Servitù – Audiolibro 4

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Servitù audiolibro
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Voce di Giuseppe Tizza

Prima pubblicazione: Corriere della Sera, 30 luglio 1914poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917.

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             Due volte la mammina aveva sporto il capo dall’uscio a raccomandare alla Dolly di non parlar troppo, di non agitarsi tanto, che altrimenti la febbre le sarebbe cresciuta.

             – Parli sempre tu… giuochi tu sola…

             La Dolly, sostenuta da una pila di guanciali, sedeva sul lettino in compagnia di tutte le sue bambole belle. E due volte, scotendo la testina per cacciar via dagli occhi i riccioli d’oro scappati nel calore del giuoco di sotto la cuffietta di raso celeste, aveva risposto alla mamma:

             – No, io sola; giuoca anche Nenè… Nenè era la figliuola della nurse.

             Ma finora, per dir la verità, Nenè non aveva mai aperto bocca. Tutt’e due le volte, invece, aveva guardato quasi atterrita la signora che sporgeva il capo dall’uscio; e il cricchio della maniglia, il cigolio dell’uscio schiuso, lo sporgersi di quel capo, la voce della mamma di Dolly, erano stati per lei un fracasso, un crollo, uno scompiglio. Perché era come in un sogno Nenè da due ore, sospesa, quasi angosciata nel dubbio che non fosse vero ciò che pur si vedeva attorno e toccava.

             L’abituccio color cece, di due anni fa, le segava il collo, le segava le ascelle, le opprimeva le spallucce; il nastrino di seta color di rosa, un po’ stinto, attorno al capo le s’allentava a mano a mano e cedeva al goffo rizzarsi ispido e compatto dei capelli neri ancor zuppi d’acqua (poiché era stata lavata tutta con insolita cura): non sentiva nulla, non avvertiva nulla, incantata, abbagliata dal lusso di quella cameretta di bimba, imbottita di raso azzurro. E lievemente, senza saperlo, con la manina tozza, gonfia per la manica troppo stretta e corta che le serrava il braccio come un salsicciotto, palpava la coperta così liscia, così morbida del lettino, mentre tutta occhi e con la boccuccia aperta seguiva il chiacchierio fitto, volubile della padroncina malata.

             Sentiva bene la Dolly che il giuoco realmente lo faceva Nenè, quantunque finora non avesse aperto bocca. Con la sua maraviglia intenta e muta dava un’anima nuova a quelle sette bambole sedute sul lettino come damine in visita, e un nuovo piacere, a lei, nel farle muovere e parlare. Da tanto tempo, infatti, quelle sette bambole per Dolly quasi non vivevano più: erano pezzi di legno, testine di cera o di porcellana, occhi di vetro, capelli di stoppa. Ma ora riavevano anima, un’anima nuova, e rivivevano una nuova vita maravigliosa anche per lei, quale ella non avrebbe mai immaginato di dar loro, un’anima, una vita che prendevano qualità appunto dalla maraviglia di Nenè, ch’era maraviglia di servetta. Le faceva perciò parlare come signorone del gran mondo, piene di capricci e di moine, press’a poco come parlavano le amiche di mammà.

             Ecco: questa era la contessina Lulù che guidava da sé la sua auto, fumava sigarette col bocchino dorato e gridava sempre, agitando in aria un dito minacciosamente:

             – Moringhi, Moringhi, se scappi ti raggiungo!

             Chi era Moringhi? Un mago? Chi sa! Forse un amico di mammà anche lui, un amico di tutte le amiche di mammà; ma il nome, a quel grido, si rappresentava a Nenè come quello d’un mago, poiché la Dolly diceva che era amico specialmente di quell’altra bambola lì, di Mistress Betsy.

             – Ali right, thank you!

             No, no, senza ridere! Parlava sempre inglese, Mistress Betsy. Con mammà, con tutti. E andava sempre a cavallo – op! op! – mica a sedere però: con le gambe aperte, così… come i maschiacci, brutta scostumata! E spesso cadeva; e una volta, alla caccia della volpe, s’era ferita qua allo zigomo, ecco. Oh, le stava bene, brutta americanaccia! Mostrava a tutti le sue ferite di cavallerizza, al petto, alle spalle, anche alle gambe; e quando stringeva la mano faceva male.

             – Ali right! Thank you!

             E quest’altra? Ah quest’altra qui, che ridere! Roba, roba proprio da morir dal ridere! Donna Mariù, questa. Sempre malata. – Oh Dio qua, oh Dio là… – La mia povera testa! il mio povero cuore! – Vi prego, Moringhi, siate buono! Moringhi, non mi fate male: non posso più ridere, Moringhi! La mia povera testa! il mio povero cuore! – Ma mica un cuore così… Un cuore col q e staccato: qu-ore. Moringhi diceva così. Roba da morir dal ridere, un cuore col q.

             Nenè non capiva nulla.

             Poteva esser vero per lei che quella bambola lì fumasse e quell’altra andasse a cavallo. Davvero allo zigomo, quello sgraffietto… Ma se avevano finanche le mutandine coi merletti e i fiocchettini di seta e anche le calze di seta con le giarrettiere di velluto e le fibbie dorate e le scarpine di coppale, potevano anche veramente andare a cavallo, fumare, parlare quel linguaggio incomprensibile. Qualunque prodigio poteva esser vero in quella cameretta lì, anche i cavallini veri, cavallini vivi, piccoli piccoli, potevano sbucar fuori da un momento all’altro e mettersi a caracollare su per le campagne lontane lontane di quel tappeto azzurro vellutato, con quelle damine in groppa dai veli svolazzanti.

             Affascinata da quella visione, Nenè stentava a credere, o veramente non riusciva ancora a capire che, stanca alla fine del giuoco, la Dolly stesse ora per regalarle una di quelle bambole e non sapesse ancor quale.

             – No, questa no, – diceva la Dolly. – Questa ha il braccìno malato e deve stare a letto con me. Ecco… ti do… ti do quest’altra, invece, Mistress Betsy… Ma no, neanche… Ti scappa via, Mistress Betsy: tanto cattiva è! Scostumata… E poi, parla sempre in inglese, e non la capiresti. Ti do quest’altra allora. Si chiama Mimi. Ma tu devi chiamarla sempre signora Marchesina. Marchesina è, sai? La marchesina Mimi. Esigente… ah, esigente! Bisogna che trovi il bagno pronto ogni mattina, e poi la colazione di cioccolato e biscottini, e poi… e poi… non mangia niente, sai? non mangia altro che palline d’argento… quelle che si comprano dove le compra mammà, dal farmacista Baker di fronte al Grand Hotel. Ti do Mimi, sì. Ecco, prendila. Per davvero te la do, sì… per sempre… prendila, ti dico… Aspetta, che le do un bacio… Ecco, te la puoi portar via.

             Nenè guardava sbalordita e più che mai sospesa e angosciata. S’era levata in piedi alle insistenze di Dolly; ma restava lì, senza poter alzare la mano, quasi sul punto di piangere.

             Entrò nella cameretta la signora, seguita dalla nurse, ch’era rimasta dopo il baliatico a servire in quella casa di signori. Anche la mamma, vestita così bene, da nurse, con la cuffietta in capo e il grembiule bianco ricamato, accanto alla signora, apparve in quel punto a Nenè come trasfigurata nel lume di quella casa, come infusa nell’azzurro d’una meravigliosa lontananza.

             Che diceva? Diceva di no a Dolly, che non doveva darle la bambola. Non doveva dargliela prima di tutto perché troppo bella, troppo ben vestita, anche calzata e coi guanti e col cappello, ma figurarsi! una bambola così fina a Nenè! E poi, che se ne farebbe Nenè? E mammina di casa, Nenè: deve attendere a servire il babbo, e non ha tempo di giocare, che guaj se il babbo non trova tutto pronto, la sera.

             Il babbo? dove? Le sembrava tanto lontano ormai, a Nenè, quel suo babbo cattivo, che rincasava sempre ubriaco e scontento, e per nulla la batteva e l’afferrava pei capelli o le scaraventava addosso ciò che gli capitava prima sotto mano, gridandole:

             – E non potevi morir tu, invece?

             Lei, già, invece del fratellino che la madre aveva lasciato poppante per andare a balia. Una vicina s’era incaricata d’allevarlo per poche lire al mese; e lei, Nenè, avrebbe dovuto fargli da mammina. Ma il fatto è che il fratellino, un giorno, era morto in braccio a lei: morto; e lei che non lo sapeva, aveva per un pezzo seguitato a portarselo in braccio: freddo freddo, bianco bianco, e zitto e duro… Da allora il babbo era diventato cattivo, così cattivo che la mamma non aveva voluto più star con lui ed era rimasta a servire in quella casa, o piuttosto, a farvi la signora, come diceva il babbo e come ora veramente pareva anche a Nenè. Certo, la mamma parlava ora e guardava e sorrideva e gestiva come una signora, come la mamma di Dolly appunto, e a lei non pareva più la sua mamma.

             –   Ma, no, via, signorina! Ma le pare? Ma neanche per sogno! Una bambola così bella a questa mia povera Nenè!

             Ma ecco, la signora le prendeva un braccìno, poi le posava sul petto la bambola, quellaMarchesina Mimi, e poi sulla bambola le ripiegava il braccìno perché la reggesse forte.

             –   Grulla, e non si ringrazia nemmeno? Su, come si dice?

             Nulla. Non poteva dir nulla, Nenè. E non osava nemmeno guardare quella bambola marchesina contro il suo petto, sotto il suo braccìno.

             Se n’andò via come intronata, gli occhi sbarrati senza sguardo, la boccuccia aperta, e coi capelli che le si rizzavano sotto il nastro color di rosa, quanto più la madre cercava d’assettarglieli sul capo. Scese le scale, attraversò tante vie e si ridusse alla catapecchia, ove abitava col padre, senza veder nulla, senza sentir nulla, quasi alienata d’ogni senso di vita.

             Le viveva invece lì sul petto, stretta sotto il braccio, quella bambola meravigliosa; d’una vita incomprensibile però, quale le sbarbagliava ancora nella mente attraverso il chiacchierio fitto e volubile della padroncina malata. Oh Dio, se quella bambola parlava col linguaggio che le aveva messo in bocca la Dolly, come avrebbe fatto lei a comprenderla?

             –   Moringhi, Moringhi, se scappi ti raggiungo!

             Ah, Moringhi, certo, non sarebbe venuto lì nella catapecchia a trovare la marchesina Mimi, e nessuna delle amiche sarebbe venuta. E le sigarette col bocchino dorato? e le palline d’argento profumate? e i cavallini veri, i cavallini vivi, piccoli piccoli?

             Non le s’affacciava neppur per ombra alla mente che avrebbe potuto giocarci, con quella bambola. Servirla, sì, avrebbe potuto servirla; ma come, se non sapeva nemmeno parlarle? se non capiva nulla della vita a cui la bambola era avvezza?

             Entrata nel bugigattolino ov’era la sua cuccia con una seggiola spagliata e una panchetta che le serviva da tavolino per far le aste e le vocali quand’ancora andava a scuola, si guardò attorno smarrita, avvilita, non per sé ma perla damina che portava in braccio. Non osava ancora guardarla.

             Certo, per sé, la marchesina Mimi, aveva gli occhi di vetro e non vedeva. Ma vedeva lei, Nenè, ora, la miseria brutta di quel suo bugigattolino con gli occhi della marchesina Mimi abituati al lusso della cameretta da cui veniva. Finché lei non la guardava, la marchesina Mimi, ancora stretta sotto il suo braccio, non vedeva nulla. Avrebbe veduto però, appena lei si fosse risolta a guardarla. Ebbene, bisognava che vedesse fin da principio il meno peggio possibile.

             Pensò che nella cassetta dei panni sotto la cuccia c’era un grembiulino azzurro, smesso dalla Dolly e regalato dalla signora alla balia per lei: era stato lavato, rilavato tante volte; s’era stinto; aveva più d’uno strappo, ma veniva di là; era stato della Dolly, e forse la marchesina Mimi lo avrebbe riconosciuto.

             Senza posarla, senza guardarla, Nenè si chinò; trasse da quella cassetta il grembiulino e lo stese su la panca come un tappeto, badando che gli strappi, almeno i più grossi, non venissero in mostra sul piano. Ecco, per il momento poteva metterla a sedere lì, sul pulito di quel grembiule vecchio, ma fino.

             La pose a sedere pian piano, con mani tremanti per paura di farle male e di sciuparle l’abito; e finalmente osò guardarla. Un sentimento misto di pietà e d’adorazione espressero le manine rimaste innanzi al petto aperte, in un gesto d’incertezza angustiosa. E a poco a poco si piegò su le ginocchia, guardando negli occhi la bambola. Ahimè, la vita maravigliosa, di cui la Dolly nella sua cameretta la aveva fatta vivere, qua – s’era come spenta. La bambola le stava davanti, come se non vedesse nulla, in attesa ch’ella facesse qualche cosa per lei, per ridarle vita, la sua vita perduta, di gran signora. Ma come? che cosa? Le mancava tutto. La Dolly le aveva detto ch’erano avvezze a cambiarsi d’abito più volte al giorno le sue bambole, e che quella marchesina Mimi poi aveva anche tante vestaglie una più bella dell’altra, rosse, gialle, viola, a fiorellini, a ombrellini giapponesi… Possibile che ora stesse vestita sempre così, sempre con quel cappellino in capo, con quelle scarpine ai piedi, con quei braccialettini al polso, e quella catenella al collo da cui pendeva il ventaglino? Ah, com’era bello quel ventaglino di piume, ventaglino vero, che faceva un po’ di vento davvero, poco poco, quanto poteva bastare a quella piccola marchesina Mimi…

             Ah, là, sì, in casa di Dolly, con tutte le cose adatte, il lettuccio di legno bianco e gli altri mobiletti e il ricco corredo, là sì sarebbe stata felice lei di servire quella bambola marchesina. Ma qua? Come non aveva pensato la Dolly che avrebbe dovuto anche darle almeno almeno il lettuccio e un po’ di corredo, non per far più ricco e compiuto il dono, ma perché la bambola non avesse a soffrire, e perché lei, Nenè, avesse modo di servirla? Come poteva così, senza nulla? Al più al più, col fiato e col dito, o con la punta d’una pezzuola, avrebbe potuto ripulirle le scarpettine di coppale. Nient’altro.

             Quasi quasi era meglio ritornare da Dolly, con la bambola, e dirle:

             «Oh mi dai da farla vivere com’è avvezza, o te la tieni».

             Chi sa! Forse Dolly le avrebbe dato tutto…

             Un lungo, grosso grosso sospiro sollevò il petto di Nenè accosciata lì davanti alla panchetta. Volse il capo, e in un momento, di nuovo abbagliata, vide in un angolo lercio del bugigattolino la cameretta della marchesina Mimi: Cameretta? un gran camerone, col tappeto azzurro vellutato, lì per terra, e il lettino di legno bianco, col parato a padiglione di seta celeste, e di là l’armadietto a specchio, le sedioline dorate, la specchiera; e vide sé, vestita bene come la mamma, tutta intenta a servire quella sua padroncina esigente e capricciosa; a prevenirne tutti i desiderii, per non farsi sgridare, che certo, per quanto ella facesse, la marchesina Mimi, lì sola con lei, benché circondata da tutti i suoi agi, da tutto il suo lusso, sarebbe stata a malincuore, senza più visite d’amiche, né di Moringhi, né passeggiate a cavallo. E, per sfogarsi, certo l’avrebbe comandata a bacchetta.

             –    Pronto il bagno?

             –    Ecco, un momentino, signora Marchesina…

             –    Ma il mio bagno dev’esser pronto subito, appena mi alzo! Che fate? Datemi adesso il mio cioccolato e i biscottini! La mia vestaglia, subito!

             –    Quale, signora Marchesina? Quella rossa? quella gialla? quella con gli ombrellini giapponesi?

             –    No, quella viola! Non lo sapete?

             –    Subito, signora Marchesina, eccola qua.

             Vedeva, con gli occhi sbarrati, quel suo sogno là in quell’angolo incantato, Nenè, e parlava sola così da un pezzo, forte e imperiosa per conto della marchesina Mimi, umile e inchinevole per sé, da servetta amorosa che compatisce i capricci della padroncina tiranna; allorché, tutt’a un tratto, con un brivido di terrore alla schiena, vide una manaccia scabra, enorme, allungarsi sul suo capo e ghermire la bambola su la panchetta.

             Insaccò la testa; poi, allibita, arrischiò di su la spalluccia, con la coda dell’occhio, uno sguardo.

             Suo padre, dietro a lei, con un ghigno su le labbra ispide, guatava la bambola fragile in quella sua manaccia scabra e scrollava il capo, ripetendo:

             – Ah, sì? ah, sì?

             Con l’anima oppressa d’angoscia, gli vide levare l’altra mano, afferrare con due dita la falda del cappellino alla bambola, dare uno strappo violento.

             Soffocò un gemito involontario.

             Insieme col cappellino se n’era venuta la testa. E quella testa col cappellino e il busto decapitato, due strazii orribili, informi, volarono via per la finestra presso il tetto, accompagnati da un calcio e da una esclamazione rabbiosa:

             – Su, in piedi! Non voglio signore, io, per casa!

             «Ho tante cose da dirvi…»

             La lettera, in un bel foglietto volgarissimo, di suprema eleganza provinciale, color di rosa e filettato d’oro, finiva così:

             … se parlo d’ansia, tu puoi ben dire: ma sei vecchio, sei, povero il mio Giorgio! Ed è vero, sono vecchio, sì; ma dèi pensare, Momolina, che fin da ragazzo io t’ho amata, e quanto! Dicevi d’amarmi anche tu, allora! Venne la bufera – proprio la bufera – e mi ti portò via. Quanti mai anni sono passati? Vent’otto… Ma come si fa che son rimasto sempre lo stesso? Dico meglio: il mio cuore! Non dovresti perciò farmi aspettare più a lungo la risposta. Sai? Io verrò a te domani. Hai avuto circa un mese per riflettere. Mi devi dire domani o sì o no. Ma dev’essere sì, Momolina! Non far crollare il bel castello che ho edificato in questo mese, il bel castello dove tu sarai regina e tutte le mie speranze ancora giovani ti serviranno come ancelle amorose…

             La signora Moma s’accorse che quest’ultima frase, così poetica, era stata aggiunta, appiccicata dopo scritta la lettera. Il signor Giorgio, o non aveva voluto sprecare il bel foglietto color di rosa, filettato d’oro; o non aveva voluto sobbarcarsi alla fatica di rifar di nuovo, chi sa con quanto stento, in bella copia la lettera, con tutti quegli svolazzi in fine d’ogni parola; e, con molta industria allora, aveva costretto la poetica frase, sovvenutagli tardi, forse nel rileggere la lettera prima di chiuderla nella busta, a capir tutta, di minutissimo carattere, nel poco spazio che avanzava nel rigo dopo il tu sarai regina. L’appiccicatura, saltando agli occhi evidente, rendeva più che mai goffe quelle speranze ancora giovani che dovevano servirla come ancelle amorose. E, ottenne questo bell’effetto: che la signora Moma, sbuffando, buttò via la lettera, senza leggerne le ultime righe.

             – Oh Dio, viene domani? Ma come non capisce, cretino, che non voglio saperne?

             E, ancora col cappello in capo, pestò un piede e alzò la mano guantata a un vivacissimo gesto di fastidio e di stizza.

             Con quel cappello in capo la signora Moma stava, si può dire, da un anno e quattro mesi. Non se lo levava che per qualche mezz’oretta, per qualche oretta al giorno; se lo ripiantava di furia in capo, e via di nuovo, fuori di casa.

             La cacciava via così, sempre in giro di qua e di là, una smania, non sapeva di che, una smania che le si esasperava in corpo sopratutto alla vista dei mobili della casa e specialmente alla vista del magnifico salone di ricevimento, con quelle ricche tende e quelle portiere di damasco, quei quadri antichi e moderni alle pareti e quel gran pianoforte a coda del marito e quei leggìi che parevano di chiesa, innanzi ai quali sedevano con gli strumenti ad arco i colleghi del marito e anche Alda, la sua bella figliuola, adesso lontana lontana, anche lei col suo violino.

             Da un anno e quattro mesi era vedova la signora Moma: dell’illustre maestro Aldo Sorave. La lettera ricevuta quella mattina nella quale quel signor Giorgio la chiamava Momolina, le aveva per poco ridestato il ricordo del suo paesello nativo, di quel ferrigno borgo montano, tutto cinto di faggi, di querci e di castagni, ove un giorno il giovane maestro Sorave, sbattuto da chi sa quale tempesta, era venuto a rifugiarsi, genio incompreso, con un libretto da musicare, La bufera.

             Ella era veramente Momolina, allora. Sedici anni, rosea e fresca, bellina, grassottella e placida placida. Ma s’era innamorata anche lei del giovane maestro Sorave. Se n’era innamorata forse perché tutte le ragazze del paese se n’erano innamorate. Non aveva mai però compreso bene perché egli fra tante avesse scelto lei, proprio lei, che certo gli s’era mostrata meno accesa di tutte le altre; tanto che innanzi a lui non aveva saputo se non arrossire e balbettare; e, forzata a dirgli qualche cosa, gli aveva dichiarato candidamente di non capir nulla, lei, né di musica, né di poesia, né d’alcun’altra arte.

             Ebbene, appunto perciò, forse, il maestro Aldo Sorave se l’era sposata. Pur non di meno ella credeva, era sicurissima d’aver condiviso per vent’otto anni la vita del marito, dapprima tempestosa, zingaresca, in viaggi affannosi da un paese all’altro, con la lingua fuori come una povera cagnetta dietro l’ansia smaniosa di lui che voleva a ogni costo raggiungere la meta; poi – nata la figliuola – un’altra vita, non mai placida veramente, ma certo meno irrequieta, quella che seguiva ai ritorni di lui dopo i trionfi o d’un giro di concerti o d’una stagione musicale diretta in questa o in quella città; finché, conquistata solidamente con la fama l’agiatezza, egli non s’era stabilito a Roma. Qua la figliuola era cresciuta, bionda e bellissima, in mezzo all’inebriante fulgore d’arte di cui era circondato il marito. Ma un bel giorno, chi sa come, chi sa perché, rovesciando tutti i disegni ambiziosi del padre, s’era invaghita d’un giornalista, brutto e quasi vecchio; aveva voluto sposarlo, e se n’era andata in America, a Buenos Aires, dove al marito era stata offerta la direzione d’un grande giornale italiano. Tre mesi appena dopo quelle nozze, il padre, che aveva negato fino all’ultimo il consenso e non aveva voluto rivedere la figliuola neanche prima della partenza per l’America, era morto di crepacuore.

             Un gran dolore, sì, oh un gran dolore per la signora Moma l’allontanamento di quell’unica figliuola; e la più grande delle sciagure era stata poi per lei la morte del marito. Ma – ecco – che proprio proprio, con quell’allontanamento e con questa morte, fosse tutto finito, come se ella non fosse rimasta lì, come se non fosse rimasta la casa, tal quale, per l’agiatezza in cui la aveva lasciata il marito, la signora Moma non riusciva ancora a capacitarsi.

             Certo, la vita d’un tempo, quella fervida vita, così bruscamente interrotta, le feste d’arte, le conversazioni, la corte delle splendide signore attorno al vecchio maestro illustre, piccoletto e capelluto, dagli occhi selvaggi sotto le folte ciglia spioventi come appariva dal ritratto a olio appeso alla parete del salone; la corte degli elegantissimi giovanotti attorno alla figliuola; non era più possibile ormai: questo, sì, la signora Moma lo comprendeva bene. Ma una vita quale ormai poteva essere nelle mutate condizioni, le tante e tante amiche, i tanti e tanti amici d’allora potevano bene ricondurla lì, nella casa rimasta tal quale, in quel magnifico salone, attorno a lei che v’era restata sola e vi s’aggirava come sperduta.

             E col cappello in capo, dalla mattina alla sera, angosciata, esasperata, la signora Moma correva in cerca degli antichi frequentatori della casa, dall’uno all’altro, senza requie.

             Dapprima era stata accolta con una certa cordialità; molti la avevano commiserata per la doppia sventura; qualcuno le aveva anche promesso che sarebbe venuto a trovarla. Ma che! Non era mai più venuto nessuno. E a poco a poco la signora Moma era divenuta quasi aggressiva.

             –    Birbante! birbante! Avevate promesso che sareste venuto.

             –    Signora mia, creda, non ho potuto.

             –    Verrete oggi? Fatemi il piacere, venite! Ho tante cose da dirvi… Dalle quattro alle sei. Ci conto.

             –    Oggi no, mi dispiace, signora, non potrei. Spero domani.

             –    No! Domani certo. V’aspetto, badate! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…

             E dalle quattro alle sei la signora Moma stava ad aspettare in casa la visita. Credeva veramente d’aver tante cose da dire, e ripeteva a tutti, dopo gl’inviti sempre più pressanti, quella frase.

             Passavano le quattro, passavano le cinque, passavano le sei, l’impazienza, la smania, l’angoscia, l’esasperazione della signora Moma crescevano; sbuffava, balzando in piedi; andava su e giù per il salone; s’affacciava ora a questa ora a quella finestra a guardare se l’aspettato venisse; e, pur certa ormai che non sarebbe più venuto, scoccate le sei, si costringeva, divorata dalla rabbia, ad aspettare ancora dieci minuti, un quarto d’ora, e ancora un altro quarto, e finanche un’ora! Alla fine, si ripiantava il cappello in capo, e via di nuovo per le strade, furiosa, imprecando al mal’educato.

             Non s’accorgeva nemmeno che ora amici e conoscenti, per non farsi aggredire avvistandola da lontano, scantonavano, si nascondevano e, quand’erano acchiappati, le porgevano la mano voltando la faccia, e scappavano via, senza darle il tempo di finir la solita frase:

             – Domani, eh? V’aspetto domani. Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…

             Ricordava, la poveretta, d’essersi mostrata sempre affabile e cordiale, con le amiche, con gli amici, ammiratrici del marito, corteggiatori della figliuola. Amiche, amici, le sedevano accanto, allora, durante le riunioni, le rivolgevano anche la parola, la salutavano con aria complimentosa e deferente, entrando nel salone e uscendone. Inchini, complimenti, sorrisi… Ella udiva paziente tutta quella musica, tutte quelle dispute d’arte; qualche volta le era avvenuto di rispondere con un cenno del capo o con un sorriso a qualcuno che nel calore della discussione le aveva rivolto lo sguardo… No, no, proprio no, non riusciva a capacitarsi ancora perché, allontanatasi la figliuola, morto il marito, tutti l’avessero abbandonata così, come se ella avesse commesso qualche indegnità; tutti avessero così disertato la bella casa dove quei preziosi oggetti d’arte erano rimasti attorno a lei come sospesi in una immobilità silenziosa e quasi solenne.

             Erano suoi, tutti e assolutamente suoi, ora, quei mobili e la casa; ella era la signora e la padrona di tutto; eppure… eppure da una smania orribile si sentiva presa, guardando, o, piuttosto, sentendosi guardata come un’estranea, lì, da tutti quegli oggetti che non le dicevano nulla, che non le sapevano dir nulla, perché avevano tutti un ricordo vivo ancora, o del marito o della figliuola; e per lei, nessuno.

             Se alzava gli occhi a guardare, per esempio, un quadro del salone, sapeva ch’era antico, come no? sapeva ch’era di pregio; ma che cosa rappresentasse quel quadro, perché fosse bello, veramente non avrebbe saputo dire neanche a se stessa; e se guardava il pianoforte… eh, in verità non poteva altro che guardarlo… non s’arrischiava nemmeno a scoprirne la tastiera, perché il marito, prima di morire, le aveva espressamente raccomandato che non lo lasciasse più toccare a nessuno. Quanto a toccarlo lei, neppur ci pensava, perché lei, la musica… – sì, c’era vissuta sempre in mezzo – ma neanche le note, il do dal re aveva imparato mai a distinguere.

             Non le viveva, ecco, non poteva più viverle attorno, quella casa. Per riprendere a vivere bisognava assolutamente che un po’ dell’antica vita, quella degli altri, quella della figliuola e del marito, tornasse a muoversi in essa.

             Altra vita, lì, una sua vita, non era possibile; perché in realtà lei, la signora Moma (ditelo piano, per carità, se non volete esser troppo crudeli, voi che adesso la chiamate «una terribile seccatrice»), la signora Moma, lì, nella sua casa, non aveva mai avuto una vita sua e quasi non c’era mai stata.

             Questo ella, naturalmente, non poteva intenderlo: lo avvertiva solo come una smania che le si esacerbava sempre più e la cacciava fuori senza requie, incaponita a richiamare, a ricondurre attorno a sé quella vita, nell’angoscia smaniosa di sentirsela mancare e sfuggire, senza saper perché.

             Il giorno appresso – s’intende – accolse a modo d’un cane quel povero signor Giorgio Fantini, suo compaesanello innamorato di vent’otto anni fa, che pure con la sua profferta di nozze intendeva di richiamare e di ricondurre lei piuttosto a quell’unica vita ch’ella veramente avrebbe potuto vivere, là nel ferrigno borgo montano tra i boschi di faggi, di querci e di castagni; modesta vita tranquilla, dai giorni semplici, uguali, dove non avveniva mai nulla ch’ella non potesse capire, dove in ogni cosa nota avrebbe potuto sentire e toccare la realtà sicura della propria esistenza.

             E non era poi tanto vecchio quel signor Giorgio Fantini; ed era anche un bell’uomo, molto più bello certamente di quel piccoletto e capelluto maestro bufera Aldo Sorave; ed era anche ricco, padrone di molte terre e di molte case, e non privo d’una certa coltura antica e sana, se poteva leggere nel loro testo latino e senz’ajuto di traduzione le Georgiche di Virgilio.

             Già non si fece neppur trovare in casa la signora Moma. Quando, dopo circa due ore, rincasò tutta accaldata e sbuffante, più che mai invelenita dalla stizza contro tutti quegli ingrati e mal’educati che la sfuggivano e le mancavano di parola, lo investì malamente, là nel salone, senza neppur levarsi il cappello, sollevando soltanto la veletta per fargli scorgere bene, negli occhi, la sua collera e il fermo proposito di respingere quella proposta che le pareva quasi un insulto, anzi una tracotanza.

             –   Ma chi v’ha detto di venire, caro Fantini? Io non ve l’ho detto! Non v’ho neppure risposto! Ma sì, scusate: vi pare sul serio che sia una cosa possibile? Ma basta che vi guardiate un po’ attorno, caro Fantini! Vedete? Questa è la mia casa… Credete proprio possibile ch’io, alla mia età, rinunzi ormai a ciò che per tanti anni ha formato la mia vita? Via, via… Un po’ di riflessione… Avreste dovuto riflettere un po’ prima, veramente… Basta; non ne parliamo più. Qua la mano, caro Fantini, senza rancore, e restiamo buoni amici.

             Non ebbe il coraggio d’insistere il signor Giorgio Fantini; guardò in giro quel solenne salone dov’ella diceva d’aver la sua vita, e poco dopo uscì con lei che per un momento, a causa di lui, aveva dovuto interrompere la sua quotidiana inesorabile ricerca.

             E la vide per via, nella tristezza brumosa della sera decembrina, fermarsi tre o quattro volte in mezzo a una fiumana di gente ad aggredire questo e quello; e s’accorse che quei signori aggrediti le porgevano la mano voltando la faccia; e ogni volta con una strana voce rabbiosa di pianto le udì ripetere quella sua solita frase:

             –   Ma avevate promesso di farvi vedere! Venite! venite! Dalle quattro alle sei. Ho tante cose da dirvi…

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