Va bene – Audio lettura 4

Legge Giuseppe Tizza
«Il professor Corvara Amidei non ci ha fatto mai caso; ma ripete frequentissimamente (quando qualche cosa gli va proprio male) quel suo: E va bene! E ormai tutti quegli scrivani, fra loro, non lo chiamano altrimenti che il professor Va bene.»

Prima pubblicazione: Nuova Antologia, 1 novembre 1905, poi in Erma bifronte, Treves, Milano 1906.

Va bene. audiolibro 4
Fritz von Uhde (1848-1911), Alla finestra, 1890

Va bene

Voce di Giuseppe Tizza

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             I. Stato di servizio (fino addì 5 marzo del 1904). A Sorrento, da Corvara Francesco Aurelio e Florida Amidei, nella notte dal 12 al 13 febbrajo dell’anno 1861, nasce Cosmo Antonio Corvara Amidei, e subito è accolto male: a sculacciate; preso per i piedi dalla levatrice e tenuto per qualche momento a testa giù, perché, quasi strozzato a causa delle doglie stanche della madre, è entrato nel mondo senza strillare.

             Botte, finché non strilla.

             Entrando, bisogna strillare.

             Dal 13 di febbrajo del 1861 al 15 di marzo del 1862, cinque balie. La prima e la seconda, cambiate perché scarse di latte; la terza, perché nel fargli il bagno, una mattina, lo tuffa nell’acqua ancor quasi bollente, scordandosi di temperarla. Scottatura di secondo grado. E per morirne; Dio misericordioso non vuole; ma gli muore, invece, la madre. La quarta balia lo lascia cadere tre volte dal letto e non di più; e gli fa poi ruzzolare la scala, insieme con lei, una volta sola. Ferite di poco conto: la più grave, rottura dell’osso del naso.

             A nove anni, dopo aver sofferto tutte le malattie, che sono come i gradini per cui dalla tenera infanzia – con l’ajuto del medico da un lato e del farmacista dall’altro – si sale alla vispa fanciullezza, Cosmo Antonio Corvara Amidei, animato da fervido zelo religioso, entra in seminario.

             Pochi giorni prima d’entrarvi, seguendo alla lettera una delle sette opere corporali di misericordia, s’era spogliato d’un bell’abituccio nuovo che il babbo gli aveva portato da Napoli; ne aveva vestito un povero ragazzetto che se ne stava su la spiaggia ignudo nato, ed era ritornato a casa col solo berrettino da marinajo in capo. In compenso, il babbo gli aveva detto tante belle cose, imbecille, somaro, scimunito, e gli aveva carezzato con tanto slancio gli orecchi, che per miracolo non glieli aveva strappati.

             In seminario Cosmo Antonio Corvara Amidei studia e attende alle pratiche religiose con grandissimo fervore; tanto che – a sedici anni – minaccia di dare in tisico. Tutt’a un tratto, però, quando ha già preso i primi ordini religiosi, gli avviene d’impuntarsi in questo passo del trattato De Grafia:

             «Si quis dixerit gratiam perseverantiae non esse gratis datam, anathema sit».

             Perché la perseveranza, per il caso che qualcuno volesse saperlo, è – secondo la teologia cattolica cristiana – una grazia che Dio concede a chi vuol salvare, senza attenzione ai meriti o ai demeriti del salvando.

             Deus libere movet, dice San Tommaso.

             Cosmo Antonio Corvara Amidei ci ragiona su ben bene parecchie settimane, e una notte alla fine vien sorpreso in camicia, con una candela in mano, infocato in volto, con gli occhi sbarrati, brillanti di febbre, che va cercando per il dormitorio una chiave.

             Che chiave?

             La chiave della perseveranza.

             È ammattito. Per fortuna, gli sopravviene la meningite. Esce dal seminario. Un mese tra la vita e la morte.

             Quando alla fine può riaversi, ha perduto la fede; ma pare che abbia perduto anche tant’altre cose: i capelli, intanto, la parola, un po’ anche la vista; non si ricorda più di nulla e sta, circa un anno, intronato e come levato di cervello. Si riscuote a furia di trombate d’acqua alla schiena; e, a ventidue anni e qualche mese, può presentarsi agli esami di licenza liceale e andare a Napoli, all’Università, per addottorarsi in lettere e filosofia, Calvo, mezzo cieco e col naso schiacciato dalla caduta infantile.

             Nell’ottobre del 1887 ottiene, per concorso, il posto di reggente nel ginnasio inferiore di Sassari. I ragazzi, si sa, sono vivaci; il professore è brutto e non ci vede molto: dunque, baldoria; e, per conseguenza, continue riprensioni del direttore del ginnasio al subalterno che non sa tenere la disciplina. Ma anche per le vie di Sassari il professor Cosmo Antonio Corvara Amidei è sbeffeggiato da tutti i monelli, finché non viene un collega, Dolfo Dolfi, professore di scienze naturali, che prende a proteggerlo in iscuola e fuori; anzi fa di più: lo invita ad accasarsi con lui (novembre del 1888).

             Dolfo Dolfi entra tardi nell’insegnamento, senza titoli, senza concorso, per protezione d’un deputato autorevolissimo, dopo aver fatto l’esploratore in Africa e per tant’anni a Genova il giornalista: s’è battuto una decina di volte, e ne ha prese e ne ha date, più date che prese; è libero pensatore, e ha con sé una figliuola naturale, a cui ha imposto questo magnifico nome: Satanina.

             Protetto da Dolfo Dolfi, Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe finalmente rifiatare, ma non può: il suo protettore non gliene lascia il tempo: gli parla de’ suoi viaggi, delle sue campagne giornalistiche, de’ suoi duelli; gli narra le sue innumerevoli, straordinarie avventure, e vuole anche discutere con lui di filosofia, di religione, ecc. ecc. Bestialità, con tanto di petto in fuori. (Nota bene: Dolfo Dolfi ha la faccia piena di nei e, parlando, se li arriccia tutti; una gamba qua, una gamba là.) Cosmo Antonio Corvara Amidei si fa piccino piccino, man mano che quegli le sballa più grosse, e approva, approva senza mai contraddire. Egli ormai è ben protetto, non si nega; gli alunni e i monellacci di strada per paura del Dolfi lo lasciano in pace; ma è vero altresì eh’egli, non è più padrone di sé, del suo tempo, del suo misero stipendiuccio di professore di ginnasio inferiore. Se ha bisogno imprescindibile di qualche soldino, deve domandarlo a Satanina, e la ragazza, che ha già quindici anni e fa da mammina, glielo dà con gran mistero, raccomandandogli di non farne sapere nulla, per carità, al babbino, che altrimenti vorrebbe anche lui la sua parte per i minuti piaceri, e dove s’andrebbe a finire?

             Buona ragazza, Satanina; tanto che Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe chiamarla più brevemente e graziosamente Nina, Ninetta; ma Dolfo Dolfi non vuole.

             – Che Nina! che Ninetta! Satana, si chiama Satana:

             Salute, o Satana, O ribellione, O forza vindice Della ragione.

             Si va avanti così tre anni.

             Tutti domandano al professor Corvara Amidei come faccia a andar d’accordo con quella bufera d’uomo che è il professor Dolfo Dolfi; egli si stringe nelle spalle; apre le mani e abbozza un sorriso squallido, socchiudendo gli occhi; perché con quella domanda – è facile intenderlo – la gente vorrebbe farlo capace della sua imbecillità.

             Eh sì; Cosmo Antonio Corvara Amidei, in fondo, sarebbe anche disposto a ammettere la propria imbecillità; non ne è però al tutto convinto, giacché, a pensarci bene, gli pare che sia forse alquanto più imbecille di lui la vita in genere, ecco; e che non valga perciò la pena d’essere o d’apparire accorti o scaltri, massime quand’essa dimostri con tanta perseveranza l’impegno di volerla proprio pigliare coi denti contro di uno. In questo caso, bisogna lasciarla fare, la vita, che un fine forse – nascosto – lo ha; e, se non ha un fine, avrà pure una fine, questo è certo.

             L’ebbe, difatti, un bel giorno e d’improvviso, la fine. Ma non per lui, ahimè! Per il professor Dolfo Dolfi. Colpo apoplettico fulminante, mentre faceva lezione (16 marzo 1891).

             Cosmo Antonio Corvara Amidei ne rimane esterrefatto. Non se l’aspettava! Gli pare che la casa sia diventata a un tratto vuota, misteriosamente vuota; perché nessun oggetto in essa ha un barlume d’anima, un qualche ricordo intimo per lui; e sembra invece che stia là, triste, a aspettar colui che non potrà più ritornare.

             Satanina piange inconsolabile. Egli, dapprima, non si prova nemmeno a consolarla, stimando che ogni sua parola sarebbe vana. Ma poi il direttore del ginnasio, i colleghi gli domandano come intenda di regolarsi con quella povera orfana rimasta così, in mezzo a una strada, senza diritto a pensione, senza alcun parente, né prossimo né lontano. Il professor Corvara Amidei risponde subito che se la terrà con sé, c’è bisogno di dirlo? le farà lui da padre, che diamine! Tanto il direttore del ginnasio quanto i colleghi, a questa sua risposta, alzano le spalle e socchiudono gli occhi, sospirando. Come! Non ne sono contenti? Non pare loro ben fatto? Il professor Corvara Amidei s’allontana sconcertato. Ne parla a Satanina, e – con suo sommo stupore – sente rispondersi anche da lei che non è possibile; ch’ella non può più, ormai, rimanere con lui; che le conviene andar via, al più presto, anzi subito.

             –    Dove?

             –    Alla ventura!

             –    E perché?

             Il perché glielo spiegano poco dopo i colleghi. Ha poco più di trent’anni il professor Corvara Amidei; e Satanina, già diciotto; dunque, non così vecchio ancora lui da farle da padre, né così giovine lei da essere semplicemente sua figlia. Chiaro, eh? Ma il professor Corvara Amidei si guarda prima la punta delle scarpe, poi quella delle dita; si prova a inghiottire. Intendono forse i suoi colleghi ch’egli dovrebbe… sposar Satanina? Appena quest’idea gli balena, rimane come basito; poi sorride amaramente. Via, glielo dicono per ischerzo. Si vede costretto a riparlare con Satanina, per convincerla che commetterebbe una pazzia, una vera pazzia, a andarsene – com’ella dice – alla ventura; e allora anche lei, Satanina, gli fa intendere che a un solo patto potrebbe rimanere con lui: a patto, sissignore, di diventare sua moglie.

             Cosmo Antonio Corvara Amidei teme d’impazzire, o che tutti si siano messi d’accordo per fargli una beffa atroce. Non riesce in alcun modo a capacitarsi come quella giovinetta possa sentire sul serio la necessità di diventare sua moglie, quasi che davvero la convivenza con lui possa dar pretesto a ciarle in paese. Ma possibile che tal necessità non le appaja quasi grottesca e, a ogni modo, ripugnante? Va a guardarsi allo specchio; si vede anche più brutto di quel che non sia: ingiallito dai patimenti e dalla miseria, squallido, calvo, quasi cieco. Pensa a lei, a Satanina, così giovine, così fresca, così florida, e ha come una vertigine. Sua moglie? Possibile? Si reca a ridomandarglielo, balbettando. E Satanina – sissignore – gli risponde di sì, senz’arrossire, e che anzi, se egli vi fosse disposto, ella gliene serberebbe eterna gratitudine.

             Cosmo Antonio Corvara Amidei si mette allora a piangere come un bambino, facendole con la mano cenno di tacere, per carità! Grata, lei? Ma che dice? E allora lui? Una tal gioja, dunque, gli serbava la sorte? Come crederci? Per più giorni il professor Corvara Amidei non può articolar parola.

             Le nozze si debbono affrettare, sia per la considerazione che i due fidanzati sono costretti a vivere insieme, sotto lo stesso tetto, sia per la speranza del direttore del ginnasio, che esse valgano a scotere il professore dal beato istupidimento in cui è caduto. Ma questa speranza riesce vana. Dopo le nozze – celebrate solo civilmente (14 marzo 1892), non potendo il professor Corvara Amidei sposare anche davanti a Dio, per i suoi precedenti impegni con la Chiesa – l’istupidimento cresce con la beatitudine.

             Quel che tanti anni di sofferenze non han potuto, può tutt’a un tratto la gioja. Cosmo Antonio Corvara Amidei dimentica la grammatica latina, dimentica tutto, diventa proprio inetto a ogni cosa. Non vede che Satanina; non pensa che a Satanina, non sogna che di Satanina; non attenderebbe più neanche a cibarsi, se Satanina stessa non ve lo costringesse; tanto gli basta la gioja di vedersela davanti, ridente e vorace; le darebbe da mangiare anche le sue misere carni, se le stimasse degne dei dentini di lei.

             Intanto, Dolfo Dolfi non c’è più per tenere a freno gli scolaretti in iscuola e i monellacci in istrada; e la gazzarra è scoppiata, in classe e fuori, più indiavolata che mai. Il direttore del ginnasio ne è furibondo; raffibbia al subalterno le più dure riprensioni; ma a che possono giovare? il professor Corvara Amidei lo guarda sorridente, come se non fossero rivolte a lui. Allora Satanina si vede costretta a scrivere a quel deputato tanto amico e protettore della buon’anima di suo padre, scongiurandolo di far valere la sua cresciuta autorità perché il professor Corvara Amidei sia tolto subito dall’insegnamento e chiamato invece a prestar servizio più tranquillo o in qualche biblioteca o al Ministero della Pubblica Istruzione.

             Così, due mesi dopo, Cosmo Antonio Corvara Amidei, con molto dispiacere de’ suoi scolaretti che, in fin dei conti, gli vogliono un gran bene, ma con piacere grandissimo del direttore del ginnasio e dei colleghi, parte per Roma, «comandato» al Ministero. Satanina è incinta, e soffre molto durante il viaggio di mare; ma non ci pensa più appena sbarcata a Civitavecchia; tal gioja le suscita il rimetter piede nel Continente, il pensiero di Roma, vicina.

             Ah, che bollore improvviso alza il sangue del padre avventuroso nelle vene di lei!

             Al Ministero, il professore Corvara Amidei è relegato nella stanza degli scrivani, come correttore. Ma non corregge nulla. Quei miseri impiegatucci alla giornata han fiutato subito con chi hanno da fare. Fosse, putacaso, un vecchio ladro di bella reputazione, allora sì: inchini e scappellate; ma un povero galantuomo di quella fatta, perché rispettarlo? Del resto, non gli fanno nulla. Qualche scherzetto innocente, per passare il tempo, quando mancano le pratiche da ricopiare. Degli errori poi, che essi commettono ricopiando, la colpa – si sa – è appioppata a lui, al professor Corvara Amidei.

             –    Mi raccomando, signori miei; lasciatemi riveder le carte. Attenzione! Lei, ragione, con una g sola la scriva, per piacere, mi raccomando!

             –    Meglio abbondare, professore, meglio abbondare quando si tratta di ragione.

             –    E va bene! – sospira il professor Corvara Amidei, stringendosi nelle spalle, allungando il collo e socchiudendo gli occhi dietro le lenti doppie, da miope, che pajono due fondi di bottiglia.

             Gli scrivani, ogni qual volta gli sentono emettere questo sospiro: E va bene! scoppiano a ridere a coro. Perché? Il professor Corvara Amidei non ci ha fatto mai caso; ma ripete frequentissimamente (quando qualche cosa gli va proprio male) quel suo: E va bene! E ormai tutti quegli scrivani, fra loro, non lo chiamano altrimenti che il professor Va bene.

             Quand’egli viene a saperlo, si stringe nelle spalle, sorridente, allunga il collo, socchiude gli occhi, è proprio lì lì per sospirar… Ah, ecco, dunque è vero, sì: ha preso questo vezzo, senz’accorgersene, per la lunga abitudine di rassegnarsi ai colpi del destino avverso. Ma, ormai, un compenso a tutto ciò che ha sofferto, a tutto ciò che gli toccherà forse a soffrire ancora, lo ha, e non gì’importa più di nulla. Lo sbeffeggino pure tutti gli scrivani del mondo, lo chiamino Va bene, Va male, Va zero, come che sia; egli ha ora Satanina, e se n’infischia. A lei, dal Ministero, tien fisso di continuo il pensiero e quasi la vede, là, nelle stanze dell’umile casetta presa a pigione in Via San Niccolò da Tolentino.

             Il 15 di agosto del 1893, Satanina dà felicemente alla luce un maschietto, Dolfino. Fra l’esultanza quasi delirante, un solo piccolo guajo: Satanina non si sente di allattare da sé il figliuolo. E Dolfino è messo a balia, lontano, in un paesello della Sabina. Pazienza! Vuol dire che d’ora in poi il professor Corvara Amidei farà a meno del sigaro, del caffè e di qualche altra coserella, per pagar le spese del baliatico.

             Quando il saltimbanco, tra l’accorato stupore della folla raccolta intorno, fa lavorare un suo pagliaccetto gracile, pallido, come grida? «Ancora più difficile, signori! Stiano a vedere: si passa a un esercizio ancora più difficile!»

             Quanti esercizi, dalla nascita in poi, il destino saltimbanco non aveva fatto eseguire a Cosmo Antonio Corvara Amidei, suo pagliaccetto? Ma il più difficile, ancora non gliel’aveva fatto eseguire. Aspettava il giorno 20 maggio dell’anno 1894.

             Con un cartoccio di schiumette sotto il braccio (quanto piacciono le schiumette a Satanina!) il professor Corvara Amidei rincasa quel giorno, al solito, alle ore diciotto e mezzo precise; sale la scala interminabile; trae il chiavino; cerca e trova a tasto il buco della serratura; apre; entra. Satanina non è in casa. E dov’è? Ella non suole mai andar fuori a quell’ora. Qualcosa, certamente, dev’esserle accaduta; perché, né la tavola nel salottino da pranzo è apparecchiata, né in cucina c’è alcunché preparato per il desinare: i fornelli, spenti; e tutto in ordine, come a mezzogiorno ha dovuto lasciarlo la servetta che tengono a mezzo servizio, per la spesa e la pulizia di casa. Ma che mai può essere accaduto a Satanina? Forse qualche improvvisa chiamata della balia di Dolfino? E sarebbe partita così, senza neppure avvertirlo al Ministero? Ridiscende la scala quant’è lunga, per domandare al portinajo qualche notizia; ne domanda anche ai bottegaj lì presso, alla servetta del pigionale che gli sta accanto: nessuno sa nulla. Su, in casa, non può resistere a lungo al contrasto fra la confusione che ha nell’animo e l’ordine e la quiete delle tre stanzette, le quali pare stieno a aspettare, con tutti i mobili, che la placida vita consueta seguiti a svolgersi fra loro. Esce., dapprima senza meta, in cerca; poi si reca al Telegrafo e spedisce alla balia di Dolfino un telegramma d’urgenza, con risposta pagata; seguita a gironzolare, di qua e di là, dove lo portano i piedi, con la testa che gli gira come un molino; e non s’accorge neppure che s’è fatto bujo. Quando gli pare che il telegramma di risposta non possa ormai più tardare di molto, rincasa con la speranza di trovar su Satanina; ma il portinajo gliela leva subito; e allora egli si sente così stanco, così stanco, da non saper come fare a risalire ancora una volta tutta quella scala. Come Dio vuole, ci riesce; entra al bujo, al bujo perviene nella camera da letto, al bujo rimane a attendere, sprofondato in una poltrona.

             Gli pare a un certo punto che un ronzio strano si sia messo a turbinargli dentro, nel capo, nel ventre, fin nelle piante dei piedi e nei ginocchi, sommovendo, sconvolgendo, attirando nella sua furia pensieri e sentimenti; ma quando, di lì a poco, intronato, si reca alla finestra per spiare se qualche fattorino del Telegrafo si faccia alla porta di casa, s’accorge che quel ronzio turbinoso proviene – eh maledetta! – da una lampada elettrica che s’è stizzita, giù, in mezzo alla via.

             All’alba arriva finalmente la risposta della balia – negativa. L’ultimo filo di speranza, così, è spezzato.

             Poche ore dopo, viene la servetta per far la spesa giornaliera e rimettere in ordine la casa. E una toscanina; tozza, ma svelta; muso duro e linguacciuta.

             –    Ben alzato!

             –    Non c’è… – le annunzia, con aria stralunata e con faccia cadaverica, il padrone. – Da jeri.

             –    Via! O che mi dice?

             Il professor Corvara Amidei apre le braccia; poi si cala pian piano a sedere su una seggiola e rimane lì, come inebetito. Aggiunge:

             –    Tutta la notte.

             –    O dove mai la pol’essere andata?

             Il professor Corvara Amidei apre di nuovo le braccia.

             – Che provi un po’, sor padrone, – gli suggerisce allora quella, – che provi un po’ a cercarla giù, dove stanno que’ certi… ’un so… son forastieri, che fan le pitture. So d’uno che le faceva… ’un so, il ritratto.

             Il professor Corvara Amidei si scuote, la guarda un po’:

             –    A lei? Il ritratto a lei? E quando?

             –    Credevo che lo sapesse. Ma sì! La sora padrona ci andava ’gni mattina, ci andava. E poi, il dopopranzo.

             Egli rimane a bocca aperta, poi comincia a passarsi le mani nocchierute su le gambe, pian piano, zitto.

             – Vole, sor padrone, che vada giù io a sentire? In due salti… ’onosco lui, il pittore francese.

             Egli par che non senta, e la servetta allora scappa via. In capo a pochi minuti è su di nuovo, affocata, ansimante. Appena può trar fiato:

             – Eh, mi pareva assai! – esclama. – Ito via, anche lui. Da jeri. Sicché, via, ’oincide.

             Il professor Corvara Amidei seguita a star muto, col volto immobile, da ebete, e a passarsi meccanicamente le mani sulle gambe. La servetta sta un pezzo a mirarlo, impietosita, poi esclama tra sé, alludendo alla padrona:

             «Imbecille, vah! Poteva starsene qua, col su’ sposo che la trattava ’osì perbenino, tranquillo là, poer’omo, come una tartaruga». – Su via, sor padrone, si faccia animo, su! ’un stia ’osì, si dia uno sfogo. ’Gnorantaccia, sa! L’amore… Sa com’è? L’è come il latte messo al foco, che prima si gonfia, poi alza il bollo e scappa via… Su, su, coraggio. Si provi un po’ a votarsi il core, sor padrone… ’un stia ’osì!

             Ma il professor Corvara Amidei, a queste ingenue, amorevoli esortazioni, tentenna appena il capo; non dice nulla. Non piange, perché non gl’importa di far conoscere che soffre; non vuole intenerire, né chieder conforto 0 commiserazione. E stupito, in fondo, di non provare tutto quel cordoglio che forse qualche volta aveva pensato di dover provare se Satanina o l’amore di lei, per un caso atroce imprevedibile, gli fossero venuti a mancare. Ed ecco: nulla, invece, nulla. S’aspettava forse che il mondo dovesse crollare, o lui per lo meno restarne fulminato. Ed ecco, invece, nulla, nulla. Egli, ora, può licenziare la serva, pagarle il resto della mesata, rispondere anche alle altre esortazioni ch’ella gli fa nell’andarsene, col suo solito:

             – E va bene… E va bene…

             Rimasto solo, però, rimessosi a sedere, s’accorge tutt’a un tratto che non ha più voglia neppure d’alzare un dito, e che il mondo, dunque, davvero è crollato per lui; ma, così, quietamente, senza parere. Le sedie stanno lì, l’armadio sta lì, il letto lì… ma per che farne più, ormai?

             Egli ora si stropiccia un po’ più forte le gambe con ambo le mani, istintivamente, perché si sente preso dal freddo, da un freddo curioso, alle ossa, invadente. Ma non si muove. Ripete fra sé quelle poche notizie che gli ha dato la servetta: «Il ritratto… Il pittore francese… Ci andava ogni mattina…». E ora comincia a battere anche i denti, seguitando a stropicciarsi più forte, senza saperlo, le gambe che gli ballano. Quelle tre idee: del ritratto, del pittore francese e di lei che ci andava ogni mattina, gli si fissano nel cervello, come tre stellette di carta, di quelle che piglian vento e girano. Gli s’annebbia la vista; trema tutto; perde i sensi; casca dalla seggiola, e resta lì.

             Siamo nel marzo del 1904. Sono passati nove anni e dieci mesi. Il professor Corvara Amidei non si ricorda più, quasi, d’essere stato lì lì per morire all’ospedale, allora, dopo quell’esercizio ancora più difficile. Il pensiero del figlioletto lontano, là, in un paesello della Sabina, lo ha salvato. Ora egli lo ha con sé, Dolfino. Ma il povero ragazzo, che ha già dieci anni e par che li abbia proprio per forza, tirati, tirati su dalle più minuziose cure del babbo, il povero ragazzo corre ahimè il rischio d’aver la stessa fortuna del padre: o forse no, si spera: perché, così gracile, così miserino com’è, sembra accenni piuttosto di volersene andare dello stesso male, di cui il babbo fu minacciato da ragazzo, quand’era al seminario.

             Dolfino sapeva, fino all’età di otto anni, che la mamma sua era morta nel darlo alla luce; ma, due anni fa, un bel giorno, mentre il padre si trovava all’ufficio, aveva veduto entrare in casa una certa signora vestita alla bizzarra, incipriata, imbellettata, la quale, fra molte lagrime, aveva avuto il piacere di assicurargli che non era vero niente, perché la mamma sua, invece, eccola qua, viveva ancora; era lei, proprio lei, che gli voleva bene, oh tanto! e voleva star sempre sempre con lui e curarlo e carezzarlo giorno e notte così, come faceva ora, così, il figlietto suo bello, il righetto suo caro.

             Se non che, la balia che lo aveva allevato e che, rimasta vedova e sola, era venuta a trovarlo per star con lui, da governante ora e da serva, rientrando in casa con la spesa giornaliera, s’era scagliata addosso a quella femmina, le aveva strappato il ragazzo dalle braccia; e il povero Dolfino, atterrito, aveva sentito ripetere dalla sua balia a colei che si diceva sua madre turpi parole, per cui le due donne eran venute alle mani, e n’era seguita una scena orribile, dopo la quale egli aveva dovuto mettersi a letto, assalito da una violentissima febbre.

             Cosmo Antonio Corvara Amidei s’era recato in questura a denunziare quella trista donna, che – non contenta di tutto il male fatto a lui – voleva farne dell’altro al figliuolo innocente.

             Satanina, che fin dall’età di diciott’anni, alla morte del padre, voleva andarsene – come si sa – alla ventura, fuggita col pittore francese che le faceva il ritratto, era stata quattr’anni a Parigi, poi a Nizza, poi a Torino, poi a Milano, cadendo man mano sempre più nel fango. Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, era stata veduta dal marito, il quale, nello scorgerla in quello stato, quantunque già se lo fosse immaginato, s’era sentito mancare in mezzo alla via ed era stato condotto in una farmacia, sorretto per le ascelle.

             Egli era già caduto in mano d’un certo prete sardo, conosciuto a Sassari, per nome don Melchiorre Spanu, il quale s’era fisso il chiodo di ricondurre all’ovile quella pecorella da tant’anni smarrita. Gli dava a leggere, nelle interminabili ore d’ufficio, libri e libri e libri d’argomento religioso; gli dimostrava con le più lampanti prove che unica e sola causa di tutte le sciagure sofferte era l’indegno modo con cui egli in gioventù s’era regolato con la Santa Madre Chiesa, e che non per nulla, certo, Dio pareva si volesse raccogliere ora nella sede degli angeli e dei beati quel caro ragazzo, quel buon Dolfino: insomma, era un sacro ammonimento, questo, perché il professor Corvara Amidei, l’apostata, rimasto solo, si fosse indotto a entrare in qualche convento: per esempio, in quello della Trappa, alle Tre Fontane. Santo luogo, santo luogo; quello che proprio ci voleva per far penitenza.

             Sentendo questi discorsi, il professor Corvara Amidei si stringeva nelle spalle, protendeva il collo, socchiudeva gli occhi e ripeteva ancora una volta:

             – E va bene!

             Certi giorni, all’uscita dal Ministero, lo attendevano don Melchiorre Spanu di qua, sui gradini di Santa Maria della Minerva, la moglie di là, appoggiata maestosamente alla ringhiera del Pantheon. I due si lanciavano da lontano occhiatacce fulminanti: il prete, stropicciandosi le dita sul mento e su le guance, dove le ispide punte della barba pareva gli rinascessero ogni volta sotto il raschiamento del rasojo; la donna, con un sogghignetto perfido su le labbra dipinte.

             Il professor Corvara Amidei, uscendo ogni sera su la piazza, volgeva uno sguardo obliquo a quella ringhiera, dove di solito si appostava la moglie; ma andava diviato al prete, pur sapendo che quella in Via Pie di Marmo lo avrebbe senza dubbio raggiunto per chiedergli un po’ di denaro, ch’egli non sapeva negarle. Le aveva già negato più volte il perdono, sdegnosamente. A ogni nuovo assalto, per prevenire le rampogne del prete, si accostava a lui, sospirando, con la solita mossa, e stropicciandosi per di più le mani:

             – E va bene! E va bene!

             Intanto, era prossima la primavera: stagione più delle altre nociva ai malati di petto; e il medico aveva consigliato al professor Corvara Amidei di condurre Dolfino al mare, almeno per il primo mese, durante il quale l’aria di Roma sarebbe stata per lui troppo sottile.

             Così, Cosmo Antonio Corvara Amidei domandò un mese di licenza, e il dì 5 di marzo del 1904 si recò a Nettuno per appigionarvi un quartierino alla vista del mare.

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             II. La pigna. La promessa di quel mese di sollievo e di riposo non poteva essere migliore. Era piovuto fino al giorno avanti: ora, con la freschezza del primo limpido sole di marzo, pareva che la Primavera volesse dire: «Son qua».

             E veramente, al professor Corvara Amidei, affacciato al finestrino d’una vettura di terza classe, parve d’intravederla, la Primavera, appena uscito dalla stazione: alle porte di Roma, la Primavera, in un non so che di roseo fuggevole e palpitante tra il tenero verde dei prati. Che era? Forse un gruppo di peschi fioriti. Sì sì, eccone un altro, difatti, e un altro, e un altro. La Primavera! Ah da quanto tempo non l’aveva più veduta così, nel suo primo nascere, con quel roseo riso dei peschi!

             Trasse un lungo sospiro, e si sentì da quell’aria nuova inebriare, d’una ebrezza così limpida e pura, che lo intenerì fino alle lagrime. Gli parve una grazia che la sorte nemica gli volesse concedere quella vista deliziosa, da cui gli veniva una letizia così arcana che ora, ecco, non sapeva perché, pur lì presente, gli pareva dei lievi anni lontani della sua fanciullezza, là nell’incanto del suo paese nativo.

             E dimenticò allora, per un momento, tutte le sue sciagure, passate e presenti; il figliuolo tanto malato; quella donnaccia che lo disonorava; quel prete che l’opprimeva; la spesa superiore alle sue misere condizioni, alla quale bisognava pur sottomettersi per la speranza, forse vana ahimè, di recar bene a Dolfino; la noja cupa, amara; il peso enorme di quella sua insopportabile esistenza. Di contro a tutto il nero che aveva nell’anima, ecco il verde dei prati, l’azzurro del cielo e quella soave freschezza dell’aria, alito vivo della Primavera. E rimase, incantato, a mirare.

             Sì, poteva, poteva esser bella la vita; ma lì, in mezzo a quel verde, all’aperto, dove la sorte crudele, certo, non poteva esercitare, come in città, la sua feroce persecuzione. Di questa persecuzione per le opprimenti vie cittadine, egli aveva quasi un’immagine tangibile: se la sentiva realmente dietro le spalle, come un’ombra orrenda, che lo faceva andar curvo, guardingo, tutto ristretto in sé: sua moglie.

             Ne scacciò subito l’immagine, che gli aveva tutt’a un tratto offuscato la dolce visione, e si rimise a mirare. Ecco là i Monti Albani che pareva respirassero nel cielo, lievi, come se non fossero di dura pietra, Monte Cave, con la vetta incoronata di aceri e di faggi, e il vecchio convento e il bosco biancheggiante a mezza costa. Ecco, più là, Frascati solatia. Al fragore del treno si levò uno stormo di passeri, e un’allodola, in alto, librata sulle ali brillanti, trillò. Il professor Corvara Amidei si ricordò allora della prima proposizione della grammatica latina, che da tanti anni non insegnava più: alauda est laeta. E tentennò il capo. Ora, quasi quasi, gli parevano belli anche i suoi primi anni d’insegnamento, quando però non s’era ancor messo a far casa comune con quel…

             – E va bene! – sospirò, turbandosi di nuovo.

             Ma fu per poco. Passata la stazione di Carroceto, cominciò a sentir prossimo il mare, e tutta l’anima gli s’allargò, ilare e trepidante, nella viva aspettazione di quella tremula azzurra immensità, che da un momento all’altro gli si sarebbe spalancata davanti a gli occhi. Ah, il suo mare! Da quanto tempo più non lo vedeva, e che desiderio acuto, intenso, ardente, di rivederlo! Ma eccolo già! eccolo! eccolo! E il professor Corvara Amidei sorse in piedi, tutto tremante dall’emozione, si sporse dal finestrino, e bevve con tanta ansia e tanta voluttà la brezza marina, che n’ebbe una vertigine, e ricadde a sedere su la panca della vettura, con le mani sul volto.

             Il treno si arrestò ad Anzio, per pochi minuti, e il professor Corvara Amidei stette con tanto d’occhi a mirare ciò che dalla stazione si scorgeva della bella cittadina, dove non era mai stato. Scese, di lì a poco, alla stazione di Nettuno, ancora stordito e inebriato da quel primo respiro che, rivedendo il mare, aveva tratto proprio dal fondo dei polmoni, come non gli era più avvenuto da tanto tempo.

             Gli scrivani del Ministero gli avevano dato qualche ragguaglio del paese. Si recò nella piazza principale, e domandò dove avrebbe potuto trovare un quartierino modesto, di poca spesa, alla vista del mare. Gli fu indicato un villinetto lì sotto la piazza, a destra, su la spiaggia. Era veramente un po’ troppo caro per lui quel quartierino; ma, pazienza! La finestra della cameretta posta sul davanti, verso lo spiazzo, di fronte alla caserma dei soldati d’artiglieria che venivano in distaccamento per le esercitazioni di tiro, era appena all’altezza d’un mezzanino: quella della camera prospiciente il mare, all’altezza d’un secondo piano. E il mare, di qua, pareva proprio che volesse entrare in casa; non si vedeva altro che mare. Il professor Corvara Amidei pagò la caparra al proprietario, gli disse che sarebbe venuto a prender alloggio la mattina dopo, e scese sulla spiaggia.

             Dirimpetto al villino, dal lato di ponente, sorgeva e s’avanzava fin nel mare, maestoso, l’antico castello sansovinesco, annerito dal tempo. Salì su la scogliera sotto il castello, e lì rimase per più di un’ora stupefatto, a contemplare. Vide in fondo al mare levarsi azzurrino, quasi fragile, Monte Circello, come un’isola aerea, e più qua, seguendo la riviera, il Castello di Stura; vide prossimo, a destra, il porto d’Anzio, popolato di navi, nereggiante per il traffico del carbone, e poi la sterminata distesa delle acque, riscintillante al sole, così placida, che sulla spiaggia s’arricciava appena, silenziosamente. Quando alla fine potè scuotersi dal fascino di quello spettacolo, si recò a prendere un boccone; poi, sapendo che prima delle cinque non avrebbe trovato alcun treno per ritornare a Roma, pensò d’occupare le tre ore che aveva innanzi a sé in una visita al magnifico parco dei Borghese, a mezza via tra Anzio e Nettuno.

             Non ricordava d’aver mai passato un giorno più delizioso di quello in vita sua; si sentiva beato entro quel precoce, voluttuoso tepor primaverile, col mare di qua, sotto lo scoscendimento dell’altipiano, e il verde dei campi e dei boschi dall’altra parte. Il cancello del parco era aperto; e il professor Corvara Amidei s’avviava, ammirato, per uno dei viali in pendio, quando si sentì chiamare da una nanerottola che gli correva dietro come una papera:

             – Ehi! ehi! Si paga… si paga il biglietto!

             Cinque soldi. Li pagò, quantunque si fosse proposto di limitarsi nelle spese. E riprese a vagare per quei viali profondi, deserti, ombrosi, come in un sogno. In un sogno parevano veramente assorti quegli alberi maestosi, nel silenzio che il canto degli uccelli non rompeva, ma rendeva anzi più misterioso. Gli avevano detto che in quel parco quasi abbandonato c’erano molti usignuoli. Gli parve, ascoltando, di sentirne cantare uno, in fondo, e s’internò da quella parte. Si trovò, dopo un lungo tratto, in una meravigliosa pineta. I fusti altissimi, diritti, davan l’immagine di colonne d’un tempio gigantesco; le fitte corone, lassù, eran confuse ed escludevano del tutto lo sguardo dalla vista del cielo. Pareva che la pineta avesse una sua propria aria, cuprea, insaporata di quella frescura d’ombra speciale delle chiese.

             Il professor Corvara Amidei non seppe andar più oltre. Si tolse, quasi istintivamente, il cappello, e sedette per terra; poi si sdrajò.

             Da molti e molti anni, fra una grave sciagura e l’altra, i diuturni dolori gli avevano quasi vestito la mente d’una scorza di stupidità; le cure affannose, minute, gli avevano impedito di levar lo spirito a quelle considerazioni che in gioventù lo avevano travagliato fino a fargli perdere per un momento la ragione e poi la fede. Ora, in quel giorno di tregua, essendo finalmente riuscito a intravedere come si potesse davvero sentir la gioja di vivere, ebbe la cattiva ispirazione di provarsi di nuovo a penetrare nel folto di quelle antiche considerazioni. E si domandò perché mai egli, che non aveva mai fatto per volontà male ad alcuno, doveva esser così bersagliato dalla sorte; egli, che anzi s’era inteso di far sempre il bene; bene lasciando l’abito ecclesiastico, quando la sua logica non s’era più accordata con quella dei dottori della chiesa, la quale avrebbe dovuto esser legge per lui; bene, sposando per dare il pane a un’orfana, la quale per forza aveva voluto accettarlo a questo patto, mentr’egli onestamente e con tutto il cuore avrebbe voluto offrirglielo altrimenti. E ora, dopo l’infame tradimento e la fuga di quella donna indegna che gli aveva spezzata l’esistenza, ora quasi certamente gli toccava a soffrire anche la pena di vedersi morire a poco a poco il figliuolo, l’unico bene, per quanto amaro, che gli fosse rimasto. Ma perché? Dio, no: Dio non poteva voler questo. Se Dio esisteva, doveva coi buoni esser buono. Egli lo avrebbe offeso, credendo in lui. E chi dunque, chi dunque aveva il governo del mondo, di questa sciaguratissima vita degli uomini?

             Una pigna. Come? Sì: una grossa pigna, staccandosi in quel momento dai rami lassù, piombò, a guisa di fulminea risposta, sul capo del professor Corvara Amidei.

             Rimase il pover uomo a giacere, quietamente, privo di sensi, quasi fulminato. Quando potè riaversi, si trovò in una pozza di sangue. E ne perdeva ancora, da una bella ferita, che dal sommo del capo gli andava giù giù dietro l’orecchio. Ancor tutto intronato, riuscì a levarsi in piedi e a grande stento si trascinò fino al cancello della villa. La nanerottola di guardia, nel rivederlo in quello stato, col volto tutto imbrattato di sangue, strillò, inorridita:

             – Gesù! Che ha fatto?

             Egli levò un braccio tremolante e contrasse il volto in una smorfia, tra di spasimo e di riso:

             – La… la pigna, – balbettò, – la pigna che governa il mondo… già!

             «È matto!», pensò quella e, spaventata, s’affrettò a chiamare il boaro della latteria annessa alla villa, perché con l’ajuto d’uno dei ferrovieri che stavano lì presso al cancello a riattare la linea, quel disgraziato fosse condotto al vicino Sanatorio Orsenigo dei Fate Bene Fratelli.

             Qua il professor Corvara Amidei fu prima raso, poi medicato con sette bei punti di cucitura, e infine fasciato. Aveva fretta; temeva di perdere il treno. Il medico, sentendo ch’egli doveva mettersi in viaggio, volle abbondare in cautela, e gli combinò allora con le bende una specie di turbante, il quale gl’impedì d’assettarsi il cappello sul capo. Quando fu pronto, Cosmo Antonio Corvara Amidei si strinse nelle spalle, si provò pian piano a protendere il collo e, socchiudendo gli occhi, sospirò ancora una volta:

             – E va bene!

*******

             III. Il vento. «Tu, cara Primavera, non vedo perché debba proprio quest’anno venire innanzi al dì che gli uomini ne’ loro calendarii t’assegnano per il ritorno. L’inverno è stato piuttosto mite, e vorrebbe, prima di spirare, fare almeno un po’ di guasto: è nel suo diritto; vorrebbe che tu, per esempio, gli lasciassi il tempo di scaricarsi di qualche temporaletto che l’addoglia; ma se questo non ti garba perché temi che ti sporcheresti i rosei piedini, trovando troppo imbrattate le campagne e le vie della città per il tuo ingresso trionfale; egli ti fa sapere che è ancor tutto gonfio di vento, povero vecchio, e ti prega che sii contenta di fargli, se non altro, buttar fuori questo, che ti snebbierebbe anche l’aria ben bene e ti spazzerebbe le terre dalle sudicerie che v’ha fatto. Renderesti un gran piacere a lui e uno grandissimo a me, che proteggo tanto, se tu sapessi, un brav’uomo, fin da quand’egli è nato. Figurati, per dirtene una, che jeri, mentre egli si beava di te, steso a pancia all’aria nella pineta d’un bel parco, mi son divertita a fargli cadere in testa una pigna bella grossa e dura, che avrebbe potuto anche accopparlo, eh altro! ma io non ho voluto. Sai bene che porto nello stemma uri gatto che scherza col topolino e non l’uccide.»

             Come letta in altro tempo in un libro antico, perché la crudeltà ne apparisse più raffinata, se la ripeteva tra sé e sé, da quindici giorni, Cosmo Antonio Corvara Amidei, quella bellissima preghiera che certamente la sua buona sorte aveva dovuto rivolgere alla Primavera, e che questa – manco a dirlo – aveva subito accolto. Era ancora col turbante in capo, e se ne stava alla sponda del lettuccio di Dolfino, il quale, da che era sceso alla stazione di Nettuno, gli si consumava nel lento cociore della febbre, anche di giorno. Prima, almeno, a Roma l’aveva soltanto di notte, la febbre.

             E vento, e vento, e vento! Da quindici giorni non cessava un minuto, né dì né notte. Fischiava, mugolava, ruggiva in tutti i toni, ed era in certe scosse lunghe e tremende di tanta veemenza che pareva volesse schiantar le case e portarsele via. Pareva perché poi, in realtà, si portava via soltanto qualche tegola, abbatteva qualche albero o qualche palo telegrafico e infrangeva qualche vetro. Si divertiva poi a rendere furioso il mare, perché si ripigliasse la spiaggia, e venisse a rompersi fragoroso e spaventevole contro le mura delle case.

             Al professor Corvara Amidei sembrava di trovarsi su una nave assaltata e sbattuta dalla tempesta. Il povero Dolfino n’era atterrito, e lui non trovava più modo a confortarlo con qualche parolina, perché quel mugolo del vento, più che il fragore del mare, gli toglieva, non che la voce, ma finanche il respiro, gli torceva dentro le viscere, gli dava un’angoscia rabbiosa, e muta, che trovava solo, di tanto in tanto, un po’ di sfogo involontario nella gola della povera balia, la quale, per compir l’opera, s’era ammalata d’angina e doveva starsene a letto, anche lei.

             – Piano, per carità, signorino mio! – pregava quella, appena se lo vedeva davanti, come una fantasima, con la boccetta dell’acido fenico in una mano e il pennello nell’altra. – Piano, per carità!

             Si metteva a sedere sul letto e spalancava la bocca, che pareva un forno arroventato.

             Il professor Corvara Amidei non voleva far forte; ma, ogni volta, come se la veemenza del vento che s’abbatteva ai vetri gli spingesse il braccio, lasciava andare certe spennellature, che a quella poveretta per miracolo non schizzavan gli occhi dal capo.

             – Sputate! Sputate!

             E se ne tornava accanto a Dolfino, con una fissità truce negli occhi, mentre la boccetta dell’acido fenico gli tremava in mano. Acido fenico… veleno… ma troppo poco, troppo poco e diluito… non sarebbe certamente bastato… E poi, del resto, come lasciar Dolfino in quelle condizioni? No, via! La tentazione però era forte. Quel vento lo faceva impazzire.

             – Villeggiatura!… – borbottava tra sé.

             Già metà del mese era passata. La spesa in più del fitto, la mancanza dei comodi di casa, l’aggravamento del male di Dolfino, la malattia della serva: ci aveva guadagnato questo. E poi, ancora un po’ di pazienza: bisognava che si facesse tutto da sé: lui accendersi il fuoco, lui andar per la spesa, lui apparecchiar da mangiare… E non poter condurre, neanche per un minuto, il ragazzo sulla spiaggia; vedersi lì, in quelle tre stanzette, imprigionato, assediato dal mare e dal vento.

             Troppo, eh?

             –    Tiri tiri tiri  – piano piano, alla porta.

             –    Chi è?

             Ma lei, Satanina, si sa! venuta in groppa a quel vento; Satanina, la buona mammina, che vuole a tutti i costi rivedere il figliuolo malato.

             Entra, si precipita, cade in ginocchio ai piedi del professore, il quale indietreggia sbalordito; gli s’aggrappa alla giacca, gridando, scarmigliata:

             – Cosmo! Cosmo, per carità! Lasciami veder Dolfino mio! Perdonami! Salvami! Abbi compassione di me!

             E scoppia, così gridando, in un pianto dirotto, in un pianto vero, di lagrime vere, senza fine, e in singhiozzi anche, in singhiozzi non meno veri, che la scuotono tutta; e non si leva da terra, e si nasconde la faccia con le mani, seguitando a implorare:

             – Bacerò, bacerò la terra, dove tu metti i piedi, Cosmo, se tu mi perdoni, se tu mi salvi! Non ne posso più! Voglio esser tutta del mio Dolfino, ora! Lasciamelo assistere, curare, per carità!

             Cosmo Antonio Corvara Amidei casca a sedere su una seggiola, si nasconde il volto con le mani anche lui, benché in quella cameretta, veramente, per l’ombra della sera sopravvenuta, non ci si veda quasi più. Suona la campana dell’Avemaria.

             – Ave Maria…  – dice forte, apposta, la balia dal letto, cominciando la preghiera, per sottrarre il padrone alla tentazione.

             E Dolfino chiama dall’altra camera in fondo, sbigottito:

             – Papà… papà…

             Allora Satanina, come sospinta da una susta, scatta in piedi e corre dal figliuolo.

             Il professor Corvara Amidei rimane inchiodato su la sedia. Gli giungono dalla camera di Dolfino le tenere espressioni d’affetto che colei rivolge al figliuolo, il suono dei baci che gli dà. Gli sembra che d’improvviso un gran silenzio si sia fatto intorno, un silenzio misterioso, di fuori, come di tutto il mondo. Si toglie le mani dal volto e resta attonito, ad ascoltare. Un vetro si scuote, appena appena, alla finestra. Ah, il vento – ecco – il vento è cessato. E come mai? Si reca dietro la vetrata a guardare la via illuminata di là dal prossimo giardino annesso alla casa degli ufficiali. Sì, il vento è cessato, tutt’a un tratto. Si odono le voci degli ufficiali che escono allegri dalla mensa. Ma Dolfino è ancora al bujo, in camera, con colei; e il professor Corvara va per accendere la candela.

             – Lascia, faccio io! – gli dice subito Satanina. – Il lume dov’è? di là? E scappa a prenderlo, premurosa.

             –    Papà, – dice allora Dolfino, piano piano, – papà, io non la voglio… Fa troppo odore…

             –    Zitto, figliuolo mio, zitto…

             –    Papà, dove ti corichi tu? Per lei non c’è letto… Tu devi coricarti qui, papà, senti? accanto a me…

             –    Sì, bello mio, sì… Sta’ zitto, sta’ zitto…

             Silenzio. E perché non torna Satanina? Non trova forse il lume? Che fa? Il professor Corvara Amidei tende l’orecchio; poi avverte un fresco insolito alle gambe, come se colei di là avesse aperto la finestra. Possibile?

             Si leva dalla sponda del letto e va, al bujo, in punta di piedi, a origliare, fino all’uscio della camera che ha la finestra bassa sullo spiazzo, davanti la caserma. Satanina sta affacciata a quella finestra e parla sottovoce con qualcuno giù. Come! Con chi? Ah, spudorata! Ancora? Cosmo Antonio Corvara Amidei si stringe in sé, felinamente, le si accosta, senza fare il minimo rumore, e – quando le sente dire all’ufficiale che sta lì sotto: «No. Gigino, stasera no: non è possibile. Domani… domani, immancabilmente…» – si china, l’abbranca per i piedi, e giù! la rovescia dalla finestra, gridando:

             – Signor tenente, se la pigli!

             Al doppio urlo che gli risponde di sotto, dell’ufficiale e della precipitata, egli si ritrae, raccapricciato, in preda a un tremor convulso di tutto il corpo: si prova a richiuder le imposte, ma non può, poiché dallo spiazzo nuove grida si levano, di soldati, di ufficiali, d’altra gente accorsa. Traballando, col passo legato, si trascina fino alla camera del figlio, ribellandosi ferocemente alla balia che, saltata dal letto in camicia, a quegli urli, vorrebbe trattenerlo per sapere che ha fatto, che è stato.

             – Nulla… nulla… – risponde lui, fremebondo, abbracciando il figliuolo sul letto. – Nulla… non ti spaventare… Una tegola… una tegola sul capo a un tenente.

             Bussano furiosamente alla porta. La balia scappa a infilarsi una sottana, corre ad aprire: un fiume di gente, soldati e ufficiali allagano vociando la casa ancora al bujo, dietro a due carabinieri e al delegato.

             – Abbiano pazienza, accendo il lume… – balbetta la balia, spaventata. Cosmo Antonio Corvara Amidei si tiene stretto con tutte e due le braccia Dolfino, che s’è inginocchiato sul letto.

             – Via! Venite con me! – gli grida il delegato.

             Egli si volta a guardarlo. Sotto il turbante delle fasce, quella faccia da morto con gli occhiali incute sgomento e orrore alla folla che ha invaso la camera.

             – Dove? – domanda.

             –    Con me! Senza storie! – gli risponde, brusco, il delegato, prendendolo per una spalla.

             –    Va bene. Ma questo figlio? – domanda lui, di nuovo. – E malato. A chi lo lascio? Sappia, signor delegato…

             –    Via! via! via! – lo interrompe questi, con violenza. – vostro figlio sarà condotto al Sanatorio. Voi venite con me!

             Il professor Corvara Amidei rimette a giacere Dolfino che trema tutto dallo spavento; lo esorta pian piano a far buon animo: che non è nulla, che presto ritornerà a lui; e se lo bacia quasi a ogni parola, rattenendo le lagrime. Uno dei carabinieri, spazientito, lo agguanta per un braccio.

             –    Anche le manette? – domanda il professor Corvara Amidei. Ammanettato, si china su Dolfino, di nuovo, e gli dice:

             –    Figlio mio, questi occhiali…

             –    Che vuoi? – gli chiede il ragazzo, tremando, atterrito.

             –    Strappameli dal naso, bello mio… Così… Bravo! Ora non ti vedo più…

             Si volge verso la folla, ammiccando e scoprendo, nella contrazione del volto, i denti gialli; si stringe nelle spalle, protende il collo, ma l’angoscia gli serra troppo la gola, e non può ripetere anche questa volta:

             – E va bene!

Va bene – Audio lettura 1 – Legge Enrica Giampieretti
Va bene – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Va bene – Audio lettura 3 – Legge Lorenzo Pieri
Va bene – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

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