«La morte addosso», analisi della novella di Luigi Pirandello

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Di Riccardo Mainetti.

La vita. La vita che sfugge. Che ci sfugge di sotto il naso come un treno che non siamo riusciti a prendere per un soffio.

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La morte addosso

«La morte addosso», analisi della novella

Per gentile concessione dell’Autore.

La vita fugge via come un treno

La vita. La vita che sfugge. Che ci sfugge di sotto il naso come un treno che non siamo riusciti a prendere per un soffio. La vita è al centro di quella che è forse, se non sicuramente, la mia preferita tra le “Novelle per un anno” del Genio di Girgenti, al secolo Luigi Pirandello: “La morte addosso”. Come novella forse ai più non dirà molto, ma se vi nomino l’opera teatrale che ne è stata tratta, ovvero “L’uomo dal fiore in bocca” forse tutto comincerà a diventarvi più chiaro. Protagonisti di questa novella pirandelliana sono due uomini. Due uomini senza nome, quasi a voler rimarcare il fatto che, pur essendo loro i protagonisti “evidenti” della vicenda vi è, in fondo, nascosta in secondo piano, un’altra più importante protagonista nella vicenda narrata ne “La morte addosso”. No! Non si tratta, come si potrebbe essere portati a credere, della morte. Affatto! La protagonista de “La morte addosso” è, invece, se vogliamo per assurdo, proprio la vita. La vita piena di impegni, di commissioni e di stress dell’uomo che entra nel bar dopo aver perso il treno per un soffio, per colpa, dice lui, dei mille pacchetti e pacchettini contenenti gli acquisti che aveva dovuto fare per moglie, figlie e amiche di moglie e figlie. E la vita che sfugge via, pian piano ma inesorabilmente, giorno dopo giorno, al proprietario del bar, in una delle versioni teatrali dell’opera interpretato da Vittorio Gassman.

Vita che il proprietario del bar vive, potremmo quasi dire “per procura”, osservando la vita e l’agire quotidiano delle altre persone. Non però, lo dice lui stesso con grande enfasi, la vita delle persone a lui legate, che conosce. No! La vita che egli ama vivere, in quanto la sua gli sta venendo meno, strappata via, come i fili d’erba di un cespuglietto ai lati della strada, da un male inesorabile ma dal nome “più dolce di una caramella”, l’epitelioma, “il fiore in bocca” dell’opera teatrale, appunto. Il barista, o proprietario del bar, confessa al suo estemporaneo ascoltatore di amare intrattenersi a guardare dalle vetrine dei negozi la gente che fa le proprie spese, ammirando al contempo la maestria dei ragazzi di bottega. Gli confessa anche gli scontri, aspri e talvolta violenti, che egli ha con la moglie che, ben sapendo che il marito è malato vorrebbe tenerlo “imprigionato” dentro casa. Lui invece sente la necessità, una necessità fisica, di evadere da quella che lui vede come una prigione. Questa confessione-monologo spazia in vari meandri e si conclude con una richiesta che non può non far provare tenerezza nel lettore. L’uomo del bar, “L’uomo dal fiore in bocca”, chiede al suo ascoltatore, l’uomo che a breve lascerà il locale per rituffarsi nella propria vita quale che sia, di scegliere un cespuglio, al lato della strada che verosimilmente si troverà a percorrere la mattina seguente per recarsi dalla stazione fino al paesello dove lui con la sua signora e le sue figlie sono in villeggiatura, e di contarne i fili d’erba. “Quanti saranno i fili tanti saranno i giorni che ancora io vivrò”, dice l’uomo del bar ed aggiunge di scegliere un cespuglio bello grosso, segno questo che, nonostante tutto, egli la propria vita vorrebbe, anzi vuole, viverla ancora a lungo. Se possibile!

Riccardo Mainetti

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