Quella verità che rende umani: il canto edificante di Luigi Pirandello

Di Gilberto Scaramuzzo 

«Io non sono un filosofo, un astratto, come si sforzano di gridare ai quattro venti i miei nemici. Io non mi sono mai proposto di sviluppare problemi filosofici o di mostrare complicati teoremi ideologici. Io cerco sempre e unicamente di creare su uno sfondo umano dei personaggi umani. Basta».

Indice Tematiche

La verità di Pirandello
Valentina Fortunato, La favola del figlio cambiato – 1956-57, regia di Orazio Costa

Gilberto Scaramuzzo [1]

[1] Università Roma Tre. E-mail: <gilberto.scaramuzzo@uniroma3.it>

Quella verità che rende umani:
il canto edificante di Luigi Pirandello

Da Academia.edu

Abstract:
Questo studio intende riaffermare la valenza educativa dell’opera pirandelliana e contribuire a superare il misconoscimento che ancora grava su di essa. Analizza alcune pagine in cui è possibile riconoscere l’intento edificante dell’autore e il suo impegno a ‘cantare’ di una verità che rende umani. Il saggio di Pirandello Non parlo di me sembra fare luce su quel possesso umano che garantisce la possibilità radicale di poter guadagnare una verità per sé: ‘il punto vivo’. Alcuni personaggi pirandelliani sembrano incarnare questa ricerca e mostrarne caratteristiche e criticità: il Principe de La favola del figlio cambiato, che afferma di averla trovata la sua verità; Moscarda, il protagonista di Uno, nessuno e centomila, che ne ha una improvvisa rivelazione; la Signora Frola e il Signor Ponza che, in Così è (se vi pare), testimoniano come la propria verità possa convivere con la verità dell’altro anche quando tra le due sia presente una contrapposizione radicale.

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Luigi Pirandello, nel 1934, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, durante il banchetto, in Svezia, fece un breve discorso che si concluse con le seguenti parole: «Mi piacerebbe credere che questo premio sia stato conferito non tanto alla perizia dello scrittore, che è sempre irrilevante, quanto alla sincerità umana del mio lavoro». [2]

[2] Luigi Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, Arnoldo Mondadori, Milano 2006, p. 1445.

Parole sulle quali è sempre bene meditare quando ci si accinge a scrivere in ambito educativo; consapevole di questo monito provo a dar vita, qui, a questo mio breve contributo.

Quanto ci sia di sincerità umana nel lavoro di Luigi Pirandello credo lo possano attestare bene la moltitudine di persone che hanno letto i suoi libri e che in tutto il mondo continuano a essere attratti dai suoi lavori teatrali. Eppure, nonostante la tanta umanità, egli non è stato mai davvero riconosciuto come un ‘educatore’. Al contrario: si è autorevolmente ritenuto che a Pirandello «era aliena la vocazione pedagogica, e anzi gliene era connaturata una antipedagogica». [3]

[3] Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, Utet, Torino 1963, p. 240.

Credo di poter individuare tre cause che hanno agevolato quello che, a mio parere, è un vero e proprio misconoscimento della valenza della riflessione di Pirandello in ambito educativo: [4]

  • la non considerazione di alcuni suoi scritti, rimasti celati per diversi decenni, e che soltanto pochi anni fa sono stati inseriti nelle raccolte ufficiali, [5] e tra questi in particolare il saggio Non parlo di me e l’articolo Viaggi;
  • una certa disattenzione verso una serie di sue dichiarazioni, in tempi recenti tornate facilmente reperibili; [6]
  • la marginalizzazione di alcuni esegeti pirandelliani, che, in qualche modo, aprivano alla valenza umanante, direi edificante, degli scritti pirandelliani. [7]

[4] Altri autori, in tempi recenti, si stanno impegnando contro questo misconoscimento: cfr. Andrea Scardicchio, La vita della scuola e la scuola della vita. Pirandello educatore, in «Amaltea», VIII, n. 2-3, settembre 2013, pp. 39-52.
[5] Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit.
[6] Ivan Pupo (cura di), Interviste a Pirandello. «Parole da dire, uomo, agli altri uomini», prefazione di Nino Borsellino, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
[7] Penso soprattutto al volume di Pietro Mignosi, Il segreto di Pirandello, Tradizione ed., Milano 1937.

Pirandello ha espresso in più occasioni la sua sofferenza per come veniva giudicata la sua opera (e lui stesso) da molti dei critici che si assegnavano questo compito. Per ri-conoscere quanto fosse accorato il suo lamento contro cotali ‘ritratti’ basta qui ridargli la parola:

«Un altro dei cartellini più noti mi proclama artista distruttore, pessimista, corrosivo. Pessimista, distruttore io? Non può credere il male che m’ha fatto sentirmi giudicare così. Distruttore io che, se una cosa ho voluto insegnare, è proprio che la realtà si crea ad ogni istante, che l’attività dell’uomo che vive, prima ancora che dell’artista che crea, è costruzione continua?». [8]

[8] Cfr. Enrico Rocca, Luigi Pirandello, il finimondo, punto e da capo, in «La fiera letteraria», Roma, 27 dicembre 1931 (ora in Ivan Pupo, Interviste a Pirandello, cit., p. 479).

«Io non sono un filosofo, un astratto, come si sforzano di gridare ai quattro venti i miei nemici. Io non mi sono mai proposto di sviluppare problemi filosofici o di mostrare complicati teoremi ideologici. Io cerco sempre e unicamente di creare su uno sfondo umano dei personaggi umani. Basta». [9]

[9] Cfr. G. Bosio, Propositi di Pirandello, in «La Stampa», Torino, 20 giugno 1933 (ora in Ivan Pupo, Interviste a Pirandello, cit., p. 515).

«I critici dicono che compongo le mie opere su di un canovaccio dialettico, su di un presupposto filosofico, per rimpolpare qualche schema astratto. Nulla di più falso. Ma crede lei, caro signore, che se io non avessi sentito lo strazio di quel padre che in questo momento singhiozza, là, innanzi al pubblico, avrei potuto immaginare il dramma, tutto il dramma così com’esso è? Il ragionamento, certo, anche quello ci vuole, ma dopo; il ragionamento, la logica vengono dopo, sicuro, sono altre faccende; sgorgano dalla trama poetica, dai sentimenti dai deliri dell’istinto, sono aspirazioni ad un concetto, ad una formula universali, ideali. Ma la vita, la vita irresistibile è fantasia, immagine…». [10]

[10] Cfr. Francesco Bernardelli, Pirandello tra i fantasmi, «La Stampa», Torino, 2 febbraio 1927 (ora in Ivan Pupo, Interviste a Pirandello, cit., p. 362). Nel testo, Pirandello, si riferisce al personaggio del Padre nei Sei personaggi in cerca d’autore.

«E nessuno pensa […] che l’arte è la vita e non un ragionamento; che partire da un’idea astratta o suggerita da un fatto o da una considerazione più o meno filosofica, e poi dedurne, mediante il freddo ragionamento e lo studio, le immagini che le possano servir da simbolo, è la morte stessa dell’arte». [11]

[11] Luigi Pirandello, L’azione parlata, in Id., Saggi, poesie, scritti varii, (a cura di) Manlio Lo Vecchio-Musti, «Opere di Luigi Pirandello» vol. VI, Mondadori, Milano 1977,1016 (il saggio è comparso per la prima volta sul «Marzocco» il 7 maggio 1899).

E molte altre sue considerazioni potrebbero essere aggiunte a questa lista.

Pirandello riteneva di essere ‘un uomo che aveva qualcosa da dire, uomo, agli altri uomini’. [12] Certo il suo modo di parlare non è quello cui siamo abituati in ambito accademico quando affrontiamo i temi che riguardano l’educabilità umana. Pirandello ha un altro stile e non mancherebbe di farcelo notare: «Le mie idee, io, non le ragiono come voi: io le sento. Le canto». [13]

[12] Parole da dire, uomo, agli altri uomini è proprio il titolo che Ivan Pupo sceglie per il suo libro sulle interviste a Luigi Pirandello (Cfr. Ivan Pupo, Interviste a Pirandello, cit.).

[13] Luigi Pirandello, La fiera della sapienza, in «Popolo d’Italia», Milano, 22 dicembre 1926, p. 3. Citato in Paola Casella, Strumenti di filologia pirandelliana. Complemento all’edizione critica delle «Novelle per un anno». Saggi e bibliografia della critica, Longo, Ravenna 1997, pp. 177-178.

Scopo di questo breve studio è di contribuire a riconoscere il suo ‘canto’ come un canto edificante.

Le pagine di Pirandello sono ricchissime di umanità poetiche; ed è proprio dando vita a personaggi che dialogano e agiscono che l’autore svolge la sua azione edificante. Tra i temi che Pirandello ‘canta’ c’è certamente quello della verità. L’autore sembra impegnarsi non poco per ‘cantarci’ di una verità che rende umani.

Ne abbiamo una singolare testimonianza in quello che è rimasto l’unico libretto d’opera pirandelliano: La favola del figlio cambiato, che andò in scena nel 1934 con la musica del Maestro Malipiero. [14]

[14] La favola del figlio cambiato debuttò in Germania dove fu censurata alla sua seconda replica; andò poi in scena in Italia il 24 marzo dello stesso anno alla presenza di Mussolini e venne immediatamente censurata.

Qui si può, dunque, parlare propriamente e fuor di metafora di un cantare pirandelliano.

Protagonisti dell’opera sono una madre e un principe. La Madre è disperata perché è certa che il suo figliuolo le è stato sottratto quando era ancora in fasce ed è stato sostituito con un altro.

Il Principe è, invece, disperato perché non riesce a trovare ‘la verità per sé’, che corrisponde alla sua vera identità. Quando, per curarsi dalla sua malattia, giunge nel luogo dove vive La Madre, egli riesce a superare la sua disperazione. Grazie a un intimo incontro con questa donna, egli è finalmente in grado di ri-conoscere ‘la sua verità’. Questo ri-conoscimento sembra donargli una felicità presentita eppure insperata. Una delle battute finali dell’opera consente a Pirandello di cantarci, ben oltre le contingenze dell’opera stessa, un disvelamento sulla verità ‘per’ l’essere umano.

Riporto integralmente la prima parte della battuta per poi tentarne una breve ermeneusi.

«IL PRINCIPE

Ma niente è vero,
e vero può essere tutto;
basta crederlo per un momento,
e poi non più, e poi di nuovo,
e poi sempre, o per sempre mai più.
La verità la sa Dio solo.
Quella degli uomini è a patto
che tale la credano, quale
la sentono. Oggi così,
domani altrimenti. Credete,
credete che questa
vi può convenire assai più della mia.
Io, ora, la so,
la mia verità.
Ero piccolo qua,
con questa madre, nato a questo sole;
povero, ma che importa?
con quest’amore di madre
e questo cielo e questo mare
e la salute e la gioja
di vivere la mia,
la “mia” vera vita per me!

Davanti a questo mare, a questo cielo
vedo anche le case
sollevarsi a un respiro di sollievo!
e ogni casa, per umile che sia,
diventa una reggia del sole!

Veder tutto ai miei piedi?
Preferisco sentire
qualcosa sopra di me!
Pigliatevi, portatevi
lontano il vostro re!» (Atto III, Quadro V).

Il Principe giunge qui a ri-conoscere e a scegliere la sua identità: essere il figlio di quella povera donna e non il figlio del re; quindi i ministri possono ora tornare indietro nel loro regno portando con loro quel figlio che ha, sinora, usurpato il suo posto ed è cresciuto lì, in povertà, con quella che era, invece, la sua di madre, perché quegli è il vero principe, non lui!

Al di là del valore per l’intreccio dell’opera, in quest’ultimo monologo del Principe giungono al pettine molti dei nodi drammatici del vivere umano che hanno impegnato Luigi Pirandello sia nella sua esistenza sia nella sua arte. Proviamo qui ora a sbrogliarli per quel tanto che consente la complessità della materia.

Pirandello sintetizza in questa battuta uno dei luoghi a lui ‘più cari’: Il non esistere di una verità oggettiva. Proprio questa non esistenza giustifica la prima affermazione del Principe: ‘niente è vero’. La verità, infatti, è soltanto nella soggettività e per la soggettività, di conseguenza ‘vero può essere tutto’. Affinché qualcosa sia vero ‘per’ noi è necessario che noi lo crediamo; e permane vero soltanto nell’attualità dell’agire il credere.

La verità esiste ma non è dell’uomo il ‘saperla’. Chi ‘la sa′ è Dio. La verità degli uomini ‘è a patto che tale la credano, quale la sentono’.

Il primo movimento, dunque, per giungere alla verità per sé è quello di ‘cogliere’ il proprio sentire interiore; il secondo è quello di ‘credere’ a qual sentire. ‘Ma credere si può sempre, credere si può tutto’, afferma il Principe, poco prima di questa battuta, ribattendo ai suoi Ministri che sostengono di non poter credere a questa nuova verità che egli propone a loro.

Che cosa salva, dunque, l’uomo da un soggettivismo relativista? Lo salva ‘qualcosa’ di cui Pirandello ha parlato con lucidità in un saggio cui si accennava in apertura.

Questo qualcosa è: ‘il punto vivo’, o meglio, il fatto che ‘il punto vivo’ è inestirpabile radice dell’esserci di ciascuno e dell’essere ‘in’ ciascuno, esso è statuto ontologico-esistenziale di ogni vivente umano. [15]

[15] Per una ermenuesi filosofico educativa di Non parlo di me e per una lettura integrale del saggio si rimanda a Gilberto Scaramuzzo, Non parlo di me. Una riflessione sull’umanazione firmata Luigi Pirandello, in Edda Ducci (a cura di), Aprire su Paideia, Anicia, Roma 2004, pp. 21-54.

Tutti veniamo alla vita con un ‘punto vivo’ che ci consente fin dalla nascita di sentire la vita e di riconoscerla come un mistero. La descrizione che Pirandello ci fornisce di questo nucleo nel saggio Non Parlo di me è una descrizione che consente una ermeneusi filosofico educativa di alcune delle opere più significative della sua produzione. [16]

[16] Cfr. Gilberto Scaramuzzo, In-tendere. L’umana sophia di Luigi Pirandello, Anicia, Roma 2005.

Questo saggio, come accennavamo in apertura, è rimasto a lungo nascosto, e ancora rimane ignoto al grande pubblico. [17]

[17] Esso ha seguito, a suo modo, il destino di altre opere dell’Autore che, soltanto in tempi recenti (nel 2006) e grazie al lavoro critico di Ferdinando Taviani, sono state ripresentate in una sezione speciale del volume dei «Meridiani» dedicato ai saggi pirandelliani (Luigi Pirandello, Saggi e interventi, cit.).

Questa dotazione che ci viene con la vita – il punto vivo – è quel che ci consente di sentire in maniera originale ogni ente, è il modo con cui la vita stessa ‘vuole’ che noi (la) sentiamo. Pirandello intitolando Non parlo di me il saggio in cui presenta ‘il punto vivo’, [18] intende, forse, sottolineare che quest’ultimo è quel che consente l’espressione dell’esserci di ciascuno, perché esso è propriamente ‘il sentimento della vita’ in noi, qualcosa, dunque, che seppure in noi non sembra appropriato parlarne in termini di ‘me’.

[18] Davvero singolare il fatto che nell’ultima residenza di Luigi Pirandello, oggi sede dell’Istituto di studi pirandelliani, la copia della rivista «Occidente», in cui nel 1933 è apparso il saggio, presenta il titolo e il nome dell’autore cancellati, e sopra di essi, scritto di pugno, «Il punto vivo» [sottolineato]. Per approfondimenti e per la visione della pagina in oggetto si rimanda a Scaramuzzo, In-tendere, cit., pp. 88-90.

Grazie al nostro ‘punto vivo’, noi abbiamo, durante tutto il corso della nostra esistenza, la possibilità di orientarci nella ricerca di una verità per noi; e come potremmo altrimenti trovarla questa verità se questa è qualcosa che appartiene alla vita?

Ed è la coscienza stessa di questa nostra ‘oltreumana’ dotazione che ci consente di fare il giusto primo movimento verso la verità dell’altro, perché la vera coscienza del nostro ‘punto vivo’ non può mancare di essere anche coscienza della presenza nell’altro di un ‘punto vivo’ distinto dal nostro, cioè di un diverso sentimento della vita: dell’originalità della presenza della vita nell’altro. Questa consapevolezza ci avvia rettamente nell’impresa umana (e umanante) di intendere l’altro nel suo sentimento.

Qui nella Favola avviene il miracolo del reciproco in-tendersi dei due distinti ‘punti vivi’: quello del Principe e quello della Madre che convergono in un ri-conoscimento reciproco. Oltre il miracolo, che serve al compimento della Favola, l’autore ci mostra, sia nel saggio sia nell’opera, le caratteristiche di quest’agire ‘umanante’. Rimanere capaci di ricercare la verità per sé attraverso il proprio ‘punto vivo’ (attraverso il proprio sentimento della vita) è per ciascuno di noi tutt’altro che facile. Volere incontrare ciascuna realtà con la nostra propria originalità richiede un impegno continuo, e una radicale solitudine da ri-conoscere e sopportare; si tratta di andare ‘oltre’ i modi di sentire acquisiti, ovvero procedere in una ricerca che non si faccia condizionare dalle spiegazioni consuete, poiché queste impediscono una relazione autentica e nuova con ogni ente: si tratta, infatti, di diventare capaci di ‘intendere’ ogni cosa con quel tratto di unicità che caratterizza il nostro esserci.

Il verbo ‘intendere’ è una presenza costante della produzione pirandelliana e per meglio coglierlo è bene dividerlo con un trattino: in-tendere. A questo ci invita Pirandello attraverso tutta la sua opera: a sviluppare con il nostro ‘punto vivo’ una tensione verso il sentire soggettivo dell’altro, verso il suo ‘in’. Una ‘tensione’ che è ‘espressione’ del ‘punto vivo’ in noi. Pirandello, in qualche modo, ci sollecita a ricercare la nostra espressione nel sentimento dell’altro cosicché in quello e in noi risuoni.

Dunque, esprimere il proprio ‘punto vivo’ e riconoscere il ‘punto vivo’ nell’altro, e attraverso questo duplice movimento relazionale arrivare a un dialogo che generi il massimo della felicità possibile nella drammaticità della condizione umana.

Punto di arrivo di una vita riuscita per Pirandello è – nel saggio Non parlo di me – quello di giungere a esprimere il proprio ‘punto vivo’ in maniera che anche gli altri lo possano comprendere, ed è il compito di una esistenza che ha la forma dell’arte. Il sentire soggettivo ha il suo proprio compimento dinamico, la realizzazione piena del suo fine (che non ha però una fine), nell’in-tendere; e la tensione verso ‘l’in’ ha proprio come meta e misura ‘il punto vivo’ in sé e nell’altro, in quel misterioso incontro creativo in cui la vita, grazie alla nostra volontà di esprimerla e insieme di accoglierla nella sua espressione, si ri-conosce. Nel romanzo in cui Pirandello confidava di poter esprimere al meglio quel suo ‘canto’ per l’essere umano e per la sua umanazione, Uno, nessuno e centomila, egli ci consegna un protagonista che improvvisamente, a seguito di una risata della moglie, scopre in sé ‘un punto vivo’. E questo ‘punto vivo’ viene ad avere i tratti di qualcosa di ‘assoluto’ nell’interiorità dell’essere umano. Un ‘luogo’ attraverso il quale si partecipa alla verità e alla vita, alla ‘forma prima’ in noi, quella forma che preesiste alle forme che possiamo darci, o ricevere, nella contingenza.

«Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all’improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento, nell’animo con cui un po’ m’ero messo e un po’ lasciato andare a quella discussione: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse […].

Fuori d’ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d’ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un “punto vivo” in me s’era sentito ferire così addentro, che perdetti il lume degli occhi». [19]

[19] Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Id., Tutti i romanzi, vol. II, Mondadori, Milano 2003, p. 855.

Tutto in Pirandello emerge dal vivere, è dal vivere, infatti, che egli spreme il suo pensare l’esistere; perciò, a mio parere, il suo apporto al mondo dell’educativo in tutte le sue molteplici manifestazioni ha una rilevanza che deve essere sottolineata. Se l’emergere nell’uomo di una ‘forma’ che preesiste alle forme costruite nello spazio-tempo giunge, nel romanzo, come ‘ferita’ per il protagonista, è perché ‘così’ l’ha incontrato Pirandello nella realtà del suo esistere. La testimonianza del figlio ci assicura che questo del padre non è sillogizzare ma verità sofferta. È, quella del figlio, una pagina bella di sincerità lancinante:

«Padre mio, Uno, nessuno e centomila, breviario di fede per chi ha sentito vacillare qualche sostegno del suo mondo, è la storia della tua vittoriosa tragedia di uomo-fanciullo, schietto e sano, posto a contatto con la forma più perfetta – quasi un simbolo? – della vita vivente, con il caos perpetuo veloce e creatore e distruttore di realtà momentanee: mia madre pazza. È tutto sperimentato e sofferto. È tutto saggiato.

Quando ti mancò la stima di chi tu ami, e il suo amore, e l’amicizia degli uomini, la comprensione dei tuoi atti, quando ti sentisti – e un giorno fosti! – povero, nudo, solo e non sapevi più bene chi eri perché ti sentisti uno spirito senza volto, con mille volti, allora possedesti te stesso come un pazzo, come un eroe, come un santo. Allora hai potuto fare davvero». [20]

[20] Stefano Landi, Prefazione all’opera di mio padre, in Pirandello, Tutti i romanzi, cit., p. 1060 (Stefano Landi è lo pseudonimo di Stefano Pirandello, primo figlio di Luigi. La Prefazione apparve su la «Fiera lerraria» il 13 dicembre 1925). Nardelli vede la nascita del ‘sentimento’ della ‘relatività’ in Pirandello proprio in questo suo ‘con-vivere’ la pazzia della moglie: «– Se mi vede così, diceva egli a se stesso provando pena, se mi vede così, e se non sono riuscito e se non riesco a togliere questa immagine di me, e se nega l’evidenza dei fatti, e se non giova dare tutta la vita; allora? Io per lei non son io, ecco, ma un altro che sa ingannare, mentire; e può pigliarsi una donna di nascosto e senza amore; umiliarsi, vivere nella vergogna. Ecco, io sono così, dunque, per lei. Mi crede così, mi vede così; e n’è certa; me lo dice, me lo grida; lo direbbe a tutti, lo sosterrebbe innanzi a un giudice. La vedeva accendersi di collere inaudite e di sdegno: ecco, egli si diceva, si farebbe ammazzare prima di ricredersi, prima di credermi. Dunque io sono come lei mi conosce, per lei; senza scampo, senza possibilità alcuna di imporle, a verità a verità, un’altra immagine di me, una vera immagine di me. Sono com’ella mi vede. Per lei, sono un altro. E che cosa è ella per me allora, che cosa può essere, se io non mi faccio intendere, se non conosco più ciò che le mie parole e i miei sentimenti generano in lei di pensieri? La realtà… Ma bisogna allora che ce ne siano due di realtà. La mia e la sua. Perché io non posso convincermi d’avere commesso quel che non ho commesso e pensato quel che non ho pensato. Due realtà, dunque. Io sono io per me stesso; e un altro per mia moglie? Un altro malvagio, così come ella m’ha fatto, tanto diverso da me? – Malinconia. Vanità dell’amore ch’è uno straricco dono fatto a chi non lo sa e non lo vuole. O lo accetta perché vede l’offerta altrimenti che non sia e la ricambia bizzarramente. Relatività. Il caposaldo dell’arte pirandelliana, eccolo qui; nasce qui: dalla vita» (Federico Vittore Nardelli, Pirandello L’uomo segreto, Bompiani, Milano 1986, pp. 121-122).

Nel momento in cui si impatta in noi con un ‘vero’ che preesista ad ogni apparire – la vita vivente in noi – ecco che può, finalmente, avviarsi un movimento autentico di identificazione: si può diventare uno, e, immediatamente, infatti, si attiva il volere, che porta al volerci vivi e veri per come ci sentiamo in quel ‘punto vivo’. È, finalmente, presente la possibilità di attuare una concretezza esistenziale che coincida con un vero sentire, e con un ‘volersi’ sintonizzato su quel sentire. È rinunciare alle forme che ci vengono date, e a una qualche forma che noi potremmo darci in maniera interessata, cioè utile per un qualche scopo; si apre davanti a noi, dunque, la possibilità di una scelta finalmente assoluta – in quanto sciolta da tutto il contingente – ma agganciata alla verità e alla vita, per qualcosa che è assoluto, cioè sciolto da ogni utilità o utilizzo.

Più avanti nella stessa opera Pirandello fa coincidere ‘il punto vivo’ con ‘Dio in noi. [21]

[21] È quel che sostiene Moscarda in Uno, nessuno e centomila (cfr. Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, cit., p. 880).

Tornando ora a rileggere la battuta della Favola del figlio cambiato, poiché Dio – come afferma il Principe – è colui che solo sa la verità, ecco che questo procedere verso l’interno, questo in-tender-si, ci appare ‘nuovamente’ come un procedere verso la verità. Verità a cui noi, umani, possiamo attingere soltanto attraverso il ‘credere’ a quel che ‘sentiamo’ ‘in’ noi. Più profondo sarà il nostro sentire, più intensa potrà essere l’espressione del vero che può generarsi dal nostro credere. Tutto questo nella dinamica dell’in-tendere; in questa dinamica la tensione non può trovare una fine, ma procede continuamente mutevole (ma non stravagante), come una spirale intorno a un unico nucleo. Per questo il sentire e il credere ‘oggi così e domani altrimenti’, non è uno sbandare a capriccio, ma è vivere la nostra vera vita, che nel dinamismo dell’in-tendere – cioè sempre più affondando lo scandaglio nell’in – consente di approfondire il vivere la verità per noi, per ciascuno di noi. Il Principe ci indica, inoltre, in questo suo iniziarci al mistero dell’umanazione, alcuni valori e alcuni disvalori: la ricchezza e la convenienza esteriore, tra i disvalori; l’amore, il godimento della natura e il vivere la propria vera vita, tra i valori.

Il Principe è ora arrivato a saperla la sua verità, perché è giunto al sentire veramente, e al credere a quel sentire; agire interiore il suo, tutto inscritto nei dinamismi del volere: voler sentire e voler credere, dunque.

Qui, finalmente, è ‘la salute’ per il Principe; e tutto il creato plaude al ritorno dell’uomo nella vita. La disarmonia che l’uomo crea, uscendo dal flusso vitale, può ricomporsi, e l’uomo può rientrare in quel cosmo da cui era uscito, e veder tutto sollevarsi a un respiro di sollievo!

Il Principe segnala un altro disvalore che imbriglia l’agire umano: la brama di potere, il voler tutto e tutti sottomettere: ‘veder tutto ai miei piedi?’ E di contrappasso il valore: ‘sentire che c’è qualcosa sopra di sé’. Ma tutto ciò che il Principe ha fatto sinora non è ancora sufficiente per raggiungere la pienezza – affinché la sua ‘sapienza umana’ sia veramente tale, cioè raggiunga la perfezione del vivere, abbisogna ancora di un passo decisivo.

«Ora bisogna ch’io trovi
nel calore carnale
di quest’amore di madre, nell’odore di questa tua veste, madre,

LA MADRE
sì, figlio, sì;

IL PRINCIPE
e della tua casa,

LA MADRE
sì, figlio,

IL PRINCIPE
nel sapore dei cibi
che mi darai a mangiare

LA MADRE
sì, sì;

IL PRINCIPE
il sentimento perduto della tua naturale umiltà.
Vado a tuffar le mani
in quella fontana!
Voglio che la vita
si rifaccio in me nuova come un’erba d’aprile!

Via la nebbia amara, e quel fumo, quel fumo forato da lampade, architetture di ferro,
forni, carbone, città affaccendate da cure cieche e meschine, formicaj! formicaj!
Ho perduto l’amore che avevo della mia sconsolata tristezza!
Ora son pieno di quest’ebbrezza
di sole d’azzurro di verde di mare!

[…]

Il Principe […] butta le braccia al collo della madre.

LA MADRE
Figlio mio! Figlio mio!

FINE» (Atto III, Quadro V).

Bisogna, infine, come ci insegna il Principe, che quanto guadagnato a livello di sentire (e di credere a quel sentire) si trasformi in vita. Quel che abbiamo sentito e creduto essere vita dentro di noi deve diventare calore carnale, odore della veste di madre e della sua casa, sapore del cibo da lei preparato per il nostro mangiare. Solo così si potrà veramente ritrovare quel sentimento perduto di naturale umiltà.

Nella fontana di quella naturale umiltà, il Principe vuol tuffare le sue mani, vuole, quindi, intridere tutto il suo fare di naturale umiltà. Finalmente vuole che la vita si rifaccia in lui nuova. Via da tutte le apparenze per rinvenire da quello stordimento nel quale abitualmente ci si agita come in una fosca nube, dove le lampade degli uomini-formica forano il fumo che avvolge città affaccendate da cure cieche e meschine. Per rinascere uomo e vivere umanamente!

La melanconia è finalmente vinta, e la pienezza del vivere ora riempie l’essere umano. L’incontro nel ‘punto vivo’ in sé e nell’altro ha liberato il Principe dalle strettoie disumananti della contingenza.

E ora è importante l’abbraccio, il diventar uno con quell’umanità che consente di nascere, concretando così, per noi, con noi, e in noi, la relazione giusta. Si conclude in questo modo la Favola; in essa la parola, nella reciprocità dell’intendere, nel luogo sacro dell’amore, si è spinta fino al creare un uomo in grado di dire io e di cantare la sua felicità. Nella realtà della scena – nella Favola – si è realizzata l’utopia pirandelliana celata nella novella I Due giganti.

«Qua, nel punto del muro propriamente ove quel pino sorge come un grande O accanto a quel cipresso dritto come un grande I, che alti la notte nel cielo stellato possono, oh beati!, scrivere un IO in due». [22]

[22] Luigi Pirandello, I due giganti, in Id., Novelle per un anno, (a cura di) Mario Costanzo, «I Meridiani», vol. III, Mondadori, Milano 1997, p. 1155.

Ri-conoscere la verità per sé e in-tendere la verità per l’altro, e in questo ‘trovare’ e ‘in-tendere’ produrre il proprio agire, in ciò potrebbe riassumersi quel messaggio pirandelliano che qui stiamo tentando di interpretare.

Un’opera, tra tutte quelle di Pirandello, sembra essere stata scritta dall’autore con il fine di ‘educare’ a quella verità che rende umani. In essa egli ci mostra quanta disumanità può generarsi se nella ricerca della ‘verità’ non riusciamo a orientarci rettamente. Non si tratta né di un dramma, né di una commedia, bensì di ‘una parabola’, come egli specifica in apertura: «Così è (se vi pare)».

In un salotto borghese tanti personaggi che credono di agire in maniera ‘naturale’ nella loro ricerca di verità; mentre, in realtà, non fanno alcuno sforzo per in-tendere la verità dell’altro e procurano ai due protagonisti dell’opera, la Signora Frola e il Signor Ponza suo genero, atroci sofferenze. Essi ricercano una verità oggettiva che non ha umanamente alcun senso e non si sforzano minimamente di intendere la verità ‘per’ l’altro. I due protagonisti, al contrario, continuamente, senza negare il proprio sentimento della vita, si impegnano a in-tendere l’altro nel suo sentimento. A Laudisi, Pirandello lascia il compito di svelare il gioco; mentre i due protagonisti sono drammaticamente impegnati nel viverlo. I due protagonisti hanno caratteristiche fisiche e comportamentali così diverse che sarebbe difficile immaginare divaricazione più netta:

«La Signora Frola è una vecchina linda, modesta, affabilissima, con una grande tristezza negli occhi, ma attenuata da un costante dolce sorriso sulle labbra» (Atto I, Scena IV). Il Signor Ponza è «Tozzo, bruno, dall’aspetto quasi truce, tutto vestito di nero, capelli neri, fitti, fronte bassa, grossi baffi neri. Stringerà continuamente le pugna e parlerà con sforzo, anzi con violenza a stento contenuta. Di tratto in tratto si asciugherà il sudore con un fazzoletto listato di nero. Gli occhi, parlando, gli resteranno costantemente duri, fissi, tetri» (Atto I, Scena V).

Personaggi così diversi, per aspetto e temperamento, possiedono ciascuno una propria verità riguardo ‘all’identità’ di una ‘stessa’ persona, che è anche la persona che ciascuno dei due ha più cara, avendo perso per una tragedia appena accaduta tutti gli altri parenti. Per la signora Frola si tratta di sua figlia, Lina, che ella sa essere l’attuale moglie del Signor Ponza; per il Signor Ponza di sua moglie, Giulia, che egli sa non essere la figlia della signora Frola, essendo Lina, che era stata la sua prima moglie, defunta.

Nessuno dei due può, dunque, dubitare della propria verità, e Pirandello ha qui sapientemente scelto la più estrema delle divaricazioni; eppure, nonostante ciò, essi si impegnano per in-tendere la verità per l’altro e per agire in maniera rispettosa di quell’altra verità.

Dunque, due personaggi davvero dissimili, che si contrappongono su una verità che più radicale non potrebbe essere. Ebbene questi due personaggi riescono a in-tendersi, e a operare in conseguenza di questo ‘intendimento’. Ciascuno riconosce, dunque, la verità per l’altro e opera non per convincere l’altro ad abbandonare il proprio sentimento della verità per guadagnare quello dell’altro, quanto, piuttosto, per dare alla verità dell’altro la possibilità di esserci.

Ma la verità dell’altro così vissuta è impegno continuo, non privo di sacrifici, anzi!

Intensa la didascalia che descrive il modo in cui i due abbandonano la scena. Sembra fare da contrappunto tragico al finale festoso della Favola, eppure ‘canta’, ancora e sempre, dell’in-tendersi umano:

«E tutti e due abbracciati, carezzandosi a vicenda, tra due diversi pianti, si ritireranno bisbigliandosi tra loro parole affettuose. Silenzio» (Atto III, Scena IX).

Quando i due hanno abbandonato la scena, ‘parla’, finalmente, ‘la verità’, che veste i panni della Signora Ponza. È bello rileggerle ora quelle parole, proprio al termine di questo breve saggio, per ascoltare se si è aggiunta qualche nuova armonia alla sinfonia del loro mistero.

«[…] Per me, io sono colei che mi si crede».

Gilberto Scaramuzzo
2017

Bibliografia

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Pirandello Luigi, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, Arnaldo Mondadori, Milano 2006.
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Scaramuzzo Gilberto, In-tendere. L’umana sophia di Luigi Pirandello, Anicia, Roma 2005.
Scaramuzzo Gilberto, Non parlo di me. Una riflessione sull’umanazione firmata Luigi Pirandello, in E. Ducci (a cura di), Aprire su paideia, Anicia, Roma 2004, pp. 21-54.
Scardicchio Andrea, La vita della scuola e la scuola della vita. Pirandello educatore, in «Amaltea», VIII, n. 2-3, settembre 2013, pp. 39-52.

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