveva avuto modo di lavorare con entrambi, dichiarando in seguito di avere individuato nel primo il proprio maestro.

Randone, comunque, mostrò subito di avere un suo particolare modo di ” leggere e interpretare Pirandello”, che pur rifacendosi alla tradizione di Ruggeri, venne segnalato dalla critica come autonomo e originale.

L’impostazione generale che l’attore siracusano diede del personaggio di Enrico IV, si perfezionò attraverso lo studio e le progressive riprese affinandolo, e modificando anche alla luce della propria biografia alcuni tratti per accentuarne altri.

Alcuni pareri critici sottolineano la “sicilianità” del personaggio dell’attore, cogliendo nella conterraneità tra autore e attore quegli elementi affini che hanno fatto di Randone il più grande interprete del finto imperatore, dopo Ruggeri e forse, addirittura più di quest’ultimo. A questo proposito dice Massimo Dursi:

“Anche Salvo Randone  è siciliano e forse o certo per questo ci pare tanto evidente ora la spontaneità del conflitto pirandelliano liberato dall’ultimo sospetto di sofisma. Sofferenza e sete di vivere:  è la semplice radice, la comune origine dei personaggi di questo teatro. Cercano di ingannarsi per sottrarsi a tale bramosia che giunge agli estremi insostenibili, confinanti con la morte: la luttuosa voluttà di vita della Sicilia”.

Ma soprattutto la caratteristica comune riscontrabile negli allestimenti dell’Enrico IV ed in generale in tutti gli allestimenti pirandelliani dell’attore, è la centralità dell’interprete. Infatti le testimonianze su questi spettacoli teatrali si focalizzano quasi sempre sull’interpretazione di Randone.

L’incontro Randone Pirandello fu a tal punto felice che coinvolse l’attore anche in una serie di registrazioni televisive tra cui le preferite, Il piacere dell’onestà, e l’Enrico IV, e poi Tutto per bene ed il Berretto a sonagli, oltre ad un “memorabile” Re Lear di Shakespeare, allestito espressamente per la televisione e trasmesso in diretta.

Il berretto a sonagli televisivo di Salvo Randone 

Salvo Randone – Il berretto a sonagli – RAI, 1970

Il Berretto a sonagli fu dunque interpretato da Salvo Randone per la televisione nel 1970.

L’attore siciliano immise nel personaggio di Ciampa la sua arte recitativa fatta di uno stile essenziale, dimesso, lucidamente ironico, umano quasi quotidiano, svelante dei moti più ambigui e profondi dell’animo umano.

Con il Martino Lori, protagonista di Tutto per bene, il Ciampa di Randone ha in comune la stessa disperata condizione dell’umiliato, che però vela un nascosto ribollire interiore, che si intravede nei dimessi, ma ben scanditi riferimenti alla sua condizione di scrivano dipendente, nella spietata ma lucida, grottesca risata che lo salverà alla fine della tragedia.

Ciampa umiliato e consapevole sa che la moglie lo tradisce con il principale ma sceglie il silenzio. A Ciampa basta che la moglie del principale accetti di andare in manicomio perché tutti sappiano che la sua denuncia è stata solo un gesto di follia. Follia che sin dall’inizio della ripresa si configura come un elemento chiave della figura di Beatrice che in questa interpretazione appare particolarmente mossa, franta nei movimenti interiori ed esteriori.

Interessante appare la regia televisiva di quest’opera. Essa si colloca in una stagione caratterizzata da molti esperimenti di avanguardia che aprono nuove forme di collaborazione tra televisione e teatro.

In questa versione, possiamo individuare alcune caratteristiche specifiche, che appaiono con maggiore evidenza, soprattutto se confrontate con le altre due versioni televisive del Berretto a sonagli interpretate da Eduardo e Paolo Stoppa.

Innanzitutto è esplicito l’uso del mezzo televisivo. Il regista Edmo Fenoglio ne sottolinea il carattere, iniziando il video dallo studio di regia, facendosi inquadrare mentre dà varie indicazioni sulla inquadratura iniziale della prima scena.

Questa regia, inoltre, tende a sottolineare, con un gioco di luci, la figura di Ciampa, interpretata da Randone, soprattutto nei monologhi. Emblematico è quello dei pupi e delle tre corde, nel quale la figura di Randone viene isolata ed evidenziata, con l’oscuramento della scena circostante ed una illuminazione localizzata sul viso dell’attore.

Appare, inoltre, particolarmente interessante il movimento della telecamera attorno alla figura di Randone nella parte più sofferta del monologo finale.

Inoltre Fenoglio attraverso movimenti particolari della telecamera ed una gamma studiata di inquadrature con più stacchi, che seguono non solo l’alternarsi del dialogo, ma anche gli stati emotivi, ha impresso uno stile personale alla registrazione.

Da sottolineare che la scenografia di Lucio Lucentini non esauriva all’interno del suo spazio l’azione degli attori e le inquadrature delle riprese. Queste ultime, infatti, inglobavano lo studio televisivo con tutti i suoi accessori, sottolineando il carattere metatestuale della messa in scena.

Ma è soprattutto l’interpretazione che Randone fa di Ciampa ad imprimere all’intero allestimento una determinata svolta interpretativa. Il Ciampa televisivo di Randone si presenta fin dalla suo apparire sulla scena, come un personaggio caratterizzato da una tensione inquietante. La domanda di fondo è: Ciampa è cosciente o no dell’adulterio della moglie? Randone nella sua interpretazione sembra dare una risposta molto netta: il suo Ciampa sa dell’adulterio.

Se Eduardo sfuma i sentimenti e lascia spazio all’incertezza, com’è tipico di molti suoi personaggi, Randone lascia subito trasparire l’allusività di chi sa, l’inquietudine, il ribollire interno per la tragica situazione coniugale.

Ma nel Ciampa di Randone c’è anche una sottile rabbia per la sua condizione sociale di dipendente, di uomo soggetto ad un principale di cui deve subire anche la prepotenza dell’adulterio con la moglie, pertanto, vena di rabbia sottile, di ironia consapevole e amara, gesti ed espressioni, tempi e modi della recitazione.

Intorno a questa domanda, nella quale sembrano unificarsi il dramma personale e quello sociale di Ciampa, si crea, come sottofondo, una costante allusività dei dialoghi. Anzi, il tema dell’allusione è così evidentemente sottolineato da Randone, da costituire uno degli elementi che più caratterizzano questo video, rispetto agli altri due, facendo risaltare, anche, in modo peculiare, la fedeltà al testo pirandelliano. Come se il siciliano Randone, più di Eduardo e di Stoppa, fosse riuscito ad esprimere quel mondo del non detto, del non nominato, ma presente ed operante, che è parte integrante del mondo siciliano e pirandelliano. Tensione inquietante ed allusività, dunque, entrano nel Ciampa di Randone e ne caratterizzano l’interpretazione.

Ingresso di Ciampa 

Nella scena IV del I atto, Ciampa-Randone fa il suo ingresso. Sulla scena trova Beatrice e Fifì. Già nell’entrata dimostra di conoscere le dinamiche profonde dell’ambiente. Egli saluta Beatrice con tono basso e in modo scontato, i suoi movimenti appaiono calibrati, appesantiti, informali, si muove nella scena guardando altrove, senza rivolgersi direttamente, nel saluto riverente, a Beatrice, come se già avesse intuito ogni cosa, e dovesse pertanto “esporsi” al falso rito di un dialogo prevedibile. Ma fin dalla prima battuta che Beatrice rivolge a Ciampa, si comincia a creare nell’allusività dei riferimenti, una forte tensione.

Ed è proprio con l’accenno alla moglie di Ciampa, che cambia l’inquadratura televisiva, passando da un piano generale della scena, con i tre protagonisti, ad una angolazione più ristretta che riprende Beatrice (Anita Laurenzi), di fronte a Ciampa che si trova di spalle, in primo piano. A quelle parole Randone-Ciampa cambia repentinamente l’espressione, testimoniata soprattutto dal movimento del suo sguardo che, ora finalmente, si posa direttamente su Beatrice.

A questo punto, l’inquadratura avanza in primissimo piano verso la nuca di Randone, soffermandosi con un movimento laterale sul suo profilo. Ed ecco che si rivela sul suo viso il sospetto, i sottili movimenti degli occhi e della bocca assecondano ed esprimono il passaggio dall’iniziale sorriso formale, all’amara constatazione della situazione. Infatti alla fine della descrizione che Beatrice fa di “certe donne” vi è la doppia domanda di Ciampa: “Permette, signora? Lei ha nominato anche mia moglie?”.

Randone scandisce la battuta, con una pausa che sottolinea la piena comprensione dell’accusa che la moglie del principale gli rivolge allusivamente. Il sospetto di Ciampa, ormai diventa indagine e si trasforma nelle battute successive in avvertimento. Ciampa sa, ha capito la strategia di difesa di Beatrice, ed il Randone Ciampa, il siciliano Randone, carica le sue battute di una rabbia repressa, allusiva, minacciosa, quasi tempesta interna i cui echi trattenuti, ma non per questo meno violenti, diventano maschera nel suo volto accigliato. Siamo ormai nell’atmosfera tesa, inquietante del dialogo delle tre corde.

Monologo delle tre corde e dei pupi 

Questo monologo costituisce un momento centrale dell’intero allestimento. Esso ci dà il parametro interpretativo di come è stata organizzata la ripresa televisiva. Il monologo, infatti, inizia con l’inquadratura in primissimo piano del viso di Randone, illuminato da un solo faro, mentre l’ambiente circostante è oscurato.

Dall’inquadratura iniziale, gradualmente, durante il monologo, la telecamera si allontana, comprendendo anche Fifì e Beatrice, per poi riavvicinarsi con lo stesso movimento in profondità sul primo piano di Randone.

A questo punto, la sua recitazione, che è molto complessa, sembra concentrarsi in molteplici stati d’animo resi con grande abilità. In questo monologo l’espressività del viso di Randone si fa più marcata.

Soprattutto nella descrizione delle tre corde egli acquista un sorriso che diventa a tratti ghigno, in cui si rivela quell’ironia sapiente, tutta pirandelliana, di chi ha macerato a lungo una riflessione profonda e amaramente realistica sulla vita. E’ come se, il regista concentrandosi con la telecamera su Randone creasse una sottounità, in cui l’attore cambia la sua cifra interpretativa, passando da una dimensione di relazione con gli altri personaggi e più quotidiana, ad un Randone concentrato su se stesso, sulla riflessione filosofica, più concettuale e meno quotidiana. Il monologo dei pupi sia nel testo che nel video è analizzabile in due tempi.

Nella prima parte, Ciampa descrive ininterrottamente la teoria dei pupi e questa unità monologante, che verte su concetti più filosofici, è resa registicamente, con un altrettanto ininterrotto primo piano, dove la luce, questa volta, illumina obliquamente il viso di Randone, le cui fattezze così caratteristiche, acquistano, nel chiaroscuro, un rilievo maggiore.

Anche qui la recitazione di Randone appare particolarmente isolata ed avulsa dalla relazione con gli altri personaggi. Anzi Randone fissa direttamente la telecamera, astraendo ulteriormente il monologo.

Ed è qui che il regista decide di far parlare Randone direttamente con il pubblico, quasi a sottolineare che in questa parte il testo pirandelliano, con la sua dialettica filosofica, reclama uno spazio proprio, che la regia non gli nega, ma che anzi tende ad evidenziare.

Quella che emerge è una regia che non è funzionale solo all’attore ma rispetta anche le suddivisioni interne del testo di Pirandello e che Pirandello stesso ha, in origine affidati all’interpretazione dell’attore. Il regista di volta in volta si adegua all’attore Randone e all’autore Pirandello. Con particolari movimenti della telecamera, con stacchi netti da un’inquadratura all’altra, con un evidente gioco di luci tende a tagliare e a isolare lo spazio, evidenziando sia l’impalcatura razionale del testo pirandelliano, sia l’interpretazione dell’attore.

La seconda parte del discorso sui pupi è caratterizzata dalla dimostrazione che Ciampa fornisce a Beatrice sulla sua teoria. Anche qui la regia opera uno stacco passando, nel momento in cui Ciampa pronuncia la parola “esempio”, dal primo piano su Randone, ad un’inquadratura angolata e generale sulla scena con i tre protagonisti. La stessa recitazione di Randone cambia registro e riacquista toni apparentemente dimessi. Ma nel suo insieme la scena, nella sua funzione dimostrativa, acquista dei ritmi più veloci nel dialogo, assumendo, da una parte i toni dell’arringa, e dall’altra quelli della dimostrazione teorica.

Qui Randone, nel porre le domande a Beatrice, compie un movimento particolare attorno al divano centrale su cui siede la donna. L’attore nel compiere questa azione, fino a quando si ferma nei pressi di Beatrice, assomiglia ad un avvocato che pronuncia la requisitoria di fronte all’imputato.

Ed è proprio nella battuta finale sul “rispetto” che si deve conservare ad ogni costo di fronte alla società, che Randone, con il supporto della regia, mima il pupo che viene calpestato con il piede. In tal modo, l’attore esplicita la coscienza che ha dell’adulterio e delle accuse di Beatrice quindi, con un tono serio e minaccioso pronuncia quel “non so se mi sono spiegato”, che è quanto di più allusivo al pericolo, che non solo lui (Ciampa) corre, ma anche Beatrice.

Il dialogo delle tre corde ed il monologo dei pupi, appaiono dunque caratterizzati da una tensione, che in alcuni momenti, arriva a dare a questa parte del video, i tratti inquieti di un thriller psicologico.

Atto II, Scena V: il monologo finale 

Il Ciampa di Randone è l’uomo umiliato, non l’umile colpito dalla vita come il Ciampa di Eduardo. Il siciliano Randone sottolinea l’offesa del maschio subita per colpa di una donna che ha osato non tener conto dell’uomo. In Eduardo il dolore di Ciampa non è procurato dall’umiliazione del maschio offeso, quanto dalla sofferenza del tradimento, che diventa dolore, dolore solidale anche nei confronti della moglie del principale, Beatrice.

In Eduardo è l’umano, la persona a subire la lacerazione interiore, non l’orgoglio maschile. Rabbia, dunque, per l’offesa subita, ma rabbia tenuta costantemente a freno quella del Ciampa di Randone.

Il tono si mantiene dimesso, forzatamente basso, quasi cantinelante, ma all’improvviso diventa incalzante, senza pause, quasi ad indicare una urgenza del dire che è tutt’uno con l’amarezza del sentire, che non può più nascondere l’evidenza “del fatto”. Il momento più rivelante di questa rabbia amara è il lungo monologo del protagonista.

Esso arriva dopo che Ciampa, di ritorno da Palermo, è venuto a conoscenza dello scandalo suscitato dall’intervento della polizia in casa sua, nei confronti della moglie e del principale Fiorica. Nella tensione che permane tra Beatrice e Ciampa, dopo lo scandalo, vi è ormai un gioco scoperto che fa a meno dell’illusione. Ciampa Randone richiede finalmente alla coscienza di Beatrice la piena ammissione dei suoi sospetti circa la sua complicità con la moglie. A questa insistente richiesta del protagonista, Beatrice risponde con un tono di sfogo e di sfida: “è vero, sì”. Ed è a questo punto che inizia il monologo.

Dal punto di vista dell’interpretazione, Randone inizia a scandire le frasi con un tono dal timbro bassissimo, atono, in cui egli sfrutta la ritmicità interna al monologo, consistente nel susseguirsi di brevi frasi che descrivono la situazione coniugale di Ciampa, dando a questo un movimento in crescendo cantilenante.

Nel momento in cui Ciampa Randone parla del “supplizio” cui si è sottomesso (tutto il discorso è impostato ipoteticamente da Ciampa) la recitazione si fa più sofferta e dolorosa. Il timbro della voce muta, e segue i passaggi interiori degli stati d’animo, fino a quando, ed è questa la parte che nella interpretazione di Randone segna l’avvio della seconda parte del monologo, l’attore non torna a relazionarsi direttamente a Beatrice.

E’ interessante notare nella mimica facciale di Randone, per tutta questa prima parte, che egli tiene gli occhi fissi verso un’unica direzione, quasi a proiettare verso un punto esterno a sé la vergogna interna, mentre, ciò che muta è l’espressione che coinvolge la parte inferiore del viso che si rivela come maschera dolorosa.

La seconda parte del monologo offre per i suoi contenuti, una più variegata possibilità di registri espressivi. Ciampa compatisce la gelosia di Beatrice, descrive come si sarebbe dovuta svolgere la situazione, fa riferimento a suoi tentativi di convincerla ed infine, con sarcasmo si descrive soggetto al disprezzo generale.

Randone fa esplodere tutta la rabbia repressa, per l’intera commedia proprio in quel “<parli, parli=””>parli, parli”! Raggiungendo toni tragici anche nelle movenze contorte del corpo e passando a un registro grottesco nella descrizione di uomo tradito.

Dal punto di vista registico, Fenoglio inquadra Randone in primo piano per tutta la prima parte, dando alla telecamera un lento movimento laterale, per poi sottolineare la drammaticità della seconda parte, con una maggiore varietà di stacchi, inquadranti comunque sempre la figura di Randone.

Nell’epilogo dell’atto, è ormai la pazzia il tema di fondo. Il primo folle è Ciampa. E qui, Randone ha saputo rendere la sua recitazione adatta ad imprimere un carattere di visionarietà. Ghigno del viso ed illuminazione fanno del volto di Ciampa-Randone quello di una maschera grottesca, folle, lucidamente determinata.

Ed è a questa follia che tutti, prima ancora della stessa Beatrice, sembrano accordarsi, assumendo nell’espressione del viso, e negli sguardi un che di allucinato che condanna la donna a scegliere la pazzia come soluzione finale necessaria.

Ed infine la risata visionaria di Ciampa ci da il parametro dell’interpretazione di Randone, non il dolore di Eduardo, non la rivincita di Stoppa, ma la rabbia amaramente lucida e rassegnata del pirandelliano Randone.

Lezione III – EDUARDO INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI

Eduardo e Pirandello

 “Caro Edoardo, ritorno adesso da Milano e trovo la lettera del vostro Argeri e i giornali coi resoconti del vostro trionfo. Non m’aspettavo meno da Voi. Ciampa era un personaggio che attendeva da vent’anni il suo vero interprete. Se le mie condizioni di salute me lo consentissero, vorrei non privarmi della gioia d’assistere almeno a una rappresentazione”.

La lettera è datata Roma 19 febbraio 1936 e sta in LUIGI PIRANDELLO, Carteggi inediti con Ojetti – Albertini – Orvieto – Novaro- De Gubernatis – De Filippo, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani ROMA 1980, p. 365;

Eduardo in "Il berretto a sonagli"
Eduardo in “Il berretto a sonagli”

Eduardo e Pirandello si erano incontrati in un camerino del teatro Sannazzaro di Napoli nel 1933 durante la fortunata stagione del Teatro Umoristico. Eduardo incoraggiato dalla semplicità di quell’uomo illustre che era andato a trovarlo in camerino gli chiese il permesso di tradurre Liolà in napoletano.

Eduardo,infatti, aveva letto i romanzi e le novelle di Pirandello che doveva averlo influenzato già a partire dalle sue prime commedie degli anni ‘20, dove, tuttavia, prevalgono ancora i modelli farseschi della tradizione napoletana.

Il tema della pazzia, per esempio, così centrale nelle opere di Pirandello ,appare sin dalla seconda commedia di Eduardo del 1922:Uomo e galantuomo, dove emergono però gli accenti comici. Ma già nella commedia successiva, Ditegli sempre di sì, nella pazzia del protagonista l’elemento della tradizione scarpettiana si unisce in modo originale con il teatro “borghese” o “grottesco” pirandelliano. L’incontro di Eduardo e Pirandello nel 1933 fu, dunque, un incontro da autore ad attore. Del resto le due drammaturgie erano completamente diverse. Eduardo era un autore dialettale, “mentre Pirandello che pure si era affermato come drammaturgo proprio con le commedie scritte in dialetto siciliano per Angelo Musco, non era mai stato considerato un autore dialettale”.

Eduardo inoltre praticava un teatro di genere comico, non avvicinabile al teatro d’autore, che era poi, per molti uomini di cultura del tempo l’unico teatro che avesse dignità artistica.

Soprattutto agli inizi, infatti, Eduardo drammaturgo fece fatica ad essere considerato, mentre come capocomico godette di una certa autorevolezza. Eduardo mise in scena di Pirandello vari lavori, tra cui Il Berretto a sonagli, che per il successo che ebbe divenne l’unica opera pirandelliana stabile nel suo repertorio fino alla fine della carriera, ed in ordine cronologico quella che chiuse l’ultimo ciclo di registrazioni televisive fatte alla Rai da Eduardo alla fine degli anni 70. L’idea di tradurre in napoletano Il Berretto a sonagli si verificò per suggerimento dello stesso autore siciliano.

L’occasione venne dal lavoro in comune alla trasposizione teatrale della novella L’abito nuovo, scritta da Pirandello nel 1913.

Questo episodio è raccontato dallo stesso Eduardo in uno scritto intitolato Io e la nuova commedia di Pirandello in cui descrisse i quindici giorni del dicembre del 1935 a Roma dove Pirandello, seduto in un’ampia poltrona del suo studio scriveva le battute “che davano il via alle scene principali”, e lui stesso che “traduceva in vernacolo il suo pensiero”.

Fu, dunque, l’autore siciliano ad intravedere per primo in Eduardo un possibile interprete delle sue opere e il protagonista del Berretto a sonagli n particolare.

Il loro incontro si era verificato in un momento felice della carriera artistica di Eduardo che aveva già assimilato i fondamenti della importante tradizione teatrale napoletana innestandosi dunque all’interno di una complessità di rapporti che affondava le radici in storie artistiche poliedriche.

Del resto Eduardo aveva iniziato tramite la lunga esperienza della Compagnia del Teatro Umoristico (anni ‘30), un cammino di rielaborazione personale di questa stessa tradizione. Da ciò gli derivò l’attitudine all’ascolto complesso della realtà, l’attenzione “ai fatti, alla gente, e soprattutto alle piccole cose della vita quotidiana.

La stessa tradizione napoletana così complessa e variegata gli aveva dato un patrimonio artistico atto a esprimere nelle sue opere una sensibilità sociale che lo orientava verso un mondo piccolo-borghese, colto, più che nelle singole individualità, nella sua coralità.

Proprio questa tradizione poneva Eduardo in un rapporto particolare rispetto a Pirandello. L’attore napoletano infatti, grazie alla revisione già avviata degli antichi modelli teatrali partenopei, poté affrontare la novità delle tematiche pirandelliane. Ciò comportò la trasformazione radicale ma non traumatica di quello stile comico, o farsesco che poggiava su modelli drammaturgici tipici del varietà.

Ma l’incontro con Pirandello fu soprattutto l’incontro con i suoi personaggi, che la sensibilità di attore di Eduardo coglieva nella loro drammatica dinamicità, orientandoli verso un proprio destino al di là delle tipizzazioni o delle maschere. Il personaggio pirandelliano sempre scisso tra realtà ed estraniazione si trasformava in Eduardo in personaggio dominato da un umorismo tragico, diverso dall’umorismo di Pirandello, in quanto caratterizzato da una sottile, quanto profonda inespressività che però non lo estraniava dalla vita, dall’aderenza ai fatti e agli eventi ma che lo rimandava ad essi.

E’ proprio grazie alla sua drammaturgia d’attore che Eduardo si confronta naturalmente con un tipo di scrittura scenica in cui le situazioni, i fatti, insomma la realtà, delimitano e contengono il personaggio.

Mentre i personaggi pirandelliani cercano continuamente di uscire dai fatti”, quelli di Eduardo ci si immergono senza sconti. Per giungere infine  alla stagione della drammaturgia matura, in cui l’attore napoletano individuerà in ogni sua opera un protagonista che senza eroismi si isolerà dal grande coro degli altri personaggi contrapponendosi a questi.

All’accusa di pirandellismo che gli venne fatta ad un certo punto della sua vita Eduardo rispose:

io, questo pirandellismo attribuitomi dai critici non lo capisco, se devo dire la verità. Che vuol dire? Che cosa vogliono dire? Che ho copiato da Pirandello, che mi sono appropriato della sua tematica? Se è questo che si intende per pirandellismo, mi pare che non sia neanche il caso di parlarne, tanto è ovvio che, a cominciare dalla mia concezione del teatro a finire con i miei personaggi spesso poveri e affamati, spesso maltrattati dalla vita, ma sempre convinti che una società più giusta e umana sia possibile crearla, niente potrebbe essere più lontano dall’idea teatrale di Pirandello e dai suoi personaggi.”

Il berretto a sonagli

Il vero successo pirandelliano dei De Filippo, comunque fu Il berretto a sonagli. La messa in scena della commedia venne decisa e realizzata in brevissimo tempo proprio durante la collaborazione per L’abito nuovo. Questa collaborazione si era risolta, del resto, per Eduardo, in una vera e propria “lezione di drammaturgia” che gli aveva permesso di affinare una tecnica rappresentativa tale da esprimere efficacemente il suo mondo poetico, salvaguardandolo dalla ricerca di effetti comici fini a se stessi. Egli stesso a proposito affermava: un’idea, in  fondo, non è tanto difficile averla; difficilissimo è invece comunicarla, darle forma”

Ed è proprio con Il Berretto a sonagli che Eduardo trovò le sue prime soluzioni al problema tecnico dell’arte dell’attore e dell’autore, individuando in Pirandello, il maestro del rinnovamento della drammaturgia di quegli anni.

Insomma con il Berretto a sonagli Eduardo si incontra profondamente con la drammaturgia pirandelliana ricavandone una riflessione sul teatro, sul suo teatro.

Per questo allestimento Eduardo si era occupato anche dell’adattamento in napoletano e si affidò soprattutto alla capacità degli interpreti: lui stesso nella parte di Ciampa, Titina in quella di Beatrice e Peppino come il commissario Spanò.

Riguardo all’esperienza pirandelliana, Peppino aveva espresso qualche perplessità sin dalla prima collaborazione che fu Liolà. In quell’occasione egli affermava:

Io ero giovane allora[…] E avevo in cima ai miei pensieri una cosa sola: le nostre commedie. Stimavo e veneravo Pirandello: però ritenevo sbagliato sacrificare per lui il nostro repertorio. Mio fratello Eduardo, invece, la pensava diversamente. L’idea del Liolà era venuta a lui e Pirandello si era trovato subito d’accordo.”

Questi dubbi, legati ad una più generale diversità di visioni e progettualità artistiche, aumenteranno sempre più fino al 1944 anno della loro separazione.

Il fastidio che Peppino provava è espresso in questa testimonianza e riguarda proprio la messa in scena del Berretto a sonagli:

Durante il secondo atto del dramma Ciampa scioglie un monologo che dura una ventina di minuti e sono argomenti duri, taglienti, dissertazioni che puntualizzano una situazione teatrale altamente umana e sconcertante, seria, con un sottofondo di concetti tragici […]. Il commissario Spanò, per esigenza scenica, è costretto ad essere presente senza mai poter dire un’ “a” o un’ “e”. Io, dunque, […] durante quel monologo dovevo stare attento a non disturbare neanche con un semplice gesto, poiché il pubblico, attratto dalla mia presenza fisica, avrebbe finito per interessarsi al mio più impercettibile movimento traendone divertimento. Ciò avrebbe disturbato la recitazione di Eduardo che egli mandava avanti nervosamente tra lunghe e brevi pause. Bene, io a non respirare neanche ci stavo attento; ma quando accadeva che il pubblico, ostinatamente fisso sulla mia presenza in scena, avvertiva qualche mio naturale movimento e lo sottolineava provocando in sala un certo ‘mormorio’ di divertimento, mio fratello si indispettiva, mi guardava male, ostinandosi poi a ritenermi responsabile di indisciplina scenica, di poco scrupolo artistico e, soprattutto, di non sentire per lui alcun riguardo. E non aveva ragione, poiché durante quel lunghissimo monologo io non sapevo più a quale santo votarmi per fare in modo che gli spettatori seguissero con comprensione certi miei assecondamenti scenici che erano pur necessari : nulla da fare! Ogni mio gesto, sia pure impercettibile… veniva intercettato in sala e commentato con ilarità. Dovetti decidere, infine, di fare la ‘statua’ e con le spalle voltate al pubblico attendere la fine del lungo monologo.

Pirandello rappresentò un momento importante della non convergenza tra le poetiche dei due fratelli De Filippo. Peppino,infatti era proiettato alla rivalutazione di un teatro comico direttamente colto dalla tradizione e, attraverso l’affinamento delle risorse attoriali, riproposto su scala nazionale. Vedeva perciò la presenza in repertorio delle opere di Pirandello come elementi estranei al proprio disegno. Eduardo, dal canto suo, non solo volle inserire Pirandello nel suo repertorio, ma lo fece rimanendo fedele alla sua identità di attore e al suo processo creativo che Giovanni Macchia ha definito quello “dell’attore che scrive”.

Lezione IV – EDUARDO INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI (parte 2)

Lezione IV – Eduardo attore

Eduardo non fu semplicemente un attore, ma uomo di teatro, immerso da sempre nelle atmosfere, nei rapporti, nella quotidianità di una famiglia che fu il simbolo della tradizione napoletana.

      Eduardo, come Titina e Peppino, era figlio naturale di Eduardo Scarpetta il più grande autore-attore-capocomico napoletano del suo tempo. Nacque a Napoli il 24 maggio 1900 da Luisa De Filippo e debuttò in teatro a 4 anni come comparsa in una parodia di una operetta, La Geisha .Fin da piccolissimo Eduardo, con i suoi due fratelli, “respirò” il mondo del teatro in tutti i suoi aspetti, a cominciare da quello “ludico”. Infatti da bambini amavano esibirsi sul balconcino di casa che dava sul vicolo davanti ad una famiglia tedesca che abitava nella casa di fronte e molto spesso si ritrovavano a giocare tra le quinte o lungo i sottoscala di qualche teatro in attesa di essere utilizzati come comparse negli spettacoli di Scarpetta.

Fare teatro per Eduardo era dire la vita:

“La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono come uno sfollato”.

Questo aspetto totalizzante è riscontrabile, tra l’altro, nella complessità della sua recitazione in cui si fondono vari ruoli: l’attore, l’autore e il regista.

Nel suo rapporto d’attore con il personaggio che interpreta, confluivano l’esperienza dell’autore e del regista che gli permetteva una visione, al tempo stesso, complessa eppure differenziata del fatto scenico nei vari elementi che lo compongono.

La sua recitazione rifacendosi ad una antica tradizione che da sempre aveva valorizzato la comunicazione diretta del gesto e della parola, si caratterizzava per il modo originale di esprimersi, prolungando con suoni, borbottii, risatelle beffarde la battuta, caricandola di un’efficacia espressiva che oltre al suono comunicava l’emozione dell’uomo.  La recitazione di Eduardo dava, quindi, sempre un’impressione complessiva di naturalezza che egli stesso tuttavia spiegava così:

“La recitazione naturale è la cosa più difficile e costruita che ci sia”.

ed aggiungeva:

“…l’attore deve misurarsi, controllarsi, costringersi ininterrottamente. Mai commuoversi o immedesimarsi […] se il personaggio gli è estraneo, meglio ancora”.

Eduardo, inoltre, aveva un’arte particolare nel richiamare l’attenzione sul suo volto, senza però mai deformarlo al punto da far prevalere la maschera, grazie anche ai continui ma impercettibili mutamenti di espressione che conferivano alla sua recitazione una “ineffabilità” comunicativa.

Eduardo in quello che resta il suo ragionamento artistico più pregnante centrò il problema fin dal titolo: The Intimacy of Actor and Character.

Il rapporto di creazione, per lui, passava attraverso l’intimità dell’attore e del personaggio. Scrisse in proposito che la profondità a teatro può venire solo dall’intimità, da ciò il seme della sua originalità.

Eduardo e la televisione

L’occasione di parlare del particolare rapporto che Eduardo ebbe con il mezzo televisivo è data dal fatto che l’ultimo allestimento del Berretto a sonagli fu realizzato per la televisione.

Esso si colloca nel quarto ed ultimo ciclo televisivo di registrazioni de – Il Teatro di Eduardo- 1977-81.

Oltre al Berretto questo ciclo televisivo comprendeva Natale in casa Cupiello (1931-34), Il Cilindro (atto unico 1965), Gennareniello (1932), Quei figuri di tanti anni fa(1929), Le voci di dentro (1948), Il Sindaco del Rione Sanità (1960), Il contratto (1967), ed infine Il Berretto a sonagli ultimo ad essere trasmesso il 20 giugno 1981.

Questo allestimento televisivo di Eduardo fu soprattutto l’ultima testimonianza dell’evoluzione del suo rapporto con questo mezzo di comunicazione. Evoluzione che partendo dal lontano 1962, anno del primo ciclo televisivo, pose a Eduardo dei problemi sulla natura della relazione teatro-televisione.

Fin dall’inizio Eduardo considerava non occasionale il contatto con questo mezzo, ma lo vedeva inserito all’interno di un progetto culturale che diventò un vero e proprio progetto drammaturgico nelle ultime registrazioni, potendo utilizzare anche maggiori conoscenze sul mezzo stesso.

In effetti tra il primo ciclo e l’ultimo (1962-1977), il cambiamento di stile si configurò grazie ad una sempre più precisa poetica della teatralizzazione della messa in scena televisiva. Pertanto utilizzò l’immagine televisiva per sottolineare la finzione teatrale, sia attraverso un uso sistematico del primo piano, sia attraverso l’uso del colore in chiave simbolica e antinaturalistica.

A Eduardo interessava la televisione come mezzo per diffondere il suo teatro. Egli riuscì a piegare il mezzo televisivo al linguaggio del teatro fino a farne un documento vivo della sua arte, continuando a far vivere i suoi personaggi nati per il palcoscenico, dando alle telecamere il compito di sostituirsi all’occhio dello spettatore.

Anche se, in realtà, Eduardo è ben consapevole che queste registrazioni non possono conservare l’unicità del rapporto spettatore-attore.

Egli ironicamente sottolinea questa assenza nelle ultime edizioni ricostruendo una finta platea, alla quale dietro le finte quinte si vedono gli attori inchinarsi a spettacolo concluso, ad indicare che il teatro, quello vero non è lì ma altrove.

Tutte queste caratteristiche del peculiare modo con il quale Eduardo usò il mezzo televisivo sono particolarmente evidenti nell’allestimento televisivo del Berretto a sonagli.

Si evidenzia in questa messinscena particolarmente la rarefatta interpretazione dell’artista napoletano che non poggia più sull’immediatezza del confronto nel dialogo con gli altri personaggi o sull’arguzia dei ragionamenti del protagonista.

A Eduardo bastano minimi ed impercettibili movimenti del viso per mostrare i movimenti dell’anima di Ciampa, spesso nel semplice ascolto delle battute allusive di Beatrice, momenti in cui la telecamera inquadra in primo piano il volto di Eduardo.

Del resto è significativo che l’attore nell’adattamento in napoletano, con un procedimento drammaturgico autonomo dal testo pirandelliano, taglia alcune battute interlocutorie nel monologo delle “tre corde”, nel primo atto, e in quello finale del secondo atto.

Questa operazione di rafforzamento dei momenti di svelamento dell’intimità di Ciampa, rivela la volontà di Eduardo di evidenziare, come per molti suoi personaggi, l’isolamento del protagonista rispetto agli altri. Un isolamento che acuisce anche l’incomprensione e l’ostilità degli altri personaggi.

Aumentata la distanza dai suoi interlocutori il Ciampa di Eduardo diventa un uomo rassegnato al suo destino, con dei ritmi interiori che scandiscono un suo percorso trasversale rispetto a quello dei suoi antagonisti.

Dal Ciampa di Pirandello al Ciampa di Eduardo (Un itinerario attraverso le recensioni dal 1936 al 1980)

Il Ciampa pirandelliano costituisce uno dei personaggi in cui maggiormente si realizzò l’intimità con Eduardo, grazie ad una interpretazione che si andò approfondendo nel tempo, ma sempre conservando una dolorosa interiorità, una capacità intrinseca di lettura poetica delle sfumature del dolore, una ironia leggera e disincantata, una raffinata modulazione dell’espressività.

Eduardo ha iniziato a rappresentare Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello dal 1936. Scorrendo le recensioni da quella lontana data, alle ultime, risalenti alla fine degli anni Settanta, è possibile recuperare una storia interpretativa di questa opera, originale e per certi aspetti unica, che ci conduce da un Eduardo interprete di Pirandello a un Eduardo interprete di se stesso.

La prima tappa di questo percorso è ben evidenziata nelle recensioni che vanno dal 1936 al 1939 periodo che coincide con il primo allestimento teatrale, i cui i principali interpreti furono, oltre che Eduardo nel ruolo di Ciampa, Titina De Filippo nel ruolo di Beatrice, Peppino De Filippo in quello di Spanò, Pietro Carloni in quello di Federico e Tina Pica nel ruolo della Saracena.

In questi anni, Eduardo ha interpretato Il berretto a sonagli in importanti città, come Roma, Napoli, Milano, Genova, Bari e Bologna, ottenendo ovunque l’attenzione della critica.

Dalle primissime recensioni (1936-39) emerge un Eduardo ancora inserito in un repertorio comico che viene avvertito dai critici come suo peculiare. Bastava infatti citare la Compagnia De Filippo per evocare: “una folla di visioni gaie, colorite, sornione, un’onda di spensieratezza e di buon umore”.

Ma si comincia a notare anche un Eduardo capace di modulare la recitazione verso uno stile più orientato ad esprimere l’umanità del personaggio Ciampa, in linea con la sensibilità di Pirandello.

L’anonimo cronista della Gazzetta del Mezzogiorno nel 1938, fa notare che:  “è un lavoro, quello pirandelliano, che si distacca nettamente dal repertorio abituale dei De Filippo, ma che pare fatto a posta per la interpretazione di Eduardo e di Titina”.

Saverio Procida, dal canto suo, sottolinea nel 1937, che Eduardo era riuscito a rendere: “la figura patetica ed ermetica [di Ciampa] come l’ha immaginata Luigi Pirandello col dolore senza suono, con l’umanità senza ornamenti”.

Non manca neanche chi compie un vero e proprio confronto con Angelo Musco, riconoscendo ad Eduardo l’arte di avere saputo rendere un Ciampa “umanissimo” rispetto a quello “frenetico” dell’attore siciliano.

Ma se Eduardo è visto dalla critica ancora come semplice interprete pirandelliano, già si avverte, d’altro canto,un’arte che optando per uno stile più pausato e lento, sembra rivelare uno stile altamente personale che si discosta dalla “scarna rapida e talora vorticosa dialettica pirandelliana.

Insomma, già dalle recensioni degli anni 30, emerge un Eduardo, che pur vincolato ad un repertorio comico, e tutt’uno con la Compagnia De Filippo, insieme al fratello Peppino e a Titina, comincia ad imporre una sua peculiare sensibilità artistica ed umana. cresce l’esperienza di Eduardo, tanto più sembra crescere e dilatarsi il suo Ciampa, acquisendo caratteri precisi, fino a diventare una “figura potente” e “umanissima”.  A tal proposito Saverio Procida scrive:

Quale potente figura Edoardo De Filippo ha plasmato iersera! Che toni intensi nella scelta della battuta, dosata con la scrupolosità di un pesatore di sentimenti! Non un tradimento della comicità sulla ingente mole dell’ironia. Non una esitazione fra colorito e accento, reso con uno stile improntato ad una sapiente “graduazione” del gesto e della battuta: “[…]lungo i due atti, Eduardo ha dato anima e corpo, voce e intensità dolorosa alla tormentata figura del Ciampa, graduandone il dramma con una misura rara e una intensità stupenda”,

caratteristica che lo stesso Procida sottolinea scrivendo:

Edoardo ha iersera toccato la vetta dell’arte sua, per il disegno del carattere di “Santo Ciampa”, per l’aurea chiarezza dello stile nella semplicità dei mezzi scenici, per la graduazione del tumulto interiore.

Un Eduardo, insomma, che imprime alla messa in scena una “concertazione” che nella:

“rappresentazione aveva raggiunta la sua suprema finalità artistica: lo specchio della vita, nel suono della battuta, nel gesto della parola. Una concertazione, insomma, che i maggiori registi potrebbero invidiare”.

Dato comune alla critica degli anni ’40 è l’attenzione all’arte recitativa di Eduardo. Questo degli anni ’40 si presenta come il secondo allestimento teatrale, dove è evidente l’assenza di Peppino che venne sostituito nella parte di Spanò da Giovanni Amato e poi nel 1950 da Aldo Giuffrè.  In tal modo la Compagnia si configurò come tutta incentrata sulla personalità di Eduardo.

Dalle recensioni non si evidenzia più il problema della fedeltà al suo repertorio comico, neanche più viene sottolineato il confronto tra il Ciampa eduardiano e la “dialettica pirandelliana”.

Quello che emerge, invece, è uno sguardo della critica verso un Ciampa sempre più personale e contestualmente vicino al mondo dell’attore napoletano.

Eduardo è presentato come “un mirabile direttore d’orchestra di se stesso, con una padronanza ammirevole” , ed ancora nel “Domani d’Italia” il commento è incentrato su Eduardo che ha fatto appello a tutte le sue più intime risorse tecniche ed artistiche, superando se stesso”

Eduardo è ormai presente nei giudizi della critica come interprete “dalle tante corde”, capace di apportare un contributo tanto originale alla rappresentazione, da arricchirla ulteriormente di quelle numerose sfumature che ci rimandano al suo itinerario sempre più consapevole di autore e capocomico. Vincenzo Talarico a tal proposito scrive nel dicembre del ’46: A questo bizzarro dramma Eduardo e Titina De Filippo hanno prestato la potenza e la suggestione della loro arte singolare, aggiungendovi quell’estro e quella melanconia che sono a loro particolari creando così, un capolavoro del più penetrante umorismo”. Al punto che viene implicitamente riconosciuta l’assimilazione del personaggio di Ciampa al mondo poetico di Eduardo, già così strutturato ed evidente nei personaggi di sua invenzione

Insomma Il berretto a sonagli è ormai considerato nel 49-50, dal giudizio unanime della critica, un “cavallo di battaglia” del repertorio eduardiano, al punto che “del pirandelliano Ciampa, Eduardo ha fatto uno dei personaggi più dolorosi e irresistibili del suo repertorio.

Gli anni ’60 (stagione 1961-62 e stagione 1964-65) sono caratterizzati dalla presenza di due allestimenti teatrali. Nel primo appare nel ruolo di Beatrice, Regina Bianchi e in quello di Spanò, Ugo D’Alessio, nel secondo appare nel ruolo di Spanò l’ormai affermato Franco Parenti. Gli anni ’60 sono gli anni della commemorazione di Pirandello, anni nei quali Eduardo porta il suo Berretto a sonagli oltre che in Italia anche all’estero.

Paradossalmente l’Eduardo che commemora Pirandello è ormai un Eduardo che viene posto dalla critica di fronte al maestro siciliano nel suo pieno e ben distinto mondo poetico e creativo.

In tal modo egli appare in tutta la sua complessità di uomo di teatro, nel quale, accanto al sempre riconosciuto valore di attore, vengono coerentemente evidenziati dalla critica, i pregi della sua regia e delle sue qualità di drammaturgo, trasfuse anche nel suo adattamento in napoletano del Berretto a sonagli.

Nell’allestimento del 1962 appaiono alcuni motivi che ritroveremo anche in altre recensioni successive.

Innanzitutto il riconoscimento della “Maestria del capocomico, che sa trasmettere ai suoi attori i segreti del vivere artisticamente una parte”.

A Eduardo è ormai attribuito a pieno titolo il suo ruolo registico, tanto che Carlo Terron nelCorriere Lombardo scrive:

“In una regia nella quale la precisione e la graduazione del concerto sono state poste al servizio della più rigorosa fedeltà alla parola e ad ogni minima indicazione dell’autore, Eduardo ha inserito o,meglio sarebbe dire, ha insinuato la propria creazione di interprete con un arte ormai così decantata, limpida e pura da apparire indifesa”.

Naturalmente dalle sfumature con cui viene definito il suo ruolo di regista si nota che Eduardo viene collocato,come spesso gli accade, al confine fra tradizione e innovazione.

La sua regia, infatti, si configura come organizzata secondo i modi tipici della tradizione che ha nel capocomico la sua figura emblematica. Tuttavia, questa stessa regia negli sviluppi e negli effetti che raggiunge, con l’essenzialità e l’armonia che comunica, tocca punte di evidente modernità.

L’autorevolezza di artista che Eduardo consegue in questi anni, è paradossalmente evidenziata da una critica di De Monticelli, che proprio sottolineando la distanza di Eduardo da Pirandello, in realtà fa risaltare l’autonomia della complessità artistica dell’attore-autore napoletano.

De Monticelli coglie la diversità da Pirandello in due elementi: la trasposizione in dialetto che “vela un poco la lucida consequenzialità, l’inesorabile progredire [del testo pirandelliano in lingua]” e la recitazione “troppo smorzata, intensa sì, ma sommessa; e questo è un dramma che grida”

In realtà, appunto, in questi elementi la maggior parte dei recensori individua le note originali e positive dell’allestimento. Fulvio Palmieri, nella messinscena del 64, sintetizza proprio nell’incontro con Pirandello la: “[…]definitiva impostazione della personalità di Eduardo, come attore e come autore”.

Il titolo stesso del suo articolo Un Pirandello napoletano evidenzia la natura tutta eduardiana cui è giunto lo spettacolo.

Basta, infatti, considerare il progressivo spazio che occupa nelle recensioni l’operazione di adattamento in napoletano compiuta da Eduardo, per comprendere come questa stessa operazione sia avvertita dalla critica, perfettamente integrata ed in linea con i tempi, le pause e i toni della sua interpretazione.

In altre parole, anche in questa opera non direttamente sua, la critica di questo periodo dimostra di avere compreso e accettato il ruolo dell’adattatore o del drammaturgo, implicito nella definizione di Eduardo “attore che scrive”. A tal proposito Sandro De Feo associa:

“la più gentile e cordiale parlata napoletana”, che discioglie: “i duri nodi del passionale raziocinare dell’eroe pirandelliano”, al tempo di Eduardo, “i suoi “piano” strazianti, le sue pause dolorose, i suoi silenzi […], la sua amara saggezza, la sua immensa civiltà e grecità”. Così: “il suo Ciampa è davvero suo, […] con una forza di verità e di persuasione che deriva più dalla grande verità dell’attore che dai ragionamenti del testo”.

Ma dov’è che si conferma il valore drammaturgico della traduzione in napoletano compiuta da Eduardo sul Berretto a sonagli?  Tale questione è particolarmente approfondita da Nicola Chiaromonte in un articolo del 65, che individua nel Ciampa di Eduardo un fedeltà tutta particolare al testo pirandelliano.

Questo, infatti, per essere reso avrebbe avuto bisogno di uno stile recitativo più freddo e distanziato, capace di rendere la particolare concettosità filosofica della dialettica pirandelliana.

Eduardo, invece, scegliendo il dialetto napoletano, pur immettendo una naturalità che svela le ragioni dell’umanità di Ciampa, non gli toglie quelle dell’intelletto e dei concetti.

Ciò che Nicola Chiaromonte mette in dubbio è la capacità del dialetto di esprimere, senza perdere la sua carica naturalistica, alcune parti fondamentali del testo del Ciampa pirandelliano: il passaggio da uno stile farsesco, insito nel monologo delle tre corde, al carattere raziocinante e serio di quello dei pupi, fino al monologo finale della pazzia, così inesorabilmente freddo e grottesco. Eppure Eduardo riesce: “a graduare mirabilmente il passaggio dalla prima immagine farsesca, alla seconda, che è intellettuale, e poi a tenere in sordina il carattere violentemente raziocinante della tirata, la quale nel testo segna ne più ne meno che l’esplosione della coscienza di Ciampa, l’annuncio della sua verità e, di conseguenza, il passaggio dell’azione dal piano naturalistico a quello intellettuale”.

Giungiamo,dunque, alla fine degli anni ’70 (stagione teatrale 1979-80), periodo caratterizzato dall’ultimo allestimento teatrale di Eduardo. Vi appaiono Angelica Ippolito nel ruolo di Beatrice, Sergio Solli in quello di Spanò, Luca de Filippo in quello di Federico, e Concetta Barra nel ruolo della Saracena.

L’arte di Eduardo è divenuta ormai così consapevole e grande, che quasi non ha più bisogno di segni esterni per esprimersi. Il dolore di Ciampa, del pirandelliano Ciampa è reso con i silenzi, come se Eduardo non recitasse più. Egli “smozzica parole, distilla sillabe, nel sussurro di uno sconforto atroce”.

L’arte di Eduardo sta nel fatto che aggiunge sottraendo”. Eduardo è andato oltre Ciampa.   La sua “interpretazione è più autobiografia che rappresentazione” per raggiungere davvero “un’arte dell’essenzialità, nella quale “Pirandello resta come una partitura, la cui esecuzione diventa differente ogni sera: e non tanto per i virtuosismi di Eduardo […] quanto perché questo Ciampa è essenzialmente piuttosto un Eduardo al quadrato”.

Le recensioni, dunque, ci hanno permesso di individuare un percorso originale di Eduardo interprete del Berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Dal lontano 1936, quando Il berretto fu rappresentato da Eduardo per la prima volta, insieme al fratello Peppino e a Titina, fino all’ultimo allestimento (1979-80), è trascorso circa un quarantennio.

I primi anni sono stati quelli in cui Eduardo ha cercato di delineare lo stile e i caratteri di una interpretazione propria, che però ha dovuto confrontarsi con un repertorio comico legato alla tradizione e che quindi ha impresso alla sua recitazione un carattere espressivo particolarmente variegato, capace di delineare, nella maturazione della coscienza di Ciampa, un vero e proprio percorso di stati d’animo, varianti dalla mitezza raziocinante alla tragedia vera e propria.

Ma già dagli anni ’40 è emerso un Eduardo attore che ha approfondito ulteriormente la coscienza della sua arte, rendendo l’intero allestimento incentrato sulla sua interpretazione, caratterizzata da un tipo di recitazione più sfumata e graduale e perciò perfettamente omogenea all’operazione di “riscrittura” e di ambientazione in dialetto napoletano.

Giungiamo così agli anni ’60. La sua drammaturgia di attore e di autore si presenta orientata più verso le ragioni del cuore e dello svelamento solidale dell’umano, che verso quelle più intellettualistiche e filosofiche di Pirandello, di fronte al quale Eduardo si pone con la coscienza matura di un autore ormai forte della sua scrittura e del suo mondo poetico.

Arriviamo così agli anni ’70, anni nei quali Eduardo ha raggiunto l’arte “dell’impassibilità”, ovvero un’arte recitativa così sapientemente decantata da apparire quasi distaccata, “impassibile”, nella quale però si concentrano i motivi più profondi e toccanti del mondo poetico eduardiano, quel suo guardarsi recitare, quel senso riflesso della vita, che per Eduardo è il teatro tout court.

L’Eduardo dell’ultimo allestimento teatrale sembra quasi non recitare più, di tanto, infatti, l’uomo è andato oltre il personaggio. Eduardo ha superato Ciampa e così la sua recitazione è diventata più autobiografia che rappresentazione.

Lezione VPAOLO STOPPA INTERPRETE DE IL BERRETTO A SONAGLI DI PIRANDELLO

Stoppa e Pirandello

Paolo Stoppa in "Il berretto a sonagli"
Paolo Stoppa in “Il berretto a sonagli”

In effetti Paolo Stoppa concluse la sua carriera artistica proprio con Il Berretto sonagli di Pirandello, in un allestimento per la regia di Squarzina che ebbe anche una versione televisiva.

Luigi Squarzina che diresse Stoppa nel Berretto a sonagli, rimase sbalordito quando, alla prima lettura, vide l’attore presentarsi con il copione chiuso e la parte di Ciampa, la “sua” parte, perfettamente a memoria. Emerge, pertanto, un Ciampa a lungo pensato e interiorizzato da parte di Paolo Stoppa, anche se dal suo repertorio si evidenzia che il rapporto con le opere di Pirandello fu piuttosto scarso.

Stoppa iniziò la sua carriera come comparsa, da allievo, proprio con Pirandello, che non apparve in veste di autore, ma di regista. Allora Stoppa si era da poco iscritto alla Scuola di Recitazione “Eleonora Duse” di Santa Cecilia di Roma * e fu chiamato a partecipare allo spettacolo diretto da Luigi Pirandello, Sagra del Signore della nave, dello stesso maestro siciliano che si iscriveva all’interno della stagione del teatro d’Arte di Roma.* *

       * La scuola di recitazione “Eleonora Duse”, annessa al Conservatorio di Santa Cecilia, in via dei Greci, venne fondata nel 1894. La direzione toccò per prima all’attrice Virginia Marini, alla quale succedette (dal 1920 al 1922) un altro attore, Cesare Dondini, seguito da Franco Liberati, che affidò la cattedra di storia del teatro a Silvio d’Amico. Questi prese parte alla compilazione del nuovo statuto della scuola, pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale”, 6 aprile 1926. La svolta definitiva avvenne nel 1934, quando D’Amico trasformò la vecchia scuola nella Regia Accademia di Recitazione  che oggi porta il suo nome.

       * * Luigi Pirandello fondò e diresse nel 1925 una compagnia teatrale, denominata Teatro d’Arte o Teatro dei XII, che ebbe in Marta Abba un’ideale primattrice. La Compagnia, che si proponeva come “stabile”, ebbe la sua sede in via SS. Apostoli, nel seicentesco palazzo Odescalchi , già sede del Teatro dei Piccoli di Vittorio Podrecca. Furono in realtà Stefano Pirandello, che si firmava Stefano Landi, ed Orio Vergani a progettare un teatro del tutto autonomo dal repertorio cosiddetto commerciale, come anche dal teatro d’avanguardia di quegli anni che si identificava con il Futurismo. Tra i collaboratori più importanti  che aderirono a questa iniziativa ricordiamo Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli, Guido Salvini, Giuseppe Prezzolini, Alberto Savinio e Giorgio De Chirico, che tra l’altro disegnò la scenografia de Il Berretto a sonagli, allestito in questa occasione avendo come protagonista Camillo Pilotto. Con la Compagnia del Teatro d’Arte Pirandello mise in scena 17 recite del Berretto in tredici  città italiane e due sudamericane. La prima fu a Firenze il 24 settembre 1926.

Cfr., A. D’AMICO-A.TINTERRI, Pirandello capocomico…cit.. Ricorda Paolo Stoppa che  destò molto stupore il fatto che Mussolini avesse concesso a Pirandello una sovvenzione in denaro, poco tempo dopo averla negata ad Eleonora Duse. Nessuno ebbe il coraggio di chiederne ragione al commediografo per non rammentargli forse l’unica pagina che si era pentito di avere scritto: la lettera di adesione al regime fascista, non più di un anno prima in piena crisi Matteotti.

Cfr., PAOLO STOPPA, Quei giorni con Pirandello e una comparsa di nome Anna Magnani, in Corriere della Sera, ROMA, 7 luglio 1983.

Ma da quella prima esperienza Paolo Stoppa si incontrò con le opere di Pirandello soltanto altre tre volte. Due volte nel Così è se vi pare e l’ultima nel Berretto a sonagli alla fine della sua carriera.

La carriera e gli incontri artistici di Stoppa

Tutto l’iter artistico di Stoppa ci appare nel suo insieme caratterizzato da una forte ecletticità, che portò l’artista romano a confrontarsi con interpretazioni di diversa natura. Cinema, TV teatro furono le dimensioni che forgiarono le qualità artistiche di Stoppa. Anche all’interno del suo itinerario teatrale, che costituì sempre il suo ambito preferito, egli attraversò varie fasi, ricoprendo ruoli molto diversi tra loro, ma entro i quali Stoppa riuscì a crearsi un proprio stile.

Uno degli elementi che sicuramente lo caratterizzarono maggiormente, fu un tipo di recitazione in cui riusciva a contaminare con molta naturalezza, elementi farseschi, comici, e in generale legati ad un tipo di teatro leggero, con gli aspetti più drammatici acquisiti dalla assidua frequentazione di un certo tipo di teatro che potremmo definire grottesco.

Dall’apprendistato artistico del giovane Stoppa notiamo che, dopo una prima esperienza con una “Compagnia di giro”,***  in cui prevaleva il registro comico, Stoppa incontrò il suo primo grande maestro che fu Antonio Gandusio, con il quale collaborò fino al 1932, assorbendo da lui la convinzione che recitare fosse vivere un’esistenza fatta di sacrificio e abnegazione, in cui l’attore non può, né deve risparmiarsi. Al punto che D’Amico arriva a dire, con sottile ironia: “Gandusio suda: quella di Gandusio non è una recitazione, è una grande fatica.

       ***  Si intende con questo termine una formazione professionale (generalmente triennale) itinerante, diretta da un capocomico e da un amministratore impresario. Il repertorio da presentare nelle varie città, dove si sostava da un minimo di pochi giorni ad un massimo di due mesi, comprendeva circa quindici lavori. Le prove duravano qualche ora per i primi attori, e qualche giorno per gli attori nuovi. Lo spettacolo comprendeva generalmente un lavoro in più atti ed una farsa finale.

Gandusio modellava il repertorio della Compagnia sulla sua personalità: opere contemporanee, comiche, generalmente con una certa propensione per gli autori del cosiddetto teatro grottesco.Quindi fin dall’inizio, Stoppa si esercitò in ruoli in cui erano fondamentali doti espressive particolari: per esempio la capacità di comunicare nello stesso tempo sentimenti contrastanti, oscillanti tra il riso e il tragico. Il grottesco infatti, non gli impediva di immettere nella sua recitazione un sottofondo di angoscia che sembrava appartenergli anche esistenzialmente, come lui stesso sottolineava:

”L’angoscia fa parte del mio carattere, in tutta la mia vita ho passato lunghi periodi di pessimismo, di paure, di angosce”.

Accanto all’esperienza con Gandusio, si può individuare quella con la Compagnia diretta da Egisto Olivieri, specializzata in spettacoli gialli e con la quale Paolo Stoppa lavorò per alcune stagioni teatrali, compiendo anche la sua prima tournèe all’estero: un mese a Tripoli nel gennaio del 1933.

Fu questa degli spettacoli gialli, una esperienza certamente meno determinante degli anni con Gandusio, ma che senza dubbio arricchì il bagaglio culturale ed artistico del giovane Stoppa, grazie alla frequentazione di un genere teatrale totalmente nuovo, per il quale era stato chiamato ad un tipo di recitazione diversa, meno esasperata di quella precedente.

Ma il secondo evento fondamentale della carriera artistica di Stoppa fu quello dell’entrata nella Compagnia di Renzo Ricci nell’autunno del 1934. Per l’attore romano fu l’occasione di uscire dalle parti secondarie, lavorando in una formazione teatrale importante a livello nazionale, che gli aprì, nel contempo, l’amicizia che durò tutta la vita con Renzo Ricci. Con questa Compagnia si accostò ad autori di qualità e ad un metodo di lavoro professionalmente più maturo, con un maggiore numero di prove ed una più approfondita analisi del testo.

Proprio in questo periodo Paolo Stoppa ebbe modo di interpretare un personaggio importante come quello di Bob Laroche in Tempi difficili di Eduard Bourdet, un giovane storpio mezzo paralitico. Proprio questa interpretazione, tuttavia, all’indomani della prima, ricevette una stroncatura dall’autorevole critico del “Corriere della Sera”, Renato Simoni,  in quanto non venne accettata la resa crudamente realistica del personaggio.

Insomma, i primi dieci anni di carriera e di formazione di Paolo Stoppa furono caratterizzati da incontri eterogenei ma ugualmente importanti. Antonio Gandusio e Renzo Ricci ne erano stati i cardini fondamentali. Ultimo superstite della grande famiglia dei “brillanti” italiani il primo, attore ancora formato nella tradizione ottocentesca, ma attento e partecipe dell’evoluzione della scena, il secondo.

Ma l’intero cammino artistico di Paolo Stoppa ruotò intorno al Teatro Eliseo di Roma. Egli stesso lo definì come la sua seconda casa. All’Eliseo infatti, Stoppa raccolse i primi successi personali, lavorando nell’omonima formazione e realizzando l’esperienza più importante della sua carriera: la costituzione della ditta con Rina Morelli e Luchino Visconti. Questo incontro si trasformò in collaborazione artistica per la condivisione di obiettivi programmatici comuni.

Alla base c’era una concezione dello spettacolo teatrale come fusione tra le varie componenti, e la resa del testo poetico attraverso una recitazione tesa e sofferta. Stoppa rivelò insieme al suo temperamento di attore poliedrico, una predisposizione all’organizzazione, realizzando sulla scena testi sconosciuti o di difficile presa sul pubblico, e senza mai cercare un facile successo. Il rapporto tra Luchino Visconti e Paolo Stoppa fu significativo anche per quanto riguarda il peculiare legame che realizzarono tra attore e regista. Nella loro collaborazione essi esprimevano l’occasione per potenziare e valorizzare le capacità attoriali, messe al servizio del vero obiettivo comune: lo spettacolo.

Il merito maggiore di Paolo Stoppa fu quello di avere compreso come, in una concezione teatrale moderna, ancor più della personalità dei singoli, avesse valore l’organicità dell’insieme. In una intervista del 1963 Visconti descrisse i criteri del suo lavoro da cui si può evincere il lungo e accurato studio fatto con gli attori. Ogni artista doveva giungere alla prima prova:

“Con la sua parte nemmeno nell’orecchio, perché io raccomando che essa non venga studiata a memoria : deve attaccarsi all’attore durante le lunghe sedute che si fanno, in modo che egli giunga a conoscerla in modo dolce e persuasivo, conoscendo soprattutto quello che ci sta dietro”.

L’esercizio allo studio aveva portato Paolo Stoppa a calibrare in modo appropriato e minuzioso la sua recitazione, al fine di renderla sempre più idonea ad esprimere il personaggio.

Non è un caso, che dopo la precoce esperienza del Teatro dell’Arte nel 1925, Stoppa incontri Pirandello nella sua piena maturità artistica nel febbraio del 1965 al Teatro Quirino, con il Così è( se vi pare). Queste le impressioni dell’attore:

“Avevo paura; è il più grande poeta del Novecento e non si può farlo superficialmente. Ho cercato nella commedia uno stile scarno, rispettando il testo nella lettera oltre che nello spirito”.

Nella sua interpretazione Paolo Stoppa fu giudicato: “Sanguigno, ribollente e martoriato dalla morsa di una indiscrezione mostruosa”.

La stessa opera fu ripresa nel marzo del 1972 con la regia di Giorgio De Lullo. In quell’occasione anche la sua interpretazione si arricchì “giocando sui toni bassi e modulati senza peraltro demitizzare la figura interpretata”.

Il berretto a sonagli di Stoppa

L’ultima prova di Stoppa fu Il Berretto a sonagli. Questa interpretazione diretta da Luigi Squarzina si basava su di un testo che, pur avvalendosi della prima versione in lingua, datata 1918, recuperava alcuni brani derivanti dall’antico copione dialettale (A birritta cu’i ciancianeddi) scritto per l’attore Angelo Musco.

Stoppa vi appare con tutta la sua arte recitativa, è il vero protagonista dell’opera.

Nella versione televisiva, le inquadrature e i personaggi gli ruotano intorno, per evidenziarne la perizia interpretativa.

La sua tecnica espressiva dà conto chiaramente dei sottotesti inerenti al suo personaggio, ogni gesto è ben calcolato, la recitazione è appropriata. Emerge la sua bravura di attore consumato, che si manifesta soprattutto nella comunicazione col pubblico, al quale sa regalare con sapiente dosaggio, sia gli effetti comici, sia quelli più grotteschi.

Il suo è un Ciampa forte, tutt’uno con l’attore, è un Ciampa che sfida il dolore, cosciente della sua forza, lucido, razionale, che sa manipolare. Anche il tema della pazzia vi appare, più che come soluzione pacifica, come rivalsa, come arma per colpire non solo Beatrice, ma il contesto sociale dal quale Ciampa, nella sua condizione di dipendente, si sente escluso e che vuole sfidare.

La stessa Beatrice, in questa messa in scena si riappropria delle battute eliminate nella versione dialettale. Ma se da un punto di vista tematico, del contenuto, viene amplificato il tema della rivalsa della donna, come lo stesso Squarzina sottolinea, ciò avviene solo quando Ciampa è assente dalla scena. E ciò amplifica l’idea dello scontro, di un duello ideale con il protagonista maschile.

E’ il tono fermo, quasi imperioso di Beatrice a sottolineare tutto questo, senza però che la donna riesca ad uscire da una logica di sottomissione alla legge ferrea della pazzia che Ciampa le impone.

Dalla registrazione televisiva si evidenzia, inoltre, la diversità dell’attore-personaggio Stoppa rispetto agli altri personaggi.

A differenza degli altri interpreti, egli sviluppa un ulteriore livello di comunicazione con il pubblico, sottolineando una duplicità interpretativa che gioca, sia a livello del personaggio di Ciampa, che risulta essere “vincente”, sia come attore che celebra se stesso.

Tutto ciò alimenta l’efficacia espressiva e ben individuata rispetto al contesto del suo Ciampa.

La stessa registrazione televisiva di Squarzina asseconda questa dinamicità e convergenza del personaggio-attore Stoppa, con una regia che accentra in lunghi e frequenti primi piani la figura dell’attore, che per esempio fin dalla sua entrata nel secondo atto è ripreso in un ininterrotto  primo piano che, lasciando nell’ombra le battute  dei suoi interlocutori, ci mostra tutto il secondo atto come un lungo monologo di Ciampa.

Rispondendo ad un intervista sulla sua interpretazione del Berretto a sonagli Stoppa rispondeva:

Quello fra me e Ciampa è un discorso che dura da tanti anni. Ci siamo idealmente parlati per decenni, anche perché me lo sono sempre trovato intorno. Voleva essere rappresentato, ma io rimandavo l’appuntamento, continuando tuttavia ad assimilare la sua personalità, a scandagliare il suo animo a riflettere sui suoi ragionamenti. Oggi credo di essere pronto: fra me e Ciampa non ci sono più segreti. Perciò lo porto sulla scena. E sarà un Ciampa dei nostri giorni, senza quegli atteggiamenti un po’ dialettali e provinciali che pure hanno lusingato qualche mio collega in passato. […] Abbiamo reintegrato con il regista Squarzina alcuni brani dell’originale che Pirandello scrisse per Angelo Musco in vernacolo in A birritta cu’i ciancianeddi e che poi lo stesso autore tolse durante le prove per la prima rappresentazione del 1916. Li abbiamo reinseriti  perché li abbiamo trovati di grande importanza sia per l’alta qualità dell’invenzione letteraria e scenica, sia per i significati che approfondiscono o addirittura introducono nell’opera”.

E’ interessante evidenziare che questo spettacolo non ha avuto, però, solo recensioni entusiastiche ed accentrate su Stoppa. Ugo Volli, per esempio, sottolinea che, pur prevedendo un grande successo per questa messa in scena di Squarzina, manca ad essa “quella tensione etica, filosofica, psichica, quel dolore, quella follia, che è il cuore vero della drammaturgia pirandelliana”.

Volli intravede il lavoro di regia e di concertazione tra gli attori, basato soprattutto sulla ricerca di stimoli comici, denunciando comunque  mancanza di volontà di scavo, di interpretazione demistificante. Di Stoppa tuttavia egli coglie positivamente la varietà di toni e di stati d’animo del suo Ciampa.

Roberto De Monticelli, invece, coglie tutti i lati positivi di questo allestimento, a partire dal recupero filologico operato sul testo, fino a trovare nel “grottesco”, la linea portante su cui Squarzina ha impostato la messa in scena:

“…muovendo la commedia sull’onda alterna della comicità e dell’angoscia, senza indulgere al bozzettismo naturalistico, ma nello stesso tempo, in quella scena scura, opprimente, di Gianfranco Padovani  non staccandosi mai dalla concreta rappresentazione di una società. […] Di Paolo Stoppa e della sua segreta vocazione pirandelliana ho detto. Ma devo aggiungere che questo suo Ciampa appare studiato, anzi sofferto, in ogni mossa, in ogni parola per non dire in ogni sillaba; è una figura su cui batte fin dall’inizio il riverbero di una consapevole disperazione che non per questo si nega ai toni  agro-ilari dell’ironia”. 

Di Paolo Stoppa interprete del Berretto a sonagli  non si può che sottolineare la grande maestria artistica, frutto di una carriera poliedrica e ricca di importanti contatti artistici come quelli con Gandusio, Ricci, Rina  Morelli, Visconti.

Il suo Ciampa, tra il grottesco ed il tragico, ha contribuito ad approfondire e a restituire un Pirandello più moderno ed europeo.

Lezione VIINTERVISTA A LUIGI SQUARZINA SU IL BERRETTO A SONAGLI DI PIRANDELLO

L’intervista al prof. Squarzina è stata realizzata nell’aprile del 1998 nella sua residenza romana.

L’intento era quello di rilevare una delle testimonianze più qualificanti della messinscena del Berretto a sonagli di Pirandello sia nell’edizione teatrale del 1984, sia di quella audiovisuale del 1986.

La messinscena del “ Berretto a sonagli “ nella stagione teatrale 1983/1984 da parte di Luigi Squarzina è stato, infatti, uno degli avvenimenti artistici più significativi di quel periodo.

Lo spettacolo ebbe una grande risonanza di pubblico e di critica, ma soprattutto ripropose il proficuo e ormai storico rapporto di Squarzina con le opere di Pirandello  e il ritorno sulla scena di Paolo Stoppa in quella che sarà la sua ultima e tra le più acclamate interpretazioni.

Inoltre, per la prima volta, nella versione in italiano del testo, furono reintegrati importanti tagli attuati nel 1917 dall’attore Angelo Musco nella versione dialettale e che Pirandello accolse definitivamente anche nelle successive edizioni in italiano e mai più eliminati.

Questa operazione di recupero dei tagli e di traduzione dal dialetto siciliano dei medesimi, è diventata dall’84 punto di riferimento imprescindibile anche per i successivi allestimenti.

D. Prof. Squarzina come è nata la ricostruzione filologica de Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello?

R. E’ nata grazie alla collaborazione con Alessandro D’Amico che mi ha procurato dall’archivio-Pirandello il manoscritto, probabilmente del suggeritore, e mi ha colpito subito la presenza di tagli nell’edizione italiana. I tagli erano identificabili con l’accorciamento della parte del Delegato e sono battute legate alla risata, piccole ma interessanti, e altre, nella prima scena, che riguardano una certa posizione di rivolta della donna, molto netta, presente in molte commedie di Pirandello, e che concerne la pretesa storica della donna di poter parlare. Soprattutto urtavano le battute, in cui, una persona soggetta come era allora una donna in Sicilia poteva esprimersi così, anche se non è lei (Beatrice)che si esprime ma la “strana creatura“ (il personaggio della Saracena) che chiama in casa per avere dei consigli.  Però quella “strana creatura” parla di come ha messo a posto suo marito dopo un tradimento, quindi anche qui è sempre ribadita la posizione di una moglie. Di una moglie soggetta che si è ribellata, ed è questo che spinge Beatrice già convinta ad andare avanti in questo progetto un po’ suicida, progetto che distruggerà la famiglia. Si vede che lei non ne può più e allora non bada alle conseguenze. Infatti questi tagli non riguardano l’imprudenza di Beatrice, piuttosto la possibilità di aprire un discorso sulla parità tra uomo e donna. In termini scenici ciò potrebbe essere reso con “se lui mi tradisce io devo poter reagire”. Il taglio delle battute del Delegato Spanò, molto carine, si spiega con l’andamento delle prove, nelle quali Musco voleva sempre primeggiare. L’altro taglio importantissimo riguarda ancora una volta Beatrice, ed è di per sé inspiegabile, se non dal punto di vista di un attore come Musco, che non voleva dare spazio ad altri. Infatti il taglio riguarda l’importantissima scena dello scorpione che per il suo simbolismo è chiaramente comprensibile anche ai personaggi minori dato che tutti ne parlano. Però lo scorpione è anche un ammonimento: non perché lei (Beatrice) veda nel rituale dello scorpione che si suicida a contatto con il fuoco un ammonimento a non agire, quanto il tradimento. E poi Beatrice l’ha visto realmente lo scorpione? Certo urla, quindi è convinta di averlo visto e la scena manifesta la decisione di lei di andarsene, non a parole ma a fatti, perché sta preparando le valigie. Tutti questi tagli sono da riaprire, perché non complicano niente, anzi arricchiscono. Teatralmente Il berretto a sonagli è cortissimo e si può rappresentare anche senza intervallo poiché ha una cesura perfetta con la scena della presentazione della moglie di Ciampa. La questione del contributo di questi tagli finisce qui e non cambia moltissimo. Ma in teoria non si capisce perché Pirandello, una volta tradotta in italiano la commedia, non li abbia ristabiliti e anche Sandro D’Amico che si è occupato della ricostruzione filologica del testo non ha potuto darne spiegazione.Da notare, inoltre, che questa traduzione è bellissima e, mentre quella di Liolà in italiano non è felice,quella del Berretto a sonagli in italiano è perfetta ed è dunque strano che Pirandello che ne ha fatto una traduzione così felice, non l’abbia, né subito né poi, ripristinata nella sua integrità.

D. Le risulta che sia stata mai stampata la versione dialettale?

R. No, non è stata mai stampata, e certamente non è mai stata recitata la versione integrale. Sandro D’Amico non ne ha una spiegazione, forse (Pirandello) non voleva perder tempo, comunque scenicamente il testo funzionava.

D. Prima di questo spettacolo lei ha collaborato con Paolo Stoppa?

R. No, è stata la prima volta.[…]

Poi Stoppa, che aveva smesso di recitare da qualche anno , tornò in scena con L’avaro di Moliere per la regia di Patroni Griffi.in seguito si fermò ancora, e poi mi chiamò per Il berretto a sonagli sebbene, per un qualche problema di salute suo o di non so chi, ci fu un rinvio.

D. Chi ha realizzato la scenografia?

R. Ricorsi a Gianfranco Padovani, lo scenografo con cui avevo lavorato per qualche tempo. Per le musiche avevo bisogno soltanto di qualche eco di un pianoforte e mi rivolsi a Paolo Terni. La soluzione scenografica, a mio parere, faceva parte di un progetto di sprovincializzazione, anche se in dialetto Pirandello non perde nulla, anzi. Però se viene realizzato in lingua, bisogna dimostrare che già con questa commedia Pirandello si muove nell’ambito del teatro europeo, con un certo tipo di concezione del personaggio e dello stesso spazio teatrale, di un teatro molto più che dialettale. In questo senso eliminai tutti gli aspetti locali, come per esempio nominare Palermo e quel sentore di mafia che c’è nella figura del marito di Beatrice che è uno che comanda molto e che fa il comodo suo, avendo un suo entourage. Però non c’è, come non c’è quasi mai, in Pirandello, un’allusione diretta alla mafia, sebbene compaia tante volte la sensazione di una società che si difende con il sistema mafioso, filtrato nella concezione della piccola società, della famiglia e della realtà locale che si preserva dalla grande società, non accettando le leggi considerate astratte.

D. qui entrano in gioco anche le vicende della vita privata di Pirandello?

R. Il berretto a sonagli è la prima commedia dove entra in gioco in prima persona la pazzia fino ad allora assente. Qui è considerata positivamente perché permette di dire la verità. Una verità strana perché la moglie di Pirandello aveva una pazzia che si esprimeva molto con la gelosia : accusava il marito di andare con le ballerine considerate allora come prostitute; e allora dire che (come Pirandello fa dire a Ciampa) una pazza dice la verità e nessuno le crede è curioso, o  può essere considerato come un gesto di sofferenza suo che deve vivere a contatto con una persona che cagiona questi problemi. Comunque non bisogna mai legare troppo la vita privata all’opera.

D. Gli studiosi però, in questo caso, lo fanno!

R. Lo fanno certo, ma non è mai una spiegazione. E’ casomai un arricchimento, perché studiando la biografia dell’autore si penetra meglio nella cultura dell’opera. Comunque anche questo tema della pazzia è un tema più che locale, è un tema di una letteratura, di una psicologia più vasta di quella della bugia. E’ il tema della verità, che Pirandello coglie nella sua relatività e come nuova possibilità di risolvere una situazione. Non è razionale neanche l’altra soluzione, quella cioè che Ciampa debba sparare, che però è legata ad un costume storico, mentre la pazzia è astorica e quindi Pirandello accetta la soluzione più profonda non permettendo che Ciampa faccia del male alla moglie, sebbene lei gliene abbia fatto, indotta dalla sofferenza. E tutto questo è sottolineato molto bene da Paolo Stoppa.

D. In questo senso il personaggio di Ciampa non è vendicativo?

R. No dice “ siamo uguali abbiamo ambedue tanto sofferto che ci possiamo capire “e comunque Ciampa è talmente legato alla moglie che non può rompere il legame con lei uccidendola. Infatti o li avrebbe ammazzati entrambi o comunque avrebbe perso la moglie, dalla quale è veramente stregato. Non ha armi contro questa donna che lo tradisce chiaramente senza problemi, al solo patto di non dirlo. Dico questo perché secondo me tutte queste cose sono aldilà del colore locale, ma su questo punto anche Paolo Stoppa era naturalmente d’accordo. D’altra parte non ci è venuta mai l’idea di ricorrere ad una versione dello spettacolo in un italiano un po’ americanizzato. Inoltre l’età non era un problema perché, se è vero che Stoppa dimostrava più di cinquant’anni, è anche vero che i cinquant’anni di Ciampa nella sensibilità odierna fanno ridere. Pirandello si porta dietro l’idea dell’uomo che a cinquant’anni è ormai finito sessualmente, professionalmente e se la porta fino alla fine anche in Quando si è qualcuno. Tutto ciò non è simbolico, ma storico perché l’allungamento della vita è molto posteriore, a quando è stata scritta l’opera, cioè prima del’20 e probabilmente cominciava a corrispondere alla situazione di Pirandello. Cinquantenne, non viveva ancora la passione per Marta Abba, inoltre la tragedia della moglie e il figlio prigioniero in guerra fanno di questo periodo un momento molto, molto duro. Del resto nel fatto che Ciampa non vuole sparare, c’è anche una ribellione alla risoluzione dei conflitti mediante la violenza. Lui era antibellicista, non voleva la guerra e scrisse quel bellissimo libro Berecche alla guerra, poi aveva il figlio prigioniero e durante quel periodo non fu ancora del tutto in grado di prendere una decisione riguardante la moglie che poi, questione di mesi, mi pare, fu messa in manicomio, anche se lui aveva bisogno dell’avallo del figlio maggiore. Quindi il ricorso alla follia da parte di Pirandello può essere inteso come qualcosa che può travalicare sia la sofferenza di Ciampa che quella della moglie, che anche deve accettare che tutti sanno e tacere comunque. Situazione normale allora, per una donna in quei paesi, alla quale però è strano che si ribelli la Saracena che infatti, è come se venisse un po’ da fuori. E’ come se non fosse del tutto legata alle costrizioni e alla mentalità del posto, è un po’ come Medea. Poi volevo fare una scena molto semplice.

D. Con il gioco delle due poltrone?

R. Si! Una poltrona doveva essere sempre vuota, infatti, soltanto Ciampa ci si siede alla fine, perché prende il comando e nessuno lo può fermare e poi ci sono le finestre che hanno soltanto l’apertura sull’esterno da cui Beatrice può farsi vedere. La scena era concepita per ruotare su se stessa, in modo che Beatrice risultasse chiusa in casa mentre urlava dalle finestre.

D. Prof. Squarzina, cosa ha cambiato per la versione televisiva?

R. Ho lavorato con una buona equipe e non ho cambiato niente perché fosse fatta la ripresa; è stata realizzata con tre macchine, quindi non era solo documentaria ma eseguita col montaggio . Non dissi a Stoppa che lui era sempre in primo piano, semplicemente dissi agli altri ad un certo punto di tenersi un po’ più lontani, anche se di poco, perché è evidente che qualche “manina” può entrare nell’inquadratura in primo piano; poi ci fu un lungo montaggio.

D. Quindi la scelta di fare questi ventotto minuti su Stoppa fu per lei quasi naturale?

R. Sì, anche perché è una caratteristica tipica della commedia: Ciampa è terribilmente solo come molti personaggi pirandelliani. E’ un problema suo e gli altri sono tutti contro, anche quelli che vorrebbero tenerlo buono. Questa idea non l’ho avuta subito ebbene in quel momento lì, variare rispetto a questa soluzione, avrebbe significato o troppi stacchi o un “totale” per contenere anche gli altri personaggi e questo non era pirandelliano in quel momento. Allora sono ricorso a questa soluzione che forse è l’aspetto più interessante.

D. La direzione degli attori, compresi alcuni divertenti lazzi scenici, è cambiata nella versione televisiva?

R. No, non è cambiato nulla. D’altra parte Il berretto a sonagli ha una sua qualità televisiva perché è corto, entra subito nel problema, è molto diretto e ci sono citazioni molto popolari.

D. Non ritiene che è una commedia molto, come dire, “attorecentrica“?

R. Certo lui ha sempre scritto per attori quali Musco, Ruggeri, la Abba.

D. Durarono molto le prove?

R. Quarantacinque giorni. Sorprendente fu il primo giorno in cui Paolo Stoppa si presentò con un bellissimo copione rilegato in pelle sapendo già a memoria tutte le battute e non sbagliando una parola pur avendo quella età lì. Vuol dire, o che pensava da molto tempo a interpretare il Berretto e non si era mai deciso, oppure veniva da un bel periodo di studi. Notevoli furono anche le facce sorprese degli altri attori che in seguito impararono prestissimo la parte.

D. Aveva mai ipotizzato di fare le riprese della commedia senza pubblico?

R. No, perché è uno spettacolo caldo, si deve sentire il pubblico, le risate e poi, per esempio, il lungo applauso che c’è alla fine è molto utile. Comunque l’applauso che arriva ad un certo punto e che sembra che finisca e che poi ricomincia, ti dà un’altra verità.

Paolo Diodato

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