133. Tanino e Tanotto – Novella

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Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 11 maggio 1902, poi in Bianche e nere, Streglio, Torino 1904.
«Non gli importava, dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo, il nome dei Ragona.»

Novella dalla Raccolta “Il vecchio Dio” (1926

««« Introduzione alle novelle

Tanino e Tanotto
Patricia Bennett, Due fratelli (Two Brothers), dal sito dell’ Autrice

Tanino e Tanotto – Audio lettura 1 – Legge Lisa Caputo
Tanino e Tanotto – Audio lettura 2 – Legge Gaetano Marino
Tanino e Tanotto – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi
Tanino e Tanotto – Audio lettura 4 – Legge Giuseppe Tizza

2. Tanino e Tanotto – 1902

             Dai contadini che si recavano ogni giorno in città con le mule cariche delle provviste della campagna, il barone Mauro Ragona sapeva che la moglie seguitava a star male e che anche il figlio, ora, s’era gravemente ammalato.

             Della moglie non gì’importava. Matrimonio sbagliato, contratto per sciocca ambizione giovanile.

             Figlio d’un contadino arricchito, il quale, sotto il passato Governo delle due Sicilie, s’era comprata col feudo la baronia, aveva sposato la figlia del marchese Nigrelli, fin da bambina educata a Firenze, e che, a suo dire, non comprendeva più il dialetto siciliano; pallida, bionda e delicata come un fiore di serra. Robusto, tutto d’un pezzo, bruno di carnagione, anzi nero come un africano, faccia dura, occhi duri, grossi baffi e capelli fitti, crespi, nerissimi, egli ora si diceva contadino, e se ne vantava.

             Avevano capito presto l’uno e l’altra che la loro convivenza era impossibile. Ella piangeva sempre; senza ragione, credeva lui. Dal canto suo, egli s’annojava e, in risposta a quelle lagrime, sbuffava. Ma dalla loro unione era nato un bambino, biondo, pallido e delicato come la madre, la quale fin dai primi giorni se n’era mostrata gelosissima; tanto che egli non aveva potuto mai toccarlo e nemmeno quasi guardarlo.

             E allora egli s’era allontanato dalla città senza darne né conto né ragione a nessuno. Per fare il comodo suo. Se n’era andato lì nella sua campagna nativa; s’era presa con sé Bàrtola, la bella figlia d’un suo fattore morto l’anno avanti, sana e gaja contadina, piena d’umile bontà, che aveva accolto come un grande onore, come una vera degnazione l’amore del giovane padrone; gli era nato un figliuolo anche da lei, ma bruno come lui, solido e paffuto; e finalmente s’era sentito a posto.

             La moglie, contentissima.

             S’erano guastati del tutto, apertamente, per una stupida bizza: Mauro Ragona adesso lo riconosceva. Vedendosi trattato d’alto in basso dalla moglie aristocratica, nelle rare volte che si recava in città più per rivedere il figlio che per lei, s’era sentito un giorno rimescolare il sangue. Ah davvero ella sentiva tanto disprezzo per lui? davvero non lo riteneva degno d’altra donna, che di quella Bàrtola che teneva in campagna?

             –   Ti voglio! – le aveva gridato, inasprito dalle sdegnose ripulse di lei. – Sei infine mia moglie!

             Ma ella s’era ribellata fieramente a quella violenza che egli per puntiglio voleva usarle. Accecato, il Ragona s’era lasciato spingere un po’ troppo oltre dall’amor proprio offeso, e finalmente se n’era andato, rompendo in una sghignazzata.

             – Quella lì, del resto, vale cento volte più di te! D’allora in poi, non era più ritornato in città.

             Non gli importava, dunque, che la moglie stesse male. Ma che ora si fosse ammalato anche il figlio, sì, e molto. Non lo aveva più riveduto, da cinque anni, povero piccino, e ne aveva rimorso: era sangue suo, portava il suo nome, il suo, il nome dei Ragona; sarebbe stato l’erede della sua ricchezza, e cresceva intanto come un Nigrelli, lì, tutto della madre che forse gli parlava male di lui, a tradimento, male del proprio padre, di cui il piccino non poteva più, certo, ricordarsi. Se ne ricordava lui, però: ah era tanto bello, come un angioletto, con quei ricci biondi e quegli occhi limpidi, color di cielo. Chi sa intanto come s’era fatto, ora, dopo cinque anni… – malato, ora, e gravemente… – E se fosse morto, se fosse morto, senza conoscere il padre?

             Bàrtola quei giorni si teneva con sé, lontano, Tanotto, il figliuolo, vedendo il padrone così aggrondato e in pensiero per quell’altro. Comprendeva, col suo cuore devoto, che la vista di Tanotto, allegro e spensierato, non poteva riuscir gradita in quei momenti al padrone; temeva che questi non facesse anche qualche sgarbo al povero piccino innocente, non lo respingesse, come un cagnolo importuno. Ella stessa s’arrischiava appena di domandargli notizie.

             – Non so nulla! Non mi sanno dir nulla! – le rispondeva egli duramente, smaniando.

             E Bàrtola non s’offendeva di quella durezza. Pensava che era per il dolore del figlio, e giungeva le mani, alzando gli occhi al cielo. La Vergine Santa doveva farglielo guarire presto, quel bambino! Ella non poteva vedere così angustiato il suo padrone.

             – Lasciala stare la Vergine, – le disse egli, un giorno, irritato. – Lo so che a te piacerebbe che mio figlio morisse!

             Bàrtola aprì le braccia, sbarrò gli occhi, stupita, ferita nel cuore, quasi non sapendo credere che il padrone avesse potuto pensar di lei una tal cosa.

             – Che dice, Vossignoria! – balbettò. – E non sa che per il signorino darei anche la vita di mio figlio?

             Si coprì il volto con le mani e si mise a piangere.

             Il barone, poco prima, standosi con la fronte appoggiata ai vetri del balcone, aveva veduto Tanotto su lo spiazzo davanti la villa scherzare col cane e coi tacchini, e aveva fatto quel cattivo pensiero. Ora si pentiva d’averlo così crudamente manifestato; ma invece di mostrare il suo pentimento a Bàrtola, si stizzì del pianto che le aveva ingiustamente cagionato.

             – Mio figlio non deve morire! – gridò, serrando le pugna e scotendole in aria. – Non deve morire! non voglio, capisci?

             Ma sì che lo capiva Bàrtola; capiva che per il padrone il figlio, il figlio vero era quello lì; quest’altro, Tanotto, era figlio di lei, e basta – figlio d’una povera contadina, il quale, morendo, si sarebbe levato di patire, di tante dure fatiche si sarebbe levato, che già lo aspettavano; mentre quello lì, il signorino, morendo (Dio liberi!) avrebbe fatto tanto guasto, poiché era ricco e bello e fatto per vivere e per godere, e il Signore avrebbe dovuto sempre guardarglielo!

             Sul tramonto di quello stesso giorno, il barone Ragona fece sellare il cavallo e partì per la città, con la scorta di due campieri.

             Arrivò ch’era già sera inoltrata, e trovò a casa il marchese Nigrelli, venuto apposta da Roma, dove, da vecchio donnajuolo impenitente, dava fondo alle sue ultime sostanze. Piccolo, asciutto, con la schiena quasi ingommata, i baffetti lunghi ritinti e incerati, egli accolse il genero col solito garbo cerimonioso, come se non sapesse nulla di nulla:

             –    Oh caro barone… caro barone…

             –    Riverisco, – grufò il Ragona, guardandolo, cupo, negli occhi, e lasciandolo lì, con la mano protesa; poi, vedendo che il marchese alzava quella mano per battergliela amorevolmente su la spalla, aggiunse, seccato: – Vi prego di non toccarmi. Dov’è mio figlio?

             –    Eh, maluccio! – sospirò il marchese, disinvolto, portandosi le mani alle punte dei baffetti incerati. – Maluccio, caro barone… Venite, venite…

             –    Sta in camera con la madre? – domandò, fermandosi, il Ragona.

             –    Eh no, – rispose il Nigrelli. – S’è dovuto portar via, in un’altra camera, perché, capite? ha bisogno d’aria, di molta aria, che ad Eugenia farebbe male. Si tratta di tifo, purtroppo, caro barone… Tanto che io ho pensato…

             –    Ditemi dov’è! – lo interruppe, brusco e smanioso, il barone. – Accompagnatemi!

             Dopo cinque anni, si sentiva come un estraneo nella propria casa; non si raccapezzava più tra i cambiamenti che vi aveva apportato la moglie. Nella camera ove giaceva il bambino, vide prima di tutto, accanto al letto, una suora di carità, e se ne turbò profondamente.

             – L’ho chiamata io, – spiegò il marchese. – Volevo dirvi questo. Non potendo la madre, qual più amorosa assistenza?

             E terminò la frase in un sorriso grazioso rivolto alla giovane suora, che abbassò subito gli occhi sotto le grandi ali bianche della cornetta.

             – Ci sono qua io, ora! – disse il barone, accostandosi al letto; poi, vedendo il piccino ischeletrito, giallo come la cera, quasi calvo: – Figlio! – esclamò. – Figlio! Figlio mio! – con tre sospiri, che parve gì’impietrassero il cuore.

             Il piccino lo guardava dal letto, smarrito, sgomento, non sapendo chi fosse colui che lo chiamava a quel modo. Egli comprese l’espressione di quello sguardo e ruppe in singhiozzi.

             – Sono tuo padre, figlio mio! tuo padre, tuo padre, che ti vuol tanto bene… E s’inginocchiò accanto al lettuccio e cominciò a carezzare il visino sparuto del figliuolo, a baciargli le manine, teneramente, qua e qua e qua, su tutti i ditini, e poi sul dorso e poi su la palma che scottava di quella manina cara, ischeletrita… Ah Dio, Dio, come scottava!

             Non si staccò più da quel lettuccio, né giorno né notte, per circa un mese. Licenziò la suora di carità, quel cappellaccio che gli pareva di malaugurio; e volle attender lui a tutte le cure, a tutte, senza darsi un momento di requie, senza più chiuder occhio per notti e notti, rifiutando anche il cibo, rifiutando ogni ajuto. Non domandò affatto notizie della moglie; non volle neppur sapere di che male fosse inferma: non visse, in quei giorni, che per il suo piccino, il quale, a poco a poco, per istintiva gratitudine, al caldo di quell’amore sempre vigile, non seppe più fare a meno di lui, e se lo teneva abbracciato, stretto stretto, e se lo accarezzava, mentre egli sentiva soffocarsi dalla commozione.

             Vinto il male, i medici consigliarono al barone di portarsi il figlio in campagna, per ajutare col cambiamento d’aria la convalescenza.

             –   Non c’era bisogno che me lo consigliaste voi. Ci avevo pensato io prima, da me – disse ai medici il Ragona.

             E diede gli ordini per la partenza, pensando a tutte le minuzie, perché il figliuolo malatuccio avesse in campagna tutti i comodi e non avesse nulla a desiderare.

             Ma quando la moglie inferma seppe di quei preparativi di partenza, temendo che il marito volesse portarsi via il figlio per sempre, montò su le furie, e ci andò di mezzo il povero marchese Nigrelli, che dovette correre per un pezzo dall’uno all’altra, riferendo invettive, domande, risposte, che egli, da gentiluomo compito, si sforzava d’attenuare, di verniciare alla meglio.

             Il barone, a un certo punto, tagliò corto.

             –    Oh insomma! Dite a vostra figlia che io sono il padre e che comando io.

             –    Sì, ma voi… ecco, lì in campagna avete – si provò a obbiettare il marchese per conto della figlia. – Sì, dico… la vostra situazione…

             –    Dite a vostra figlia, – riprese con lo stesso tono il barone, – che io conosco il mio dovere di padre, e tanto basta!

             Difatti ai contadini che venivano dalla campagna aveva ordinato di dire a Bàrtola che lasciasse la villa e se ne andasse ad abitare con Tanotto nella casa colonica, lì presso. Prima di partire stabilì con la moglie che il figliuolo, d’ora innanzi, sarebbe stato con lui in campagna nei mesi grandi, com’egli a modo dei contadini chiamava il tempo che corre dal marzo al settembre, e l’inverno, i mesi piccoli, con lei in città.

             Quell’ordine del padrone era sembrato a Bàrtola giustissimo. Certo, venendo lì il signorino, ella non poteva rimanere nella villa. Ma il padrone – senza pensare a nulla di male – doveva farle una grazia: concederle di servir lei il signorino, poiché nessun’altra donna prezzolata avrebbe potuto farlo con più amore e con più zelo di lei. Sicura d’ottenere questa grazia, lavorò come un facchino per ripulir la villa e preparare la camera ove il padrone avrebbe dormito insieme col padroncino.

             Sentì cascarsi le braccia però, il giorno dell’arrivo, allorché dalla carrozza vide scendere una donna di servizio che pareva una signora, alla quale il barone porse il figliuolo tutto avvolto in uno scialle, e nel veder poi scendere da un altro carrozzino il cuoco e un guattero…

             Eh che! La teneva dunque in conto d’una femminaccia davvero? Neppure in cucina, neppure in cucina la avrebbe dunque ammessa, per attendere ai più umili servizii? Le vennero le lagrime a gli occhi; ma il barone le rivolse uno sguardo così imperioso, che ella subito si trattenne, chinò il capo e se n’andò a piangere, col cuore spezzato, lassù, nella cameretta in cui s’era allogata col figliuolo.

             Pianse e pianse; poi dalla finestra guardò nella poggiata di là Tanotto, che se ne stava per la prima volta a guardia dei tacchini. Povero figliuolo! Lo aveva mandato via lei, perché non desse fastidio al momento dell’arrivo. E già cominciava per lui, così piccino, la fatica… Ma se il padrone, intanto, la trattava a quel modo, se aveva condotto in campagna il signorino, forse era segno che si era riconciliato con la moglie, e dunque ella se ne sarebbe andata via, se ne sarebbe tornata in paese, presso la vecchia madre, o a far la serva altrove. Tanotto poi, cresciuto, ci avrebbe pensato lui a darle un tozzo di pane per la vecchiaja.

             Deliberò di licenziarsi subito; ma né quel giorno né i giorni seguenti potè accostarsi al padrone, che era tutto intento al figliuolo. Stanca d’aspettare in quelle condizioni d’animo, si disponeva a partire senza dir nulla, di nascosto, quando il barone venne lui stesso a trovarla, lì nella casa colonica.

             –    Che fai? – le disse, vedendo il fagotto già preparato in mezzo alla camera.

             –    Se mi dà licenza, – gli rispose Bàrtola, con gli occhi bassi, – me ne vado.

             –    Te ne vai? Dove? Che dici?

             –    Me ne vado da mia madre. Che sto più a farci qua, se Vossignoria non ha più bisogno di me?

             Il barone s’adirò; la guardò un pezzo accigliato, severamente; poi socchiuse gli occhi e le disse:

             – Sta’ quieta e non mi seccare! Chi t’ha cacciato via? Ho di là mio figlio, e non ho tempo né voglia di pensare ad altro.

             Bàrtola diventò di bragia e s’affrettò a rispondergli umilmente:

             – Ma se Vossignoria non ci pensa più, neanch’io ci penso, glielo giuro, e n’ho piacere! Non parlo per questo: sarei una svergognata! Dico però che potevo restar la serva di Vossignoria e del bambinello che è venuto qua… L’ho forse scritta in fronte la mia vergogna? O non erano degne le mie mani amorose di servirlo?

             Proferì queste parole con tanto accoramento che il barone n’ebbe pietà e le spiegò con buona maniera le ragioni delicate per cui la aveva tenuta lontana. Il ragazzo, poi, aveva bisogno di cure particolari, che ella forse non avrebbe saputo prestargli.

             Bàrtola scosse amaramente il capo:

             – E che ci vuol arte, – disse, – per servire i bambini? Cuore ci vuole. E chi si sente servito col cuore può farne a meno dell’arte. Non l’ho saputo crescere io il mio figliuolo? E più che come un figliuolo l’avrei servito, il signorino, perché, oltre l’amore, avrei avuto per lui il rispetto e la devozione. Ma se Vossignoria non m’ha creduta degna, non ne parliamo più. Dio che mi legge nel cuore, sa che non mi meritavo questo da Vossignoria. Sia fatta la sua volontà.

             Per cangiar discorso e per farle piacere, il barone le domandò di Tanotto.

             –    Eccolo là! – rispose Bàrtola, indicandoglielo dalla finestra, su la poggiata, tra i tacchini.

             –    Fa già il guardiano. Tutte le sere, tornando a casa, mi domanda del signorino; si muore dal desiderio di vederlo, magari da lontano, dice; vorrebbe portargli i fiori; ma io gli ho detto che il signorino non si può vedere perché è malato, e che i fiori gli farebbero male. Così s’è quietato.

             Quietato? Tanotto, lassù tra i tacchini, si scapava invece intere giornate per capacitarsi come mai i fiori potessero far male a un bambino. Tranne, – pensava, – che non fosse un bambino fatto d’un’altra maniera… Ma fatto… come? Guardava i fiori: ecco, a lui non facevano male, eccetto quelli di cardo, si sa, ch’erano spinosi; ma questi egli certo non li avrebbe offerti; non li toccava nemmeno lui. Come doveva essere, dunque, quel bambino? E meditava, escogitava il modo di vederlo, senza farsi vedere.

             Non trovandone, e non sapendo più resistere alla tentazione, un giorno piantò lì su la poggiata i tacchini e se ne venne su lo spiazzo davanti la villa a guardar risolutamente i balconi della camera dove dormiva il padrone. Sarebbero state busse, certo, se la madre lo sorprendeva lì col nasetto all’aria e le mani dietro la schiena; ma egli voleva togliersi a ogni costo la curiosità.

             Attese un pezzo così, e finalmente ecco dietro la vetrata d’un balcone la testa del bambino misterioso. Tanotto restò allocchito, a mirarlo. Gli pareva fatto davvero d’un’altra maniera, non sapeva dir come, e pensava che veramente, essendo così, i fiori gli potessero far male. Anch’egli, il piccino convalescente, tanto pallido ancora e tanto gracile, coi capellucci che gli rispuntavano appena, biondissimi, aerei, lo guardava incuriosito dai vetri del balcone; ma poco dopo, dietro a que’ vetri, apparve la figura del barone, e Tanotto se la diede a gambe, spaventato. Si sentì più volte chiamare dalla voce del padrone, e si fermò col cuore che gli galoppava in petto; si voltò e si vide chiamato ancora, chiamato con le mani. Che fare? Tornò mogio mogio su i proprii passi, e già infilava il portone della villa, quando si vide sopra la madre, che lo afferrò per un orecchio e cominciò a sculacciarlo con l’altra mano.

             –    M’ha chiamato il padrone! Mi vuole il padrone! – strillava Tanotto, tra le sculacciate.

             –    Il padrone? Dove? Quando? – gli domandò Bàrtola, sorpresa.

             –    Or ora, m’ha chiamato dal balcone! – gli rispose Tanotto, acceso di rabbia e piangente più per l’ingiustizia che per il dolore.

             – Bene: vieni su; voglio vedere, – rispose la madre, conducendolo con sé. Tanotto entrò, stropicciandosi gli occhi lagrimosi. Il barone gli era venuto

             incontro, nella saletta d’ingresso, col figliuolo.

             –    Perché piangi, Tanotto?

             –    L’ho picchiato io, poverino, – rispose Bàrtola. – Non sapevo che lo avesse chiamato Vossignoria.

             –    Povero Tanotto, – fece il barone, chinandosi a carezzargli i capelli fitti, crespi, nerissimi, ch’erano tali e quali i suoi. – Su, su, basta ora. Vedete di giocare un po’ insieme, bonini eh?

             I due ragazzi si guardarono e si sorrisero; poi Tanotto, con gli occhi ancora lagrimosi e il testoncino basso, si cacciò una mano in tasca, ne trasse alcune conchiglie che aveva raccolto su la poggiata e le porse, domandando con un singulto, eco del pianto recente:

             – Le vuoi, se non ti fanno male?

             Bàrtola rise, ma gli diede subito su la voce:

             –    Come si dice, impertinente? Vuoi, si dice? E non sai che parli col signorino?

             –    Lasciali dire, tra loro, – le disse il barone. – Sono ragazzi.

             Ma Bàrtola, su questo punto, non ostante la degnazione del padrone, non volle transigere, e poco dopo rimproverò di nuovo Tanotto che domandava al signorino:

             – Come ti chiami?

             II barone propose di fare uscire per la prima volta il figliuolo all’aperto e di fargli fare due passi per il viale. Bàrtola fu felice di portarlo in braccio giù per la scala.

             –    Non pesa niente! una piuma, una piuma… – diceva, e lo baciava sul petto, amorosamente, come una schiava.

             –    Ecco, – disse il barone, a pie della scala, ai due ragazzi. – Prendetevi adesso per le manine e andate pian piano sotto gli alberi. Così…

             Tanotto e il signorino s’avviarono con l’impaccio dei bambini che vanno per la prima volta insieme tenendosi per mano. Tanotto, minore di circa due anni, pareva tuttavia maggiore d’assai; lo guidava e lo proteggeva. Prese, dopo un tratto, con la sua sinistra, la mano del bambino e gli portò la destra a tergo per farlo camminar meglio. Quando si furono così allontanati alquanto e non c’era più pericolo che fossero uditi, Tanotto domandò di nuovo:

             –    Come ti chiami?

             –    Tanino, come nonno, – rispose l’altro.

             –    E allora come me, – rispose Tanotto, ridendo. – Anch’io, Tanino come nonno; me l’ha detto il fattore. A me però mi chiamano Tanotto perché sono grosso, e mamma non vuole che si dica che mi chiamo come nonno.

             –    Perché? – domandò Tanino, impensierito.

             –    Perché nonno io non l’ho conosciuto, – rispose, serio, Tanotto.

             –    E allora come me! – ripetè Tanino, ridendo a sua volta. – Neanche io l’ho conosciuto nonno.

             Si guardarono sorpresi e risero insieme di questa bella trovata, come se fosse un caso molto strano e, soprattutto, un bel caso, da riderci su, a lungo, allegramente.

Raccolta Il vecchio Dio
01 – Il vecchio Dio – 1901
02 – Tanino e Tanotto – 1902
03 – Al valor civile – 1902
04 – La disdetta di Pitagora – 1903
05 – Quand’ero matto… – 1902
06 – Concorso per referendario al Consiglio di Stato – 1902
07 – «In corpore vili» – 1895
08 – Le tre carissime – 1894
09 – Il vitalizio – 1915
10 – Un invito a tavola – 1902
11 – La levata del sole – 1901
12 – Lumìe di Sicilia – 1900

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