Di Pietro Seddio.Â
Ma forse la scelta, come dice lui, del âpretto vernacoloâ riflette la volontĂ di Pirandello di voler polemizzare contro âquellâibrido linguaggio tra dialetto e lingua italianaâ, che egli definisce âdialetto borgheseâ o âforma internaâ, che egli ravvisa nel dialetto âarrotondatoâ di Verga.

Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
Capitolo 1
Pirandello e il dialetto
Scopo di questa analisi quella di entrare nella mente dellâautore arrogandoci il diritto di formulare, molto probabilmente, una semplice ma complessa domanda: quale teatro intese sviluppare durante la sua carriera letteraria, giĂ sapendo che per molto tempo dichiarò pubblicamente che mai a questa forma dâarte si sarebbe avvicinato considerato che non lo interessava affatto?
E basta leggere tante sue dichiarazioni per comprendere come il percorso dallo stesso effettuato dovette essere non semplice, seppur alla fine, sollecitato da Capuana, da Martoglio, iniziò a scrivere le prime commedie utilizzando appunto il dialetto e piÚ specificatamente quello agrigentino sul quale, preventivamente, aveva fatto uno studio particolare, per poi laurearsi a Bonn appunto con una analisi del dialetto agrigentino.
Le sue prime novelle, il primo romanzo (âLâEsclusaâ), alcuni articoli, iniziavano a dare unâidea del pensiero di quellâautore che, dalla lontana Sicilia, iniziava a proporre temi importanti, a volte astrusi, ma comunque di interesse sociale, etico, politico.
Tra lâaltro lâItalia letteraria era testimone dei tanti grandi autori che scrivevano e pubblicavano le loro opere: Capuana, Verga, De Roberto, DâAnnunzio, ed altri che spesso iniziavano a fare circolare i loro testi facendo sviluppare un dialogo, spesso acceso, tra le varie opinioni e analisi che iniziavano ad invadere i salotti, i circoli, le sedi culturali che parteggiavano per questo o per quellâaltro autore.
Ma Pirandello, se ne sarebbero accorti quasi subito, non era un autore comune, no, e questo volerlo definire creò non pochi contrasti. Questo un suo pensiero: âLa realtĂ che io ho per voi è nella forma che voi mi dateâ. La realtĂ che un uomo vive agli occhi del mondo è la realtĂ che egli stesso esprime.
Da sempre lâuomo ha avuto bisogno di âcomunicarsiâ da quando per farlo utilizzava disegni stilizzati a quando, evolvendosi e civilizzandosi, è arrivato a quella che per molti è la migliore forma di espressione: la parola.
La parola non utilizzata soltanto come passivo modo per descrivere immagini, sensazioni, sogni, ma soprattutto come mezzo per descrivere il mondo interiore. Quel mondo interiore che mai vedrĂ in ogni sua parte la luce perchĂŠ lâuomo, nel rapportarsi con gli altri, utilizza sempre delle âmaschereâ, come afferma Pirandello, ma la scrittura è un nobile modo per comunicare. La parola diventa quindi non piĂš semplice espressione verbale bensĂŹ chiave del nostro essere.
Funge da perfetto tramite tra lâanima e tutto ciò che ci circonda. La parola ha seguito unâevoluzione incredibile e diversa in ogni sua tappa. Nasce dapprima come una semplice convenzione a cui si accomunano sensazioni, emozioni, e semplici oggetti. Si evolverĂ poi acquistando valori sempre piĂš complessi dando origine alla âlinguaâ che a sua volta, essendo strettamente collegata allâevoluzione socio-storicopolitica della terra, si arricchirĂ di diverse sfumature dando quindi origine ai dialetti.
Tutto ciò serve a renderci consapevoli del determinato effetto che certe parole possono creare al nostro sistema cognitivo e come certi scrittori possano abilmente utilizzarle per rendere chiaro il loro pensiero o per manifestare la loro idea.
CosĂŹ prendendo spunto dal discorso tenuto da Luigi Pirandello il 3 dicembre 1931 alla Reale Accademia dâItalia per la celebrazione del 500 anniversario della pubblicazione dei Malavoglia, che è il leitmotiv espresso fin dal 1920 nel Discorso tenuto a Catania per lâ80° anniversario della nascita di Verga e ribadito in âDialettalitĂ â, fascicolo agosto-settembre-ottobre 1921, dedicato al âTeatro Sperimentaleâ e ripreso appunto nei Discorso del 1931, da cui non si può prescindere se si vuole affrontare la problematica della lingua e della parola in Pirandello e che è, dunque, necessario citare: âDue lineamenti ben distinti e quasi paralleli corrono lungo tutto il cammino della nostra storia letteraria; due stili: lâuno di parole e lâaltro di coseâŚâ.
Intravediamo nel panorama letterario italiano artisti che hanno focalizzato la loro attenzione sullâestetica della parola ed altri che hanno concentrato i loro sforzi inserendo nelle loro opere, al di lĂ di infiorate parole, dei significati profondi e sempre attuali (ciò ricorda la concezione pirandelliana del contrasto tra Vita e Forma).
CosĂŹ artisti come Dante, Ariosto, Manzoni e lo stesso Verga, che hanno abbandonato la retorica per lasciar posto alle âcoseâ, alle scomode veritĂ , alle dure realtĂ dellâesperienza umana, vengono preferiti da Pirandello ad artisti come Petrarca, Tasso, Monti, Dâ Annunzio che hanno privilegiato quella che è lâarte tecnica dello scrivere in maniera persuasiva.
Pirandello nella sua continua ricerca linguistica, fin dai tempi del ginnasio a Palermo e della sua dissertazione su âSuoni e sviluppi di suoni della parlata di Girgentiâ, (come giĂ scritto) intesa come esigenza di trovare il perchĂŠ della sua lingua e del suo stile, scopre che: ââŚfin da quando è nata la letteratura italiana, la generalitĂ ha questo di particolare: la dialettalitĂ , da intendere come vero ed unico idioma, vale a dire come essenziale proprietĂ di espressione, la quale, come Dante scrisse: In qualibet redolet civitate, nec cubat in ullaâ.
Questa âdialettalitĂ â denominatore comune alle espressioni della letteratura italiana sin dalle originiâ ha riproposto il problema della mancanza di âtecnicitĂ â nella parola che ha prodotto insicurezza nella lingua e difetto nello stile. Illuminante è il nesso che Pirandello istituisce tra lingua e stile:
âLa lingua è conoscenza, e oggettivazione; lo stile è il subiettivarsi di questa oggettivazione. In questo senso è creazione di forma; è, cioè, la larva della parola in noi investita e animata dal nostro particolar sentimento e mossa da una particolare volontĂ âÂ
Le opere di Pirandello vedevano lâalternato utilizzo di lingua italiana e dialetto siciliano, che mai si sono incontrati in un mix che può essere definito verghiano. La scelta linguistica che si poneva di fronte a Pirandello allâinizio di ogni opera era parecchio complicata. Come davanti a un bivio bisognava scegliere la direzione da seguire: utilizzare la lingua italiana, consentendo una facile comprensione da parte di un pubblico non siciliano o utilizzare il dialetto, adattandolo cosĂŹ perfettamente ai personaggi inseriti in un particolare contesto, delineandone meglio le caratteristiche.
Opportuno ricordare un pensiero di Stefano Milioto, riconosciuto insigne studioso pirandelliano, il quale ha affermato: âLa necessitĂ di farsi uno stile e lâesigenza di impadronirsi della parola sono coeve alla vocazione poetica di Pirandelloâ.
Pirandello poeta utilizzò la lingua manipolandone lâeleganza in modo eccellente, cogliendone ogni purezza, cogliendo la musicalitĂ che diede vita ad una armonia di sensi mai sentita prima. La adoperò per esprimere la sua inadeguatezza al mondo, lâincomprensione fra lâuomo e la natura, analizzò la realtĂ della sua vita e la realtĂ che egli viveva per gli altri.
Non utilizzò mai la lingua però per narrare della sua terra e di quei âgoffiâ uomini che la abitavano. Perciò spesso adottò il dialetto, di cui dimostrò di avere profonda conoscenza nella sopracitata dissertazione di laurea. Seguito dal maestro Wendelin Foester, titolare della cattedra di filologia romanza dellâuniversitĂ di Bonn, stese la sua tesi âavvalendosi del metodo storico-comparativo dei neogrammatici e basandosi su. una raccolta di fiabe, canti popolari e improvvisiâ.
La tesi pubblicata dopo il suo dottorato (21 marzo 1891) fu strutturata in: premessa, in cui lâautore suddivide in aree linguistiche la provincia di Girgenti; bibliografia; ringraziamenti; segni diacritici, ove riporta i segni grafici dei suoni; vocalismo; consonantismo; vita e argomenti di discussione.
âLa dissertazione di laurea non va vista soltanto come lavoro filologico in senso stretto, ma per le tracce indelebili che rimasero nella formazione linguistica e letteraria di Pirandello. Prima fra tutte una nitida coscienza della lingua, emergente sempre nella sua âteoresi letteraria ed artisticaâ, nelle varie articolazioni del connubio tra lingua parlata e lingua scritta, dellâuso comune della lingua, del rapporto tra lingua e stile un importante noviziato, dunque, per il futuro scrittoreâ. CosĂŹ è stato scritto autorevolmente.
La parlata dialettale e in particolar modo quella siciliana differisce dalla lingua italiana nella concretezza e nella schiettezza delle espressioni. Il dialetto siciliano, infatti, permette a Pirandello di dar vita a dialoghi accesi pieni di risposte immediate e permeati di un tono velatamente sarcastico.
Altro discorso va fatto per la lingua italiana; le auto traduzioni dello stesso scrittore siciliano dimostrano come nel passaggio tra dialetto e lingua i dialoghi perdano molto della loro efficacia e della loro capacitĂ di penetrare negli animi di un audience desideroso di passionali azioni siciliane.
La Sicilia ricca di culture diverse a causa delle sue tredici dominazioni, pur non essendo mai completamente assimilata da alcune di esse, accoglieva apporti linguistici di notevole importanza che come metalli in un crogiuolo si sono fusi dando alla parlata della Trinacria una bellezza e una concretezza pari a poche altre, senza mai perdere i tre caratteri distintivi di popolo, costituiti, come notò pure Cicerone, dallâintelligenza, dalla diffidenza e dallâumorismo.
Grande importanza ebbero le influenze latine, francesi, arabe, spagnole ma le dominazioni di cui sicuramente la Sicilia porta ancora i segni piĂš evidenti sono state la dominazione dei Dori e quella degli Ioni.
Ma come dichiarò lo storico greco Tucidide âNoi non siamo nĂŠ Dori nè Ioni ma siamo Sicilianiâ. Il dialetto siciliano non è solamente complesso ma anche affascinante. La âlinguaâ siciliana (da notare lâutilizzo di lingua, perchĂŠ data la vastitĂ del suo vocabolario, il dialetto siciliano deve essere considerato una lingua) non solo presenta differenze sostanziali tra le diversissime nove province bensĂŹ svariate sfumature tra paese e paese.
Nella lingua siciliana e in particolare in quella utilizzata da Pirandello troviamo parole come: âmagasĂŹâ, derivata dallâarabo mahazan/mahazin, magazzino, âpanaroâ dal latino panarium (cesta di pane), âzuccuâ dallâaragonese soccu e spagnolo zoque ed incroci come âassalarmaâ probabilmente derivata dal greco aksai (voce di richiamo dei niarinai, infinito aoristo di ago) e dal latino alma (derivato da alo) che dimostrano quanto numerose siano le influenze nella parlata siciliana.
Pirandello sicuramente sarĂ rimasto incantato dal fascino di questo dialetto, tantâ è vero che scelse addirittura di scrivere alcune delle sue opere, prima in dialetto per poi tradurle in lingua italiana. La commedia âLiolĂ â costituisce un esempio eclatante di quella che fu la precisa e netta scelta linguistica di Pirandello e di come la traduzione in lingua italiana abbia fatto perdere di particolaritĂ il testo originale in dialetto siciliano, dove la concretezza piĂš che i personaggi è la vera protagonista della commedia campestre in tre atti. Concretezza linguistica che contemporaneamente a rendere lâopera pirandelliana singolare ed unica in ogni sua parte ha creato lâincomprensione piĂš grande fra Pirandello e il suo pubblico, illudendone uno e deludendone lâaltro.
Purtroppo la prima rappresentata la sera del quattro novembre del 1916 dalla compagnia comica siciliana al teatro Girgentino di Roma non ebbe quel successo atteso dallo stesso Pirandello.
Le cause dellâinsuccesso non sono da ricercare nella scarsa vena artistica degli attori, infatti la Compagnia Comica Siciliana vantava nel suo organico attori come la Morabito, il Pandolfini e Angelo Musco, che avrebbero garantito un sicuro successo ai botteghini.
Inoltre Pirandello definisce cosĂŹ, in una lettera datata 24 ottobre 1916 diretta al figlio Stefano prigioniero degli austriaci, la sua creazione:
âĂ dopo il Fu Mattia Pascal, la cosa mia a cui io tengo di piĂš: forse è la piĂš fresca e viva. GiĂ sai che si chiama LiolĂ . Lâho scritta in quindici giorni, questâ estate ed è stata la mia villeggiatura. Difatti si svolge in campagna. Mi pare di averti giĂ detto che il protagonista è un contadino poeta ebbro di sole e tutta la commedia è piena di canti e di sole. Ă cosĂŹ gioconda che non pare miaâ.Â
Ma quindi a cosa si deve lâinsuccesso della commedia? Le cause furono probabilmente: la presenza di un finale piuttosto atipico per quanto riguarda il teatro siciliano in quanto si aspettava, come erano solite le commedie di quel tempo, o un matrimonio o un assassinio e la scelta della lingua adottata da Pirandello per rappresentare la sua opera.
Per quanto concerne il dramma della storia letteraria europea, nel periodo che possiamo definire pirandelliano, si evidenzia una profonda crisi la cui unica soluzione sembra essere quella del dramma negato. Questa soluzione obbligò lâautore ad immedesimarsi nel ruolo dei suoi personaggi mettendo nelle loro bocche alcune spontanee parole che in effetti vennero a costituire il vero dramma.
*******
La nuova concezione creativaÂ
Nelle parole quindi possiamo intravvedere gli slanci o le paure dettati dal fervore delle persone bruciate da esperienze troppo scottanti. Altro discorso bisogna affrontare per la lingua adottata dal poeta agrigentino in LiolĂ . Il quadro linguistico di fine Ottocento si presentava vario e difforme.
Secondo Pirandello la lingua italiana è in disuso; ognuno parla il suo dialetto, lo stesso autore siciliano pur conoscendo le varie sfumature della âlingua sicilianaâ si rivolge al âpretto vernacoloâ, alla parlata di Girgenti.
La scelta non dipese certamente dalla non conoscenza della lingua italiana o dallâincapacitĂ di adoperarla adeguatamente. Essa fu dovuta, in particolar modo, allâimpossibilitĂ di rappresentare propriamente con una lingua non dialettale i sentimenti e le immagini caratteristiche del luogo in cui è ambientata la commedia. Pirandello giudica la parlata di Girgenti âla piĂš pura, la piĂš dolce, piĂš ricca di suoni, per certe sue particolaritĂ fonetiche che forse piĂš dâogni altra lâavvicinano alla lingua italianaâ.
Nel dialetto agrigentino alcune espressioni come âpâu mezzuâ, che differisce dal catanese-siracusano ânâdu menzuâ, o âdrittaâ che in siracusano diventa ârittaâ, dimostrano quanto piĂš vicino allâitaliano sia questo dialetto rispetto ai restanti della Sicilia.
Altri esempi delle differenze fonetiche li troviamo in espressioni conio âvogliuâ che nel dialetto della parte sud-orientale della Sicilia diventa âvogghiuâ o âfigliuâ che diventa âfigghiuâ (da notare il raddoppiamento della g e la trasformazione della âlâ in âhâ). Inoltre la scelta del âpretto vernacoloâ riflette esattamente la volontĂ di Pirandello di voler polemizzare contro quellâibrido linguaggio tra dialetto e lingua italiana, che egli definisce âdialetto borgheseâ o âforma internaâ che egli ravvisa nel dialetto arrotondato di Verga.
Si potrebbe anche pensare che la scelta della âforma esternaâ del pretto vernacolo agrigentino voglia testimoniare il profondo legame interno tra Pirandello e la realtĂ di Girgenti vista come la fonte dei sentimenti e delle immagini dello scrittore.
La lingua italiana in questo quadro non viene però definitivamente abbandonata. Molte espressioni puramente dialettali servono a spiegare forme italiane inconsuete che provengono da uno stato originario chiaramente dialettale. Infatti nelle auto traduzioni troviamo nuove forme morfologico-lessicali.
Queste forme possono essere raggruppate in tre sezioni: arcaismi, neologismi e creazioni effimere.
Per quanto riguarda gli arcaismi essi spesso conferiscono allâopera pirandelliana un tono piĂš raffinato e piĂš nobile. Tale utilizzo pregiudica la vivezza del parlato creando cosĂŹ il rischio di cadere nellâanacronismo puro. Pirandello stesso scrive:
âMancando cosĂŹ la sicurezza della lingua, che debba mancare anche la tecnicitĂ della parola e debba prodursi lâelasticitĂ del senso della parola stessa, vien di conseguenzaâ.
 Alcuni esempi di arcaismi sono: âalvo maternoâ in âCiaula scopre la lunaâ (arcaismo raro), âagiatiâ in âIl Fu Mattia Pascalâ (utilizzato nel senso di largo, grande, parlando di pantaloni), âgreppinaâ in âUno nessuno centomilaâ (divano da riposo in uso alla fine dellâOttocento).
Lâaspetto arcaicizzante viene comunque bilanciato dalla presenza, non indifferente, dei neologismi. Questi formano certamente la sezione piĂš creativa del lessico pirandelliano, quello che si è integrato perfettamente con la lingua italiana e continua attraverso lâespressione poetica dei suoi posteri. In realtĂ i neologismi sono, piĂš che altro, varianti morfologiche o semantiche di termini giĂ in uso.
Questa sezione comprende parole come âeviâ, vocabolo giĂ in uso dal Cinquecento nella forma singolare per indicare un periodo storico lungo, Pirandello ne modifica soltanto il numero creando la forma plurale indicante periodi; o âabluzioneâ lavatura al singolare. Certamente le maggiori spinte innovative vengono dal dialetto agrigentino.
Infatti nellâopera pirandelliana che precede il teatro dialettale sono presenti molti sicilianismi che, pur essendo espressi nella forma italiana, conservano il loro significato dialettale. Per esempio il verbo siciliano âavvertiriâ verbo intransitivo badare, fare attenzione. Pirandello trasforma un verbo dialettale della terza coniugazione in -ere in un verbo italiano in -ire, conservando però il significato del verbo dialettale. La parte del lessico pirandelliano che non si conforma allâitaliano letterario mostra due componenti: quella tradizionalista con elementi che si ispirano al lessico antiquato e quella composta dai neologismi.
Queste creazioni vengono definite âeffimereâ in quanto non intaccano piĂš di tanto la realtĂ linguistica italiana ma mostrano palesemente la continua lotta per arrivare al traguardo di una. lingua italiana fortemente espressiva. Soprattutto per questo Pirandello usa creazioni che possiamo interpretare come libertĂ linguistiche personali, ad esempio lâuso dellâaggettivo bisillabico in funzione di avverbio: âridere acreâ ridere malignamente in analogia con âpiangere forteâ ed altri: o lâuso di composti verbali con preposizioni come: âabbruscatoâ (agg – ‘abbrustolitoâ, âI vecchi e i giovaniâ) e âatticciatoâ (agg., âtarchiatoâ, âtozzo âIl Fu Mattia Pascalâ). La ricerca della naturalitĂ espressiva è unâaltra peculiaritĂ dello stile pirandelliano.
Nella commedia âLiolĂ â ad esempio la naturalitĂ espressiva raggiunge il massimo della concretezza nel dialogo tra il protagonista e Zio Simone, in cui alludendo allâimpossibilitĂ di procreare di questâultimo, LiolĂ usa delle espressioni che sembrano tratte dal linguaggio delle falloforie o dei fescennini, specie quando atavicamente identifica la fertilitĂ della terra con la feconditĂ della donna:
âScusassĂŹ, ccaâ ccâè un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza faricci nenti, chi cci fa a terra? Nenti. Comu a fimmina. Chi cci duna âu figliu? Vegnu iu, ni stu pezzu di terra; lâzzappu; la conzu; cci fazzu un pirtuso; cci jettu u civu: spunta lâarbuluâ. (Scusi. Qua câè un pezzo di terra ; la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta lâalbero) o quando attraverso la sua logica stringente, tipica del contadino, dice che la terra è di chi la lavora. Concetto da cui si potrebbe cogliere in nuce giĂ una coscienza di classe: âA cĂš lâha datu stâ arbulu âa terra? A mmia. Veni vossia e dici no, è miu. PirchĂŹ? PirchĂŹ a terra e so? Ma la terra beddu zuâ Simuni chi sapi a cu apparteni? Duna u fruttu a cĂš la lavuraâ. (A chi lâha dato questâ albero la terra? A me! Viene lei e dice di no, dice che è suo. PerchĂŠ suo? PerchĂŠ è sua la terra? Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? DĂ il frutto a chi la lavora)â.
Da queste brevi battute si capisce come lâutilizzo della parlata di Girgenti risponda meglio alle esigenze di Pirandello. LiolĂ dâaltronde è una commedia campestre, nella quale solo lâutilizzo del âpretto vernacoloâ rende la giusta concretezza del mondo contadino dellâentroterra siciliano.
Le idee della ârobbaâ come segno di potere, della prole come fonte di ricchezza e della donna come âmezzoâ di procreazione sono idee appartenenti ad una cultura antiquata e retrograda. I termini âgistriâ (dal latino canestrum, cesto), âpanaraâ (dal latino panariuni, cesto per pane), âantuâ (dai latino ante, il luogo dove lavorano i contadini), ârappaâ (dal germanico krappa, granello dâuva) mettono in luce la natura contadina del popolo siciliano. I personaggi della commedia sono immersi in questo speciale mondo agreste.
Liolà è un âcontadino ebbro di soleâ. Egli è il perfetto opposto di quello che si potrebbe definire un personaggio misogino. Liolà è un âCasanova sicilianoâ, spensierato e amico della natura, accompagnato sempre da grande allegria che trasmette anche agli altri. Anche nel gioco dellâinganno riesce a speculare sulle parole e a confondere con espressioni ambigue ed equivoche il suo diretto avversario: Don Simone Palumbo. âU Zuâ Simuniâ è il possidente della terra: lui ha la ârobbaâ.
Questo termine ricorre spesso nella commedia, nella duplice accezione di ârobaâ, intesa come casa colonica (robba è la casa colonica di zio Simone e rubbicedda, diminutivo di robba, è la casa modesta di gnaâ Gesa; da notare lâuso dei diminutivi per indicare le condizioni sociali dei meno abbienti) e ârobbaâ nel senso di averi, terre possedute a cui corrisponde il verghiano ârobaâ. Ă proprio la ârobbaâ che condiziona il mondo contadino. Don Simone deve avere un erede a cui poterla dare e dopo la morte della moglie decide di risposarsi, ma anche con la bella e prosperosa Mita non c’è nulla da fare.
Rimanendo sempre legati alla realtĂ contadina siciliana dâ inizio secolo, la colpevolezza del mancato concepimento non è attribuibile allâuomo ma solo alla donna poichĂŠ la donna deve assolutamente essere capace di procreare. Anche la conformazione fisica della donna gioca un ruolo importante: la donna magra, ad esempio è indice di sterilitĂ come si evince dallâaffermazione di zia Croce che riferendosi a donna Rosaria, la quale non aveva avuto figli, dice: âMa chi cciâ avia a ffâari idda? Un filo a la porta, puveredda. Dâ idda âun si putia aspittariâ.
Al contrario, la donna prosperosa e simbolo di feconditĂ e di salute e âstrumentoâ sicuro di procreazione.
Proprio per dare un figlio a zio Simone nasce il gioco dellâinganno, in cui Tuzza voleva avere la meglio, ma âa jucata non ci vinni paraâ (la giocata non gli è riuscita). Questâinsuccesso provoca in Tuzza uno scatto di pazzia abilmente sedato da LiolĂ . Pazzia necessaria e âsufficienteâ per completare il passaggio dalle tre zone.
Secondo tale teoria elaborata da don Nociu Pampina: il personaggio sostiene che âli paroli ca nescinu dĂŹ muccaâ sono come sono perchĂŠ provengono da tre zone: la zona civile che serve âcchiĂš di tutti duvennu viviri in societĂ â (piĂš di tutte dovendo vivere in societĂ ), altrimenti ânni mancirriamu tutti⌠unu cu lâautru, comu tanti cani arraggiatiâ ( ci mordiamo tutti come cani arrabbiati) e che ricorda tanto la concezione di Hobbes âhomo homini lupiisâ; la zona seria che viene in soccorso quando le cose si mettono male e ognuno vuol difendere la propria causa la terza ed ultima zona è la zona pazza che viene utilizzata quando la situazione è ormai degenerata e il personaggio non riesce piĂš a frenare gli istinti.
Il dialetto della zona seria è per esempio quello di Liolà , bisognoso di capire le sue debolezze e di soddisfare il suo desiderio con un inganno e quello di don Simone, avvilito dal troppo lavoro e deciso ad avere un erede a cui lasciare tutte le ricchezze accumulate. Il dialetto della zona civile è il piÚ italianizzato proprio per dare risalto al carattere borghese che Pirandello conserva lasciandovi molta sintassi nella stesura in lingua. Il dialetto della zona pazza predomina generalmente nel finale della commedia ed è il dialetto concitatissimo e liberatorio. à il dialetto ingiurioso di zia Croce a don Simone:
âE ora vâ addifinniti a idda, vecchiu beccu, ânfacci a nâ autriâ ( E ora, no? Non è piĂš vera ora per vostra moglie, vecchio becco), quello di don Simone che libera la veritĂ âĂ miu, e miu, e miu, sissignuri e miu! E nuddu sâ avi arrisicari di diri cosa contra di me muglieri ca vasannu vi fazzii a vidiri a Cristu sdignato!â (Ă mio! mio! e guai a chi sâattenta a dir cosa contro mia moglieâŚ).
Quindi è proprio in questa zona che Pirandello trova parecchie difficoltà nel tradurre alcune espressioni dal dialetto in lingua. Molte di esse perdono nella traduzione italiana la loro aggressività ed efficacia espressiva.
La cosa particolarmente pittoresca sta nel vedere come espressioni formalizzate sotto lo schema del dialetto serio si mescolano alla componente proverbiale-metaforico del parlar civile, come ad esempio:
âChi aviti forsi âu carbuni vagnatu ? lâavi bbonu addumatu e cuvatu dintraâ (Avete forse il carbone bagnato? lâha bene acceso e covato dentro), oppure
âgaddina chi camina, sâarricogli câ Ă vozza chinaâ (gallina che va e gira, col gozzo pieno si ritira), o âcu cerca trova e cu secuta vinciâ (chi cerca trova e chi seguita vince.), o âu tavirnaru voli i picciuliâ (il tavernaio vuole essere pagato), o ancora âcome sâ avissiru pigliato un ternuâ (come se avessero preso un temo).Â
La piĂš grande originalitĂ di Pirandello sta nellâaver creato una specie di âstato dâanimoâ del mondo contemporaneo: cioè di avergli dato un nome, il suo. Oggi con il termine pirandelliano indichiamo qualsiasi situazione contraddittoria e grottesca.
Eppure Pirandello fa la cosa piĂš naturale: descrive la âsemplice e complicataâ realtĂ siciliana. RealtĂ che si può esprimere solo tramite le parole, che sono:
ââŚlarve da riempire e ognuno le riempie del senso che ha per sĂŠ, nel proprio intimo⌠e ben lo sa il Padre quando nei âSei personaggi in cerca dâ autoreâ esclama: âma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sĂŠ del mondo come egli lâha dentro?âŚâ.
Nonostante viviamo in un mondo tecnologico dove tutto sembra essere facile, si è avvertito il bisogno di analizzare la parola âsecondoâ Pirandello proprio perchĂŠ, nellâintento di utilizzarla al meglio, non soltanto ne ha colto lâimportanza ma soprattutto il limite. â⌠Crediamo dâintenderci non ci intendiamo maiâ. La parlata dialettale differisce dalla lingua italiana nella concretezza e nella schiettezza delle espressioni. La scelta del dialetto siciliano permette a Pirandello di dar vita a dialoghi accesi, pieni di risposte immediate e permeati di un tono velatamente sarcastico.
I dialetti della Sicilia, ricca di culture diverse a causa delle sue tredici dominazioni, hanno accolto apporti linguistici di notevole importanza, per cui presentano non solo differenze sostanziali tra le diversissime province ma anche svariate sfumature tra paese e paese. Attenzione, però, perchĂŠ la dialettomania porta al âmito populistico del dialetto toccasanaâ e la dialettofobia al âmito puristicoâ, che vede il dialetto come âdeviazione, errore, corruzione, inculturaâ.
Proprio in questo errore incorse il fascismo che, tra le molte sciocchezze che predicava, dichiarò guerra ai dialetti, o meglio, come dice Tullio De Mauro âdichiarò guerra al fatto che si parlasse dellâesistenza dei dialettiâ. Noi non siamo nĂŠ dialettomani e nĂŠ dialettofobici, ma ci atteniamo a quello che âdialektosâ in greco voleva dire, cioè semplicemente e genericamente âmodo di parlareâ. Il dialetto utilizzato da Pirandello è la parlata di Girgenti, su cui egli aveva fatto la sua tesi di laurea a Bonn e che definisce, sempre nellâAvvertenza alla commedia âLiolĂ â: âincontestabilmente la piĂš pura, la piĂš dolce, la piĂš ricca di suoni, per certe sue particolaritĂ fonetiche, che forse piĂš di ogni altra lâavvicinano alla lingua italianaâ. Sicuramente Pirandello è rimasto affascinato dal dialetto, tantâè vero che scelse di scrivere alcune delle sue opere, prima in dialetto per poi tradurle in lingua italiana.
La commedia âLiolĂ â costituisce un esempio eclatante di quella che fu la precisa e meditata scelta linguistica di Pirandello e di come la traduzione in lingua italiana abbia fatto perdere di particolaritĂ il testo originale in dialetto agrigentino, dove la concretezza piĂš che i personaggi è la vera protagonista della commedia campestre in tre atti. Pirandello stesso definisce cosĂŹ, in una lettera datata 24 ottobre 1916, diretta al figlio Stefano, prigioniero degli austriaci, la sua creazione che è stata citata nelle pagine precedenti.
Certamente, per quanto riguarda la lingua, la scelta dialettale non dipese dalla non conoscenza della lingua italiana o dallâincapacitĂ di adoperarla adeguatamente, ma dallâimpossibilitĂ di rappresentare propriamente con una lingua non dialettale i sentimenti e le immagini caratteristiche del luogo, in cui è ambientata la commedia.
Inoltre, Pirandello sceglie il dialetto agrigentino, perchĂŠ lo trova il piĂš vicino alla lingua italiana. In effetti alcune espressioni del suddetto dialetto come âpâu mezzuâ, che differisce dal catanese-siracusano ânâ du menzuâ, o âdrittaâ, che in siracusano diventa ârittaâ, o âvogliuâ e âfigliu che nel dialetto della parte sud-orientale della Sicilia diventano rispettivamente âvogghiuâ e âfigghiuâ.
Ma forse la scelta, come dice lui, del âpretto vernacoloâ riflette la volontĂ di Pirandello di voler polemizzare contro âquellâibrido linguaggio tra dialetto e lingua italianaâ, che egli definisce âdialetto borgheseâ o âforma internaâ, che egli ravvisa nel dialetto âarrotondatoâ di Verga.
Leggendo la commedia âLiolĂ â, ci accorgiamo che la ricerca della naturalitĂ espressiva è massima, anche perchĂŠ Pirandello mira particolarmente alla concretezza, come nel dialogo tra il protagonista e zio Simone in cui, alludendo allâimpossibilitĂ di procreare da parte di questâultimo, LiolĂ usa delle espressioni che sembrano tratte dal linguaggio delle falloforie, specialmente quando atavicamente identifica la fertilitĂ della terra con la feconditĂ della donna:
âScusassi, ccaâ ccâè un pezzu di terra; si vossia si la sta a taliari senza faricci nenti, chi cci fa a terra?
Nenti. Comu aâ fimmina. Chi cci duna âu figliu? Vegnu iu, ni stu pezzu di terra; lâazzappu; la conzu; cci fazzu un pirtusu; cci jettu u civu: spunta lâarbulu! Zu Simuni, ringrassi a Diu câancora âun âu spussessanu!â.Â
Risponde lo zio Simone:
âAh sĂŹ? Chi mâavissuru puru a spussissari?â.
E LiolĂ :
âE pirchĂŹ no? Puru sta liggi poâ veniri dumaniâ.
E poi riprendendo il discorso della fertilità della terra, Liolà attraverso la sua logica stringente, tipica del contadino, dice che la terra è di chi la lavora, da cui si potrebbe cogliere in nuce già una coscienza di classe:
âA cĂš lâha datu stâarbulu âa terra? A mmia. Veni vossia e dici no, è miu. PirchĂŹ? PirchĂŹ âa terra è so? Ma la terra beddu zuâ Simuni chi sapi a cu apparteni? Duna u fruttu a cĂš la lavuraâ.
 Da queste brevi ed immediate battute, si capisce come lâutilizzo della parlata di Girgenti risponda meglio alle esigenze di Pirandello.
LiolĂ , dâaltronde, è una commedia campestre, nella quale solo lâuso del âpretto vernacoloâ rende la giusta concretezza del mondo contadino dellâentroterra siciliano, evidenziato anche da alcuni termini come âgistriâ (ceste), âsacchiâ (sacchi), âcoffiâ (cofani), âpanaraâ (panieri), ârappaâ(grappoli) che mettono in luce ulteriormente la natura contadina del popolo siciliano. I personaggi della commedia sono immersi in questo mondo agreste. Liolà è un âcontadino ebbro di soleâ.
Questo è il ritratto che fa di se stesso, quando va a chiedere alla Zia Croce la mano della figlia Tuzza, che aveva messo incinta:
âVossia sapi ca âun sugnu oceddu di gaggia. Oceddu di volu sugnu: oj ccĂ , dumani ddĂ ; a lu suli, allâacqua, a lu ventucantu e mi âmmiriacu; e nun sacciu si mi âmmriaca cchiĂš lu cantu o cchiĂš lu suli⌠Cu tuttu chistu, za Cruci, sugnu ccĂ : mi tagliu lâali e mi vegnu a chiujri di mia stissu dintra âa caggia. Ci dumannu âa manu di so figlia Tuzzaâ.Â
Liolà è un Casanova siciliano, spensierato ed amico della natura, accompagnato sempre da grande allegria, che trasmette anche agli altri. Ă orgoglioso di avere tre figli nati, da âragazzotte di fuoriviaâ, che stanno con sua madre: âSuâ masculiddi e, quannu criscinu, pâ âa campagna, cchiĂš vrazza ccâè, cchiĂš rricchi semu.â Antiquata idea della prole come fonte di ricchezza. U zuâ Simuni, proprietario della terra, possiede la ârobbaâ come segno di potere.
Questo termine ricorre spesso nella commedia âLiolĂ â, nella duplice accezione di ârobbaâ, intesa come casa colonica(robba è la casa colonica di zio Simone e ârubbicedda, diminutivo di robba, è la casa modesta di gnaâ Gesa; da notare lâuso dei diminutivi per indicare le condizioni sociali dei meno abbienti) e ârobbaâ nel senso di averi, terre possedute, a cui corrisponde il verghiano ârobaâ. Ă proprio la ârobbaâ che condiziona il mondo contadino. Lo zio Simone deve avere un erede, a cui poter lasciare tutte le sue ricchezze. Dopo la morte della moglie Rosaria, da cui non aveva avuto figli, decide di risposarsi con la bella e prosperosa Mita, perchĂŠ la conformazione fisica della donna gioca un ruolo importante nella procreazione, secondo la mentalitĂ contadina.
Infatti la donna magra è indice di sterilitĂ , come si evince dallâaffermazione della zia Croce, che riferendosi a donna Rosaria, la prima moglie di zio Simone, la quale non aveva avuto figli, dice:
âMa chi cciâ avia a ffari idda? Un filu a la porta, puveredda. Dâidda âun si putia aspittariâ.
 Al contrario, la donna prosperosa è simbolo di feconditĂ e di salute e âstrumentoâ sicuro di procreazione. La donna deve assolutamente essere capace di procreare, poichĂŠ si attribuisce la colpevolezza del mancato concepimento solo a lei. Non veniva presa nemmeno in considerazione lâimpotenza procreativa del maschio. Ma sta di fatto che, dopo quattro anni di matrimonio con la prosperosa Mita, sembrava che lâerede fosse arrivato con Tuzza, messa incinta da LiolĂ , il cui nascituro mediante i consigli interessati di Tuzza e della Zia Croce, sua madre, se lâera accollato Zio Simone, il quale si era vantato davanti a tutti e perfino davanti alla stessa moglie che il figlio era suo, per prendersi finalmente la soddisfazione di far credere di aver procreato lâerede.
Ma colpo di scena! La situazione pirandelliana non si era del tutto realizzata.
La moglie di Zio Simone è anchâessa incinta! âLiolĂ ! LiolĂ ! Cci la fici! Cci la fici e mi la fici, assassinu!â, sbotta Tuzza palesamente contrariata per la nuova situazione. E continua a scatenarsi: âE cci lâarricurdavu! Centu voti cci lâarricurdavu, ca sâavia a guardari di LiolĂ !â. Ma Zio Simone risponde contento ed orgoglioso: âĂ miu, è miu, sissignora, è miu! E nuddu sâavi arrisicari di diri cosa contro di meâ muglieri, ca vasannò vi fazzu a vidiri a Cristu sdignatu!” E Tuzza gli risponde altezzosamente: âChi va circannu cchiĂš vossia? Si si vulia pigliari lu meâ, ca sapĂŹa di causa e scienza di cuâ era, e vulĂŹa fari cridiri châera so, si figurassi ora sâ âun cridi châè so chiddu di so muglieri!â.
Sono molto interessanti anche le battute di dialogo che si incalzano lâuna di rimando allâaltra, un faccia a faccia polemico tra le due contendenti Mita e Tuzza, che stavano per venire alle mani, per la loro concretezza e immediatezza. Dice Mita: â Vogliu diri ccĂ a Tuzza, ca cuâ tarda e nun manca, non si chiama mancaturi! Tardavu, è veru; ma nun haju mancatu! Tu jisti avanti e iu ti vinni appressu!” Non si fa attendere la risposta provocatoria di Tuzza: âPâ âa meâ stissa strata mi vinisti appressu!â.
Alla quale Mita ribatte: âNo, bedda! âA meâ è dritta e giusta; âa to è ttorta e latra!â.
Le espressioni citate hanno perso nella traduzione italiana, che Pirandello ha fatto della commedia, la loro aggressivitĂ ed efficacia espressiva e questo può essere uno dei motivi di giustificazione della scelta meditata del âpretto vernacoloâ da parte dellâagrigentino. A prescindere delle motivazioni, che hanno spinto Pirandello ad usare varie volte il dialetto agrigentino nelle sue opere, bisogna considerare il siciliano una lingua o un insieme di dialetti? âIl siciliano non è una lingua derivata dallâItaliano ma al pari di questo dal Latinoâ.
LâUnesco riconosce al siciliano lo status di lingua madre. La lingua siciliana potrebbe essere ritenuta una lingua regionale o minoritaria ai sensi della Carta europea per le lingue regionali, che allâarticolo 1 afferma che âper lingue regionali o minoritarie sâintendono le lingue che non sono dialetti della lingua ufficiale dello Statoâ.
Tuttavia la storia linguistica della Sicilia, con le alloglossie interne della Lingua gallo-italica, che tocca ben 4 province (Messina, Enna, Catania e Siracusa con quattordici centri); della Lingua arbereshe, detta anche greco-albanese che interessa 5 comuni del palermitano); e della Lingua greca o greco-siculi (minoranza linguistica radicata nel territorio di Messina), mi fa essere perplesso su quanto raccomandava Luigi Settembrini agli Italiani e cioè: âdi conoscere questo dialetto siciliano, che fu veramente ed è lingua piĂš che dialetto, non solo per la sua antichissima tradizione letteraria, ma anche per il suo vario e complesso stampo sintattico, ricco di sottilissimi nessi, come per copia e colorita efficacia di vocaboliâ.
Pietro Seddio
*******
Quale teatro?
Secondo Luigi Pirandello
Indice
Nota introduttiva
Capitolo 1: Pirandello e il dialetto
Capitolo 2: Lâazione parlata
Capitolo 3: Teatro nuovo e Teatro vecchio
Capitolo 4: Illustratori, attori e traduttori
Capitolo 5: La Quarta Parete
Capitolo 6: Pirandello e la Maschera
Capitolo 7: Pirandello e i Fantasmi
Capitolo 8:Â Pirandello e le didascalie
Capitolo 9:Â La sua scrittura drammaturgica
Capitolo 10: Pirandello e la sua tematica
Capitolo 11: I Personaggi
Conclusioni
Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com