Tesi – Pirandello e il cinema – Capitolo 1 – Le riflessioni di Pirandello sul cinema

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Di Immacolata Esposito

Al contrario del teatro, che per Pirandello è arte e vita perché mostra le vicissitudini del reale attraverso personaggi realmente presenti sulla scena, che vivono e si muovono in luogo concreto, tangibile e tridimensionale, il cinema è appiattimento delle emozioni, immagine fredda, sempre uguale a sé stessa e resistente ai cambiamenti che il tempo opera sulla persona.

Indice Tematiche

tesi Pirandello e il cinema
Luigi Pirandello istruisce Isa Miranda e Pierre Blanchar sul set del film Il fu Mattia Pascal (1937)

Tesi – Pirandello e il cinema

Tesi di laurea in letteratura Italiana
presentata presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Anno Accademico 2019/2020

Pubblicato per gentile concessione dell’Autrice cui sono riservati tutti diritti.
È proibita la diffusione in qualsiasi modalità salvo consenso dell’Autrice stessa.

Indice

CAPITOLO 1. Le riflessioni di Pirandello sul cinema
CAPITOLO 2. Analisi dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore
CAPITOLO 3. Le trasposizioni cinematografiche del Fu Mattia Pascal
Bibliografia

CAPITOLO 1

La riflessione di PIRANDELLO sul CINEMA

Il rapporto di Luigi Pirandello con il cinema può definirsi complesso e per certi aspetti ambiguo, poiché il suo atteggiamento verso questo fenomeno artistico, culturale e sociale cambia sensibilmente nel corso degli anni.

La prima attenzione dello scrittore per questa nuova forma di spettacolo comincia da «spettatore critico, vivamente attento alle capacità espressive della nuova arte» [1].

[1] F. Càllari, Pirandello e il cinema, Venezia, Marsilio Editori, 1991, p. 85.

In quanto manifestazione del doppio, il cinematografo destò fin da subito il suo interesse e nella fase iniziale di questa nuova invenzione, che va dal 1896 al 1904, egli prese parte a diverse proiezioni mobili nei locali che man mano si moltiplicarono sul territorio nazionale. Quest’esperienza gli servì a rendersi conto non soltanto delle infinite possibilità della macchina da presa ma anche delle sue limitazioni. [2]

[2] Ivi, p. 17.

Lo scrittore siciliano percepisce tutta la pericolosità dell’immagine che può diventare un’ulteriore separazione tra l’uomo e la realtà. Ed è questo, probabilmente, che lo spinge a scrivere un’opera all’innovazione tecnologica e al mondo della macchina che fa irruzione nella vita degli uomini.

Il romanzo, ideato nel 1904 e pubblicato nel 1916 con il titolo Si gira, appare nella sua edizione definitiva nel 1925 come Quaderni di Serafino Gubbio operatore:

«Nei quali, pur intuendo la portata e le possibilità di sviluppo del cinema, lo condanna, proprio in quanto metafora dello sconvolgimento apportato dalla macchina nelle trasformazioni e nei mutamenti della società col gravoso scacco per l’uomo che finisce per rimanere stritolato dagli ingranaggi che lui stesso ha creato». [3]

[3] S. Milioto, La lezione cinematografica di Pirandello in A.a.V.v., Quel che il cinema deve a Pirandello, a cura di E. Lauretta, Pesaro, Metauro, 2011, pp. 10-11.

Il gesto è audace per l’epoca, il testo costituisce in assoluto il primo racconto della letteratura europea che prende a tema il mondo del cinema e questa sua opinione negativa è, probabilmente, correlata all’atteggiamento ambivalente, persino ostile, nei confronti della modernità, che troviamo fin dall’inizio nella sua opera. [4]

[4] F. Andreazza, La conversion de Pirandello au cinéma, Le Seuil « Actes de la recherche en sciences sociales », 2006/1 n° 161-162, p. 34.

L’autore non solo muove una critica verso il cinema ma più in generale verso un’epoca in cui le innovazioni tecnologiche stanno iniziando a svilupparsi, anticipando, in un certo senso, ciò che avverrà in futuro, ossia che più passerà il tempo e sempre di più saranno le mansioni che la macchina potrà svolgere al posto dell’uomo, distruggendo cosi il tradizionale rapporto tra uomo e arte.

Secondo il suo punto di vista, essa meccanizza la vita, negandola e uccidendola. «Il cinematografo, dunque è l’esatto contrario dell’arte; non sublimazione ma decadimento e frustrazione»: [5]

[5] S. Milioto, op.cit., p. 11.

«L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita». [6]

[6] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, Milano, Garzanti, 2015, p. 8.

La concezione dell’arte di Pirandello era spontanea, sincera e disinteressata e non coincideva con questa nuova forma di comunicazione popolare, meccanica, fredda, priva di sollecitazioni creative e spirituali, adatte «solo a soddisfare il palato delle masse e gli interessi degli uomini d’affari». [7]

[7] S. Milioto, op.cit., p. 7.

La cinematografia coglieva la realtà mediante una macchina da presa, precisa ed impassibile e con le sue riproduzioni meccaniche poteva offrire, a buon mercato, uno spettacolo sempre nuovo al pubblico, riempiendo cosi le sale e lasciando vuoti i teatri.

Di conseguenza le compagnie drammatiche non facevano più affari e gli attori erano «costretti a picchiare alle porte delle Case di cinematografia» [8] e da conservatore, amante del teatro, Pirandello non poteva accettare questo cambiamento. Per lui, «la scena è una grande vignetta viva, in azione che coinvolge gli oggetti, gli attori, il pubblico, simultaneamente, in un unico corpo scenico» [9] per far sì che quest’ultimo senta e condivida i pensieri e le emozioni dei personaggi.

[8] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, cit. p. 72.
[9] E. Di Iorio, Il doppio nel teatro di Pirandello, Caltanissetta, S. Sciascia Editore, 2012, p. 14.

Egli era contrario all’idea che gli attori perdessero il contatto con il pubblico e che quest’ultimo veda un’azione registrata perché il dramma, per sussistere, ha bisogno di emozioni, di movimento e di un corpo vero. L’assenza di contatti diretti con gli spettatori uccide l’azione sulla scena perché senza un corpo il personaggio non ha motivo di esistere. [10]

[10] Ivi, p. 20.

Appare cosi, ben chiara, la consapevolezza di un fenomeno che contraddistingue il lavoro degli attori cinematografici da quello degli attori teatrali, vale a dire la perdita dell’aurea, del carattere unico e sacro di cui si fregia un artista, quando si pone davanti alla cinepresa. [11]

[11] M. Guglielminetti, Pirandello, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 163.

Pirandello vede nel teatro la singolarità, la facoltà di ogni spettacolo di essere sempre diverso ogni qualvolta viene portato in scena e, pur mantenendo lo stesso copione e gli stessi attori, ogni rappresentazione in sé diventa unica. [12]

[12] F. Angelini, Serafino e la tigre, Venezia, Marsilio Editori, 1990, p. 30.

Il cinema invece, essendo girato e montato in maniera definitiva, è ripetitivo; ogni film realizzato risulterà, dunque, sempre uguale a come è stato concepito inizialmente, sempre identico a sé stesso, ad ogni visione, in ogni luogo o tempo.  Inoltre, cambia anche la condizione dell’attore, esiliato dal palcoscenico al cinematografo e ridotto ad un’ombra destinata a rivivere su misero pezzo di tela:

«[…] si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.

Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da sé stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in un’espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vòtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela ». [13]

[13] L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, cit. p. 72.

Presi in trappola nel meccanismo economico, che stritola ogni ambizione d’arte e di autenticità, gli attori, davanti alla cinepresa, non riescono più a vivere il loro ruolo, a provare emozioni. La riproduzione meccanica, infatti, distrugge il vivo che c’è nel teatro, allontanandosi dalla dinamicità del vissuto, dall’originalità e fondendosi così sulla struttura della ripetizione.

Al contrario del teatro, che per Pirandello è arte e vita perché mostra le vicissitudini del reale attraverso personaggi realmente presenti sulla scena, che vivono e si muovono in luogo concreto, tangibile e tridimensionale, il cinema è appiattimento delle emozioni, immagine fredda, sempre uguale a sé stessa e resistente ai cambiamenti che il tempo opera sulla persona. [14]

[14] F. Angelini, op.cit., p. 30.

Accanto alla concezione puramente fotografica del cinema, agisce la sua poetica antinaturalistica, «la paura cioè di una perdita di valore dell’opera creativa, sola verità che si possa opporre alla realtà brutale di ogni riproduzione ottenuta con strumenti meccanici». [15]

[15] P. Di Sacco, Pirandello e il cinema, «Otto/Novecento: rivista quadrimestrale di critica e storia letteraria», ANNO XXVII – N. 3 – SETTEMBRE/DICEMBRE, 2003, p. 116.

Questa nuova forma d’arte inquieta ma allo stesso tempo intriga Pirandello che alla fine ne subisce il fascino e, pur consapevole degli effetti che avrebbe potuto avere sul teatro, comprende subito i vantaggi economici e professionali che questa nuova forma d’arte poteva portargli. [16]

[16] M. Guglielminetti, op.cit., p. 341.

Il suo atteggiamento è lo stesso del protagonista dei Quaderni di Serafino Gubbio Operatore: «riflessione critica, ma anche perplessità; diffidenza, ma anche interesse; insomma, una specie di attrazione e repulsione, un vero e proprio odi et amo», [17] verso quel cinema da cui fu spesso negativamente colpito ma anche tentato ed affascinato.

[17] N. Genovese, Quel ragno nero sul treppiedi: analisi dei rapporti tra Pirandello e il cinema in A.a.V.v., A Lignano per studiare Pirandello: Convegno di studi, Lignano 28-29 settembre 2011, a cura di V. Orioles, Pesaro, Metauro Edizioni, 2013, p. 184.

In esso vede nuove possibilità d’espressione che lo spettacolo teatrale o la stessa letteratura non possono creare; per questo motivo, parallelamente alla sua crescente reputazione come autore teatrale, che giunge al vertice nella prima metà dagli anni Venti, Pirandello dà inizio alla sua collaborazione con l’industria cinematografica.

Nel 1916 accetta di far parte della Tespi Film come consulente letterario. Nel 1917 acconsente di figurare tra i principali collaboratori della rivista cinematografica «Penombra». Nel 1920, con decreto del Ministro dell’Interno, viene nominato membro della Commissione per «l’esame dei copioni e la revisione delle pellicole cinematografiche» per la sua appartenenza «alla categoria dei competenti in materia artistica e letteraria. Infine, tra il 1918 e il 1921, lo scrittore cedette ai produttori cinematografici, i diritti di sei proprie opere. [18]

[18] F. Càllari, op.cit., pp. 30-31.

Il 1921 è anche l’anno del successo di Sei Personaggi in cerca d’autore che inaugura una nuova fase della sua carriera teatrale aprendo a Pirandello i teatri di tutto il mondo.

Quest’opera può definirsi rivoluzionaria in quanto, il drammaturgo siciliano, porta a dissoluzione le strutture drammatiche tradizionali del dramma borghese, costruendo opere meta teatrali con l’obiettivo di dimostrare che il teatro non è in grado di rappresentare le complessità della vita.

I personaggi di questi nuovi drammi esternano il loro disagio esistenziale che consiste nel conflitto tra arte e vita, tra realtà e finzione:

«Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascuno d’essi, per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione e suo vivo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole, la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile». [19]

[19] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Milano, Mondadori, 2010, p. 10.

Inoltre, Pirandello porta innovazioni anche a livello scenico, con l’abbattimento della quarta parete, quella trasparente che separa il palcoscenico dalla platea, che sta tra gli attori e il pubblico.

Il teatro mette, così, a nudo sé stesso, il sipario è aperto, svela tutte le sue finzioni e il palcoscenico cessa di essere il luogo dell’illusione scenica.

In questo modo, l’autore tende a coinvolgere lo spettatore per portarlo a riflettere su questo contrasto tra la forma e la vita. Egli non è più passivo ma rispecchia la propria vita in quella rappresentata dagli attori sulla scena.

Pertanto, «al pubblico viene assegnato un ruolo attivo poiché deve sentire, giudicare, e rifiutare, se necessario, quanto accade in scena». [20]

[20] E. Di Iorio, op.cit., p. 174.

Ognuno può leggere la rappresentazione secondo il proprio pensiero e completarla secondo la propria verità; e quando lo spettacolo termina, lo spettatore ne esce turbato siccome i dubbi non vengono sciolti e la realtà resta sospesa e moltiplicata:

«Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!». [21]

[21] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit. p. 48.

Il tempo dell’azione, che nel teatro tradizionale è continuo e lineare, ora è frammentario, con continue interruzioni, in quanto Pirandello porta in scena non un dramma fatto ma un dramma nel suo progressivo farsi, che non conosce una vera conclusione, sperimentando, alla fine, l’impossibilità di ricostruire, nell’arte moderna, un ambiente drammaturgico borghese, ormai superato. [22]

[22] E. Di Iorio, op.cit., pp. 173-181.

La prima di Sei personaggi in cerca d’autore si tenne il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma. Gli spettatori quando entrarono, trovarono il sipario alzato, con macchinisti, operai, attori che provavano Il giuoco delle parti guidati da un capocomico. Improvvisamente, dalla platea, tra la sorpresa e il mormorio del pubblico, irruppero i personaggi di un altro dramma senza nome. Essi rappresentavano sé stessi e chiedevano solo di vivere fino in fondo la loro storia:

«Posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, li presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella.
Nati vivi, volevano vivere». [23]

[23] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, cit. p. 6.

Lo spettacolo fu un fiasco clamoroso, molti spettatori contestarono la rappresentazione, ci furono disordini, tafferugli e una tentata aggressione a Pirandello.

Dalla successiva rappresentazione a Milano, il 27 settembre al Teatro Manzoni, iniziò invece il trionfo.

Grazie a questo successo, Pirandello guadagna rapidamente una posizione di importanza anche a livello internazionale e il suo successo critico aumenta considerevolmente. Conosciuto fino a quel momento, solo per il suo romanzo Il Fu Mattia Pascal, il drammaturgo accoglie con stupore e soddisfazione i suoi successi teatrali, gli articoli e gli inviti nei paesi stranieri, iniziando una nuova vita che lo porterà a viaggiare continuamente in tutta Europa e in America, allargando cosi lo spazio delle sue possibilità. [24]

[24] F. Andreazza, op. cit., p. 38.

E infatti, nel 1923, lo stimato regista Marcel L’Herbier, che ha già al suo attivo diversi film, è tra gli spettatori della rappresentazione parigina di Sei personaggi in cerca d’autore. Impressionato, propone di adattare un’opera di Pirandello. Il suo socio Éric Allatini gli suggerisce Il Fu Mattia Pascal e i due cominciano a negoziare con lo scrittore siciliano che accetta tutte le loro condizioni. [25]

[25] Ibid.

L’esperienza fu determinante per una presa di coscienza sul cinema e in un’intervista del 1924, annunciandone la trasposizione cinematografica afferma:

«Se alcuni si stupiscono […] del mio tardivo giungere alla cinematografia, sappiano che io non ho disprezzato la grandezza del suo dominio né la larghezza delle sue possibilità. Fino ad ora i rapporti che ho avuto con le case editrici sono stati poco importanti. Sono stati girati tre miei racconti, senza tradirli, ma senza abbellirli. In America, una grossa casa si è letteralmente gettata sopra uno dei miei libri. Mi offrì un numero rispettabile di dollari se io avessi permesso che la mia storia venisse filmata, però modificandone la chiusa. Era la condizione essenziale dell’affare. Io avevo anche una condizione essenziale da opporre a questa richiesta: la mia dignità di scrittore, che mi vietava, e mi vieterà sempre, di sacrificare il mio interesse morale, le mie idee filosofiche e la mia coscienza a uno scopo commerciale. Ora do con entusiasmo all’Herbier, di cui stimo infinitamente il carattere e l’ingegno, Il fu Mattia Pascal.
Colui che ha saputo cosi abilmente mettere in scena il Don Juan e il Faust saprà porre nell’esecuzione del film tutto quello che non è nel romanzo, pur conservando al soggetto originario il massimo di nobiltà e di portata filosofica. Per la prima volta io ho fiducia nell’arte muta, perché due grandi artisti la servono: Ivan Mosjoukine e Marcel LHerbier» [26].

[26] N. Pascazio, Pirandello e il cinematografo, «Il Secolo», 29 ottobre 1924. Intervista ripresa ora in, Interviste a Pirandello «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», a cura di I. Pupo, Soveria Manelli, Rubbettino Editore, 2002, p. 208.

Di fatto, queste dichiarazioni ci permettono di capire bene l’iniziale diffidenza di Pirandello nei confronti del cinema e il suo atteggiamento di fronte alla trasposizione cinematografica di una sua opera letteraria. Pur considerando il cinematografo un potente mezzo di espressione artistico, egli non è disposto a sacrificare la propria arte e nutre forti dubbi sulla riuscita della riduzione filmica delle sue opere. [27]

[27] M. Fino, Dalla mostruosa macchina del giornalismo all’affascinante macchina della cinemelografia: Pirandello, il giornalismo e il cinema in A.a.V.v., Parole di scrittore: letteratura e giornalismo del Novecento, a cura di C. Serafini, Roma, Bulzoni Editore, p. 78.

Ma ciò che colpisce ed entusiasma così tanto l’autore è, probabilmente, l’intuizione confermata da LʼHerbier proprio a margine della lavorazione di questo film, vale a dire che la cinematografia non sia un’arte di narrazione ma piuttosto di sensazione. Diceva, in proposito, il regista:

«Credete forse che il cinema debba essere un’arte di narrazione più che di sensazione? L’avvenire è del film che non si potrà raccontare. Il cinema può, certo, raccontare una storia ma non bisogna dimenticare che la storia non significa nulla. La storia è una pura superficie esterna […] l’arte dello schermo è la profondità resa sensibile che si stende al di sopra di questa superficie: è l’impercettibile musicale». [28]

[28] F. Càllari, op. cit., p. 307.

Tuttavia, un mese dopo, in un’intervista rilasciata su una rivista francese «Les Nouvelles Littéraires», Pirandello appare stregato dalle potenzialità del cinema e le sue dichiarazioni dimostrano l’importanza che per lui ha assunto questo nuovo mezzo di comunicazione:

«Io credo che il Cinema, più facilmente, più completamente di qualsiasi altro mezzo d’espressione artistica possa darci la visione del pensiero. Perché tenerci lontani da questo nuovo modo d’espressione che ci permette di rendere sensibili fatti appartenenti ad un ambito che è quasi del tutto interdetto al Teatro e al Romanzo? […] È un film russo che, durante la guerra, mi ha fatto intravedere la possibilità di questa giovane arte: il Sogno, il Ricordo, l’Allucinazione, la Follia, lo Sdoppiamento della personalità». [29]

[29] Intervista apparsa sulla rivista francese «Les Nouvelles Littéraires», 1-15 novembre 1924, in F. Càllari, op. cit., p. 10.

In questa intervista lo scrittore sembra addirittura sottostimare le potenzialità espressive e rappresentative del teatro e della narrativa, che non sarebbero in grado di approdare nel dominio dell’inconscio, rispetto a quelle del cinema che evoca invece visioni mentali che vanno oltre la semplice riproduzione della realtà esterna. [30]

[30] M. Fino, op.cit., p. 79.

Pirandello, ora scrittore internazionale, è convinto che in alcuni casi specifici non sia pericoloso affidare la propria creazione al cinema e vuole anche rischiare la messa in scena che più gli sta a cuore, quella di Sei personaggi in cerca d’autore.

Cosi nel 1928 stipula un contratto con una casa di produzione tedesca, la Feldner und Samle di Berlino, per l’adattamento cinematografico dell’opera. Si trasferisce nella capitale tedesca per lavorare alla sceneggiatura e partecipare alla realizzazione come attore protagonista, impersonando l’Autore che conduce e regge la narrazione cinematografica. [31]

[31] F. Càllari, op. cit., p. 37.

Nel rispetto delle sue convinzioni e dei suoi principi nei confronti del cinema, Pirandello decide di curare lui stesso le trasposizioni cinematografiche delle sue opere, scegliendo a quali registi affidare la messa in scena. [32]

[32] P.M. De Santi, La fortuna cinematografica di Pirandello, in A.a.V.v., Quel che il cinema deve a Pirandello, cit. p. 27.

La sua intenzione è quella di lavorare con il famoso regista tedesco Friedrich Wilhelm Murnau poiché fa grande affidamento sulle sue capacità per rendere visibili alcuni effetti rimasti inespressi nella versione teatrale. E in un’intervista dichiara:

«Ho una fiducia grandissima in Murnau. Solo lui potrà capirmi, solo con lui potrei accingermi a comporre e girare il lavoro. Tanto che, se non ottengo dalla Casa tedesca la sua cooperazione, andrò in America con lui, sicuro di combinare con altri. E le dico che se Murnau ci mette mano, Sei personaggi ci guadagneranno in evidenza, direi quasi in originalità. […] Ho delle idee mie. Vedrà. In teatro io sono stato un rivoluzionario. Vorrei, se potessi, e son certo che potrò, portare anche nel campo cinematografico, la rivoluzione ch’io sogno. Questo Murnau forse mi seguirà, mi capirà, mi aiuterà a trovare i grandi capitali che occorrono per realizzare ciò ch’è già definito dentro di me». [33]

[33] E. Rocca, Luigi Pirandello e le sue grandi novità cinematografiche, «Il Popolo d’Italia», 4 ottobre 1928 Intervista ripresa ora in Interviste a Pirandello, cit. pp. 407-409.

Con la sua idea di cinema, Pirandello vuole realizzare qualcosa che risulterebbe irrealizzabile a teatro poiché esso è più adatto a riprodurre le immagini della vita mentale, con giochi di luce, d’ombra e di colore impensabili invece sul palcoscenico. [34]

[34] P. Di Sacco, op. cit., p. 121.

La differenza tra la versione teatrale e quella cinematografica di Sei personaggi:

«ruota intorno all’intuizione di una differenza più profonda tra schermo del cinema e scena del teatro: il primo appartiene alla mente dell’autore, luogo di proiezione di fantasmi personali e mezzo di costruzione di frammenti di storia. Con essi l’autore gioca, sposta, rimanda, costruisce ipotesi anche maledette dotate però di una forza di compimento che alla realtà manca». [35]

[35] F. Angelini, op.cit., p. 88.

Per lui «il cinema dovrebbe trasformarsi in pura visione: cioè dovrebbe cercare di realizzare il suo effetto nella stessa maniera che un sogno (tanto quanto una pura visione) influenza lo spirito di una persona addormentata»: [36]

[36] L. Pirandello, il dramma e il cinematografo parlato, «La Nación», Buenos Aires, 7 luglio 1929 in F. Càllari, op. cit., p. 125.

«Cosa occorre al cinematografo? […] Occorre levargli la parola. E forse non come Lei intende: sull’eliminazione graduale o totale delle didascalie tutti sono infatti d’accordo. Quando dico “levargli la parola” intendo strappargli il tessuto, il contesto logico. Fargli esprimere l’incosciente o, se meglio le piace, il suo cosciente: tutto ciò che alla parola si ribella: la materia del sogno. Si può raccontare un sogno a parole?
Avremo cosi un genere nuovo: non romanzo, non teatro; mentre teatro e romanzo continueranno a vivere indisturbati la vita loro e a svilupparsi secondo le loro leggi senza venire minimamente danneggiati o sostituiti dal cinematografo che non sarà, né l’uno né l’altro, ma un’altra cosa che sola appieno soddisferà quel bisogno di vedere espresso adeguatamente l’indeterminato che è così vivo in tutti noi». [37]

[37] E. Rocca, op.cit., p. 409.

Pirandello sembra aver individuato nel cinema «lo strumento rappresentativo più adatto a rendere l’indeterminatezza della vita interiore, di quell’invisibile nascosto dietro il visibile, dell’irrazionale radicato nel razionale che da sempre costituiscono i cardini della sua poetica». [38]

[38] M. Fino, op. cit., p. 82.

E in un’intervista del 13 ottobre 1928, riafferma l’assoluta necessità per il cinema di sottrarsi al ruolo di surrogato del dramma, del romanzo, della commedia:

«Invece il cinematografo deve essere soltanto cinematografo. Niente romanzo, niente dramma, niente commedia. E niente parole. Le parole sono i fili conduttori della logica. Servono ad esprimere il cosciente. Ora se il cinematografo vuole essere un’arte vera e nuova, deve lasciare le vecchie strade. Esso non può esprimere il cosciente, ma tutto ciò che per essere espresso non ha bisogno delle parole. Deve rivelarci l’incosciente. Allora soltanto sarà un’arte. Come? domando. Ma la domanda resta senza risposta». [39]

[39] L. Bottazzi, Visita a Pirandello, «Corriere della Sera», 13 ottobre 1928 in M. Fino, op. cit., p. 82.

Un’altra caratteristica della sua idea cinematografica è un parallelismo con la sua produzione narrativa: come nelle opere anche nei film la realtà sarà creata e non semplicemente fotografata. Il presupposto di partenza è che il cinema, al pari della letteratura e del teatro, è inteso come un’arte a tutti gli effetti:

«L’arte, infatti, crea una realtà, non copia mai una realtà. La realtà reale è in formazione continua, perché la vita muta continuamente, mentre l’arte crea una realtà definitiva. Se la realtà, della vita di ogni giorno, attraverso gli ostacoli, le lotte, le vittorie e le sconfitte, assume via via mille aspetti incoerenti e contraddittori, nell’arte essa deve consistere, deve avere una forma compiuta, stabile.
Non farò quindi, nemmeno sullo schermo, opera di fotografo, nonostante la macchina da presa, ma d’interprete». [40]

[40] E. Roma, Pirandello poeta del “cine”, «Comoedia», 15 gennaio 1929, Intervista ripresa ora in Interviste a Pirandello, cit. p. 420.

Tuttavia, il regista tedesco non era disponibile ad affiancarlo per questo lavoro perché già impegnato negli Stati Uniti.  Allora Pirandello rescinde il contratto con la Feldner und Samle, anche per il sopraggiungere di altre proposte; lo scenario non c’era ancora e per mettersi al sicuro, almeno da questo lato, viene composto in solo cinque giorni, con la collaborazione dello sceneggiatore Adolf Lantz, suo consulente ed amico degli anni berlinesi. [41]

[41] F. Càllari, op. cit., pp. 41-42.

In attesa di vederlo concretizzato sugli schermi e spinto anche dalla speranza di facilitarne la promozione negli ambienti cinematografici, Pirandello decide di pubblicare lo scenario ma le trattative per la realizzazione del progetto filmico attorno ai Sei personaggi si rivelano più complesse del previsto e per ben otto anni tenta di realizzare la versione cinematografica, prima a Londra, poi a Roma, Parigi e infine Hollywood ma di questo travagliatissimo progetto non se ne farà mai niente.

Francesco Càllari ritiene che, se l’autore non fosse morto nel dicembre del 1936, «Reinhardt avrebbe realizzato il film tratto da Sei Personaggi nel ‘37 a Hollywood, con lui, Pirandello in persona come attore, nella parte dell’Autore, cioè di sé medesimo». [42]

[42] F. Càllari, op.cit., p. 52.

La rivoluzione che il poeta siciliano voleva portare nel cinema, purtroppo non c’è stata «e, forse, anche per eccesso di idealismo dello stesso Pirandello, è rimasta soltanto allo stadio dell’utopia». [43]

[43] P.M. De Santi, op.cit., p. 27.

Secondo la critica, Luigi Pirandello è stato il primo scrittore, in senso assoluto, ad occuparsi creativamente e criticamente di cinematografo ma non ha formulato una sua estetica del cinema ma assimilò teoriche altrui, in particolar modo di registi russi e tedeschi [44] e ha espresso autorevolmente il suo pensiero in momenti e fonti diverse:

«Nonostante la disapprovazione, nei suoi interventi non si riscontra solo l’atteggiamento distruttivo, ma anche quello propositivo, per la determinazione di trovare idee e formule estetiche più consone e proprie al cinema, affinché si evolva da “fenomeno da baraccone” in prodotto artistico, a condizione però che smetta di essere una ”sconcia contaminazione” di letteratura e immagini, che si liberi dall’asservimento da parte della civiltà che lo usa in modo abnorme, e trovi la propria via». [45]

[44] F. Càllari, op.cit., p. 112.
[45] S. Milioto, op. cit., p. 9.

Sullo scorcio dell’innovazione del sonoro, Pirandello matura le sue idee sul cinematografo e la Cinemelografia è l’unico tentativo pirandelliano di costituire un’estetica originale del cinema.

Nel 1929, su invito della British International Pictures, si reca a Londra per visionare alcuni dei cosiddetti “talkies”, i film parlanti, ricevendone una prima impressione negativa. Ritornato a Berlino, il 22 aprile scrive al figlio Stefano: [46]

«A Londra ho visto i film parlanti: un orrore! […] Ma nonostante questo, farò un film-parlante contro i film-parlanti. Un’idea originalissima. L’uomo ha dato la sua voce alla macchina, e la macchina parla con una voce ch’è ormai divenuta sua, non più umana; è come se il diavolo arresta gli attori nelle loro azioni, li chiama, suggerisce loro questo o quell’altro, li incita, ride di loro, fa cose da pazzi».

[46] F. Càllari, op.cit., p. 76.

Il film parlante è, pertanto, una diavoleria, il più brutale degli errori ma di questo progetto non si sa altro e probabilmente verrà a cadere nei mesi successivi. Tuttavia, il dibattito sul cinema sonoro stimola il suo sforzo teorico e il 16 giugno pubblica sul «Corriere della Sera» l’articolo saggistico Se il film parlante abolirà il teatro.

In esso non si riscontra solo un atteggiamento distruttivo, ma anche propositivo, con l’intenzione di trovare idee e formule estetiche più consone e proprie al cinema affinché si evolva da fenomeno da baraccone in prodotto artistico.

Per Luigi Pirandello, il futuro del cinema sonoro risiede nella cinemelografia: una nuova forma d’arte audiovisiva che congiunge pura musica e pura visione:

«Ecco: pura musica e pura visione. I due sensi estetici per eccellenza, l’occhio e l’udito, uniti in un godimento unico: gli occhi che vedono, l’orecchio che ascolta, e il cuore che sente tutta la bellezza e la varietà dei sentimenti, che i suoni esprimono, rappresentate nelle immagini che questi sentimenti suscitano ed evocano, sommovendo il subcosciente che è in tutti, immagini impensate, che possono esser terribili come negli incubi, misteriose e mutevoli come nei sogni, in vertiginosa successione o blande e riposanti, col movimento stesso del ritmo musicale. Cinemelografia, ecco il nome della vera rivoluzione: linguaggio visibile della musica». [47]

[47] L. Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, «Corriere della Sera», 16 giugno 1929 in F. Càllari, op.cit., pp. 124-125.

A questa idea di cinemelografia, Pirandello giunge al termine di una serie di considerazioni, arrivando alla conclusione che, con l’avvento del sonoro, il cinema sarebbe diventato una brutta copia, meccanica e fotografata del teatro, che rappresenta, invece, la vita, finendo con il distruggere non tanto il teatro, come si temeva, quanto sé stesso.

Pirandello ribalta, dunque, il problema, nella convinzione che a rischiare sia in verità proprio il cinema che regredirebbe a teatro fotografato, tranquillizzando tutti coloro che temono uno schermo parlante e concorrenziale al palcoscenico:

«Le forme, finché restano vive, cioè finché dura in esse il movimento vitale, sono una conquista dello spirito. Abbatterle, vive, per il gusto di sostituir loro altre forme nuove, e un delitto, e sopprimere un’espressione dello spirito. Certe forme originarie e quasi naturali, con cui lo spirito si esprime, non sono sopprimibili, perché la vita stessa ormai naturalmente si esprime con esse; e dunque non è possibile che invecchino mai e che siano sostituite, senza uccidere la vita in una sua naturale espressione. […] Ebbene, in questi giorni di grande infatuazione universale per il film parlante, io ho sentito dire quest’eresia: che il film parlante abolirà il teatro; che tra due o tre anni il teatro non ci sarà più; tutti i teatri, cosi di prosa come di musica, saranno chiusi perché tutto sarà cinematografia, film parlante o film sonoro. Una cosa simile detta da un Americano, con quel piglio ch’è naturale agli Americani, d’allegra arroganza, anche quando paia (com’è) un’eresia, s’ascolta simpaticamente perché genuino è negli Americani l’orgoglio dell’enormità. […] Ma ripetuta, come l’ho sentita ripetere io, da un Europeo, una cosa così enorme e bestiale perde ogni grazia genuina e diventa stupida e goffa. […] Il teatro intanto, cosi di prosa come di musica, può star tranquillo e sicuro che non sarà abolito, per questa semplicissima ragione: che non è lui, il teatro, che vuol diventare cinematografia, ma e lei, la cinematografia, che vuol diventare teatro; e la massima vittoria a cui potrà aspirare, mettendosi cosi più che mai sulla via del teatro, sarà quella di diventarne una copia fotografica e meccanica, più o meno cattiva, la quale naturalmente, come ogni copia, farà sempre nascere il desiderio dell’originale». [48]

[48] Ivi, pp. 120-121.

Il fatto che tale preoccupazione provenga da un europeo allarma Pirandello, che avverte una sorta di cedimento da parte della roccaforte del teatro. In questo saggio vuole, allora elencare tutte le ragioni per cui il teatro non ha nulla da temere.

Sin dall’inizio, la cinematografia ha commesso l’errore di mettersi, «su una falsa strada, su una strada a lei impropria, quella della letteratura (narrazione o dramma)» [49], non disponendo dei mezzi per sostituire la parola e poterne fare a meno.

[49] Ivi, pp. 121-122.

Questo ha danneggiato non solo sé stessa, non trovando una sua propria libera espressione ma anche la letteratura che ridotta a sola visione perde i suoi valori spirituali che, «per essere espressi totalmente, hanno bisogno di quel più complesso mezzo espressivo che è loro proprio, cioè la parola». [50]

[50] Ibid.

Il cinema, invece, è un’arte a sé stante, dotata di autonomia stilistica ed espressiva che ha ragione di esistere solo nella perfetta fusione di immagine e musica, suo elemento naturale.

Per questo motivo, si continua a sbagliare se si vuole dare meccanicamente la parola alla cinematografia dato che il rimedio è peggiore del male e anziché risolvere il problema lo aggrava:

«Ora, dare meccanicamente la parola alla cinematografia non rappresenta mica un rimedio al suo errore fondamentale, perché anziché sanare il male lo aggrava, sprofondando la cinematografia più che mai nella letteratura. Con la parola impressa meccanicamente nel film, la cinematografia, che è muta espressione di immagini e linguaggio di apparenze, viene a distruggere irreparabilmente sé stessa per diventare appunto una copia fotografata e meccanica del teatro: una copia per forza cattiva, perché ogni illusione di realtà sarà perduta». [51]

[51] Ibid.

Le immagini non parlano e se parlano si crea una sproporzione fra l’attore vivo e in carne ed ossa, che recita durante le riprese, e la sua ombra in celluloide, immateriale e proiettata invece sullo schermo, tanto più se gli scenari e le ambientazioni del film cambiano, mentre la voce che suona nella sala rimane sempre la stessa:

«La voce è di un corpo vivo che la emette, e nel film non ci sono i corpi degli attori come a teatro, ma le loro immagini fotografate in movimento […]. Le immagini non parlano; si vedono soltanto se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre e turba come una cosa innaturale che scopre e denunzia il meccanismo. […] le immagini nel film si vedono muovere nei luoghi che il film rappresenta […] mentre la voce suona sempre dentro la sala presente, con un effetto, anche per questo, sgradevolissimo d’irrealtà, a cui s’è voluto portare un rimedio anche qui peggiore del male mettendo ogni volta, e una alla volta, in primo piano le immagini che parlano, con questo bel risultato: che il quadro scenico è perduto; la successione delle immagini parlanti sullo schermo stanca gli occhi e toglie alla scena dialogata ogni efficacia; e infine la constatazione chiarissima che le labbra di quelle grandi immagini in primo piano si muovono a vuoto perché la voce non esce dalla loro bocca, ma viene fuori grottescamente dalla macchina, voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloqui, accompagnato da quel ronzio e friggio insopportabile dei grammofoni. Quando il progresso tecnico sarà riuscito a eliminare questo friggio e a ottenere la perfetta riproduzione della voce umana, il male principale non sarà in alcun modo riparato, per l’ovvia ragione che le immagini resteranno immagini e le immagini non possono parlare». [52]

[52] Ibid.

Seguendo questa direzione, il cinematografo non abolirà il teatro ma sé stesso. «Il teatro resterà il suo originale sempre vivo e, come ogni altra cosa viva, di volta in volta mutevole» [53], laddove esso sarà una copia stereotipata e innaturale.

[53] Ivi, p. 123

Se dunque al teatro spetta di ritrovare la parola e il corpo dell’attore, il cinema deve restare il regno delle pure visioni e liberarsi dalla letteratura per trovare la sua vera espressione:

«Bisogna che la cinematografia si liberi dalla letteratura per trovare la sua vera espressione e allora compirà la sua vera rivoluzione. Lasci la narrazione al romanzo, e lasci il dramma al teatro. La letteratura non è il suo proprio elemento; il suo proprio elemento è la musica. Si liberi dalla letteratura e s’immerga tutta nella musica. Ma non nella musica che accompagna il canto: il canto è parola: e la parola, anche cantata, non può essere delle immagini; l’immagine, come non può parlare, cosi non può anche cantare. […] Io dico la musica che parla a tutti senza parole, la musica che s’esprime coi suoni e di cui essa, la cinematografia, potrà essere il linguaggio visivo. […]

Cinemelografia, ecco il nome della vera rivoluzione: linguaggio visibile della musica. […] Se finora la letteratura è stata un mare avverso, su cui la cinematografia ha malamente navigato, domani, superate le due colonne d’Ercole della narrazione e del dramma, essa sboccherà liberamente nell’oceano della musica, dove a vele spiegate potrà alla fine, ritrovando sé stessa, approdare ai porti prodigiosi del miracolo». [54]

[54] Ivi, pp. 124-125.

Secondo la sua maniera di vedere, Pirandello considera il cinema parlato un’esperienza senza esito perché si tenta «di ottenere nel cinema effetti riservati per la scena e perché non può allo stesso tempo rendere giustizia all’idea della produzione e all’idea della pellicola». [55]

[55] L. Pirandello, il dramma e il cinematografo parlato, «La Nación», Buenos Aires, 7 luglio 1929 in F. Càllari, op. cit., p. 125.

Successivamente, lo scrittore cambia ancora atteggiamento nei confronti del cinema sonoro, accettando l’idea di immagini parlanti sullo schermo e criticando, ora, la pratica del doppiaggio. In una lettera a Marta Abba scrive:

«L’avvenire dell’arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là – credi – bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario: mi sono ricreduto». [56]

[56] Lettera a Marta Abba, Berlino, 27 maggio 1930, in M. Fino, op. cit., p. 89.

Questa lettera, datata 27 maggio 1930, contiene una testimonianza molto importante, dal momento che Pirandello per la prima volta accetta apertamente l’idea del parlato. [57]

[57] Ibid.

La ragione di questa sua conversione è probabilmente indotta dal successo di pubblico e di critica riscosso dal primo film italiano sonoro, La canzone dell’amore, uscito l’8 ottobre 1930 e tratto dalla novella pirandelliana In silenzio.

Nonostante il successo del film, l’autore però non approvò i mutamenti imposti alla novella dalla resa cinematografica poiché non rispettavano il testo originario, affermando che se si fosse realizzata com’è nel testo originale, sarebbe stata non soltanto opera d’arte cinematografica ma che il suo successo sarebbe stato di gran lunga superiore. [58]

[58] P.M. De Santi, op.cit., pp. 35-36.

Due anni dopo, «perseguendo l’obiettivo dell’opera d’arte cinematografica, si convinse che l’unica possibilità di elevare il film a opera d’arte fosse quella di basarsi su soggetti e sceneggiature originali» [59] e nacque, così, la sceneggiatura di Gioca, Pietro!

[59] Ibid.

Nel pubblicizzare lo scenario da lui scritto appositamente per il cinema, Pirandello, dimostra di aver accettato l’idea del sonoro, ponendo però una condizione imprescindibile, quella cioè di rinunciare al doppiaggio:

«Lo scenario che ho consegnato in questi giorni alla Cines e che s’intitola Giuoca, Pietro! superando gli equivoci delle deleterie esperienze, vuol essere uno dei primi saggi di cinematografia parlata e sonora, secondo le mie conclusioni». [60]

[60] E. Roma, Pirandello e il cinema, «Comoedia», 15 luglio-15 agosto 1932 in M. Fino, op. cit., p. 90.

L’intenzione di Pirandello era quella di applicare alla sceneggiatura la sua teoria sulla cinemelografia, vale a dire una stretta connessione tra cinema e inconscio, e «sulle possibilità che il cinema, più del teatro e della letteratura, ha di rendere la visione del pensiero (il subcosciente, l’onirico e il visionario)». [61]

[61] Ibid.

In conclusione, c’è sicuramente un elemento che può far comprendere meglio l’atteggiamento contraddittorio dello scrittore verso questa forma d’arte, Questo va ricercato nel saggio L’Umorismo, del 1908, dove egli parla del sentimento del contrario, che sta alla base della concezione umoristica pirandelliana. [62]

[62] N. Genovese, Le metamorfosi del testo… cinematografico: analisi del rapporto tra Pirandello e il Cinema in A.a.V.v. Pirandello e le metamorfosi del testo: atti del convegno internazionale, Lovanio (B) Helmond (NL), 24-25 giugno 2005, a cura di B. Van den Bossche, F.Musarra e I. Melis,  Firenze, Franco Cesati Editore, pp. 57-58.

Esso corrisponde ad una visione della realtà spesso contraddittoria che, scomponendosi dentro di noi fa sì che «ogni sentimento, ogni pensiero, ogni moto che sorge si sdoppia subito nel suo contrario». [63]

[63] L. Pirandello, L’umorismo, Milano, Oscar Mondadori, 2009, p. 139.

Per tale motivo, quest’atteggiamento ambiguo di Pirandello nei confronti del cinema «rispecchia inequivocabilmente quel sentimento del contrario, che, d’altronde, permea tutta la sua opera letteraria e teatrale e la sua stessa esistenza». [64]

[64] N. Genovese, Le metamorfosi del testo… cinematografico: analisi del rapporto tra Pirandello e il Cinema in A.a.V.v., Pirandello e le metamorfosi del testo, cit. p. 58.

Immacolata Esposito

Pirandello e il cinema

Indice

CAPITOLO 1. Le riflessioni di Pirandello sul cinema
CAPITOLO 2. Analisi dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore
CAPITOLO 3. Le trasposizioni cinematografiche del Fu Mattia Pascal
Bibliografia

Indice Tematiche

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