136. Quand’ero matto… – Novella

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Prime pubblicazioni: Quand’ero matto, Streglio, Torino 1902, poi in Il vecchio Dio, Bemporad, Firenze 1926.
«Guardai il cielo velato da strisce rade, che erano come la traccia superstite della gran fuga delle nuvole nella notte, e mi sentii stordito in mezzo a un silenzio nuovo inatteso, con l’impressione vaga che qualcosa fosse venuta a mancare tutt’intorno, alla terra. Ah sì, ecco: il vento. Il vento era abbattuto.»

Novella dalla Raccolta “Il vecchio Dio” (1926

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Quand ero matto
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Quand’ero matto… – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Quand’ero matto… – Audio lettura 2 – Legge Valter Zanardi
Quand’ero matto… – Audio lettura 3 – Legge Lisa Caputo
Quand’ero matto… – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

5. Quand’ero matto… – 1902

             I. Il soldino.

             Prima di tutto chiedo licenza di premettere che ora sono savio. Oh, per questo, anche povero. Anche calvo. Quand’ero ancora io, voglio dire, il riverito signor Fausto Bandini, ricco, e in capo avevo tutti i miei bellissimi capelli, è però provato provatissimo ch’ero matto. E un po’ più magro, s’intende. Ma pur con questi occhi che mi sono rimasti da allora spauriti, nella faccia così tutta scritta dagli atteggiamenti che prendeva per le croniche pietà da cui ero afflitto.

             Per distrazione, ogni tanto, ci ricasco. Ma sono lampi che Marta, saggia moglie, spegne subito in me con certe sue terribili paroline.

             Per esempio, l’altra sera.

             Cose di poco momento, badiamo. Che può mai accadere a un povero savio e savio povero, ridotto a vivere più ordinatamente d’una formica?

             Quanto più tenue la tela, tanto più delicato il ricamo, ho letto una volta, non so dove. Ma prima di tutto bisognerebbe saper ricamare.

             Rincasavo. Non si può dare, credo, maggior fastidio di quello che l’insistenza d’un mendicante cagiona quando non s’abbia il soldo in tasca e quegli ci veda all’aria dispostissimi a darglielo. Era, nel caso mio, una ragazza. Senza interruzione, con voce piagnucolosa da un quarto d’ora m’andava ripetendo dietro le stesse frasi, due o tre. Io, sordo; senza guardarla. A un certo punto, mi lascia: investe e s’appiccica, come una mosca tavana, a una coppia di sposi novelli.

             «Glielo daranno il soldino?» dico tra me.

             Ah, tu non sai, ragazza! La prima volta che gli sposi novelli van per via a braccetto, credono d’aver tutti gli occhi del mondo appuntati addosso; sentono l’impaccio delle cose nuove che tutti quegli occhi veggono e suppongono in loro, e non sanno né possono fermarsi a far l’elemosina al povero.

             Sento poco dopo, difatti, qualcuno che mi corre dietro gridando:

             – Signorino, signorino.

             E rièccola, col piagnisteo monotono di prima. Non ne posso più; le grido esasperato:

             – No!

             Peggio. Come se con quel no avessi dato la stura a un altro pajo di frasi tenute in serbo in previsione del caso. Sbuffo una prima volta, sbuffo una seconda, finalmente: auff! – alzo il bastone. Così. Quella si tira da un canto, levando istintivamente il braccio a riparo della testa, e di sotto il gomito mi geme:

             – Anche due centesimi!

             Dio, che occhi apriva quel volto smunto, citrino, sotto i capelli rossastri abbatuffolati. Tutti i vizii della strada vermicavano in quegli occhi; e la precocità li rendeva spaventevoli. (Non metto alcun punto esclamativo perché, ora che son savio, nessuna cosa deve più farmi meraviglia.)

             Già prima di vederle quegli occhi ero pentito dell’atto di minaccia.

             – Quant’anni hai?

             La ragazza mi guarda di traverso, senza abbassare il braccio, e non risponde.

             –    Perché non lavori?

             –    Magari, a trovarne. Non trovo.

             –    Non cerchi, – le dico io, riavviandomi. – Perché hai preso gusto a codesto bel mestiere.

             Manco a dirlo; colei mi seguì ripigliando l’affliggente cantilena: che aveva fame, le dessi qualcosa per amor di Dio.

             Potevo cavarmi la giacca e dirle: «Tieni»? Chi sa: in altri tempi, forse l’avrei fatto. Ma già, in altri tempi, avrei avuto in tasca il soldino.

             Mi nacque improvvisamente un’idea, della quale sento il dovere di scusarmi al cospetto della gente savia. Lavorare – è senza dubbio un buon consiglio; ma si fa così presto a darlo. Mi sovvenne che Marta cercava una servetta.

             E si badi: qualifico pazzia quest’idea improvvisa, non tanto per la trepida gioja che mi suscitò e che riconobbi in prima benissimo, per averla altre volte provata tal quale, quand’ero matto: specie d’ebbrezza abbarbagliante che dura un attimo, un lampo, nel quale il mondo sembra dia un gran palpito e sussulti tutto dentro di noi; quanto per le riflessioni da povero savio con cui cercai subito di puntellare quell’ebbrezza in me. Pensai: «Purché a questa ragazza si dia da mangiare, da dormire e qualche veste smessa, ci servirà, senza pretendere altro. Sarà pure un risparmio per Marta». Così.

             – Senti: – dissi alla ragazza, – soldi, non te ne do. Vuoi davvero lavorare? Si fermò a guardarmi un tratto con quegli occhi scontrosi, sotto le ciglia

             odiosamente aggrottate; poi chinò più volte il capo.

             –    Sì? ebbene, vieni allora con me. Ti darò io da lavorare a casa mia. La ragazza si fermò di nuovo, perplessa.

             –    E mamma?

             –    Andrai a dirglielo dopo. Adesso vieni.

             Mi pareva di camminare per un altro viale e che… mi vergogno a dirlo, case e alberetti fossero in preda all’agitazione che provavo io. E l’agitazione crebbe, crebbe di punto in punto, appressandomi a casa.

             Che avrebbe detto mia moglie?

             In un modo più balordo non avrei potuto presentarle la proposta (balbettavo). E certo, certissimo questo modo balordo dovette contribuire non solo a fargliela respingere, com’era giusto, ma anche a farla arrabbiare, povera Marta. Ma se io, ora che sono divenuto savio, col timore continuo che mi scappi qualche stramberia, non so più dire due parole, una dopo l’altra? Basta; mia moglie non si lasciò sfuggire l’occasione di ripetermi quel suo terribile: «Ancora? Ancora?» che per me è peggio d’una doccia a sorpresa; poi mandò via la ragazza senza neanche volerle dare qualcosina, perché – disse – per quel giorno l’elemosina era fatta. (E realmente Marta l’elemosina la fa ogni giorno; badiamo: dà un soldino al primo povero che capita, e quando ha dato quel soldino e ha detto: «Raccomandami alle anime sante del Purgatorio» s’è messa in pace con la coscienza, e non vuol sentire altro.)

             Intanto io penso e dico: quella ragazza, se non è già perduta, certo sarà tra breve. Sì, ma che deve importarmene? Io, ora, sono divenuto savio, e a queste cose non debbo più pensare né punto, né poco. – «Pensare a me!» – questa, la mia nuova divisa. Ce n’è voluto per persuadermi a intestarne tutti gli atti di questa mia nuova vita, chiamiamola così. Ma come Dio vuole, non facendo nulla… Basta. Se io ora, per modo d’esempio, mi fermo sotto la finestra d’una casa ove sappia c’è gente che piange, debbo subito vedere a quella finestra la mia smarrita, sparuta immagine, la quale, affacciandosi, ha l’obbligo espresso di gridarmi di lassù, crollando un po’ il capo e appuntandosi l’indice d’una mano sul petto: «E io?». Così.

             Sempre: «E io?» in ogni occasione. Che è qui la base della vera saggezza.

             Quand’ero matto invece…

*******

             II. Fondamento della morale.

             Quand’ero matto, non mi sentivo in me stesso; che è come dire: non stavo di casa in me.

             Ero infatti divenuto un albergo aperto a tutti E se mi picchiavo un po’ sulla fronte, sentivo che vi stava sempre gente alloggiata: poveretti che avevan bisogno del mio ajuto; e tanti e tanti altri inquilini avevo parimenti nel cuore; né si può dir che gambe e mani avessi tanto al servizio mio, quanto a quello degli infelici che stavano in me e mi mandavano di qua e di là, in continua briga per loro.

             Non potevo dir: io, nella mia coscienza, che subito un’eco non mi ripetesse: io, io, io…da parte di tanti altri, come se avessi dentro un passerajo. E questo significava che se, poniamo, avevo fame e lo dicevo dentro di me, tanti e tanti mi ripetevano dentro per conto loro: ho fame, ho fame, ho fame, a cui bisognava provvedere, e sempre mi restava il rammarico di non potere per tutti. Mi concepivo insomma in società di mutuo soccorso con l’universo; ma siccome io allora non avevo bisogno di nessuno, quel «mutuo» aveva soltanto valore per gli altri.

             Il bello intanto era questo, che credevo di ragionare la mia pazzia; anzi, se debbo dir tutta la verità senza vergognarmi, ero finanche arrivato a tracciare lo schema d’un trattato sui generis, che intendevo scrivere col titolo: Fondamento della morale.

             Ho qui nel cassetto gli appunti per questo trattato, e ogni tanto, di sera (mentre Marta si fa di là il solito pisolino dopo cena), li cavo fuori e me li rileggo pian piano, di nascosto, con un certo godimento e anche una certa meraviglia, lo confesso, perché è innegabile che io ragionavo pur bene, quand’ero matto.

             Dovrei veramente riderne; ma forse non ci riesco per il motivo affatto particolare che quei ragionamenti erano per la maggior parte diretti a convertire quella disgraziata, che fu la mia prima moglie, della quale parlerò appresso, per dare la più lampante prova delle segnalate pazzie di quei tempi.

             Da questi appunti argomento che il trattato del Fondamento della morale dovesse nel mio concetto consistere di dialoghi tra me e quella mia prima moglie, o forse d’apologhi. Un quadernetto, ad esempio, è intitolato: Il giovine timido, e certo in esso alludevo a quel buon ragazzo, figlio d’un mercante di campagna in relazione d’affari con me, il quale, mandato dal padre, veniva a trovarmi in città, e quella disgraziata lo invitava a desinare con noi per divertirsi un po’ alle spalle di lui.

             Trascrivo dal quadernetto:

             Dimmi, o Mirino. O che occhi sono i tuoi? Non vedi che codesto povero giovine s’è accorto che tu intendi prenderti giuoco di lui? Lo stimi sciocco; e invece è soltanto timido; così timido che non sa ritrarsi dalla berlina a cui lo metti, quantunque ne soffra dentro. Se la sofferenza di questo giovine, o Minna, non rimanesse per te allo stato di segno apparente che tifa ridere, se tu non avessi soltanto coscienza del tuo tristo piacere, ma anche, nello stesso

             tempo, del dolore di lui, non ti par chiaro che cesseresti di farlo soffrire, perché il piacere ti sarebbe turbato e distrutto dalla coscienza dell’altrui dolore? Tu agisci dunque, Mirina, senza l’intero sentimento della tua azione, della quale provi l’effetto soltanto in te medesima.

             Così. E per un matto, via, non c’è male. Il male era che non comprendevo che altro è ragionare, altro è vivere. E la metà, o quasi, di quei disgraziati che si tengon chiusi negli ospizii, non sono forse gente che voleva vivere secondo comunemente in astratto si ragiona? Quante prove, quanti esempii potrei qui citare, se ogni savio oggi non riconoscesse tante cose che si fanno nella vita, o che si dicono, e certi usi e certe abitudini esser proprio irragionevoli, dimodoché è matto chi li ragioni.

             Tale in fondo ero io, tale nel mio trattato mi dimostravo. Non me ne sarei accorto, se Marta non mi avesse prestato i suoi occhiali.

             Per curiosità, intanto, coloro che non si vogliono tener paghi di Dio, perché lo dicono fondato in un sentimento che non ammette ragione, potrebbero vedere in questo mio trattato come io però lo ragionassi. Se non che, convengo adesso che questo sarebbe un Dio difficile per la gente savia e anzi addirittura impraticabile, perché, chi volesse riconoscerlo dovrebbe agire verso gli altri come agivo io una volta, cioè da matto: con eguale coscienza di sé e degli altri, perché sono coscienze come la nostra. Chi facesse veramente così e alle altre coscienze attribuisse l’identica realtà che alla propria, avrebbe per necessità l’idea d’una realtà comune a tutti, d’una verità e anche di un’esistenza che ci sorpassa: Dio.

             Ma non per la gente savia, ripeto.

             E curioso intanto che Marta, mentre io (seguendo la nostra vecchia abitudine di leggere qualche buon libro prima d’andare a letto) leggo, per esempio, I fioretti di San Francesco, m’interrompa di tratto in tratto, esclamando con riverenza e piena d’ammirazione:

             – Che santo! che santo!

             Così.

             Sarà tentazione del demonio, ma io abbasso il libro sulle ginocchia e sto a guardarla, se lo dica proprio sul serio davanti a me. Per esser logici, via, San Francesco per lei non dovrebbe esser savio, o io ora…

             Ma già, mi persuado che i savii debbono esser logici fino a un certo punto.

             Torniamo a quand’ero matto.

             Sul cadere della sera, in villa, mentre da lontano mi giungeva il suono delle cornamuse che aprivano la marcia delle frotte dei falciatori di ritorno al villaggio con le carrette cariche del raccolto, mi pareva che l’aria tra me e le cose intorno divenisse a mano a mano più intima; e che io vedessi oltre la vista naturale. L’anima, intenta e affascinata da quella sacra intimità con le cose, discendeva al limitare dei sensi e percepiva ogni più lieve moto, ogni più lieve rumore. E un gran silenzio attonito era dentro di me, sicché un frullo d’ali vicino mi faceva sussultare e un trillo lontano mi dava quasi un singulto di gioja, perché mi sentivo felice per gli uccelletti che in quella stagione non pativano il freddo e trovavano per la campagna da cibarsi in abbondanza; felice, come se il mio alito li scaldasse e io li cibassi di me.

             Penetravo anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita d’ogni cosa, finché mi pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima; e andavo un tratto così, estatico e compenetrato in questa divina visione.

             Svanita, restavo anelante, come se davvero nel gracile petto avessi accolto la vita del mondo.

             Mi mettevo a sedere a pie d’un albero, e allora il genio della mia follia cominciava a suggerirmi le più strambe idee: che l’umanità avesse bisogno di me, della mia parola esortatrice: voce d’esempio, parola di fatto. A un certo punto m’accorgevo io stesso che deliravo, e allora mi dicevo: «Rientriamo, rientriamo nella nostra coscienza…». Ma ci rientravo, non per veder me, ma per veder gli altri in me com’essi si vedevano, per sentirli in me com’essi in loro si sentivano e volerli com’essi si volevano.

             Ora, concependo e riflettendo così nello specchio interiore della coscienza gli altri esseri con una realtà uguale alla mia e per tal mezzo anche l’Essere nella sua unità, un’azione egoistica, un’azione cioè nella quale la parte si erige al posto del tutto e lo subordina, non era naturale che mi apparisse irragionevole?

             Ahimè, sì. Ma mentre io per le mie terre camminavo in punta di piedi e curvo per vedere di non calpestare qualche fiorellino o qualche insetto, dei quali vivevo in me la tenue vita d’un giorno, gli altri mi rubavano la campagna, mi rubavano le case, mi spogliavano addirittura.

             E ora, eccomi qua: ecce homo!

*******

             III. Mirina.

             Il cero benedetto, il cero «della buona morte» che quella santa donna s’era portato dalla chiesa madre del paesello natale, faceva ora il suo ufficio.

             Lo aveva custodito tant’anni per sé in fondo all’armadio; e ora esso ardeva su un lungo candeliere di piombo e quasi vegliava coi ricordi umili e cari del lontano paese, struggendosi in lacrime sul fusto, dietro il capo della morta già stesa sul pavimento dentro la bara ancora scoperta, nel posto occupato prima dal letto.

             Ogni qual volta mi viene in mente la mia prima moglie, mi s’affaccia con straordinaria lucidità questa funebre visione. La santa donna stesa in quella bara è Amalia Sanni, la sorella maggiore e vorrei dire la madre di Mirina. Rivedo la camera modestissima e, oltre al cero benedetto, due altri ceri più piccoli che si consumano più presto a pie della bara, crepitando di tratto in tratto.

             Io me ne sto seduto presso la finestra, e, come se la sciagura inattesa mi avesse più stordito che addolorato, guardo i parenti e gli amici convenuti per quella morte: gente savia e dabbene, mi guarderei dal negarlo, ma che peccava di troppo zelo nel farmi accorgere dell’antipatia che sentivano per me. Certo ne avevano ragione, ma non m’ajutavano così a rinsavire, che io anzi da quei loro sguardi traevo argomento di compatirli sinceramente.

             Io amavo Amalia Sanni come una sorella. Riconosco ora in lei un solo torto: questo: che la sua anima s’accordava in tutto e per tutto con la mia nel concepir la vita. Non direi però ch’ella era matta; direi tutt’al più che Amalia Sanni non fu savia, come San Francesco. Perché non c’è via di mezzo: o si è santi o si è matti.

             Con cura tutt’e due ci sforzavamo di ridestare l’anima in Mirina, senza pertanto sciupar la freschezza della sua sconnessa e quasi violenta vitalità, senza mortificare per nulla quel suo minuscolo corpicino da bambola, pieno di vivacissime grazie. Volevamo insegnare a una farfalla, non a chiuder le ali e non volar più, ma a non andare a posarsi su certi fiori velenosi. Senza intendere che per la farfalla, quel che a noi pareva veleno era il proprio cibo.

             Basta: non voglio qui dilungarmi a narrare la mia infelice esistenza coniugale con Mirina. Dirò solo che ella detestava in me quel che ammirava in sua sorella. E questo ora mi sembra naturalissimo.

             A un tratto, nella camera mortuaria entrò sbuffante una delle cugine di mia moglie, di cui non ricordo più il nome: pingue, nana, con un grosso pajo d’occhiali rotondi che le ingrandivano mostruosamente gli occhi, poverina. Si era recata all’aperto a raccoglier qua e là quanti più fiori aveva potuto, nelle vicinanze della villetta, e ora veniva a spargerli sulla morta. Aveva nei capelli scompigliati il vento che urlava fuori.

             Gentile e pietoso quel pensiero: ora lo riconosco; ma allora… Ricordavo che, pochi giorni addietro, Amalia, nel veder Mirina ritornare alla villetta con un gran fascio di fiori, aveva esclamato, tutt’afflitta:

             – Peccato! Perché?

             Nella sua santità, difatti, ella riteneva che quei fiori di campo non nascono per gli uomini, ma sono come il riso della terra che esprime gratitudine al sole per il calore ch’esso le dà. Strappare quei fiori era per lei una profanazione. Io matto, confesso che non seppi resistere alla vista della morta coperta di quei fiori. Non dissi nulla. Me ne andai.

             Ricordo ancora l’impressione che mi fece, quella notte, l’improvviso spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero seco la luna pallida dallo sgomento; gli alberi si scontorcevano stormendo, cigolando, spasimando senza requie, come per sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a un tempestoso convegno.

             L’anima mia, che nell’uscir dalla villetta era tutta chiusa nel cordoglio della morte, a un tratto si aprì, come se il cordoglio stesso si fosse spalancato al cospetto di quella notte: altro dolore immenso mi parve che fosse nel cielo misterioso, in quelle nuvole squarciate e trascinate; altra pena arcana nell’aria infuriata e urlante in quella fuga, e, se così gli alberi muti si agitavano, anche uno spasimo ignoto doveva certo essere in loro. A un tratto, un singhiozzo, quasi un bollo di paurosa luce in quel mare di tenebre: un chiurlo d’assiolo nella valle giù; e, lontano, gridi di terrore: i grilli che scampanellavano di là, verso la collina.

             Investito dal vento, andai tra gli alberi. A un certo punto, non so perché, mi trovai a guardare verso la villetta, che mi presentava l’altro lato. Dopo aver guardato un pezzo, improvvisamente mi protesi per discernere tra il bujo se quel che mi sembrava di vedere fosse vero: presso la finestra bassa della camera in cui Mirina s’era ritirata a piangere la sorella, stava e s’agitava come un’ombra. Poteva essere negli occhi miei quell’ombra? Me li stropicciai così forte, che, per un attimo, dopo, non riuscii a discernere più nulla, quasi che una tenebra più fitta fosse caduta attorno per impedirmi, non di vedere, ma di credere a ciò che m’era parso di vedere. Un’ombra che gestiva? L’ombra d’un albero agitato dal vento?

             Tanto era lontano da me il sospetto che mia moglie mi tradisse.

             Veramente mi sembra di non presumer troppo pensando che, in una notte come quella, sarebbe stato lontano da tutti un tal sospetto, e che forse tutti, come me, quando mi accorsi che quell’ombra era proprio un uomo in carne e ossa, avrebbero ritenuto che fosse un ladro notturno e come me sarebbero corsi di soppiatto a prendere uno schioppo, per intimorirlo, anche sparando in aria.

             Se non che io, quando scoprii che genere di ladro fosse colui, non gli sparai, né sparai in aria.

             Appostato lì, chino, all’angolo della cascina, vicinissimo alla prima finestra donde essi parlavano tra loro, in preda a continui brividi taglienti come rasojate alla schiena, mi sforzavo di udire ciò che dicevano. Udivo soltanto mia moglie atterrita dall’incredibile audacia di colui. Lo spingeva ad andarsene. Parlava anche lui, ma così basso e affrettatamente che, non solo non riuscivo a intendere le sue parole, ma dal suono della voce non potevo ancora riconoscerlo.

             –    Vattene, vattene, – insisteva lei. E tra le lagrime aggiunse altre parole che m’impietrarono di più. Intravidi tutto! Egli era venuto in quella notte tempestosa per chiedere notizie dell’inferma. Ed ella gli disse: – L’abbiamo uccisa noi –. Ah, dunque Amalia aveva saputo, aveva scoperto prima di me il tradimento?

             –    Che colpa? che colpa? No! – diss’egli forte, smanioso, a un tratto.

             Vardi! lui, Cesare Vardi, il mio vicino! Lo riconobbi, lo vidi nella sua voce: tozzo e solido, quasi nutrito di terra, di sole e d’aria sana. Udii, subito dopo, le persiane raccostarsi con violenza, come se il vento avesse ajutato le mani di lei; udii che egli si allontanava. E io non mi mossi dalla positura in cui m’ero messo; seguii con l’udito, rattenendo il fiato, i suoi passi, più lenti assai dei battiti del mio cuore. Poi mi rialzai in preda al primo sbalordimento, e allora quel che avevo veduto e inteso quasi non mi parve più vero.

             «Possibile? possibile?» dicevo a me stesso, errando di nuovo per la campagna, tra gli alberi, com’ebbro. M’usciva dalla gola un mugolìo sordo, continuo, che si confondeva col violento stormire delle foglie, come se il mio corpo, ferito, si dolesse per suo conto, mentre l’anima, sconvolta, stupita, non gli badava.

             – Possibile?

             Intesi alla fine quel mugolo che partiva da me, e m’arrestai arrangolato e m’afferrai forte con l’una mano e con l’altra gli omeri, incrociando le braccia sul petto, quasi per trattenermi, e sedetti a terra. Ruppi allora in singhiozzi disperati; piansi e piansi; poi, spossato, alleggerito, cominciai a esortar me stesso.

             Ma dirò solo quello che feci, dopo aver pensato a lungo. Sarà meglio. Ormai sono passati tanti anni; commuovermi ancora di questa mia vecchia sciagura temo che non sia degno di un uomo savio; tanto più che, pare, anzi è certo, mi diportai malissimo.

             Levatomi dunque da terra, mi misi a errar di nuovo. A un tratto mi sentii quasi forzato a nascondermi ancora una volta, e mi accoccolai dietro la siepe che limitava il mio campo da quello di lui. Il Vardi ritornava lentamente alla sua villa. Nel passare davanti a me, nascosto dalla siepe, lo sentii sospirare profondamente nella notte. Quel sospiro me lo avvicinò tanto, che quasi ne provai ribrezzo. Ah, per quel sospiro fui proprio sul punto d’ucciderlo. Potevo, solo che avessi alzato un po’ il fucile, anche senza darmi la pena di prendere la mira; tanto vicino mi passava. Lo lasciai passare.

             Ritornato di corsa alla villetta trovai che i parenti s’erano ritirati dalla camera della morta e che soltanto due servi erano rimasti a vegliare. Li dispensai dal triste ufficio, dicendo che avrei vegliato io. Mi trattenni un po’ a contemplare mia cognata, che mi sembrò più tranquilla, più serena, come se, morta dentro l’ombra della colpa di cui aveva voluto serbare l’orrendo segreto, ora ne fosse uscita, poiché io sapevo tutto. Entrai quindi nella camera di Mirina.

             La trovai che piangeva. Appena mi vide, si cangiò in volto.

             –    Non temere, – le dissi. – Vieni con me.

             –    Dove?

             –    Con me. Non avrai più rimorsi.

             –    Che intendi dire?

             –    Io voglio fare, non dire. E quello che vuoi tu. Vieni intanto. Ti farò vedere. La presi per mano; la attirai. Tremante, fremente, ella si lasciò trascinare fino

             alla camera della morta. Le additai la sorella.

             – Vedi? – le dissi. – Ora ella ti perdona. E tu puoi ripetere a me che l’hai uccisa tu.

             – Io?

             – Sì, come hai detto poc’anzi dalla finestra a lui. Zitta, non gridare! Non ti fo nulla. Andrai ora stesso via da questa casa. Non piangere! E la tua prigione. Voglio liberarti.

             Cadde in ginocchio, con la faccia per terra, supplicando perdono, pietà. La ajutai subito a rialzarsi, imponendole di far silenzio; la tirai fuori della stanza.

             –    Dove? dove? – chiedeva lei angosciosamente.

             –    Dove tu vuoi; non temere. E se vuoi esser punita, sarà punizione; e se puoi ancora godere, godrai liberamente. Ti libero! ti libero!

             Avevo ancora lo schioppo in ispalla. Ah come ella me lo guardò, sospettando

             ragionevolmente che con le buone volessi attirarla fuori! Me ne accorsi; sorrisi amaramente. E corsi a posar l’arma in un angolo della saletta.

             –    Non voglio farti male, no. Che dovere hai tu d’amarmi per forza?

             –    Dove mi conduci?

             –    Da lui che t’aspetta.

             Entrando in una casa, pensavo io allora, dobbiamo contentarci della sedia che l’ospite può offrirci, senza stare a pensare se dall’albero, donde quella sedia fu tratta, altra sedia di miglior foggia e di maggior dimensione avremmo tratta noi per il nostro gusto e per la nostra statura. Per Mirina erano troppo alte le sedie di casa mia. Sedendo, restava con le gambe spenzolate, ed ella voleva sentire sotto i piedi la terra.

             Ma avevo promesso di riferire soltanto quello che feci. Bene: passi questo breve saggio di pazzia. Quanto sarebbe stato più spiccio tirare una fucilata… Mah!

             La tenevo per mano, all’aperto, e le parlavo, andando. Non so bene quel che le dicessi; so che, a un certo punto, ella svincolò il polso dalla mia mano e scappò via di corsa, di corsa, tra gli alberi, come portata dal vento. Io rimasi perplesso, sorpreso da quella fuga improvvisa: pareva che ella mi seguisse così docile… Chiamai come un cieco:

             – Mirina! Mirina!

             Era sparita nella tenebra, tra gli alberi. Errai in cerca, a lungo, invano. Ruppe l’alba, cercai ancora, finché ogni dubbio non fu vinto dalla certezza che ella era andata da sola a rifugiarsi là, dove io senza alcuna violenza volevo condurla.

             Guardai il cielo velato da strisce rade, che erano come la traccia superstite della gran fuga delle nuvole nella notte, e mi sentii stordito in mezzo a un silenzio nuovo inatteso, con l’impressione vaga che qualcosa fosse venuta a mancare tutt’intorno, alla terra. Ah sì, ecco: il vento. Il vento era abbattuto. Gli alberi erano immobili nell’umida squallida luce di quell’alba.

             Quanta stanchezza in quella stupefatta immobilità! Ero sfinito anch’io, e mi posi a sedere per terra. Guardai le foglie degli alberi più vicini, e sentii che, se un soffio d’aria in quel momento fosse venuto a smuoverle, esse avrebbero forse provato lo stesso senso di dolore che avrei provato io se qualcuno fosse venuto a scuotermi una mano.

             Mi sovvenne a un tratto che la morta era sola nella villetta: che c’erano i parenti, i quali forse a quell’ora s’erano svegliati e domandavano di me e di mia moglie. Balzai in piedi, e via di corsa.

             Stimo inutile rappresentare a gente savia quel che seguì. Quei bravi parenti insorsero tutti alle parole mie, alle mie spiegazioni; mi proclamarono pazzo, e anzi quella cugina pingue, nana, dagli occhiali rotondi, mentre tutti vociavano, trasse dalla concitazione generale il coraggio di strillarmi in faccia con le pugna serrate:

             – Imbecille!

             Aveva ragione, poverina.

             Affrettarono il trasporto della defunta alla chiesa del prossimo villaggio, e mi lasciarono solo.

             Dopo due anni, mi rivedo in viaggio. Il Vardi ha abbandonato Mirina, la quale, sottratta alla miseria, al vizio, alla disperazione, vive in casa d’una parente. Ella è però in potere d’un male orribile, e sta per morirne. Col mio perdono, con la pace, io ho sperato, sognato di allegrarle gli ultimi giorni di vita, riconducendola alla nostra campagna. Mi presento a lei in quella camera squallida; le dico:

             –    Mi comprendi, ora?

             –    No! – mi risponde lei, ritirando la mano che voglio carezzarle e guardandomi odiosamente.

             E anche lei, poveretta, aveva ragione.

*******

             IV. Scuola di saggezza.

             Per esercitar bene qualunque professione c’è bisogno, come ognun sa, anche di una certa larghezza di mezzi, la quale renda possibile aspettare le opportunità migliori, senza buttarsi alle prime, come cani all’osso, che è la sorte di chi si trovi in ristrettezze e per l’oggi debba ammiserire il proprio domani e se stesso e la professione sua.

             Ora questo vale anche per la professione del ladro.

             Un povero ladro, che debba vivere alla giornata, suol finir sempre male. Un ladro invece, che non sia in tali angustie e possa e sappia aspettar tempo e preparare i modi, arriva ad alti e onoratissimi posti, con plauso e soddisfazione di tutti.

             Siamo dunque parchi, per carità, nell’accordare il merito della saggezza ai ladri di casa mia.

             Tutti quelli che esercitarono sulla mia cospicua ricchezza la loro professione, non meritano l’encomio della gente savia. Potevano rubare con garbo, comodamente, e con prudenza e avvedutezza, e crearsi un’onorevole e rispettabilissima posizione. Invece, proprio senz’alcun bisogno, s’affollarono a rubare, e rubarono male, naturalmente. Riducendomi in pochi anni alla miseria, si tolsero il modo di vivere tranquillamente alle mie spalle. E cominciarono presto, infatti, per loro, tanti grattacapi che prima non avevano; e so, e me ne dispiace, che qualcuno andò anche a finir male.

             Marta, mia moglie, è d’accordo con me in questo giudizio; soltanto ella osserva che allorquando un pover’uomo discretamente onesto si trova insieme con tanti ladri ingordi nell’amministrazione dei beni d’un ricco imbecille o matto (che sarei io) la tattica della parsimonia nel furto non è più saggia; il furto discreto, pacifico, giornaliero, non è più segno allora d’avvedutezza, ma di stupidaggine e di povero cuore. E questo sarebbe appunto il caso di Santi Bensai, mio segretario e primo marito della mia cara Marta.

             Il povero Santi (a cui devo se ora non son ridotto all’elemosina) conosceva la mia ricchezza e stimava saggiamente ch’essa avrebbe potuto servire con larghezza per me e per quanti, come lui, si fossero contentati di raschiarla discretamente, comodamente, senza cagionar danni troppo evidenti. Forse non tralasciò di consigliare, per comune interesse, moderazione ai suoi colleghi; non fu certo ascoltato; si creò nemici; e sofferse non poco, poverino. Gli altri seguitarono a portar via a balle e a carra; lui, come una sobria formichetta. E quando io alla fine rimasi povero come santo Giobbe, bisognava vedere il buon Santi molto, ma molto più afflitto di me. Egli aveva raggranellato di che vivere modestamente, e non si sapeva dar pace che quegli altri non si fossero degnati neppure di lasciarmi nella sua condizione.

             –   Carnefici! – esclamava: lui che mi aveva tratto sangue, a mala pena, zitto zitto, con uno spillo.

             E più d’una volta, vedendomi un po’ troppo pallido, volle trascinarmi per forza in casa sua a desinare; e lui non mangiava, dalla bile che lo rendeva furibondo contro quegli altri.

             Io stavo zitto e ascoltavo Marta che, fin d’allora, cominciò a darmi scuola di saggezza. Ella difendeva contro il marito i miei carnefici.

             –   Siamo giusti! – diceva. – Con qual diritto possiamo pretendere che gli altri si curino di noi, quando noi continuamente dimostriamo di non aver nessuna cura di noi stessi? La roba del signor Fausto era roba di tutti, e ciascuno se l’è presa. Non è tanto ladro il ladro, quanto, – scusi signor Bandini, – quanto è imbecille chi si lascia rubare.

             E qualche altra volta diceva, come infastidita:

             –   E zitto, via, Santi! Imita il signor Bandini che almeno se ne sta zitto, perché sa bene, ora, che non può lagnarsi di nessuno. Se egli infatti, senza che gli spettasse, pensò sempre agli altri, che meraviglia che questi altri abbiano pensato a sé? Ha dato lui l’esempio, e gli altri lo hanno seguito. Per me, il signor Bandini è stato il più gran ladro di se stesso.

             –    E dunque, in prigione? – le domandavo io, sorridendo.

             –    In prigione, no. Ma in qualche altro ospizio, sì.

             Santi si ribellava. Il diverbio s’accendeva, e invano io tentavo di metter pace dichiarando che, alla fin fine, quei tali il più gran male non lo avevano fatto a me che sapevo adattarmi a vivere comunque, ma alla povera gente che aveva bisogno del mio ajuto.

             –    E lei dunque, – ribatteva Marta, – non ha fatto male soltanto a sé, ma anche agli altri. Ne conviene? Non pensando a sé, non ha pensato neanche agli altri. Doppio male! E non ne segue che tutti coloro che pensano soltanto a sé e fanno in modo di non aver mai bisogno d’alcuno, per questo soltanto dimostrano di pensare anche agli altri? Che farà lei adesso? Ha bisogno degli altri, ora. E crede che sarà per tutti un beneficio il dover mostrarsi grati?

             –    O che ti scappa di bocca, pettegola? – scattava Santi a queste parole, temendo non mi paressero un raffaccio di quel po’ d’ajuto ch’egli con tutto il cuore mi prestava.

             Marta, placida e commiserandolo con lo sguardo, gli rispondeva:

             – Non dico per te. Che c’entri tu, Santi mio, che sei un pover’uomo da bene?

             E veramente! Se lo avessi lasciato fare secondo il suo affetto e la considerazione sua, mi sarei ridotto a vivere giorno e notte con lui. Non mi voleva lasciare un sol momento, e mi chiedeva per grazia ch’io fossi contento di accettare i suoi servizii doverosi. Povero Santi! Ma, con la povertà, i fumi della follia non m’erano per anche svaporati. Non volevo esser di peso a nessuno de’ miei antichi beneficati, e con garbo compassionevole mi portavo a spasso i miei cenci e la mia miseria e intanto cercavo di procacciarmi un lavoro qual si fosse, anche manuale, che mi desse modo di soddisfare ai miei pochi bisogni.

             Ma neppur questo garbava alla mia saggia maestra:

             – Lavorare? – mi diceva. – Bell’espediente! Lei non era nato per questo, e ora toglierà, senza volerlo, il posto a un poveretto che forse si sarà incamminato per la via di quell’impiego che lei va cercando.

             Mi voleva dunque morto, la buona amica? Quel suo ragionamento mi colpì e, non volendo togliere il posto a nessuno, me ne andai lontano, a chieder ricetto a una famiglia di contadini, già miei dipendenti, ai quali di notte, in cambio, guardavo nel bosco la carbonaja, con la scusa che non riuscivo mai a prender sonno. Là, dopo alcuni mesi, mi giunse la notizia che il povero Santi Bensai era morto di un colpo. Lo piansi come un fratello! Dopo circa un anno, la vedova mandò a cercare di me. M’ero ridotto così male, che non volevo assolutamente presentarmi a lei.

             Ora Marta non vuol dare a sé il merito di avermi salvato; ma, se è vero che il buon Santi lasciò nel testamento una calda raccomandazione per me alla moglie, è anche vero che ella poteva non tenerne conto.

             – No, no, – mi ripete lei – ringrazia Santi, buon’anima, che ebbe almeno l’accortezza di metter da parte questo poco denaro ch’era tuo, per la nostra vecchiaja. Vedi? quello che tu non sapesti fare, lo fece lui per te. Peccato che gli mancasse il coraggio, poverino!

             E così io ora, savio, godo il frutto, scarso, della più savia tra le virtù: la previdenza d’un mio povero ladro riconoscente e da bene.

Raccolta Il vecchio Dio
01 – Il vecchio Dio – 1901
02 – Tanino e Tanotto – 1902
03 – Al valor civile – 1902
04 – La disdetta di Pitagora – 1903
05 – Quand’ero matto… – 1902
06 – Concorso per referendario al Consiglio di Stato – 1902
07 – «In corpore vili» – 1895
08 – Le tre carissime – 1894
09 – Il vitalizio – 1915
10 – Un invito a tavola – 1902
11 – La levata del sole – 1901
12 – Lumìe di Sicilia – 1900

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««« Elenchi di tutte le novelle
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