Pirandello. Un genio del novecento

image_pdfimage_print

Di Giovanni Fighera

Grande drammaturgo, romanziere, novelliere, l’agrigentino Luigi Pirandello (1867-1936) è uno dei più grandi geni del Novecento, letterato e, al contempo, filosofo. In lui sembrano incarnarsi le parole di Leopardi nello Zibaldone: «Il vero poeta è anche filosofo e il vero filosofo è anche poeta».

Indice Tematiche

Pirandello. Un genio del novecento 

Pirandello. Un genio del novecento

da La ragione del cuore

Indice
1 – Il profeta dello smarrimento dell’uomo contemporaneo
2 – Il comico, l’umorismo e lo sguardo pietoso sulla realtà
3 – Da cosa nasce l’arte? Dall’osservazione della realtà
4 – Il fu Mattia Pascal , cioè il dramma dell’uomo in attesa
5 – Mattia Pascal e i “lanternini” dell’uomo spaesato
6 – La manovella di Serafino contro le macchine “padroni”
7 – L’Odissea di Vitangelo, alla ricerca dell’io perduto
8 – Siamo tutti personaggi in cerca d’autore
9 – Così l’utopia del mondo perfetto muore nella violenza
10 – Solo la carità ricostruisce le ferite dell’io
11 – Il dramma della vita e dell’amore non vissuti
12 – Il treno ha fischiato, la realtà finalmente si svela
13 – La luna di Ciàula: lo stupore della realtà riscoperta
14 – Quando la vita è un inferno. Il caso dello iettatore
15 – Che cosa ha bisogno l’uomo per ritrovare l’unità perduta?

1 – Il profeta dello smarrimento dell’uomo contemporaneo

Grande drammaturgo, romanziere, novelliere, l’agrigentino Luigi Pirandello (1867-1936) è uno dei più grandi geni del Novecento, letterato e, al contempo, filosofo. In lui sembrano incarnarsi le parole di Leopardi nello Zibaldone: «Il vero poeta è anche filosofo e il vero filosofo è anche poeta». Non sarà, forse, un caso allora se l’esordio di Pirandello è poetico, anche se poi l’autore trascurerà quella strada per dedicarsi alla prosa e al teatro, in cui emerge la sua più grande vena creativa.
La genialità di un autore riesce a comprendere la cultura della propria epoca, attraverso segni che i propri contemporanei non sono in grado di cogliere. Per questo le opere di Pirandello non potevano essere capite nei primi decenni in cui circolavano. A distanza di tanti anni, appare chiaro come descrivessero la perdita della bussola dell’uomo contemporaneo, ovvero, per dirla con Hans Sedlmayr, la perdita del centro, cioè la scomparsa della centralità dell’io.

Con queste parole, a soli ventitré anni, Pirandello si rivolge alla sorella Lina il 31 ottobre del 1886: «Noi siamo come i poveri  ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita».

Meno di vent’anni più tardi, ne Il fu Mattia Pascal, lo scrittore siciliano profetizza in maniera drammatica quel clima culturale che nel 2005 nella Missa pro eligendo romano Pontefice il Cardinale Ratzinger avrebbe definito «dittatura del relativismo». Pirandello affida alle parole di Anselmo Paleari le sue riflessioni più interessanti sulla contemporaneità. Il logorroico appassionato di filosofia utilizza l’immagine del lanternino per rappresentare il concetto di visione del mondo e della vita. In alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono lo stesso colore: «In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? […] Non sono poi rare nella storia certe ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternini». Proprio così è accaduto nell’epoca contemporanea, in cui ciascuno cammina al buio con il suo lanternino e non sa più a chi rivolgersi. Oggi, spenti tutti i lanternoni del passato, l’epoca contemporanea assiste all’accensione di un nuovo lanternone culturale del relativismo. Non più certezze cui guardare, ma un’unica certezza, quella che non vi sono verità.

Così, sempre ne Il fu Mattia Pascal, Pirandello riflette sulla differenza tra l’uomo antico e l’uomo moderno: «Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?[…] Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. […] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cadere le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto». All’eroe antico, Oreste, che opera con caparbietà e decisione si sostituisce Amleto, un uomo preso dal dubbio sulla realtà e sull’evidenza delle cose, inerte, incapace di agire, di operare.

Ancora tanta produzione pirandelliana documenta quella cultura che gradualmente, già all’inizio del secolo scorso, è diventata dominante, che ha smarrito il metodo, cioè la giusta strada, per arrivare alla verità. Se la Luna rappresenta la verità, è come se l’uomo moderno avesse smarrito il mezzo per arrivare sulla Luna. Il romanzo Suo marito sottolinea in maniera particolarmente efficace questa incapacità conoscitiva dell’uomo moderno. Una donna è scacciata dal marito perché accusata di tradimento quando lei è, invece, innocente. A questo punto la presunta colpevole si fa ospitare in casa dall’uomo sospettato di essere il suo amante. Tra i due nasce davvero una relazione sentimentale. Il marito, riconosciuta, però, l’innocenza della donna, la riaccoglie in casa quando davvero si è macchiata della colpa. Per il lettore appare chiara l’oggettività della realtà. Sono i personaggi dell’opera che, come marionette sul palco, risultano limitati e incapaci di coglierla. Così, la realtà si presenterà differente a seconda del punto di vista da cui si osserverà la scena. La realtà sarà come uno specchio, frantumato in centinaia di pezzi: lo spettatore che vi sta di fronte vedrà immagini riflesse differenti, parziali e grottescamente deformate. Noi stessi appaiamo diversi a seconda dell’osservatore che ci sta davanti e del punto di osservazione in cui si trova.

Per questo la produzione del genio siciliano invece di essere compresa, è stata ridotta a formule ed etichette. Pirandello si è sempre scagliato con rabbia contro quanti hanno semplificato la sua produzione riducendola a quei pochi concetti e a quelle parole chiave che compaiono per lo più sulle antologie scolastiche e sui saggi a lui dedicati. La critica letteraria ha ridotto le sue opere a sistema e a welthanschauung e ha semplificato la magmatica e voluminosa novità dei suoi testi in definizioni riduttive come «pirandellismo» e «relativismo». L’Agrigentino ha, in realtà, cercato sempre nella sua produzione la verità sull’uomo e, in particolar modo, nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte), ha tentato di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna.

Ci stupisce l’articolo del 15 dicembre 1931 in cui Pirandello scrive:

«(La mia) opera trova già prevenuti tanto il giudizio della critica quanto l’attesa del pubblico, per colpa di tutte quelle concezioni astratte e stravaganti sulla realtà e la finzione, sul valore della personalità […] che non sono altro se non le deformazioni cristallizzate di due o tre delle mie commedie, di quelle due o tre che sono arrivate per prime a Parigi, proprio al momento in cui il mio nome ha preso il volo: questo nome che, per colmo di sventura, non nemmeno più il mio nome, ma è diventato la radice della parola «pirandellismo»».

Per ironia della sorte colui che ha lottato per la vita contro la finzione, per la sostanza al di là del nome, è stato ridotto a nome. Il suo pensiero che ha evidenziato l’impossibilità di mettere ordine nel magma caotico dell’esistenza è diventato il sistema del «pirandellismo». Lui stesso è diventato emblema del relativismo, quasi come ne fosse interprete, depositario e corifeo e non piuttosto abile demistificatore e potente, nonché geniale profeta e anticipatore di certe tendenze culturali dilaganti. Per questo Pirandello si ribella e grida «Abbasso al pirandellismo!». Scrive ancora nell’articolo di cui sopra:

«Mi si permetta di dire che nessuna delle mie opere che sono tutte nate al di fuori della tesi e degli apriorismi filosofici, è malata di pirandellismo. Sono state modestamente concepite e composte da uno scrittore che si chiama Pirandello e che nel momento in cui scriveva non immaginava nemmeno lontanamente la disavventura che lo attendeva, e non poteva prevedere che queste opere fossero predestinate a essere catalogate sotto una etichetta unica, sotto una formula immutabile, di un carattere rigido e definitivo. A nome della mia opera tutta intiera,… mi ribello contro la mia fama e contro il pirandellismo e arrivo fino a dichiarare di essere pronto a rinunciare al mio nome, pur di riconquistare la libertà della mia immaginazione di scrittore».

Pirandello, però, ci avverte: «Forse non esiste scrittore più sconosciuto di uno scrittore celebre!». E come nasce la celebrità? «Nasce il giorno in cui, non si sa come né perché, il nome di uno scrittore si stacca dalle sue opere, mette le ali e spicca il volo. Il nome!… Le opere sono molto più serie: non volano, ma camminano a piedi, è per conto loro, con il loro peso e il loro valore, a passi lenti». Così, mentre il nome di Pirandello è a Parigi e ha girato tutto il mondo, le sue opere letterarie «continuano a piedi la loro strada, a passi pesanti, e sono naturalmente rimaste indietro». (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 2-11-2014)

2 – Il comico, l’umorismo e lo sguardo pietoso sulla realtà

Che sguardo ha Pirandello sull’uomo? Con che occhi guarda la realtà e i suoi simili? Nel 1908 Pirandello approfondisce la questione della situazione esistenziale dell’uomo in un saggio che, oltre che testo di poetica e manifesto letterario dell’autore, è un sapiente libro esistenziale. Stiamo parlando de L’umorismo. La condizione umana, a detta dello scrittore, è sempre fuori chiave, come se l’uomo non fosse mai al suo posto e, impaurito dalla paura del vuoto e della vertigine conseguente, ricercasse una forma, lui che è sempre privo di forma. L’uomo, infatti, si muove da un pensiero all’altro, da un ideale all’altro, incapace di mantenere fede ad un proposito, pensato, ma subito dopo rinnegato e tradito. L’uomo è un puro fluire di forme e di pensieri.

«La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che […] non cessi. Le forme, in cui cerchiamo d’arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo, sono i concetti, sono gli ideali a cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci […]. Ma dentro di noi stessi, in ciò che noi chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, […] componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte quelle nostre forme fittizie crollano miseramente».

L’arte antica ha inventato l’eroe granitico, tutto d’un pezzo, fedele ai suoi grandi ideali. L’osservazione ordinaria della realtà, però, porta l’uomo a rendersi conto della inconsistenza di tale visione dell’uomo. L’eroe antico nella realtà non esiste. Tutti noi ci attacchiamo ad ideali che, poi, tradiamo cinque minuti più tardi. È assurdo pensare ad una coerenza dell’io, ovvero ad un’intima connessione tra azione e ideale: il termine coerenza ben designa quest’utopistica presunzione – almeno a detta di Pirandello – di far seguire al pensiero l’azione, al proposito il progetto concreto.

Nei momenti di silenzio, quando si è soli e non frastornati dalle cose e dai rumori, l’uomo percepisce quest’inquietudine del vivere e di trovarsi, misero e inconsistente, di fronte all’abisso del mistero. Comprende l’inganno delle maschere, degli atteggiamenti assunti per nascondere il disagio del vivere e coglie la propria precarietà e quasi nullità.

«In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, […]. Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo, [….]. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si profondasse negli abissi del mistero […]. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana,  delle cose: ambiziose o misere apparenze».

Tutti noi abbiamo, quindi, una consistenza tragicomica, ovvero il nostro io in alcuni momenti appare fortemente comico e potrebbe destare il riso di chi ci osserva oppure un sorriso benevolo nei più magnanimi.

È  la famosa distinzione tra comico e umoristico che Pirandello spiega con l’altrettanto celebre e conosciuta immagine della donna di ottant’anni, tutta imbellettata, vestita all’ultima moda e con i tacchi a spillo. Ad un primo sguardo, di fronte ad un’immagine siffatta, chiunque si metterebbe a ridere avvertendo l’assurdità della situazione. Il comico consiste per l’appunto in questo «avvertimento del contrario», cioè nella constatazione che una situazione è opposta a quanto noi ci aspetteremmo, constatazione che desta in noi una risata a crepapelle, irrefrenabile e indubbiamente irrispettosa. Però, nel momento in cui noi riflettiamo sulle ragioni che hanno indotto quella donna a ridursi così e pensiamo al suo desiderio di apparire più giovane, di piacere ancora al marito, il nostro riso si tramuta in un sorriso che abbraccia e comprende le ragioni profonde dell’altro, ovvero l’umorismo o «sentimento del contrario». Siamo tutti comici o umoristici in particolari momenti della nostra esistenza, ovvero siamo inadatti alla circostanza, inadeguati, buffi: semidei che si pongono sul piedistallo di fronte agli altri, per  poi precipitare nella melma non appena la solitudine ci permette di lasciare l’insostenibile ruolo.

La gradazione umoristica ha il dono di liberare dalla forma o meglio di abbracciarla mostrando come essa non sia cifra definitiva dell’io, non lo imprigioni in maniera irreparabile. L’apparire in un certo modo ha una ragione d’essere nella storia e nella vita della persona che è ben più complessa di quanto appare.

L’umorismo sa comprendere le ragioni profonde del disagio dell’io. Non sempre, però, l’uomo è capace di guardare gli altri con il rispetto tipico dell’umorismo. Ben più spesso l’io è definito e incastonato da chi osserva in una forma e in un modo di essere. Pensiamo a tanti personaggi presentati nelle Novelle per un anno, ad esempio all’Andrea Chiarchiaro de «La patente» (1911). Tutti lo considerano come uno iettatore da evitare tanto che egli perde sia la trama di relazioni sociali sia la possibilità di lavorare. Allora il poveretto decide di intentare causa nei confronti di due compaesani che l’hanno trattato come iettatore. Amaramente il narratore commenta: «Era veramente un iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lì, in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e – sissignori – la giustizia doveva dargli torto […] ribadendo così, ferocemente, l’iniquità di cui quel pover uomo era vittima». Infatti, il punto di vista malevolo dei concittadini lo ha incastonato in una forma, ha ridotto la sua complessità umana ad un unico aspetto che diventa la cifra descrittiva di tutto il personaggio.
(pubblicato su La nuova bussola quotidiana dell’8-11-2014)

3 – Da cosa nasce l’arte? Dall’osservazione della realtà

Nel 1908, oltre al saggio L’umorismo, Pirandello scrive anche Arte e scienza. Ivi, se da un lato lo scrittore contesta quegli atteggiamenti che tendono a ridurre l’arte a disciplina dipendente e subordinata a fattori esterni, dall’altra si oppone a quelle considerazioni riduttive secondo le quali essa «si è ristretta specialmente per opera di Benedetto Croce a un’unica questione, a un’unica veduta, la quale, non riuscendo ad abbracciare tutto il complesso fenomeno artistico, […] incespica in continue contraddizioni». L’unica questione cui allude Pirandello è l’intuizione.

Il filosofo italiano Benedetto Croce (1866-1952) identifica, infatti, la vera arte solo con l’intuizione pura. Ritiene che l’arte sia su un primo gradino, quello dell’intuizione, la scienza su un secondo gradino, quello del concetto. Scrive Pirandello:

«Il Croce […] pone due forme o attività dello spirito, una teoretica, distinta in intuitiva e in intellettiva, e una pratica.
Con la forma teoretica, egli dice, l’uomo comprende le cose: con la forma pratica le va mutando: con la prima si appropria l’universo, con l’altra lo crea». L’arte per Croce è conoscenza «nel primo momento della intuizione», è attività teoretica, prescinde dall’attività pratica, è scevra di «sentimento» e di «volontà. Nel mondo estetico di Croce regna l’equazione: intuizione-espressione […]. L’attività estetica è considerata dal Croce come affatto indipendente».Quindi, a detta di Croce, solo alcuni episodi della Divina commedia possono essere considerati «poesia» (cioè arte), mentre gran parte del capolavoro (soprattutto nel Paradiso), soprattutto quando è troppo contesta di contenuti morali e religiosi, è catalogabile come «letteratura».

Stiamo senz’altro con Pirandello quando afferma che la ragione non è certo secondaria nella realizzazione artistica. L’arte nasce, dunque, da una finestra spalancata sulla realtà con quella potenza efficace che gli fornisce la ragione, da intendersi come un’apertura alla realtà che tenga in debita considerazione tutti i fattori. Ci domandiamo, quindi, come possa l’arte davvero prescindere da essa e, ancora, come possa nascere solo da una delle facoltà umane, sia essa l’immaginazione o il sentimento o l’intuizione.

Dobbiamo, però, precisare che non è la ragione a produrre la bellezza, ma, al contrario, è la bellezza che muove la ragione. La bellezza esiste nella realtà e sprona l’uomo a riprodurla nell’opera d’arte, non esiste prima nella mente dell’artista se non per il fatto che questi l’abbia prima stampata nella propria mente osservandola nel mondo.

Manzoni afferma nel dialogo Dell’invenzione che l’artista non inventa mai nulla. «Inventare» deriva, infatti, dal verbo latino «invenire» che vuol dire «trovare», «incontrare». L’artista è come se trovasse nel creato le impronte del Creatore. Esiste, quindi, sempre un rapporto molto stretto tra l’arte e la realtà.

Pirandello sembra concordare con lui così come con altri grandi geni del passato come Dante e Shakespeare secondo i quali l’arte sgorga sempre da uno sguardo attento sulla realtà. Nel romanzo Il fu Mattia Pascal si legge:

«Nulla s’inventa […] che non abbia una qualche radice, più o meno profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono essere vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita».

Certo ciò non significa che l’arte debba per forza essere verosimile. Qualche anno dopo la pubblicazione del Fu Mattia Pascal (1904), Pirandello appone una postfazione datata 1921 intitolandola «Avvertenza agli scrupoli della fantasia», nella quale risponde a quanti hanno tacciato di inverosimiglianza la bizzarra vicenda raccontata nel romanzo: «La vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no. Ne segue che tacciare d’assurdità e d’inverosimiglianza, in nome della vita, un’opera d’arte è balordaggine. In nome dell’arte, sì; in nome della vita, no».

A riprova di ciò Pirandello riporta un articolo di giornale pubblicato su Il corriere della Sera del 27 marzo 1920 in cui si racconta una vicenda del tutto simile a quella de Il fu Mattia Pascal, «il presunto suicidio in un canale; il cadavere estratto e riconosciuto dalla moglie e da chi poi sarà secondo marito di lei; il ritorno del finto morto e finanche l’omaggio alla propria tomba». La vita mostra sprezzo per ogni verosimiglianza. Non si deve, dunque, pretendere la verosimiglianza proprio dall’arte e dalla fantasia.(pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 16-11-2014)

4 – Il fu Mattia Pascal, cioè il dramma dell’uomo in attesa

Autore molto prolifico, Pirandello ci ha lasciato una sterminata produzione, dai sette romanzi alle novelle (duecentoquarantuno pubblicate in quindici tomi in vita e altre quindici edite postume), dalle poesie della giovinezza al teatro (ben 43 opere confluite nella raccolta Maschere nude). Vastissimo è anche il materiale in cui lo scrittore approfondisce il suo pensiero sulla poetica, sul teatro, sulla vita, costituito da saggi, da articoli di giornale o da trascrizioni dei suoi interventi pubblici. Dopo aver toccato le riflessioni di Pirandello in L’umorismo e Arte e scienza, ci dedicheremo nelle prossime settimane alla presentazione dei romanzi: L’esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal, Suo marito, I vecchi e i giovani, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno, nessuno e centomila.

Partiremo dal romanzo più importante, Il fu Mattia Pascal, pubblicato in rivista nel 1904 in un momento molto particolare della vita dello scrittore, l’anno successivo al grave dissesto finanziario che subisce la società del padre di Pirandello cui consegue l’irreparabile trauma psichico della moglie Antonietta Portulano. Già umbratile e cupa di carattere, la donna inizierà a manifestare segni di squilibrio (paranoie, gravi attacchi di gelosia, …). Sono anni centrali per gli sviluppi successivi della cultura: L’interpretazione dei sogni di Freud è del 1900, la relatività ristretta di Einstein viene presentata nel 1905 (l’annus mirabilis). Negli stessi anni Pirandello prefigura l’avvento di un nuovo paradigma culturale nel Novecento, quello che il cardinale Ratzinger avrebbe chiamato un secolo più tardi nel 2005 nella Missa pro romano Pontefice eligendo «dittatura del relativismo culturale». In maniera espressionistica e paradigmatica Mattia Pascal rappresenta la condizione esistenziale tragicomica ovvero umoristica di ogni uomo. Per questo nel 1908 Pirandello dedicherà il saggio L’umorismo proprio alla buona anima del protagonista del romanzo.

Ecco in sintesi la strana vicenda. Stanco della monotona vita che conduce tra l’impolverata biblioteca e il carcere domestico, il protagonista si allontana da Miragno, immaginario paesino della Liguria. Si reca a Montecarlo a giocare al casinò e vince una cospicua somma di denaro. Mentre sta per ritornare a casa, già sul treno, rimane attonito a una notizia letta sul giornale. La moglie e la suocera lo hanno riconosciuto nel cadavere di un uomo annegato. La rabbia e la stizza lasciano subito il posto alla speranza di poter ricominciare una nuova vita. Libero, senza più legami, con una coscienza rifatta «vergine e trasparente», assunto il nome di Adriano Meis, ben presto si rende conto della tirannia di quella libertà girovaga, solitaria e muta, del «senso penoso di precarietà che tien sospesa l’anima di chi viaggia» e che non gli fa amare il letto su cui dorme. Si sente sempre e comunque «un forestiere della vita». Passati alcuni mesi, Adriano decide, infine, di fermarsi a Roma, ove prende in affitto una stanza. Le sue giornate sono segnate dalle conversazioni con il logorroico Anselmo Paleari, padrone dell’appartamento e appassionato di filosofia, e dall’amicizia con la sua figlia Adriana, una donnina tranquilla e religiosa.

Adriano Meis prende sempre più coscienza dell’inconsistenza della sua libertà, tanto che scrive nelle sue memorie: «La mia libertà, che a principio m’era parsa senza limiti, […] avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e […] mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss’anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate da sé, quelle fila». Adriano Meis ha potuto conservare l’illusione di vivere finché è rimasto chiuso in se stesso e ha visto vivere gli altri. Quando, però, prova ad accostarsi alla vita, percepisce che è un morto che non può neppure dichiarare il proprio amore. Ora che ama Adriana, si rende conto che, neanche se morto all’anagrafe, può liberarsi della moglie. Per la legge non esiste. Non solo non può amare, ma non può neppure denunciare un furto subito. Per questo si sente «peggio che morto» perché «i morti non debbono più morire» mentre lui è «ancora vivo per la morte e morto per la vita».

Un’ombra che ha un cuore, ma non può amare, ha soldi, ma chiunque può rubarglieli. La sua vita è tutta intrisa di menzogna tanto che si sente soffocare «dalla nausea, dall’ira, dall’odio» per se stesso. Così, medita di fuggire da quella casa e di restare solo, «più lontano che mai dagli uomini» per «paura di ricader nei lacci della vita». Adriano ha un primo impeto suicida, ma poi, come per una ribellione interna, come per una reviviscenza dell’odio nei confronti della moglie Romilda e della suocera, reagisce e decide di vendicarsi ritornando a Miragno e rivelando che non è morto. Ora, mentre progetta il ritorno, diventa cosciente dell’inganno e dell’illusione di poter fuggire dal proprio passato e si chiede: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? […] Mi ero stimato felice […] con la cappa di piombo della menzogna addosso[…]. Ora avrei avuto di nuovo la moglie addosso […] e quella suocera […], ma non le avevo forse avute addosso anche da morto?».

Ritornato al paese, in principio nessuno lo riconosce con l’eccezione del parroco don Eligio. L’amara scoperta del secondo matrimonio della moglie con l’amico di infanzia Pomino e della nascita di un figlio lo persuade a non rivendicare il posto perduto all’interno della società civile. D’ora innanzi, su consiglio di Don Eligio, scriverà la sua storia in una sorta di memoriale privato e si recherà di tanto in tanto sulla sua tomba a portare i fiori, rivelando a quanti lo incontrano di essere il «fu Mattia Pascal».

In questa storia bizzarra Mattia Pascal è diventato «un altro uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un’ombra di uomo». Il tema dell’ombra è ripreso dalla Meravigliosa storia di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso (1814) in cui lo scrittore tedesco racconta di un personaggio che ha venduto la sua ombra al diavolo in cambio della ricchezza. In maniera analoga Pirandello scrive la storia di un uomo che ha pensato di poter abbandonare la sua «ombra» impiegatizia e di piccolo borghese. L’esito delle due vicende è per certi versi analogo: solitudine e angoscia. Nel romanzo compaiono diverse figure che rappresentano un possibile alter ego di Mattia Pascal: l’uomo di mezza età che si suicida davvero a Montecarlo dopo aver perso al gioco; Adriano Meis, libero da vincoli e coercizioni sociali, ma inesistente all’anagrafe; Anselmo Paleari, un Amleto in panni borghesi, un vero e proprio filosofo a cui è affidata l’esposizione delle questioni culturali ed estetiche più interessanti dell’intera opera; l’amata Adriana che ha quella fede di cui Adriano è sprovvisto. Questi personaggi rappresentano in un certo senso il flusso delle forme e del pensiero, le aspirazioni ideali di Mattia Pascal. Questi vorrebbe essere un filosofo, distaccato dalla vita, ma la vita finisce sempre per coinvolgerlo. Vorrebbe avere la fede di Adriana, ma tratta l’acquasantiera come un portacenere. Medita un vero suicidio a Roma, ma solo l’odio per la suocera lo induce a ritornare a Miragno.

Qual è il «sugo della storia», quale frutto se ne può ricavare? Don Eligio risponde al riguardo: «Intanto, questo, […] che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o triste che sieno, per cui noi siamo noi […] non è possibile vivere». Mattia Pascal, però, replica che ora lui non è rientrato «né nella legge né nelle particolarità», non ha più moglie e ora non sa proprio più chi sia. Il filosofo Benedetto Croce vede nelle parole pronunciate dal parroco il pensiero proprio di Pirandello. Forse, invece, è proprio nelle parole di Mattia che si deve riconoscere la posizione più vera di Pirandello di fronte all’uomo: una domanda in attesa di risposta, quella stessa domanda che ha spinto Mattia Pascal a viaggiare, a cercare di rifarsi un’altra vita, meno lacerata e divisa. Nell’«Avvertenza agli scrupoli della fantasia», quando parla dell’uomo, l’autore fa riferimento al «gioco delle parti», a «quello che vorremmo o dovremmo essere», a «quello che agli altri pare che siamo», mentre in realtà «quello che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo punto, neanche noi stessi».

La prossima volta vedremo alcuni momenti del romanzo che sono davvero presaghi della cultura che si sarebbe imposta nel Novecento. Si metterà a tema anche l’esistenza dell’anima. Insomma, scopriremo Il fu Mattia Pascal inedito, quello meno conosciuto, lontano dai clichés e dagli stereotipi con cui sono state sovente etichettate le opere di Pirandello. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 23-11-2014)

5 – Mattia Pascal e i “lanternini” dell’uomo spaesato

Ne Il fu Mattia Pascal più volte si riflette sull’uomo, sulla sua diversità dalle bestie, sull’esistenza dell’anima, sulla differenza tra antichità e modernità, sull’avvento del relativismo nel clima culturale contemporaneo.

Assunta la nuova identità di Adriano Meis, Mattia Pascal ha affittato una camera presso Anselmo Paleari. In un monologo interessantissimo il logorroico Paleari declama: «La Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all’uomo; s’è dovuta evolvere, è vero? questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino, per diventare questa bestia che ruba, questa bestia che uccide, questa bestia bugiarda, ma che pure è capace di scrivere la Divina Commedia […] e di sacrificarsi come ha fatto sua madre e mia madre; e tutt’a un tratto, pàffete, torna zero? C’è logica? Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l’anima mia, per bacco!».

Importante è notare che Adriano Meis trova obiezioni al discorso, che Anselmo Paleari puntualmente confuta. Adriano, infatti, chiede dove sia l’anima una volta che un uomo cada, pesti la testa e divenga scemo. Anselmo replica: «Lei vorrebbe provare con questo che, fiaccandosi il corpo, si raffievolisce anche l’anima, per dimostrar così che l’estinzione dell’uno importi l’estinzione dell’altra? Ma scusi! Immagini un po’ il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell’anima: Giacomo Leopardi! e tanti vecchi, come per esempio Sua Santità Leone XIII! […] Ma immagini un pianoforte e un sonatore: a un certo punto, sonando, il pianoforte si scorda; un tasto non batte più; due, tre corde si spezzano; ebbene, sfido! con uno strumento così ridotto, il sonatore, per forza, pur essendo bravissimo, dovrà sonar male. E se il pianoforte poi tace, non esiste più neanche il sonatore?».

Le argomentazioni del Paleari sono più persuasive rispetto a quelle del Meis: «Non vorrà dir nulla per lei che tutta l’umanità, tutta, dacché se ne ha notizia, ha sempre avuto l’aspirazione a un’altra vita, di là? È un fatto, questo, un fatto, una prova reale». Anselmo Paleari interpreta qui la religiosità di ogni tempo: «Sento che non può finire così!». Attacca, quindi, quanti distinguono l’umanità dal singolo uomo affermando che la prima continuerà a sopravvivere mentre l’individuo perisce: «Altro è l’uomo singolo, dicono, altro è l’umanità. L’individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione. Bel modo di ragionare, codesto! […] Come se l’umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti. E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant’anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? per niente! per l’umanità?».

Nel capitolo XII Pirandello si sofferma, poi, sul dubbio che caratterizza l’uomo contemporaneo, sulla perdita dell’orizzonte ultimo della trascendenza, sulla differenza tra modernità e antichità. Una volta ancora è Anselmo Paleari a descrivere il dramma della modernità con un’immagine teatrale:

«-La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! […] Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

– Non saprei – risposi, stringendomi ne le spalle.

– Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo. […] Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta».

Nella tragedia shakespeariana Amleto non sa se il fantasma che gli è apparso vicino al castello e che si è rivelato come il fantasma di suo padre sia reale oppure no. Deve verificarlo, deve sospendere tutta la sua vita, inibire i legami affettivi (l’amicizia con Laerte, l’amore che prova per Ofelia), interrompere gli studi (il corso universitario di filosofia in Germania), rinunciare al suo futuro (la successione al trono del Regno di Danimarca). Il dubbio lo paralizza, gli impedisce di agire, di vivere, lo rende inerte, accidioso, nulla vale più davvero la pena.

Più che rappresentare la concezione della vita di Pirandello Anselmo Paleari sintetizza nel suo pensiero la modernità e il suo approccio gnoseologico quando dubita addirittura del limite ontologico per eccellenza, la morte. Anch’essa, infatti, potrebbe essere frutto di una percezione nostra, del nostro lanternino che si spegne. Così, Paleari disserta: «E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non ci colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno […]. Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste».

Pirandello non vuole certo costruire un sistema filosofico fondato sul relativismo, né tanto meno dimostrare che la realtà non esiste. Intende, invece, palesare la difficoltà dell’uomo ad arrivare a cogliere la realtà e, quindi, la verità. Così nel capitolo XIII lo scrittore profezia l’avvento del relativismo. Anselmo Paleari sta raccontando allo stupito Adriano la propria visione della modernità attraverso alcune immagini mutuate dal mondo del teatro: «A noi uomini […], nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita […] era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce».

L’immagine del lanternino è utilizzata per rappresentare la visione del mondo e della vita. Ebbene, a detta di Pirandello, in alcune epoche storiche, questi lanternini individuali, connotati da colori differenti, assumono, invece, lo stesso colore. Afferma, infatti, Anselmo Paleari: «A me sembra […] che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana?[…] Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni».

A questo punto i lanternini si muovono nel buio, si scontrano, tornano indietro in mezzo ad una grande confusione. Tutti i lanternoni sono spenti e gli uomini non sanno più a chi rivolgersi. Questa è la descrizione della modernità: non più un lanternone comune che permetta di inoltrarsi nel reale illuminandolo con una luce collettiva, ma tante piccole luci che vagano come lucciole nella campagna estiva, troppo piccole per permettere una visione chiara e univoca della realtà. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 30-11-2014)

6 – La manovella di Serafino contro le macchine “padroni”

Nel 1930 Pirandello si reca ad Hollywood per le riprese del film tratto dalla sua opera teatrale Come tu mi vuoi. L’interesse del genio siciliano per la settima arte era già vivo da tempo. L’approccio alla tecnologia e alle macchine è, però, problematico e critico. L’intellettuale comprende che la tecnologia e le macchine talvolta non favoriscono la comunicazione, ma, al contrario, la complicano, creando dei filtri o delle barriere. Amante del cinema, lo scrittore siciliano percepisce tutta la pericolosità dell’immagine che può diventare un’ulteriore separazione tra noi e la realtà che guardiamo. Per questo Pirandello dedica un’intera opera all’innovazione tecnologica e al mondo della macchina che fa irruzione nella vita degli uomini.

Pubblicato nel 1916 e nel 1917 con il titolo Si gira, il romanzo appare nella sua edizione definitiva nel 1925 come I quaderni di Serafino Gubbio operatore. Composto in sette quaderni divisi in capitoli, il testo si presenta con una forma diaristica. Non capito e non apprezzato dal pubblico e dalla critica contemporanei, l’opera viene riscoperta solo più tardi, dagli anni Settanta in poi, quando si inizia a cogliere il suo valore profetico.

Operatore alla macchina da presa cinematografica, Serafino Gubbio registra in una sorta di diario le sue riflessioni e la sua condanna ad essere «una mano che muove la manovella». «L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, […] s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è divenuto servo e schiavo di esse. Viva la macchina che meccanizza la vita!»

Tutto l’ingegno dell’uomo è stato messo al servizio della creazione di quei «mostri» (nel senso etimologico del termine, cioè «prodigi o cose sorprendenti»), che dovevano essere i nostri strumenti, mentre sono finiti per diventare i nostri padroni. In maniera drammatica, quando viene a mancare l’io, trionfa la stupidità della macchina. Annota Serafino Gubbio: «È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni. La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine?».

Il nome del protagonista è molto significativo. Se da un lato «Serafino» richiama agli angeli e alla natura spirituale di esseri che sono puro spirito deprivato del corpo, dall’altra parte «Gubbio» è chiaramente luogo francescano. Che ci sia nel nome un’allusione ai versi danteschi prelevati dal canto XI del Paradiso dedicato proprio a san Francesco: «L’un fu tutto serafico in ardore»? Pirandello ha, forse, voluto sottolineare la dimensione tutta spirituale del personaggio, come se vivesse solo di pensiero, di spirito, già distaccato dalla corporeità e dalla fisicità, incline solo al cerebralismo.

Serafino Gubbio riflette sul mondo della casa cinematografica Cosmograph, specchio del panorama contemporaneo, dominato dalle rivalità e dall’arrivismo, ove sempre più i valori tradizionali non trovano ospitalità, ma trionfa la sete del profitto. Sull’altare dell’idolo del guadagno e della carriera sono sacrificati la creatività, l’ingegno, l’amicizia, la comunicazione vera ed autentica.

Un giorno il protagonista sta filmando una scena del film La donna e la tigre all’interno della gabbia della belva feroce. Innamorato dell’attrice russa Nestoroff e non ricambiato, l’attore Aldo Nuti dovrebbe sparare al felino per difendere la donna. Tutto è previsto dalla sceneggiatura. Ma Nuti rinnega il copione e, per vendicarsi della mancata corrispondenza amorosa, uccide la donna, al posto della tigre che, poi, lo sbranerà. In maniera impassibile, come succube della cinepresa, Serafino riprenderà tutta la scena, senza intervenire e, colpito da afasia, rinuncerà per sempre alla vita, ad amare, a comunicare, a rivelare la propria interiorità. Film e vita finiscono per coincidere. La vita è stata data in pasto alla macchina. Quella scena atroce, strappata alla vita e immortalata nel cinema, susciterà la morbosa curiosità del pubblico e conquisterà incassi straordinari.

Una volta ancora, il genio di Pirandello ha profetizzato i futuri scenari del mondo cinematografico e televisivo: quella realtà che diventa fiction oppure reality, in cui solo all’apparenza tutto è naturale, ma in realtà tutto è manovrato secondo una regia. L’uomo divenuto automa mette in scena se stesso, fingendo di non fingere, nel gergo di Machiavelli «dissimulando». Serafino Gubbio concluderà i suoi quaderni scrivendo: «Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così- solo, muto e impassibile- a far l’operatore. La scena è pronta?

-Attenti, si gira…»

Serafino rappresenta l’iperbolica amplificazione delle difficoltà di comunicazione autentica che caratterizzano l’essere umano. La perdita della parola è, in un certo senso, il rischio che corre un uomo che sempre più utilizza degli strumenti di comunicazione che non hanno lo stesso calore della viva parola. Quando l’uomo dimentica che i mezzi sono solo modalità di comunicazioni utili in talune circostanze, li trasforma nella propria voce. Si perde l’integralità della comunicazione, che è affidata a sguardi, a gesti, a toni di voce, all’affetto, e permane solo il messaggio o, meglio, il presunto fine del messaggio. Diventano, così, importanti non tanto l’intensità e la profondità della comunicazione, ma la sua rapidità e la sua frequenza. Sono, forse, così più facilmente comprensibili alcuni scenari comunicativi del terzo millennio.

L’esistenza appare sempre più frenetica e disumana, tanto che Serafino si domanda «se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotta l’umanità in tale stato di follia che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe, forse, in fin dei conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo». La palingenesi che toccherà al mondo, profetata ne I quaderni di Serafino Gubbio, è in sintonia con l’ultima pagina de La coscienza di Zeno, il romanzo sveviano che circolava negli stessi anni che si conclude con la profezia di un occhialuto uomo che costruirà un’arma pericolosissima che poi sarà collocata da qualcuno più pazzo al centro della Terra: un’esplosione porterà all’annientamento di tutte le forme di vita e di tutte le malattie. (Pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 7-12-2014)

7 – L’Odissea di Vitangelo, alla ricerca dell’io perduto

Le novelle di Pirandello sono la scaturigine di molti testi teatrali e perfino di romanzi. È il caso di Uno, nessuno e centomila che deriva dalla novella Stefano Giogli, uno e due che risale al 1909. Il parto è lungo, perché il romanzo viene pubblicato dapprima a puntate su rivista tra il 1925 e il 1926 e, poi, in volume nel 1926. Sarà l’ultimo di Pirandello.

Il protagonista Vitangelo Moscarda, soprannominato Gengé, è alla ricerca della sua vera identità, proprio come Mattia Pascal. Messo in crisi nelle sue certezze dalle considerazioni della moglie sul suo naso («Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra»), è scosso dal fatto di non aver mai visto un difetto che aveva tutti i giorni sotto gli occhi. Così inizia la confessione interiore svolta in prima persona da Vitangelo: «Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona […]. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo. Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il mio naso mi pendeva verso destra, così […] le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi […], le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti…». Insomma, un uomo si può essere guardato allo specchio migliaia di volte senza essersi osservato bene.

Allora, Vitangelo si immagina che su tanti aspetti della sua persona, magari meno visibili, ci possano essere grandi divergenze tra la sua percezione e quella altrui. Esistono tanti Vitangelo tante quante sono le persone con le quali entra in relazione. Ognuna ha un suo punto di vista e una visione differente del suo essere. Confesserà più tardi: «L’idea che gli altri vedevano in me uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, […] quest’idea non mi dava più requie». La sua unità è come scomposta in centomila parti, tante quante sono le miriadi visioni che gli altri hanno di lui. Se ciascuno vede la realtà «a suo modo», non è possibile davvero comunicare tra le persone che vivono, perciò, in una condizione esistenziale di solitudine.

Dopo lo sconcerto di fronte ad una tale rivelazione, Vitangelo intende modificare quei punti di vista che non corrispondono al suo. Si rende conto che gli altri lo considerano usuraio ed egoista; così, per provare l’inconsistenza di questo giudizio, sfratta Marco di Dio, un bisognoso che vive in affitto in un appartamento di sua proprietà, in realtà per offrirgliene uno più grande. Però, le voci che circolano al riguardo sono che è uno strozzino insensibile. Le urla «usuraio» si tramutano in «pazzo!» di fronte al fatto che effettivamente Vitangelo ha donato un suo appartamento a Marco di Dio. Insomma, il protagonista non solo non può disfarsi delle vecchie forme, ma ne assume altre che sono impreviste e soprattutto indesiderate. Anche i familiari lo ritengono un pazzo tanto che la moglie avvia un’azione legale per interdirlo.

Solo un’amica della moglie di nome Anna Rosa mantiene il rapporto con lui. Un giorno, quando Vitangelo la incontra, alla donna cade la borsetta dove nasconde una rivoltella. Parte un colpo di pistola che la colpisce al piede. Si diffondono le voci che Gengé sia innamorato di Anna Rosa e che «l’incidente di quello sparo nella Badìa» sia da imputarsi a cause sentimentali. La moglie raccoglie tutte le prove e le testimonianza per interdirlo. Affascinata dalle sue elucubrazioni mentali e dai suoi ragionamenti, Anna Rosa gli spara al petto. Per quali ragioni? Scriverà il protagonista che confessa le sue disavventure come in un diario: «Devono essere vere le ragioni ch’ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall’orrore istintivo, improvviso, dell’atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni le avevo detto». Interdetto e allontanato dalla moglie, Vitangelo finirà nell’ospizio per vecchi che lui stesso aveva fondato con le sue donazioni.

L’esito di questo processo di distruzione delle tante forme e delle maschere adottate dal personaggio non è la scoperta di sé, bensì l’annichilimento del proprio io. Così, il personaggio conclude la propria storia nell’ultimo capitolo del romanzo: «Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, […] ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento […]. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni».

Per poter vivere, o meglio sopravvivere, Vitangelo deve annientare la propria consapevolezza di sé, eliminare ogni forma, alla ricerca di una sostanza al di là della forma, senza nome, senza lavoro, senza casa, senza alcuna relazione con gli altri. Negli ultimi capitoli del romanzo domina la considerazione che «vivere» e «conoscere» sono forme opposte inconciliabili. Per conoscere si deve bloccare in una forma, ma la vita non sa di forme, di nomi. Vitangelo così esprime la riflessione al suo interlocutore: «Bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti ad una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo e non può mai veramente vedere se stessa».

Se da un lato, però, l’io non coincide con la forma, dall’altro non può neanche prescindere dai rapporti, perché l’io si scopre in una relazione. La nostra persona si conosce in azione, all’opera, vivendo, non nella riflessione. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 14-12-2014)

8 – Siamo tutti personaggi in cerca d’autore

La vena di Pirandello trova forse la sua forma più espressiva nelle opere teatrali. Si può dire, a ragion veduta, che la maggior parte della sua produzione narrativa (novelle e romanzi) sia concepita in maniera scenica. La produzione prettamente teatrale confluirà all’interno della raccolta Maschere nude che raccoglie quarantatré opere. Diverse dal teatro contemporaneo dannunziano improntato all’uso seducente della parola, le opere di Pirandello mettono in scena degli Amleto in panni borghesi, che filosofeggiano sulla vita, si pongono domande, cercano una verità e spesso si trovano in una situazione di scacco. Lo scrittore agrigentino cercherà anche di fondere pubblico e palcoscenico con l’abolizione della quarta parete, il sipario, che coinvolgerà gli spettatori all’interno della finzione scenica.

Fin da giovane Pirandello scrive drammi teatrali, ma la notorietà internazionale arriva tardi con la rappresentazione dei Sei personaggi in cerca d’autore nel 1921.

Quando il dramma I sei personaggi in cerca d’autore viene messo in scena non viene compreso. Se riscopriamo recensioni e possibili interpretazioni dell’opera nei decenni successivi, per lo più si incontrano letture dal punto di vista meta teatrale, si utilizza la distinzione tra persona e personaggio, si parla di critica al teatro borghese e ancora di riflessione sull’incomunicabilità tra gli esseri umani. Nella prefazione apposta all’edizione del 1925 Pirandello scrive: «Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati».

Sei personaggi (il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto, la bambina) si presentano al capocomico pretendendo che venga rappresentato il loro dramma. La loro storia è, infatti, stata scritta, ma non è stata rappresentata. L’autore li ha abbandonati dopo averli creati. Il padre esclama: «L’autore che ci creò, vivi, non volle, poi, o non poté materialmente metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto […] perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo può ridersi anche della morte. Non muore più!». Più avanti ancora, rivolgendosi al capocomico che vuole il copione, insiste: «Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!». L’uomo ha urgenza di vita, non vuole solo esistere, ma vuole vivere, profondamente e drammaticamente vivere, con entusiasmo.

A causa della loro insistenza il capocomico dapprima interrompe la rappresentazione dell’opera in corso, poi chiede alla strana nuova compagnia di dare indicazioni agli attori sulla rappresentazione del loro dramma. Dopo aver mostrato insofferenza per la mancata corrispondenza della recita alla loro storia, i personaggi pretendono e ottengono di essere loro stessi a recitare o meglio a vivere. Sulla scena i sei personaggi così mettono in scena la loro storia.  Scopriamo che un uomo (padre) ha sposato una donna (madre) generando un figlio. Col tempo, però, scema l’amore tra i due sposi. Innamoratasi del segretario del marito, la madre si allontana dalla famiglia per costituire un’unione col nuovo amante. Da questa nasceranno tre figli (la figliastra, il giovinetto, la bambina). Dopo alcuni anni muore il segretario. Trovatasi sola con l’onere del sostegno dei figli, la madre ritorna al paese del primo marito senza dirgli nulla. La figlia maggiore (figliastra) inizia a lavorare nell’atelier di Madama Pace su suggerimento della madre. Lì ben presto per arrotondare si trova a fare la prostituta. Un giorno, però, si presenta come cliente il primo marito della madre. L’incesto è impedito solo all’ultimo momento. A questo punto, forse preso dal rimorso o dal desiderio di risarcire in qualche modo la famiglia, il padre accoglie in casa la ex-moglie e i tre figli non legittimi. Si crea, però, nella casa un clima surreale, di forte disagio. La convivenza è, infatti, un motivo di ricordo costante dei due drammi familiari. La figliastra, il fanciullino e la bambina hanno perso il padre (segretario), ma non riescono a vedere nella nuova figura maschile un personaggio paterno. La tragedia è alle porte. Un giorno il fanciullino, dopo aver trovato la sorellina annegata in una vasca, si spara un colpo di rivoltella e muore. Il pubblico pensa che sia solo una finzione teatrale, ma non è così. La tragedia si è compiuta davvero.

Al di là delle molteplici interpretazioni che sono state date al testo, ci sembra che la chiave di lettura più efficace sia quella profetica. Il genio di Pirandello aveva percepito nei primi decenni del Novecento la perdita della figura del padre nella cultura contemporanea e ne descrive le tragiche conseguenze. Nella conclusione del dramma Pirandello anticipa il baratro e l’istinto autodistruttivo che attirano l’uomo contemporaneo.

Nell’opera compaiono alcuni segnali interni che permettono di comprendere chi sia l’autore che ricercano i personaggi. La storia raccontata è, infatti, quella di un padre assente e di personaggi che non riescono a vivere, perché sono stati abbandonati dal loro «autore». Pirandello mette a tema una delle perdite più drammatiche dell’epoca contemporanea. L’anatema che grava sull’uomo contemporaneo è pesante. L’umanità senza padre (tradizione, radici, origine, Dio) perde la sua identità e smarrisce la strada. Rischia, così, l’autodistruzione. Senza padre la bambina e il bimbo si suicidano. La gioventù odierna (non tutta, fortunatamente) cerca spesso il sonno e la distrazione, nel peggiore dei casi l’annientamento e l’autodistruzione nella forma di suicidi palesi o celati (droghe, alcool, corse spericolate, …). Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovanissimi. La prima causa di mortalità è rappresentata dagli incidenti stradali che nascono spesso da una volontà di rischio, di trasgressione, di annichilimento. L’incidente stradale è spesso un suicidio travestito. Senza padre, oggi, i giovani perdono l’energia vitale, appaiono abulici, sempre più inetti e incapaci ad affrontare la sfida della realtà.

Qual è l’autore di cui abbiamo tutti bisogno perché la nostra esistenza si tramuti in vita, perché noi possiamo vivere, compierci, realizzarci? Il padre/autore di cui tutti abbiamo bisogno può essere anche interpretato come il maestro o addirittura Dio, è Lui che cerchiamo. Questa è la stessa conclusione a cui è arrivato lo scrittore e drammaturgo Giovanni Testori che tra l’altro ha scritto un’opera teatrale dedicata ai Promessi sposi sull’impalcatura dei Sei personaggi in cerca d’autore pirandelliani, ovvero I promessi sposi alla prova,  nella cui conclusione l’autore presenta la necessità per ogni uomo di avere un maestro. Dando una sua personale interpretazione all’opera teatrale di Pirandello, Testori arriva poi ad affermare che l’autore di cui i personaggi sono alla ricerca è Dio, cancellato dalla cultura odierna. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 21-12-2014)

9 – Così l’utopia del mondo perfetto muore nella violenza

Nell’opera teatrale La nuova colonia Pirandello ci racconta in modo paradigmatico le conseguenze nefaste dell’utopia socio – politica di costruire ex-novo un mondo «buono e giusto». Il testo teatrale appartiene alla «trilogia del mito» (Lazzaro, La nuova colonia, I giganti della montagna), tre opere in cui il drammaturgo negli ultimi anni della sua vita (dal 1928 al 1936) cerca di individuare alcune verità, di fissare alcuni punti di riferimento nell’ambito sociale, religioso e artistico.

Alcuni diseredati, desiderosi di sfuggire al sistema iniquo della società, in cui prevaricazioni, sfruttamento, subordinazioni, potere ed egoismi dominano i rapporti personali, decidono di trasferirsi su di un’isola vulcanica deserta, sicuri che, in una palingenesi, ripartendo dall’origine, lontani dalla civiltà e dal progresso, in uno stato di natura primigenio, si possa costruire un mondo equo e perfetto.

Capo di questi uomini è Currao. Al suo fianco compare La Spera, prostituta che nella maternità ha riscoperto la propria dignità e la propria femminilità. Tutti partono col desiderio di vita nuova  e di una fratellanza che non hanno trovato nella città di origine. Leggiamo questo dialogo:

«Papìa: … Ci sto anch’io! Ho sete anch’io di vita nuova! ….

Currao: Finiamola con le liti!  ….

Quanterba: Si va tutti all’isola!

Fillico e trentuno: All’isola! All’isola!  …

Osso di Seppia: O a fondo o resuscitati!  …

Il riccio (ironico): Tutti fratelli! – Dai! Dai!….

La Spera: Vado a prendere il mio bambino.

Ciminudù: Ma no, che fai? Non l’hai a balia?

La Spera: Vuoi che lo lasci qua? Lo porto via con me!».

È da un desiderio buono che inizia l’avventura di questi uomini disperati, che nella vita hanno conosciuto solo miseria e disperazione. Nel contempo, il germe della distruzione  è già presente fin dall’origine, fin dalla partenza, in quanto i protagonisti partono da un’idea che hanno in testa e che è dimentica della realtà dei fatti,  della vera natura dell’uomo, della sua potenzialità di male, degli abissi di orrore e di distruzione di cui l’uomo è capace. Quando l’uomo si dimentica della sua natura, anche i propositi più buoni si tramutano in violenza e abisso di morte per imporre quell’ordine buono di cui l’uomo da solo non è capace.  È qui incarnata quell’utopia sociale dimentica che il male non viene dal di fuori, dalla società, ma dal di dentro, cioè dal cuore dell’uomo.

Sono parole che, del resto, già la grande scuola di umanità che è il Vangelo ci ha insegnato:«Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a  finire nella fogna?… Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo» (Marco, 7, 18-22).

Dopo poco tempo, tutto si ricostituisce come prima. C’è chi vuole imporsi con la forza. C’è chi vuole arricchirsi rubando o saccheggiando tra le rovine. C’è chi si rende subito conto che sull’isola, nel nuovo mondo, nulla è cambiato, e chi, invece, si illude che altrove, su questa terra, l’animo dell’uomo possa essere diverso, immune dal male. È questo il caso di La Spera, colei che sembra la redenta per eccellenza dal nuovo inizio e che, non a caso, è presentata spesso in maniera statuaria come fosse un gruppo scultoreo di una donna col bambino, appunto una nuova Eva, quindi una Madonna.

Gli intenti di comando e di potere vengono ammantati di buone intenzioni  e presentati sotto il falso nome della carità. È l’emblema dell’uomo che vuole mostrarsi agli altri buono, che non si pone più il problema della felicità, ma vuole fare la guida, fare il capo, il moralizzatore.

Questi diseredati che erano partiti per non stare più sotto la legge, si ritrovano ora sotto l’arbitrio di ciascuno o soggiogati dalla «ragione del più forte». Dopo un po’ di tempo sbarcano sull’isola altri uomini che portano con sé tante donne. La scena è assai emblematica e allusiva. L’arrivo di così tante donne segnerà un cambiamento anche nel modo in cui gli abitanti dell’isola si rapportano con La Spera, la redenta dal viaggio e dalla maternità. Trattata in un primo tempo con rispetto, quasi come simbolo della nuova vita e del nuovo corso, ritorna ora ad essere considerata la donna di tutti. La figura richiama, così, il primo peccato, il peccato originale e non a caso, quasi a voler sottolineare l’acquisita consapevolezza dell’impossibilità di un nuovo Eden! Si presti, infatti, attenzione a questa scena:

«Osso di seppia: L’hai indovinata, furbacchione, a portarci le donne!

Burrania: Appena le abbiamo viste sulle paranze!

Crocco: Eh, lo sapevo! – Ma persuaderli – padri e fratelli e mariti – a portarle (rivolgendosi a Papia) non è stato mica facile, sai? È che ho dipinto a tutti quest’isola come il paradiso terrestre.

Osso di seppia: – sì, dopo il peccato originale! -» .

L’Eden riconquistato si mostra per quello che è, il Paradiso che è stato perduto per sempre. Nuovi sistemi di forza sono imposti, un nuovo ordine è stato stabilito. Anche nel nuovo mondo non si può sradicare il male. La remissione dei peccati è, infatti, un grande miracolo e non è dell’uomo.

Nell’incontro con Padron Nocio, Currao lo accusa di aver portato sull’isola tutti i vizi della città, le donne e il denaro («Il bene, padron Nocio, è difficile a farsi; è troppo facile il male»). Il proposito di rifondazione generale della società può degenerare in una violenza inaudita. In maniera simbolica l’isola rischia addirittura di sprofondare per i canti, i balli e i tripudi dei nuovi arrivati. Fuori di metafora, l’umanità, dimentica del peccato originale e non realista, è a rischio di autodistruzione.

Il terzo e ultimo atto  si apre con i preparativi di una grande festa: sembra lo scenario biblico che precede il diluvio universale. Si allestiscono i festeggiamenti per la celebrazione di finti matrimoni. La Spera è disprezzata e reietta come all’inizio dell’opera. Alcuni marinai confabulano tra loro con l’intento di ritornare a terra, perché sull’isola«non c’è più né Dio, né legge». Il nuovo mondo, l’utopia sociale, si rivela per quello che è davvero, un luogo fuori dal mondo, l’Inferno in terra: è il mondo creato dall’uomo che ha eliminato Dio e si è eletto guida e capo e Dio stesso («Fuori del mondo, dicono! E così è davvero! Mi par d’essere all’inferno»).

Alla fine Currao abbandona La Spera e viene accusato di voler diventare padrone di tutto. Si assiste ad un corteo con finti sposi, tra musiche e balli in cui nessuno riesce a godere del divertimento che si aspettava. Su istigazione, La Spera accusa Currao di voler uccidere Dorò. L’opera si conclude con i violenti litigi finali che vengono sommersi dal terremoto che ingoia l’isola. Solo spunta fuori dal mare uno scoglio su cui ha trovato la salvezza La Spera con il figlio.

La nuova colonia è il paradigma delle ideologie che hanno imperversato nel secolo scorso, più in generale di tutte le ideologie che hanno pensato di progettare una risposta al problema umano, non partendo da uno sguardo realista sulla natura umana, ma da un’idea, da un sistema costruito a tavolino. (Pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 28-12-2014)

10 – Solo la carità ricostruisce le ferite dell’io

In un testo teatrale del 1928, sconosciuto ai più, il Lazzaro, Pirandello mette a tema Cristo/carità, quell’«amore che comprende e sa tenere il giusto mezzo tra ordine e anarchia, fra forma e vita», quell’amore che sa risolvere il conflitto e la frantumazione umani e ridare finalmente unità all’io.

Protagonista del dramma è Diego Spina, che ha cresciuto i figli con una rigida educazione moralistica, rivolta più all’altra vita che a questa. Il figlio Lucio già a sei anni si ritrova in seminario per diventare prete. Non concorde con questa impostazione educativa, la moglie Sara lascia il marito e dalla nuova relazione con il fattore di campagna Arcadipane avrà due altri figli. La scena si movimenta quando Lucio ritorna a casa dopo anni di seminario, perché ha deciso di non seguire la strada imposta dal padre che, nel frattempo, vuol far costruire un ospizio nella sua tenuta, proprio là dove l’ex-moglie risiede con il nuovo compagno. La decisione di Diego comporterà evidentemente la scacciata di Sara e di Arcadipane. Quando Diego viene a sapere della scelta del figlio Lucio, si butta sotto una macchina e muore.

Dopo l’accertamento della morte da parte di due medici, Diego riprende a vivere. Il fatto, però, gli fa perdere la fede, perché egli non ricorda nulla di quanto c’era nell’aldilà, segno per lui che non esiste l’altra vita.

Lucio, invece, vede nell’accaduto l’intervento di Dio, recupera la fede e decide di ritornare in seminario. Alla sorellina Lia confida: «C’è, ci deve essere! […] Ridare le ali a chi sono mancati i piedi per camminare sulla Terra […]. Ora intendo e sento veramente la parola di Cristo: Carità. Perché gli uomini non possono star tutti e sempre in piedi, Dio stesso vuole in terra la sua casa che prometta la vera vita di là […]. Ora mi sento degno di nuovo di rindossare l’abito per il divino sacrificio di Cristo e per la fede degli altri». La carità proviene da questa consapevolezza del grido e della spaccatura che albergano nel cuore dell’uomo e della grazia (gratuità assoluta) che è Cristo per la nostra vita. Non cogliendo più le ragioni di nulla, Diego sente ormai di poter commettere qualsiasi azione (le sue parole riecheggiano quelle di Dostoevskij: «Se Dio non c’è, tutto è permesso!») e cerca, così, di vendicarsi di Arcadipane sparandogli. Ma lo ferisce solo lievemente. Ora Lucio sarà lo strumento di Dio che ridarà la fede al padre. Gli spiegherà che Dio può non concedere all’uomo che ritorna in vita di ricordare quello che ci sia nell’aldilà. Lo distoglie da una logica razionalistica che pretenderebbe di giudicare e comprendere totalmente le vie di Dio con la nostra ragione e lo accompagna a una visione più profonda nella fede dicendogli: «Tu avevi chiuso gli occhi alla vita credendo di dover vedere l’altra di là. Questo è stato il tuo castigo. Ora devi vivere la vita e lasciarla vivere agli altri […]. Se ora questo tuo male io l’accetto e lo sento, lo sento come un bene, come un bene per me, questo è Dio, vedi».

Il padre allora chiede a Lucio che cosa debba fare. «Vivere in Dio nelle opere che farai. Alzati e cammina nella vita», gli risponde il figlio. Lucio esorterà, poi, anche la sorellina Lia, paralitica, a rialzarsi. Nella sorpresa di tutti lei riprende a camminare. L’uomo può sempre rialzarsi solo in virtù di una presenza. Lucio, Diego, Lia e tutti coloro che hanno assistito a questi fatti sono stati investiti dalla totale carità dell’Essere. La carità è la legge della realtà e, nel contempo, la legge profonda del cuore dell’uomo. Per questo motivo l’uomo trova una soddisfazione nell’adesione a questa profonda legge dell’Essere, perché la legge del cuore coincide con la legge del reale. Quell’amore che ci è stato spesso presentato in forma moralistica, come imperativo categorico, appartiene, invece, all’ontologia. L’amore non è un’imposizione esterna a cui ci si deve adeguare. L’uomo è chiamato a verificare attraverso la propria esperienza questa soddisfazione profonda, questa corrispondenza tra il cuore e la legge della realtà. Senza questa verifica l’amore sarà sempre percepito come un optional da rispettare solo per essere buoni. L’amore/carità non è un’alternativa, senza la carità nulla vale.

Cristo/carità è la Presenza che sa ridare un’unità alla persona umana frantumata, scissa, presa da mille preoccupazioni e animata da molteplici interessi che non sanno acquietare il nostro desiderio di felicità e di amore. Lo ha capito Luigi Pirandello, geniale interprete di quell’epoca contemporanea in cui il relativismo di stampo culturale, etico ed estetico ha portato all’affermazione di un uomo che si vede scisso come se fosse davanti a uno specchio rotto in centinaia di frammenti. (Pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 4-1-2015)

11 – Il dramma della vita e dell’amore non vissuti

L’Enrico IV è il dramma pirandelliano più importante insieme ai Sei personaggi in cerca d’autore, scritto nello stesso anno, il 1921. Viene rappresentato per la prima volta il 24 febbraio del 1922 al Teatro Manzoni di Milano, ricevendo fin da subito il plauso della critica, tanto che Renato Simoni scrive dopo la prima: «La cronaca […] è lietissima: un pubblico a volte sorpreso, a volte incuriosito, a volte commosso ed esaltato, e, dopo due o tre scene, interamente conquistato. Era in tutti gli spettatori la coscienza che assistevano a un’opera che si poteva amare o non amare, ma che, comunque, aveva un valore insolito, una chiusa potenza, talora oscura, talora solo balenante, spesso chiarentesi con un’originalità audace e pur terribilmente ragionevole».

Un dramma, quindi, non semplice, ma geniale, che fin da subito colpisce per originalità della situazione, per sorprese, colpi di scena e suspence, in cui l’apparenza e la realtà si mescolano in una commistione che non lascia intendere al pubblico fino alla fine quale sia davvero la verità. Tradotto in diverse lingue, ottiene ben presto successi in Europa e nel mondo tanto da riscuotere l’interesse della nuova arte nascente, il cinema, con la versione del 1926.

In una lettera del 1921 Pirandello spiega l’antefatto che sta all’origine della presunta pazzia del protagonista: «Circa vent’anni addietro, alcuni giovani signori e signore dell’aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una “cavalcata in costume” in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s’era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell’epoca. Uno di questi signori s’era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, s’era dato la pena e il tormento d’un studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese ossessionato». Alla festa di carnevale Enrico IV si presentò in compagnia della fidanzata, che a sua volta impersonava Matilde di Canossa. Caduto da un cavallo imbizzarrito per colpa di Belcredi, suo rivale in amore, dopo aver battuto la testa, svenne e si risvegliò convinto di essere davvero il celebre Imperatore. Allora, i parenti favorirono la finzione, vennero addirittura assunti servitori e paggi che popolassero quella villa trasformata in corte. Intanto la vita proseguì per tutti. La fidanzata Matilde, divenuta amante di Belcredi, ebbe una figlia, di nome Frida.

Così capiamo le ragioni per cui vent’anni dopo gli antefatti appena raccontati il protagonista dell’opera appaia ancora in scena paludato con i costumi di Enrico IV, l’imperatore di Germania che si umiliò dinanzi a papa Gregorio VII, a Canossa nel 1077. Un giorno, si presentano alla corte il nipote Carlo di Nolli, Belcredi, Matilde, Frida e un medico con il piano di suscitare in Enrico IV uno choc che possa ricondurlo alla normalità. Il presunto pazzo è, in realtà, già rinsavito da otto anni, ma ha deciso di interpretare una parte, di fingere. Di questo il pubblico viene a conoscenza solo nel secondo atto, quando Enrico IV è a colloquio con i paggi e lo rivela loro. Dopo anni di pazzia, egli ha, quindi, recuperato la coscienza, accorgendosi che per tutti la vita è continuata, tranne per lui che si è cristallizzato nella forma, statica, non viva. Questo è il piano per provocare lo choc in Enrico IV. Vogliono fargli credere che dal quadro si materializzi il fantasma di Matilde di Canossa, incarnata da Frida, in tutto e per tutto simile a com’era l’amata di Enrico IV vent’anni prima. Enrico IV dapprima confessa la sua guarigione, poi stigmatizza come pazzi gli ospiti recatisi da lui con quel piano, infine trafigge il rivale in amore Belcredi. A questo punto, per fuggire dalla prigione, opta per interpretare una parte per tutta la vita, quella del pazzo.

L’opera è complessa e si presta a molteplici interpretazioni. Se tralasciamo la lettura ermeneutica metateatrale, ci interessa in particolar modo soffermarci sulla somiglianza tra vita e teatro tipicamente pirandelliana. Il protagonista rappresenta l’emblema dell’uomo che non vive davvero, ma interpreta una parte. Il tentativo di eliminazione del rivale Belcredi da parte di Enrico IV documenta il desiderio di annientamento di colui che ha scelto per la vita, quasi a voler indicare che è impossibile vivere davvero. Il teatro coincide con la vita, non c’è davvero differenza tra vita e teatro, proprio perché per l’uomo è impossibile partecipare in maniera vera al flusso pieno della vita. Tutti assistiamo ad uno spectaculum, vi prendiamo parte, magari anche da protagonisti, senza, però, davvero essere autonomi nelle decisioni, che per lo più subiamo come il protagonista del dramma che si ritrova in una forma, senza aver potuto amare la donna che avrebbe voluto sposare. Enrico IV «non uccide certo un rivale in una contesa di gelosia, ma il proprio doppio degradato, figura di quell’altra possibilità che è la vita goduta al prezzo di un insopportabile decadimento» (E. Gioanola).

La vita fugge, il tempo scorre e l’uomo, quando ne prende coscienza, scopre l’invecchiamento e la morte.  «Forte come la morte è l’amore», recita il Cantico dei cantici, ma ad Enrico IV l’amore è negato e per questo lui ha paura della vita. Solo l’esperienza del perdono e della misericordia, solo lo sguardo amorevole di una persona che ci abbracci possono ridestare in noi l’entusiasmo per la vita e la sorpresa per il dono della realtà. Ma nessuno, in vent’anni, ha il coraggio di raccontare a Enrico IV la verità, tutti sono acquiescenti e favoriscono in lui la cristallizzazione della forma, tutti hanno per tanti anni quasi paura che lui possa scoprire la verità, fino all’atto finale che porterà alla tragedia conclusiva. Per questo, Enrico IV è il personaggio più tragico di Pirandello, colui che ha sempre cercato un luogo e una forma nobile e ideale, che ambisce ad appartenere ad una storia grande e imperiale, si convince per tanti anni di averla trovata fino a prendere coscienza che tutto è in realtà un’illusione, una finzione.

Ci si può trovare alla fine scoprendo di non aver mai vissuto. Enrico IV esclama rivolto a Belcredi, pochi istanti prima di ferirlo: «Li (i capelli) ho fatti grigi qua, io, da Enrico IV, capisci? E non me n’ero mica accorto! Me n’accorsi in un giorno da solo, tutt’a un tratto, riaprendo gli occhi, e fu uno spavento, perché capii subito che non solo i capelli, ma doveva essere diventato grigio tutto così, e tutto crollato, tutto finito: e che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell’e sparecchiato».

12 – Il treno ha fischiato, la realtà finalmente si svela

Pirandello scrisse novelle per tutto l’arco della vita, pubblicando ben quindici tomi di quindici novelle ciascuno che costituiranno poi due volumi dal titolo significativo di Novelle per un anno, editati postumi nel 1937, naturalmente rivisitati e corretti, con un’appendice di venticinque novelle inedite. Il progetto complessivo di Pirandello doveva comprendere ben ventiquattro libri di quindici novelle in modo da coprire tutti i giorni dell’anno.

Le novelle costituiscono una fucina in cui lo scrittore lavora materiale grezzo che sarà poi pronto per essere utilizzato in altri ambiti (teatrale o romanzesco). Ricordiamo, a titolo di esemplificazione, quella stupenda novella «La signora Frola e il signor Ponza suo genero» che diverrà più tardi l’opera teatrale Così è (se vi pare).

Spesso la misura breve della novella si presta alla rappresentazione di un caso particolare della vita e di un personaggio. Il protagonista è, talvolta, oggetto di parossismo formale, per così dire crocefisso ad una forma, che è il punto di vista delle persone che gli stanno attorno al di fuori del quale lui non può vivere. Il suo destino è quello di accettare questa forma se vuole appartenere alla comunità ed esistere nel consorzio umano, anche se questo non significa vivere, cioè trovare il proprio spazio e la propria vera dimensione. Sarà il caso, come vedremo, di Andrea Chiarcaro, protagonista della novella «La patente», deformato in maniera caricaturale-grottesca come uno iettatore che si presenterà davanti al giudice a chiedere la certificazione di quelle doti che tutti gli riconoscono e attribuiscono.

Altre volte, compare nelle novelle la speranza che l’uomo possa trovare nella realtà la strada per riprendere a vivere e scoprire la vera identità. È il caso di «Il treno ha fischiato» e di «Ciaula scopre la luna».

La realtà c’è, è un dato che esiste prima di noi. La realtà ci provoca, ci suggestiona, ci sollecita, ci suggerisce un Mistero che sta oltre il sensibile e il visibile. Ci affascina con la sua bellezza purché noi la guardiamo con stupore e meraviglia, anche quando siamo immersi in problemi e portiamo pesanti croci. Talvolta, però, ci si dimentica che la realtà esiste, non ci si stupisce più e allora la monotonia e le difficoltà quotidiane ci schiacciano. Così accade a noi quanto è accaduto a Belluca, protagonista della novella pirandelliana «Il treno ha fischiato».

La narrazione inizia in medias res. Alla fine di una giornata di lavoro l’impiegato Belluca sembra impazzito. Al capo che gli chiede conto del lavoro svolto durante la giornata, Belluca risponde che «il treno ha fischiato». Tutto l’ufficio non può trattenersi dalle risa di fronte allo strano atteggiamento dell’impiegato. Questa è la comicità, quella risata irrefrenabile e irrispettosa di fronte a ciò che avvertiamo come contrario a quanto noi ci aspetteremmo («avvertimento del contrario» lo chiama Pirandello nel saggio L’umorismo). Il narratore, però, avverte che per chi avesse conosciuto bene Belluca quell’atteggiamento era quanto di più naturale potesse accadere: «Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita». Tornato a casa dall’ufficio, Belluca doveva accudire tre donne cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera, che volevano essere servite. Per sfamare tutte quelle bocche, terminata la cena, si procurava altro lavoro per la sera.

Per questo di fronte alla reazione di Belluca in ufficio non c’era proprio nulla da ridere. «Assorto nel continuo tormento di quella sciagurata esistenza […] senza mai un momento di respiro […] s’era dimenticato da anni e anni […] che il mondo esisteva». Un giorno, sdraiato sul divano, aveva sentito fischiare il treno «ed era corso col pensiero dietro a quel treno […]. C’era  fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava,… Firenze, Bologna, Torino, Venezia, […]. Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, […]. Ora nel momento medesimo ch’egli qua soffriva c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste…». Ora che qualcosa è accaduto nella sua vita, Belluca riprende a guardare la realtà e non tornerà più indietro. Sarà cosciente che la circostanza angusta in cui viviamo non definisce la nostra persona. C’è una realtà sorprendente e bella, ben più grande attorno a noi dalla quale noi possiamo attingere l’energia e l’entusiasmo per ripartire e affrontare la quotidianità. Ci sovvengono le parole che Papa Giovanni Paolo II rivolge agli artisti nel 1999 spiegando loro che la bellezza infonderà sempre quello stupore e trasmetterà quell’entusiasmo che permetteranno di rialzarsi e di ripartire. Rivolgendosi ancora agli artisti nel 2009 Benedetto XVI scrive che «speranza è vera figlia di bellezza». Questo è quanto accade a Belluca, che d’ora innanzi, dopo aver chiesto scusa al capoufficio e aver ripreso il lavoro precedente, non si dimenticherà mai della realtà sorprendente che esiste vicino e lontano da lui.

Ora il lettore guarda al protagonista con un sentimento nuovo, con un sorriso benevolo, che abbraccia l’umanità e il limite altrui, che cerca di comprenderne le fatiche, le stranezze, le ragioni di un comportamento che è distante dalle aspettative.

Questo è il sentimento del contrario, ovvero l’umorismo. Tra tutte le gradazioni del comico (ironia, satira, grottesco, sarcasmo, parodia, parossismo formale, …) l’umorismo è quella più benevola, la più commossa e pietosa, la più inspirata a quell’abbraccio amorevole della realtà che tutto guarda e tutto valuta con un giudizio che non cancella e non censura nulla. L’umorismo prende in considerazione tutti i fattori del reale, coglie i limiti delle situazioni e delle persone. Confronta tutto il reale con l’ideale e, pur avvertendo il limite della realtà, continua ad amarla.  L’umorista, a detta di Pirandello, vede «il mondo se non proprio nudo in camicia: in camicia il re». Proprio questa profonda intelligenza del reale che coglie la frantumazione dell’io contemporaneo si può aprire alla domanda di Qualcuno che risani la ferita dell’uomo.(Pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 18-1-2015)

13 – La luna di Ciàula: lo stupore della realtà riscoperta

«Ciàula scopre la Luna» è una delle più belle novelle di Pirandello. Anche il protagonista di questa novella fa la stessa scoperta sulla bellezza della realtà che ha fatto Belluca, personaggio de «Il treno ha fischiato».

Costretto a lavorare in miniera per tante e tante ore, fin da piccolo Ciàula aveva provato paura per il buio della notte. Lo avevano soprannominato Ciàula per il verso della cornacchia «cràh! Cràh!» che imitava alla perfezione. Lui, che era scarno e quasi ischeletrito, si vestiva con una camicia e un panciotto largo e lungo, gli unici indumenti che avesse. Lavorava spesso anche la notte, «laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso». Per il suo padrone zi’ Scarda, se non fosse stato per la stanchezza e per il sonno, non avrebbe fatto alcuna differenza lavorare tutto il giorno.

Ciàula si muoveva «cieco e sicuro» nelle «viscere della montagna» come se fosse «dentro il suo alvo materno». Non aveva paura del buio della miniera. «Aveva paura, invece, del bujo vano della notte», perché non lo conosceva. «Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pesta­vano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede. La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio». Allora aveva rotto la sua «lumierina di terracotta» e quando era uscito nella buia notte senza la sua luce aveva provato tanta paura che si era messo a correre «come se qualcuno lo avesse inseguito».

Un giorno, ritornato in superficie dopo l’estenuante fatica, «restò […] sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».

La scoperta della Luna è la rivelazione di una presenza che è più grande di noi e che esiste a prescindere dalla nostra consapevolezza. Si può vivere senza cogliere la bellezza che ci circonda, senza palpitare di meraviglia. Ora Ciàula si rende conto che nessuna fatica, nessun limite, nessuna circostanza ci definiscono e ci schiacciano. Quando si è pieni di stupore, anche la fatica non si sente più.

La sorpresa più grande per un adulto che guardi un bimbo di fronte alla realtà è osservarlo mentre si sofferma stupito, pieno di domanda e di curiosità. Tutto è nuovo per lui, sorprendente e interessante e desta in lui un sorriso. Un bimbo vuole dare un nome alle cose che incontra proprio come Adamo che ha dato un nome alle bestie e così ha stabilito la sua sovranità su di esse.

L’atteggiamento di stupore proprio del bambino rappresenta l’impeto dell’uomo che entra con curiosità nell’avventura della realtà per conoscerla. Proprio questo stupore è l’atteggiamento da cui nasce la filosofia. Il fascino che la realtà desta diventa il mezzo che attira e che cattura il bambino tanto da far sorgere in lui le domande: «Che cos’è questo oggetto? Come si chiama? A che cosa serve?». La conoscenza avviene attraverso la creazione di un legame con l’oggetto incontrato fino al desiderio di comprendere il suo fine e la sua utilità. Senza questo stupore tutto diventa inutile e insignificante. Per questo si può correttamente affermare che solo lo stupore conosce.

Questa facoltà di sorprendersi è l’atteggiamento della giovinezza che può permanere nel cuore, anche quando l’età avanza. La giovinezza è, infatti, una dimensione dello spirito, un atteggiamento del cuore, non un dato anagrafico. Ci sono cuori che vivono pieni di domanda e di attesa e altri che, già a vent’anni, non si aspettano più nulla. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana del 25-1-2015)

14 – Quando la vita è un inferno. Il caso dello iettatore

Come appare chiaro nella novella Il treno ha fischiato, la gradazione umoristica ha il dono di liberare dalla forma o meglio di abbracciarla mostrando come essa non sia cifra definitiva dell’io, non lo imprigioni in maniera irreparabile. L’apparire in un certo modo ha una ragione d’essere nella storia e nella vita della persona che è ben più complessa di quanto appare. L’umorismo sa comprendere le ragioni profonde del disagio dell’io. Non sempre, però, l’uomo è capace di guardare gli altri con il rispetto tipico dell’umorismo. Ben più spesso l’io è definito e incastonato da chi osserva in una forma e in un modo di essere. Pensiamo a tanti personaggi presentati nelle Novelle per un anno, ad esempio al Rosario Chiarchiaro de La patente (1911).

Il giudice D’Andrea non dormiva più la notte, rivolgeva gli occhi alle stelle e pensava. Lui, che di giorno doveva avere delle certezze, di notte si rendeva conto che l’unica base sicura da cui poteva partire era quella di sapere di non avere verità. Pensava la notte per essere puntuale nelle sentenze, ma le sue riflessioni erano del tutto contrarie a quelle del giorno. E questo era un paradosso per uno come lui che doveva emettere sentenze e stabilire da che parte stesse la verità. «Non era ancor vecchio; poteva avere appena quarant’anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D’Andrea».

Da alcune settimane meditava su un processo iniquo che coinvolgeva Rosario Chiarcaro. «Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro alla quale un pover’uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lì in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e sissignori – la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, l’iniquità di cui quel pover’uomo era vittima». Il giudice D’Andrea non poteva parlare con nessuno del caso Chiarchiaro, perché appena pronunciava quel nome subito gli veniva intimato di starsene zitto e l’interlocutore cercava una chiave da toccare o qualcosa d’altro, perché riteneva che anche solo quel nome portasse iella. Tutti ormai facevano gli scongiuri quando Chiarchiaro passava, perché era, così almeno tutti lo ritenevano, uno iettatore. La sua fama era universalmente conosciuta e tutti, ma proprio tutti, avrebbero potuto testimoniare al riguardo. Ebbene, un giorno, stanco dell’atteggiamento dell’intera cittadinanza che lo aveva crocefisso a una forma, Chiarchiaro si era ribellato e aveva querelato i primi due cittadini che avevano fatto gli scongiuri al suo passaggio.

Per non dare spettacolo di fronte a tutto il paese il giudice D’Andrea decise di convocare Chiarchiaro. Il pover’uomo gli si presentò dinanzi con una «una faccia da iettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; si era insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti». Chiarchiaro aveva deciso di assumere la forma che tutti i concittadini gli avevano attribuito, ma il giudice, sorpreso, lo redarguì e lo rimproverò per quella messa in scena. Allora, Chiarchiaro lo minacciò di mettere in atto le sue arti di iettatore per convincerlo. Il giudice dimostrò di provare anche lui, nel suo intimo, la convinzione che era di tutta la cittadinanza. Chiarchiaro non solo ritirò la querela nei confronti dei due che lo avevano denigrato, ma pretese addirittura che gli venisse rilasciata la patente dello iettatore.

Al giudice che gliene chiedeva ragione rispose: «Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice, mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione del iettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo!». D’ora innanzi sarebbe stato pagato perché non gettasse il malocchio contro gli altri, perché se ne andasse dalle botteghe, dalle fabbriche, perché la cittadinanza potesse rimanere sana. Tutti gli avrebbero pagato la tassa della salute.

Una volta ancora il genio di Pirandello racconta una storia paradossale, incredibile, esagerata per descrivere la consuetudine di molti rapporti umani improntati non al desiderio di conoscersi davvero, ma a convenzioni, stereotipi, luoghi comuni, maldicenze. Nelle relazioni l’uomo spesso parte dai pregiudizi dimenticandosi di incontrare l’altro. L’atteggiamento di domanda stupita è, però, proprio di un uomo che sia interessato al reale, cioè che sia pienamente coinvolto nella vita. Lo stupore non ci fa fermare all’immagine immediata, ma ci sprona ad andare oltre l’apparenza, a cogliere per così dire l’oltranza, il significato, la ragione, la provenienza di ciò che vediamo e che accade. Allora l’atto della conoscenza diventa un movimento e una tensione verso il Mistero che si coglie nella realtà e che si desidera conoscere. Quando è guardata con stupore la realtà viene colta come segno e, in un certo modo, come via veritatis, strada per la verità. Lo sguardo stupito fa cogliere nella realtà un’unità profonda, un Mistero che accomuna tutto. La realtà è simbolica, un’intima bellezza attraversa il mondo.

Il miracolo è questa sorpresa dell’evidenza del senso e del significato, che avviene in un momento, in maniera fugace. Solo lo sguardo attento e aperto può coglierlo. L’istante dopo, quando la realtà può ritornare alla monotonia precedente e allo scialbore, è la memoria del miracolo percepito e riconosciuto a spalancare di nuovo il desiderio che riaccada quanto una volta si è già verificato. Quando, però, lo stupore e la meraviglia lasciano il posto allo scetticismo, al cinismo e alla tristezza, allora può prendere il sopravvento nei rapporti umani una violenza che il più delle volte non è fisica, ma fatta di parole, di gesti, di sguardi. Tutte le volte che guardiamo chi incontriamo senza intravedere il Mistero che è nascosto in lui e lo riduciamo ai nostri pensieri e al nostro giudizio compiamo una violenza inaudita come quella di tutta la popolazione nei confronti di Chiarchiaro. (pubblicato su La nuova bussola quotidiana dell’1-2-2015)

15 – Che cosa ha bisogno l’uomo per ritrovare l’unità perduta?

In tutta la sua produzione Pirandello cerca di mettere in luce il dramma dell’uomo contemporaneo, frammentato, senza certezze, alla ricerca di un Ideale che ricomponga la sua «unità perduta». Proprio negli anni in cui Freud rivoluziona la psicologia, Einstein introduce la relatività, Picasso inserisce la dimensione spazio-temporale nel quadro dando avvio al cubismo analitico, il grande genio di Pirandello descrive la «perdita del centro» (Hans Sedlmayr) da parte dell’uomo, l’avvento del relativismo culturale e l’affermazione dell’homo technologicus. Un autore così, che comprende la cultura contemporanea tanto da anticiparne e coglierne gli sviluppi, non viene certamente compreso dai lettori e dagli intellettuali coevi. Proprio per questo la sua produzione è stata, spesso, ridotta e classificata all’interno di rigide e semplicistiche gabbie.

Nel percorso di questi mesi spero che sia stato sufficientemente dimostrato come l’opera di Pirandello sia attraversata dalla domanda su che cosa sia l’uomo, dove possa trovare la sua autenticità, in qual modo possa vivere davvero e non solo esistere. In poche parole la questione è come la persona possa trovare il suo destino, come il «nomen» possa davvero concretare l’«omen» (che significa «profezia, augurio, destino»). Che cosa può liberarci da quella prima lettera “N” del «nomen» perché si possa trovare il proprio compimento?

Alcuni personaggi intraprendono la strada della ricerca di una libertà eslege, al di fuori di condizionamenti familiari, lavorativi, sociali.

Così, sbarazzatosi del suo nome, Mattia Pascal si tramuta in Adriano Meis, convinto di poter essere artefice del suo destino. Si rende ben presto conto che la sua libertà, che all’inizio gli era parsa senza limiti, può essere chiamata solitudine e noia e lo condanna ad «una terribile pena: quella della compagnia» di se stesso. Arriva a questa conclusione: «Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici? Mi ero stimato felice con la cappa di piombo della menzogna addosso».

Vitangelo Moscarda, invece, dopo aver rinunciato a tutto, al lavoro, alla famiglia, agli averi, approda ad una sorta di annichilimento dell’io, ad una riduzione a puro spirito che si identifica di volta in volta con un aspetto della natura, rinunciando, però, a qualsiasi forma.

Serafino Gubbio, divenuto homo technologicus che comunica attraverso le riprese della telecamera, si riduce alla fine all’afasia e all’incomunicabilità totale.

Sono solo alcuni esempi di personaggi che falliscono nell’impresa di divenire davvero protagonisti della propria esistenza. Che cosa può allora davvero riaccendere l’uomo, far sì che l’io viva pienamente e non semplicemente esista come i molluschi, le farfalle, i ragni?

Ecco che nella vastissima produzione pirandelliana compaiono tracce di risposta.

L’uomo assopito dal trambusto quotidiano, addormentato dalle incombenze e dal divertissement in cui vive, ha bisogno che accada qualcosa che risvegli il suo io, la sua sete di felicità. Lo capiamo dalle stupende novelle «Il treno ha fischiato» o «Ciàula scopre la Luna». L’uomo è come un bambino, che scopre la realtà solo nel momento in cui la guarda con stupore e meraviglia.

E proprio come un bambino ciascuno di noi ha bisogno di un padre, di un autore che gli indichi una strada percorribile. È l’autore che cercano I sei personaggi, è quell’autore che Giovanni Testori, rileggendo il dramma pirandelliano, identifica nel maestro o addirittura in Dio (si veda l’opera I promessi sposi alla prova).

Ancora, poi, nella trilogia del mito, scritta tra il 1928 e il 1936 (anno della morte del drammaturgo), Pirandello tenta di rintracciare la verità nell’ambito socio-politico, in quello artistico e in quello religioso: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna. Consigliamo una rilettura attenta di tutta la trilogia. Nel Lazzaro leggiamo che è necessario «ridare le ali» a coloro a cui «sono mancati i piedi per camminare sulla terra» (speranza), dobbiamo «vivere in Dio le opere che compiamo» (offerta), cercare il «centuplo quaggiù prima che l’eternità» (felicità e salvezza).

Che cosa può ricomporre il dissidio, la lacerazione e il dramma che vive l’uomo? Sentiamo direttamente Pirandello nell’intervista sorprendente che rilascia a Carlo Cavicchioli nel 1936: «Cristo è carità, amore. Solo dall’amore che comprende, e sa tenere il giusto mezzo fra ordine e anarchia, fra forma e vita, è risolto il conflitto». Nella stessa intervista Pirandello si compiace che la sua produzione non sia mai stata ritenuta eterodossa dalla chiesa: «Sono anche lieto che nessuna autorità religiosa abbia trovato da condannare. […] La «Civiltà Cattolica» ne ha parlato a fondo […] e conviene della sua perfetta ortodossia […] Perfetta ortodossia in quanto posizione di problemi. E tali problemi non comportano che una soluzione cristiana». Pirandello ci indica anche dove sia più presente nella sua opera la risposta al problema umano: «Nel Lazzaro do la risposta più netta al dissidio fondamentale del mio teatro». (Pubblicato su La nuova bussola quotidiana dell’8-2-2015)

Giovanni Fighera

da La ragione del cuore

Indice Tematiche

Se vuoi contribuire, invia il tuo materiale, specificando se e come vuoi essere citato a
collabora@pirandelloweb.com

ShakespeareItalia

 

image_pdfimage_print
Skip to content