Pirandello esistenzialista

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Di Roberto Mosena

L’idea che la vita sia un involontario (non richiesto) soggiorno, che sia qualcosa di inspiegabile alla ragione umana, concetto portato ovunque dall’autore, lo pone in linea con certe speculazioni filosofiche dell’esistenzialismo

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Pirandello esistenzialista
Illustrazione di Matteo Sarlo. Da GlobusMag.it

Pirandello esistenzialista

da academia.edu

Il saggio focalizza la sua attenzione sugli aspetti esistenzialistici dell’opera letteraria di Luigi Pirandello. Muovendosi tra poesia e teatro, tra racconto breve e romanzo, Pirandello scrive una sorta di “drammaturgia dell’essere”, sulla quale discute Roberto Mosena partendo da un riferimento all’esistenzialismo europeo del Novecento per arrivare alle recenti acquisizioni della critica pirandelliana, in particolar modo il libro Pirandello in chiave esistenzialista di Roberto Salsano.

Prima di entrare nel merito di questo saggio vorrei tracciare, molto schematicamente, una mappa di riferimenti utili per orientarci in un quadro stimolante, ma certo pure impervio come quello di un discorso che verta intorno a Luigi Pirandello e all’esistenzialismo europeo del Novecento. [1]

[1] Il quadro sarà dunque riferito alla corrente novecentesca dell’esistenzialismo e non ai preziosi incunaboli ottocenteschi, da Giacomo Leopardi a Sören Kierkegaard.

“Esistenzialista” è termine che, come d’altronde molti altri presso il pubblico più ampio, ha subìto in passato un abuso prossimo al fraintendimento. Mi riferisco, nella fattispecie, all’uso che se ne fece dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando questo vocabolo, più che essere impiegato per additare i sostenitori dell’“esistenzialismo”, [2] evocava l’idea di un tipo umano preciso e per alcuni perturbante: il giovane trasandato perdigiorno dei caffè stile Saint Germain des Prés.

[2] Ricordo che il termine «esistenzialismo» era già presente e usato, almeno dopo la comparsa di Essere e Tempo di Martin Heidegger nel 1927.

Questo breve aneddoto di carattere sociolinguistico suggerisce già, al di là del travisamento di significato, proprio la forza di penetrazione che nel grande pubblico ha avuto il pensiero esistenzialista alla metà del secolo scorso.

Si consideri che al centro dell’esistenzialismo c’è anzitutto la parola “esistenza” che, ricordiamolo, deriva dal latino ex, fuori, e sisto, resto, rimango, ossia un composto che rimanda al concetto (estremamente pirandelliano) dell’apparire, cioè della manifestazione (rappresentazione?) dell’io all’esterno. Ne consegue un primo dato di fatto, non secondario: l’esistenza è, prima di tutto, una proprietà degli esseri viventi o animati, cosa differente dal semplice “essere” delle cose inanimate, degli oggetti. Va da sé che esistere nella filosofia esistenzialista significa proiettarsi fuori di sé e agire tramite delle azioni che, secondo quanto ampiamente sostenuto da Jean-Paul Sartre, [3] testimonierebbero della libertà dell’uomo, ritenuta dal filosofo francese il carattere precipuo dell’esistenza che, come recita un suo celebre assunto, «precede l’essenza».

[3] Ne L’Essere e il nulla (1943) Sartre espone la sua dottrina cercando di fissare i fondamenti metafisici dell’esistenzialismo (la libertà assoluta dell’uomo, la transfenomenalità dell’essere), e studiando la condizione umana che vede sospesa, tra il nulla e l’aspirazione all’essere, in uno stato di angoscia e gettata, dunque, in una realtà incerta. Ma di Sartre si ricordino anche testi come La nausea (1938), Il muro (1939), I sentieri dell’essere (1949), dove l’uomo che si confronta con l’assurdità degli eventi esterni, ne ricava un senso generale e profondo di disgusto, di nausea.

La natura dell’uomo, la sua essenza, viene distinta dalla sua esistenza, cioè dal suo dispiegarsi e, evidentemente, dal suo manifestarsi nel mondo attraverso un percorso di scelte libere, ma anche fondamentalmente arbitrarie.

Questa sorta di “oltrepassarsi”, in direzione di un “avvenire”, di un oltre per usare un termine pirandelliano significativo, può portare alla coscienza della morte, alla coscienza della propria finitudine secondo Heidegger, cioè verso la pura angoscia, oppure, in altra direzione, riflettendo sul passato, sulla storia della propria esistenza, può rendere coscienti della “fatticità” dell’essere umano. Altro termine caro ai maestri dell’esistenzialismo, il quale, indicando la contingenza dell’azione e dell’esistenza umana, pur ribadendone la libertà di agire in un destino non predeterminato da leggi esterne, qualifica la nostra vita come inspiegabile, incomprensibile in sé stessa, di fatto lasciando sembrare “vana” ogni azione che, caratterizzandosi proprio per la sua contingenza, ci mette di fronte a un dramma: quello di non essere necessari.

Il fatto di esistere e di scoprire l’esistenza ben dopo essere nati ci porta al fatto di capire che esistiamo, anche se non possiamo spiegarlo; ciò che conduce Heidegger a parlare di Geworfenheit, ovvero della condizione, molto nota, di “essere gettati nel mondo”. [4]

[4] Sono riflessioni che Martin Heidegger elabora nel suo Sein und Zeit (Essere e Tempo) del 1927, dove per catturare il senso dell’essere (sul piano ontologico), avvia una analisi di tipo fenomenologico che punta a descrivere le diverse manifestazioni della presenza umana nel mondo. Nel pensiero di Heidegger, l’uomo, sospeso tra la contingenza dell’esistenza, l’angoscia e il presentimento di un destino di morte, prende coscienza di un nodo fondamentale della sua vita: la finitudine. Concetto che sarà ripreso e rielaborato da Jean Paul Sartre e Karl Jaspers.

Quanto detto sinora ci consente di evidenziare una prima, indubbia, conclusione riguardo l’esistenzialismo. La filosofia esistenzialista si pone in un’ottica che sta agli antipodi rispetto qualunque altro sistema filosofico fondato sul dominio della ragione (cartesiana o meno) e delle idee, di più: l’esistenzialismo, a guardar bene, rappresenta proprio una reazione della filosofia dell’uomo contro le filosofie della ragione e delle idee. [5]

[5] Il quadro dell’esistenzialismo filosofico del Novecento è ricco di voci e declinato in correnti: il tedesco Karl Jaspers analizza l’esistenza dell’uomo riguardo alcune specifiche situazioni, come il concetto di colpa, inaugurando una corrente esistentiva e cristiana dove si usa inserire anche l’opera filosofica e teatrale del francese Gabriel Marcel, incentrata pur essa sull’analisi di situazioni particolari, sentimenti umani (la fedeltà in ispecie), il tema dell’Altro che apre a quello di Dio; viceversa i francesi Sartre e Albert Camus vengono di norma rubricati nelle fila dell’esistenzialismo ateo; infine la posizione “ambigua” di Maurice Merleau-Ponty, descrittiva di una condizione esistenziale sospesa, tra pensiero e azione, in una condizione assurda. Rinvio indicativamente, per una più attenta ricostruzione del pensiero e della temperie culturale in cui si inserisce l’esistenzialismo europeo (impossibile da farsi in questa ormai non più breve premessa), alla lettura di Karl Jaspers, La filosofia dell’esistenza del 1938, La colpa della Germania del 1946; di Gabriel Marcel, oltre alle opere teatrali, almeno Filosofia della vita (1943); di Maurice Merleau-Ponty si veda soprattutto La struttura del comportamento (1942), Fenomenologia della percezione (1945), Umanismo e terrore (1965). Di Albert Camus il teatro dell’assurdo in Caligola (1944), lo studio patetico e simbolico dell’umana esistenza nel romanzo La peste del 1947. Sarebbero anche ampie le indicazioni bibliografiche sull’esistenzialismo, ma, come detto sopra, bastino i riferimenti già dati e utili alla definizione di una primissima bussola d’orientamento.

In conclusione si presti ancora attenzione al termine “esistentivo”, per la rilevanza che avrà in contesto pirandelliano. Esso rappresenta ciò che appartiene al sentimento dell’esistenza, un tipo di analisi di carattere prettamente psicologica e morale che si manifesta e, dunque, si esercita nelle “situazioni” più varie e che si affianca all’analisi esistenzialistica e metafisica rivolta invece ad indagare i caratteri “universali” dell’esistenza umana.

La critica ha già rintracciato in altri autori italiani la presenza di temi vicini all’esistenzialismo; [6] un discorso, come quello avanzato di recente da Roberto Salsano, [7] sull’esistenzialismo di Pirandello non era ancora stato affrontato con una tale sistematicità e organicità. Avvisaglie e spunti – tesi a indicare nell’opera di Pirandello un’aria di “precorrimento” dell’esistenzialismo – ce n’erano tuttavia già stati.

[6] Annoverando accostamenti per Carlo Michelstaedter, Carlo Cassola, Alberto Moravia e altri scrittori genericamente interessati alla trattazione del tema della solitudine dell’uomo.
[7] Rimando alla lettura di R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, Bulzoni, Roma 2015.

Cito due esempi dai testi di Nino Borsellino e di Franca Angelini: «Nonostante la differenza enfatizzata da comportamenti umoristici o grotteschi, questi personaggi prefigurano gli eroi della più precoce e più tarda stagione dell’esistenzialismo, da Moravia a Sartre a Camus». [8]

[8] Si veda N. Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Bari 1991, p. 60. Per quanto riguarda l’analisi parallela e l’interpretazione ravvicinata di testi e di personaggi di Pirandello e Camus, sulla falsariga del teatro d’inquisizione e d’indagine sul potere, passando per i capolavori del Così è (se vi pare), dell’Enrico IV, della Peste o dello Straniero, ricordo che molto è stato scritto e messo in luce da Fabio Pierangeli nel primo e lunghissimo capitolo, intitolato Indagini e potere Pirandello e Camus, di un testo originalmente incentrato su narrazioni e scritture teatrali del secolo scorso accomunate dal motivo, variamente declinato, della ricerca della verità e della giustizia. Cfr. F. Pierangeli, Indagini e sospetti. Pirandello, Camus, Dürrenmatt, Sciascia, Betti, L’Epos, Palermo 2004, in particolare le pp. 15-122.

E ancora: «Ma quello della comparazione rimane un campo di investigazione che può dare ottimi frutti; se la comparazione è motivata da contiguità effettiva, da visibili rapporti; come avviene per l’analisi delle somiglianze/differenze tra il siciliano e l’esistenzialismo di Sartre». [9]

[9] Si veda Il punto su Pirandello, a cura di F. Angelini, Laterza, Bari 1992, p. 62.

La condizione in cui si muovono alcuni personaggi di Pirandello può essere, all’ingrosso, riassunta come uno «snodarsi di una vicenda interiore la quale tra inerzia psicologica e svolte di sentimento denota il senso di una incontenibilità dell’individuo entro una situazione apparentemente bloccata» [10] che a veder bene allude a un carattere esistenziale «implicato dal tendere, nella pratica e nella coscienza, verso inedite possibilità di essere […] sulle soglie di un “oltre”». [11]

[10][11] Cfr. R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., p. 12.

Teniamo in conto che si affacciano importanti puntelli per il nostro discorso: “vicenda interiore”, “inerzia psicologica” – che già rimandano alla crisi di certi statuti di pensiero, crisi che l’esistenzialismo recupera chiaramente dal panorama culturale tardottocentesco e primonovecentesco e che Pirandello vive pure di prima mano – «situazione […] bloccata», «possibilità di essere», «soglie di un “oltre”», fino a «destino di morte» e «essere nell’annullamento», [12] i quali, messi tutti insieme, appaiono un vero formulario di stilemi e tematiche esistenzialiste. [12] Ibid.

Uno dei testi pirandelliani degli inizi, la raccolta di versi Mal giocondo, [13] del 1889, nasce con un occhio rivolto alla terra tedesca (dove l’autore si trasferirà nello stesso anno per frequentare tre corsi all’Università di Bonn e dove prenderà la laurea in filologia romanza nel 1891).

[13] Sono poetici i testi degli esordi pirandelliani, dovendo escludere quelli fatti sparire dallo stesso autore e di carattere teatrale, scritti prima dei vent’anni. Si ricordi anche, per il rapporto con la cultura tedesca, la successiva traduzione delle Elegie romane di Goethe (1896). Sulla centralità del teatro nella definizione dell’opera pirandelliana, sulla sua autonomia nel percorso artistico, per i suoi ritmi ripetitivi e di rifondazione delle storie, per la sua stessa struttura che allude a un gioco infinitamente tentato di realtà/illusione rinvio al fondamentale R. Scrivano, La vocazione contesa. Note su Pirandello e il teatro, Bulzoni, Roma 19952.

Ma soprattutto si noti che nell’ultimo verso del libro, in posizione ben visibile ed evidenziata, Pirandello colloca un assunto teorico, una dichiarazione di poetica per il futuro, annunciando di volersi occupare «col poderoso canto» de: «La vanità de l’essere infinita». [14]

[14] Cito da L. Pirandello, Mal giocondo, nella recente edizione a cura di F. Miliucci (Ensemble, Roma 2015). Il verso è a p. 145. Su questo verso insiste Salsano facendoci ricordare che «sotto la spinta di un mal di vivere serpeggiante pur nella giocondità, offre quasi la premonizione di un destino umano e letterario» avviato «sul battistrada di un essere e di un esistere». Cfr. R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., p. 15.

Primo esempio di ciò che Salsano indica come un fil rouge dell’opera pirandelliana, e che, ad esempio, Borsellino collegava, in una dialettica tra testi degli esordi e testi della maturità, ai Giganti, nell’ottica fondativa di una «drammaturgia dell’essere». [15]

[15] È definizione dello stesso N. Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, cit., p. 111.

Pirandello rivendica, qua e là, per sé, la patente di “scrittore filosofo”. [16]

[16] A seconda delle varie impostazioni critiche e ideologiche, di volta in volta esaltato o limitato: come nullamente filosofo (Croce), interprete autentico della coscienza contemporanea (Tilgher), coscienza del decadentismo (Salinari), coscienza della conflittualità del mondo contemporaneo (Baratto), documento della disgregazione dell’uomo (De Castris).

E, a ricordare uno dei leitmotiv ossessivi nel progetto di romanzo rimasto allo stato di abbozzo, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra, potremmo già dire di filosofo esistenzialista: «Sono caduto – scriveva – non so di dove né come né perché, caduto un giorno […], caduto in un’arida campagna di secolari ulivi saraceni». L’uomo cade (è gettato?) nella vita, come dirà più avanti, allo stesso modo delle lucciole. [17]

[17] Si legga L. Pirandello, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla Terra, in Id., Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960.

L’idea che la vita sia un involontario (non richiesto) soggiorno, che sia qualcosa di inspiegabile alla ragione umana, concetto portato ovunque dall’autore, lo pone in linea con certe speculazioni filosofiche dell’esistenzialismo, allo stesso modo del verso letto prima che a parafrasarlo potrebbe suonare “della vanità senza fine dell’essere”.

Di qui, perciò, giunge la necessità di ricavare un «senso della vita» per Pirandello, molto prossimo a quello che Heidegger, nelle prime pagine di Essere e Tempo, indica come il «problema del senso dell’essere». Di fronte ai numerosi fatti illogici e inspiegabili in cui la vita s’imbatte e si scontra, Pirandello indicherà una chiave di superamento parlando, come per esempio nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, di un oltre: «C’è un oltre in tutto». [18]

[18] Si rilegga la prima pagina, in qualsiasi edizione, dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, uscito a puntate sulla Nuova Antologia tra il ’15 e il ’16, poi in volume nel 1925.

Alla base dell’universo poetico dell’agrigentino stanno, come è noto, alcune fondamentali dicotomie: l’opposizione o confusione tra realtà e illusione, tra vita e forma. Dal cui contrasto, nella prosa secca e raziocinante di Pirandello, prende avvio un andirivieni di illuminazioni su determinate situazioni concrete – nelle novelle, nei romanzi, nel teatro – che formano una vera dottrina della relatività d’ogni cosa che è, prima di tutto, la smentita dell’esistenza di una verità unica, condivisibile e afferrabile tramite la ragione. E una conferma, quindi, della crisi di certi statuti di pensiero, del positivismo e dell’idealismo, nonché, mi pare, un ripudio delle stesse basi di poetica su cui si fondava la stagione romanzesca del Naturalismo.

Ma se una verità non è possibile, l’opera di Pirandello si regge, a ogni pagina, proprio su un continuo interrogarsi sulla realtà e sull’esistenza dell’uomo. Seguendone i casi il lettore è introdotto al cospetto di altre dicotomie; come quella tra il ridicolo e il tragico dell’esistenza umana, tra l’avvertimento del contrario e il sentimento del contrario; [19] sarà indotto in una speculazione esistentiva (psicologica, interiore, quotidiana, concreta) sulle varie manifestazioni esterne dell’esistenza, sostituendo più spesso ad una impressione iniziale e superficiale di comicità o di gusto ridicolo, la comprensione di una più profonda esistenza fatta di dolore e, in fondo, di spaesamento.

[19] Si rileggano a tal proposito le pagine del saggio L’umorismo (1908), dove Pirandello prende inoltre le distanze dalla tradizione accademica italiana e dall’estetica di Benedetto Croce. Anche per la prospettiva di questo discorso si veda G. Patrizi, Pirandello e l’umorismo, Lithos, Roma 1997.

Si pensi – per restringere l’ambito – ai romanzi di Pirandello. Sono tra i romanzi più importanti del Novecento italiano. In essi l’autore altro non fa che prendere in considerazione, in vario modo, secondo situazioni concretissime, le varie potenzialità e ambiguità dell’essere. Ne I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915-16) il protagonista è un impiegato, un operatore (un occhio; una mano che gira una manovella), presso una casa di produzioni cinematografiche, [20] e il romanzo vive di questa perdita d’identità e d’una assimilazione progressiva del punto di vista del personaggio con il mezzo meccanico, con il quale finisce per identificarsi, di fatto annullandosi: una storia sulla perdita del Sé?

[20] Kosmograph: ossia “scrittura del mondo”, nome altamente significativo e indicativo.

Uno, nessuno e centomila (1925-26) dieci anni dopo ripropone variata la stessa metafora: un ricco borghese di provincia vive la scomposizione dell’io, dell’essere, finendo per lasciarsi andare in un ospizio per poveri (altra soluzione di annullamento). Tutto comincia dal titolo del romanzo e prosegue incessantemente fin dalla prima pagina dove, si ricorderà, Vitangelo Moscarda a colloquio con la moglie (l’Altro) di fronte a uno specchio, viene a contatto con un moltiplicarsi di prospettive in cui l’io finisce per frantumarsi.

C’è una poesia di Jorge Luis Borges che cito perché in qualche modo aiuta a chiosare con precisione la presenza di quello specchio, tutt’altro che casuale nell’incipit pirandelliano. La poesia s’intitola appunto Los espejos (Gli specchi), [21] un oggetto che cade bene nel mondo borgesiano fatto di scritture, riscritture, labirinti, sogni, confusione di realtà e di illusioni, tanto da sembrare, in definitiva, un’opera stesa sulla superficie di uno stagno dove si getti un sasso; un’opera di onde, di echi, di parvenze, di sogni e di riflessi.

[21] Sugli specchi cfr. S. Caronia-F. Patriarca, Gli specchi di Borges, UniversItalia, Roma 2000.

Qui lo specchio è l’oggetto che moltiplica il mondo, «Prolongan este vano mundo incierto» (gli specchi «Il nostro vano mondo incerto estendono», v. 25). Nello specchio una realtà seconda prende avvio all’alba, in una storia illusoria e capovolta di riflessi, in cui l’uomo, come un fantastico rabbino (il Goj pirandelliano? [22] ), può leggere, e leggersi, dalla destra alla sinistra, guardarsi come ci guardano gli altri e averne paura, sentendo, come per un mal giocondo, la forma del suo essere: riflesso e vanità. Nell’ultima quartina si legge: «Dios ha creado las noches que se arman / de sueños y las formas del espejo / para que el hombre sienta que es reflejo / y vanidad. Por eso nos alarman». [23]

[22] Non è questa la sede opportuna per una più ampia disamina dell’argomento. Rimando alla novella per un anno intitolata Un «Goj»; alla voce Goj in L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano 1989, pp. 30- 31; e al saggio Chi è goj? in S. Campailla, Controcodice, Esi, Napoli 2001.
[23] «Dio ha creato le notti popolate / di sogni e le parvenze dello specchio / affinché l’uomo senta che è riflesso / e vanità. Per questo ci spaventano». Le traduzioni sono di Tommaso Scarano, la quartina è a p. 113 dell’edizione, a sua cura, di J.L. Borges, L’artefice, Adelphi, Milano 2016.

Il capolavoro Pirandello l’aveva però già scritto con Il fu Mattia Pascal (1904), romanzo, dopo tutto, totalmente impancato sul rapporto tra Essere (Mattia Pascal) e poter essere (Adriano Meis), sul problema dell’identità, sulla libertà arbitraria delle proprie azioni che finiscono per gettare il protagonista in una situazione imprevista (e nullificatrice): dopo la possibilità di essere un altro, la scoperta di non poter più essere né quello di prima né il suo doppio, ma solo l’ombra di se stesso.

È da questi naufragi esistenziali che si comprende molto di Pirandello: la sua opera narrativa e teatrale parte quasi sempre da un punto fermo; dal disagio dell’esistenza e di conseguenza da una perdita d’identità cui segue una ricerca ontologica variamente atteggiata e risolta. [24]

[24]  E qui i compagni di strada di Pirandello possono essere molti tra gli scrittori del primo Novecento europeo. Faccio un esempio di estrema attualità e grande interesse letterario pensando ad Arthur Schnitzler di cui, tra gli altri testi che andrebbero pure menzionati, è stata da poco pubblicata per la prima volta in Italia una commedia in tre atti del 1917, Fink und Fliederbusch: una storia che porta in scena il doppio, un giornalista alle prime armi che, in un relativismo scisso e assoluto, collabora contemporaneamente a due testate; amara metafora sulla scissione dell’io, dunque, e satira della stampa viennese d’inizio Novecento. La magistrale e divertente farsa teatrale si può leggere in questa meritevole edizione: A. Schnitzler, Fink e Fliederbusch, a cura di F. Cambi, Analogon, Asti 2016.

Proprio qui, al centro tematico, stilistico e strutturale dell’universo pirandelliano si annida il gioco che l’autore »»ripropone per tutte le sue maschere e tutti i suoi fantasmi: [25] le sue storie non hanno solamente al centro il rapporto tra realtà e illusione, la loro semplice interscambiabilità o confusione o contrasto acuto, ma propongono una vera interrogazione, un’indagine, spesso serratissima, su cosa sia più la realtà, che non sa se è realtà o illusione, e su cosa sia l’illusione, che se non è realtà non sa più che cosa sia. Di qui deriva la tortura [26] del personaggio, “spaesato” tra il suo profilo individuale e la sua immagine sociale, preda di dilemmi esistenziali.

[25] Intorno ai personaggi pirandelliani, tra gli innumerevoli contributi, si veda almeno A.R. Pupino, Maschere e fantasmi, Salerno, Roma 2000.
[26] Il lemma rimanda inevitabilmente al saggio di G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Mondadori, Milano 1981.

Ma un altro capolavoro di Pirandello è senza ombra di dubbio quello del romanzo I vecchi e i giovani (1913) che, per dirla breve, sposta, con il salto da vicende private a vicende pubbliche, il fuoco d’osservazione dell’indagine esistenziale che finisce, come è noto, per assumere i connotati di una crisi storica. [27]

[27] Sul ruolo della storia nell’opera pirandelliana e sul sentimento di esclusione patito dai personaggi nei suoi confronti, nell’ottica matura di un dramma generazionale descritto con viva coscienza storica, invito a leggere R. Caputo, Gli esclusi della storia, in AA.VV., Colloqui pirandelliani, Vecchiarelli, Manziana 2001, pp. 31- 39.

In questo romanzo, sullo sfondo della delusione post-risorgimentale, Pirandello rimesta uno stato di coscienza esistenziale che trasuda di senso della finitudine e presentimento della vanità dell’esperienza non solo privata stavolta, ma anche universale; in accordo con gli esiti di altri scrittori ascritti all’esistenzialismo il romanzo fa riflettere sulla vanità dell’essere umano, la sua finitudine, la contingenza vana e non necessaria dei suoi sforzi e delle sue ambizioni che si impaludano, infatti, nel «tedio angoscioso della vita». Si rilegga un passo come questo, del resto in completa sintonia con quanto auspicato all’ultimo verso di Mal giocondo:

«Guardò gli alberi, davanti alla villa: gli parvero assorti anch’essi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del giorno, invano l’aria smovendo loro le frondi tentassero di scuoterli. Da un pezzo ormai, nel fruscìo lungo e lieve di quelle fronde egli sentiva, come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita». [28] 

[28] L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di I. Borzi e M. Argenziano, Newton, Roma 1993, p. 65.

Già da questa rapida rassegna sui romanzi si evince che al fondo di tanta scrittura dell’agrigentino compare un nodo comune: l’interrogativo sulla realtà e sulle manifestazioni interne ed esterne dell’essere. A conferma, cito:

«Quella di Moscarda è una interrogazione totale che apre l’oggetto all’esperienza del soggetto e si fonda sulla smitizzazione di una conoscenza oggettiva. […] Il sentimento del contrario, il fondo umoristico della riflessione pirandelliana, può annidarsi oltre che in singole occasioni romanzesche, proprio nel generale contrasto tra il permanere di qualcosa della dialettica socratica tra implicazioni e deduzioni logiche maieuticamente stimolate dal discorso dialogico, da una parte, l’esito di un fattore illogico, inspiegabile, che si profila come destino dell’essere nell’infinita proliferazione di verità ed identità in cui consiste il gioco della vita, dall’altra parte». [29] 

[29] Cfr. R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., pp. 23-24.

Sotto l’insegna di un’indagine sospesa tra essere/possibilità di essere, si possono inoltre collocare numerose pièce teatrali dell’autore. Basti ripensare una battuta di Il piacere dell’onestà (1917), dove l’espressione di un tale modo di essere basato sul poter essere contribuisce a destituire la concezione naturalistica dell’io, dell’identità del protagonista, pur rivendicata e già messa in dubbio fin dall’attacco.

«Io entro qua, e divento subito, di fronte a lei, quello che devo essere, quello che posso essere – mi costruisco – cioè, me le presento in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso fa di sé anche lei che mi riceve […]». [30] 

[30] L. Pirandello, Maschere nude, a cura di S. D’Amico, vol. 1, Mondadori, Milano 1989, p. 570.

È importante notare che in Pirandello lo sguardo resta fisso – come in Uno, nessuno e centomila d’altro canto – non solo sulla coscienza del personaggio (e dunque sul piano interiore) che in qualche modo esiste quando entra in scena («entro qua»), cioè si manifesta, esistenzialmente “appare”, per di più adattandosi, ma anche sulle relazioni che egli instaura con gli altri, perché uno dei nodi fondamentali è proprio quello del contatto, della manifestazione del Sé all’esterno (s’è già detto: «esistenza» deriva dal latino ex, fuori, e sisto, resto, rimango), e della rete di relazioni che ne nasce. In ciò, suggerisce con acume Salsano, si può  scorgere addirittura un parallelismo  con quanto sostenuto da un altro romanziere del Novecento: Robert Musil che proprio sulla visione di una realtà come possibilità si sofferma nell’Uomo senza qualità, fin dal titolo del quarto capitolo: Se esiste il senso della realtà deve esistere anche il senso della possibilità. [31] 

[31] Per un ampliamento del parallelismo rimando direttamente a R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., p. 28.

Sempre sul bilico essere/poter essere si pensi ancora, per rimanere al teatro, al risultato dei Sei personaggi in cerca d’autore (1920), dove la sperimentazione di Pirandello giunge al sommo grado con la convenzione teatrale, l’idea del teatro nel teatro, che fa compiere un ulteriore passo in avanti allo scivoloso rapporto realtà/illusione verso uno sdoppiamento vero e proprio della vita/finzione dei sei personaggi. Il dramma si recita nella finzione dei personaggi e nella loro verità di esseri umani “in cerca d’autore”, esseri che «vogliono vivere in noi», che portano dentro di sé il copione del dramma e lo vogliono rappresentare. Come del resto quel dottor Fileno della novella Tragedia d’un personaggio (1911), che si introduce nello studio dell’autore per dire che nessuno può sapere meglio di questi che loro, i personaggi, sono vivi: «più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri». [32]

[32] La battuta, la critica lo ha già notato, se si eccettua un cambio di punteggiatura – il punto e virgola che diventa punto fermo – viene riproposta senza ulteriori variazioni proprio nei Sei personaggi.

Potremmo anche concludere dicendo che questi, come numerosissimi altri personaggi pirandelliani, cercano, con la loro aspirazione di vita e di verità, di uscire dal Nulla in cui angosciosamente, con sofferenza, sono gettati e sospesi, di costruire quindi il senso del proprio essere, pur attraverso la finzione del teatro.

Che dire poi del titolo riassuntivo dell’esperienza teatrale? Molto significativo e qualificante, come del resto la maggior parte, se non la totalità, dei titoli dell’agrigentino: Maschere nude – e c’è pure una novella intitolata La vita nuda in una sezione delle Novelle per un anno dallo stesso titolo – locuzione che sta a significare che l’esistenza, smascherata delle apparenze, mostra la sua verità di dolore.

Ma andando di questo passo, e su questa strada, seguendo le opere di Pirandello, si potrebbe insistere a lungo rimanendo in un ambito di sintonie e di parallelismi – si badi bene sia tematici sia strutturali, e giocoforza pure stilistico-linguistici, dunque tutt’altro che marginali –, con l’aria di famiglia, direbbe Giuseppe Petronio, dell’esistenzialismo europeo del Novecento.

È qui che il testo di Salsano diventa un importante strumento d’appoggio in direzione di un confronto teorico, fornendo nel suo discorso varie prove di carattere intertestuale. Per esempio lo studioso mostra come il tema pirandelliano, così centrale in Uno, nessuno e centomila, della relazione tra la coscienza propria e quelle altrui sia vicino alla «autointerpretazione quotidiana dell’Esserci come voce della coscienza» [33] di Heidegger, oppure al tema centrale della filosofia di Jaspers: «in che modo l’Uno sia nel molteplice, che cosa esso sia, e come io possa diventarne certo». [34]

[33] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 326.
[34] K. Jaspers, La mia filosofia, Einaudi, Torino 1946, p. 36.

Il motivo dello sguardo dell’io sull’altro e dell’altro sull’io che, come sappiamo, apre un groviglio di infiniti risvolti in vaste zone dell’opera pirandelliana, nonché una evidente frattura nella coscienza, nell’identità dei suoi personaggi, trova, come mostra Salsano, plurimi riscontri nell’Essere e il nulla di Sartre. Ad esempio: «Non posso […] dirigere la mia attenzione sullo sguardo senza che, nello stesso tempo, la mia percezione si decomponga». [35]

[35] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, a cura di F. Fergnani e M. Lazzai, il Saggiatore, Milano 1997, p. 304.

Lo stesso critico evidenzia come certe formulazioni fenomenologiche esistenziali, proprie di tanto Pirandello, («essere è farsi», da Come tu mi vuoi, «crearsi, creare! E allora soltanto ci si trova», da Trovarsi) trovino riscontri testuali con le speculazioni heideggeriane sul perdersi e ritrovarsi: «Poiché l’Esserci si è perso […], prima di tutto deve ritrovarsi». [36]

[36] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 326.

Prima di un suggestivo e approfondito parallelo tra Gabriel Marcel e Luigi Pirandello, ben fondato anche sui testi del primo che vertono sul nostro, nel capitolo centrale del libro, intitolato Essere, mistero, “oltre”, Salsano, riprendendo alcuni argomenti cari alla critica pirandelliana precedente, come il tema dell’oltre nell’opera dell’agrigentino (si sono tenuti anche convegni su questo tema), e appoggiandosi a una più o meno fitta rete di citazioni testuali, [37]  giunge ad indicare come baricentro dell’opera la relazione tra ciò che esiste come fenomeno e l’inchiesta su di esso.

[37]  Rinvio a R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., pp. 49-67. Le pagine su Marcel-Pirandello sono invece le 69-81.

Indagine, questa, che apre il campo a un oltre rispetto al fenomeno, che Pirandello insegue anche sul piano ontologico e metafisico oltre che retorico, in un processo infinito di destabilizzazione di tutti i punti fermi, spesso sviluppato a livello stilistico attraverso una caratterizzazione espressionistica della pagina, e che conferma in ultima analisi come:

«Nel raggio di un occhio che guarda “dentro”, disancorato dalla ragione empirica e dalla metafisica ma attratto dalla dinamica fenomenologica dell’esistere, l’oltre può essere l’appannaggio esistenzialistico d’un essere come poter essere. Le infinite possibilità dell’essere, che creano a volte il senso inquietante di una assoluta labilità, incidono nei caratteri di un immaginario che diventa folgorante, oltre che straniato. L’oltre più sconvolgente a cui può attingere Pirandello oscilla tra epifania e sua negazione intrinseca in quanto ciò che si mostra è, in ultima istanza, più che la presenza, la possibilità mai necessariamente prevista d’ogni presenza, e quindi la possibilità, per diritto, di nessuna presenza in particolare, onde ciò che si mostra è l’apertura su un vuoto. Che il rapporto della persona verso questo vuoto, il quale, considerato in chiave esistenzialistica, potrebbe appellarsi come essere di fronte al nulla o essere per la morte, si colori anche di tinte specificamente religiose, è cosa disponibile alla occasionalità storica dell’operare pirandelliano, al suo variegato porsi sul discrimine tra una ricerca d’identità e una tensione all’alterità». [38] Ibid., pp. 65-66.

Si rileggano e ripensino in quest’ottica tante novelle: la proverbiale L’avemaria di Bobbio, La casa del Granella, I pensionati della memoria, Fede, oppure l’asserzione sostantivata nei Quaderni di Serafino, testi dove, tra epifanie e aperture improvvise al soprannaturale, al mistero, a un significato ulteriore, inspiegabile, inafferrabile delle cose e dell’esistenza, Pirandello prosegue la sua opera di oltrepassamento del positivismo e della sua logica, facendo leva sul sentimento di un quid inalienabile che fa parte dell’esistenza umana e che non può essere spiegato attraverso la logica corrente. Infatti, Serafino dirà «sciocchi» e «infelici» gli uomini che vogliano «con la ragione spiegarsi quello che con la ragione non si spiega».

Ciò che infine rende ancor più persuasiva la lettura di Pirandello in chiave esistenzialista, oltre alle tante pagine in cui Salsano avvicina sia tratti tematici sia stilemi di Pirandello a quelli dei maggiori pensatori dell’esistenzialismo europeo del Novecento, è, a mio avviso, la raffigurazione di una Sicilia vissuta anch’essa alla maniera esistenzialistica.

Tornando infatti alla contrada di Girgenti, agli ulivi saraceni di cui parlammo addietro, si può ripensare in chiusura la presenza di una Itaca pirandelliana.

La Sicilia è stata, sono molti ormai gli studiosi concordi, una vera ossessione per gli scrittori siciliani, come del resto gli anni che girano attorno al 1860, da Verga a De Roberto, da Pirandello a Sciascia, da Lampedusa a Consolo, [39] lasciando splendide testimonianze di carattere storico e civile. Mostrando essi, il più delle volte, come la Sicilia nella Storia diventi immagine icastica del potere politico, del potere della chiesa, poi del potere mafioso, e assolva insomma una funzione polisemica, concreta e allo stesso tempo simbolica: la Sicilia come metafora, per dirla con Sciascia. Metafora di una lunga storia di «estraneità», di separatezza dal resto della penisola, che rappresenta il luogo della non- ragione, dell’immobilità e di un irreparabile abbandono.

[39] Discuteva della Sicilia e di altri temi, con grande efficacia, su romanzo storico e sull’esigenza stilistico- ideologica della metafora il libro di V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993. Ma i rimandi su questi temi potrebbero essere plurimi, invito a leggere L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Adelphi, Milano 2001; S. Gentile, L’isola del potere. Metafore del dominio nel romanzo di Leonardo Sciascia, Donzelli, Roma 1995, proprio per i lunghi rilievi su potere e isola; molti altri e gli stessi testi di autori siciliani tra Otto e Novecento che propongono spesso, come è noto, sul crinale di dicotomie pungenti come verità-menzogna o giustizia-ingiustizia, un’immagine dell’isola come metafora.

Già il nome di isola alludendo a tratti fisici ben precisi e circoscritti rimanda in senso figurato, allegorico o simbolico ad uno spazio geografico in cui entrano in gioco, proprio per la sua connotazione, elementi atti a trascendere i meri dati referenziali e naturali in direzione di un’interpretazione che tenga conto di aspetti invece antropologici, politici, esistenziali. È su questo terreno che la categoria dell’insularità con le sue varie sfumature di estraneità, separazione, parzialità, solitudine e così via rende problematico e bisognoso di attenzioni il rapporto tra individuo e mondo, la dialettica tra spazio breve e resto della terra. «In letteratura, del resto, le separazioni e i confini appaiono singolarmente labili e permutabili data la dominante metaforica e analogica che anima per costituzione l’immaginario poetico». [40]

[40] Cfr. R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., pp. 93-94.

L’immagine dell’isola – spiega Salsano – può diventare un archetipo fenomenologico importante qualora si voglia rintracciare nuclei decisivi nell’individuazione della coscienza moderna divisa tra assoluto e relatività. L’evidente rimando all’idea di una esaustività circolare dello spazio chiuso e concluso si spezza e diventa fragile nel rapporto dialettico con la totalità di ciò che sta “oltre”, e si ricordi Itaca e oltre di Claudio Magris.

Il quadro di uno spazio autosufficiente si sgretola su un terreno dove il senso della finitudine, della relatività, della ricerca di un senso ulteriore prendono sempre più importanza nella ricerca della completezza, della totalità, della verità.

Salsano fa notare che già in alcune pagine dell’Umorismo, Pirandello aveva accennato a un’idea di «vuoto intorno a noi» come proposizione di un carattere ontologico che partendo dal vuoto interiore si allarga a figurare il vuoto esteriore: lo spazio esterno come vuoto che sta intorno all’esistenza, che circonda, cioè, l’isola dell’io.

Pirandello ha voluto usare questa metafora, quasi un assoluto ontologico, dell’insularità a proposito della sua Sicilia, e a ben vedere non solo per dare una caratterizzazione tipologica agli isolani – e Sciascia ha parlato di sicilianità come «modo di essere» [41] – ma anche per superare una focalizzazione provinciale: ciò è evidente dando uno sguardo ad alcune novelle in cui l’isola è ripensata e confrontata con altri spazi: da Bonn a Roma, matura in Pirandello uno sguardo retrospettivo sull’isola cui, le lettere lo dimostrano più volte, l’autore si sente rivolto e legato indissolubilmente. Ma è proprio il concetto di isola, con la conseguente atmosfera di insularità che esclude, a offrire a Pirandello la chiave per altre speculazioni di carattere esistenziale.

[41] Cfr. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, cit., p. 13.

Si pensi la figura d’esclusione di Silvia Roncella, adombrante quella di Grazia Deledda. Essa rimanda al binario isola-terra (Taranto-Roma uguale Sardegna-Roma) ed è dominata da «un fondamentale isolamento esistenziale» sottolineato, per giunta, dalla volontà di tornare a lavorare quieta, indietro nello spazio, si direbbe nell’isola di sé stessa.

Sono tanti i casi in cui Pirandello disegna queste figure di esclusione o discute dell’isolamento come qualcosa che separi dalla vita di un altrove, nelle novelle, nei romanzi, nel teatro. Leggendo in questa chiave novelle come Lontano, o Rimedio, la geografia, per esempio, si ha netta l’impressione che dietro l’isola geografica stia quella di un isolamento psicologico ed esistenziale che in Pirandello serve per additare la certezza di una vita situata in un altrove, la certezza che ci sia un’altra realtà,

«una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia» dice l’agrigentino. E così facendo «l’immagine dell’isola diventa non solo schermo di una condizione di isolamento, ma significanza di una negazione […] di ogni concezione dialettica della vita e della storia». [42]

[42] Cfr. R. Salsano, Pirandello in chiave esistenzialista, cit., p. 102. Salsano in queste pagine sull’isola produce vari esempi, da Lumie di Sicilia a Suo marito, L’esclusa, La nuova colonia, Il viaggio eccetera, per giungere al parallelo dello Zagrù sansecondiano. Rimando alla lettura integrale del capitolo alle pp. 93-111.

Per dirla breve, se i limiti dell’isola sono i limiti della relatività di fronte all’infinito, quanti sono i personaggi di Pirandello che vogliono partire? Lasciarsi alle spalle un nulla in direzione di altro nulla, superando quel mare che è, tutto intorno, un invito al compimento del Sé, alla ricerca della vita e della verità, di chi si sia? E quanti, poi, saranno quelli che tornando sui propri passi, si pensi solo al Mattia Pascal, rimarranno spaesati?
Pirandello, insomma, usa la metafora dell’insularità per raccontare una storia in cui l’io è staccato dal mondo. D’altronde, risponde alle precedenti domande, non solo nei testi che andrebbero ampiamente citati e che confermerebbero quanto fin qui suggerito, ma in modo chiaro anche nei Saggi e interventi, laddove si può scorgere dietro l’ambizione o aspirazione di vita il tentativo del Sé di prendere parte, comunque, ad una vita, di Farsi, di Essere, di entrare in scena, di esistere, di manifestarsi cioè fuori di sé, di essere rappresentati (chiederebbero ancora i sei personaggi) oltre i limiti dell’isolamento doloroso, uscendo dal Nulla in direzione dell’Essere, andando verso la Vita e spezzando la Forma:

«Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi tutti una istintiva paura di essa oltre quel bene ambito del covo, ove si senton sicuri e si tengono appartati, per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di quest’aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioia, da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato. Ma ci son di quelli che evadono; di quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che, bramando quell’istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo che li fa isole a sé, e vanno ambiziosi di vita ove una loro certa fantastica sensualità li porta, spassionandosi, o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera, riposta passione, con quell’ambizione di vita effimera. Il Verga, giovane, fu uno di questi». [43]

[43] L. Pirandello, Saggi e interventi, a cura di F. Taviani, Mondadori, Milano 2006, pp. 1012-1013.

Il Pirandello, laureando e poi scrittore, fu un altro di questi.

Luigi Pirandello, è stato detto tante volte, ha alle spalle Nietzsche e Schopenauer. Con François Orsini si può aggiungere che ha accanto a sé l’Europa, specie quella espressionista. [44]

[44] In un libro che è il risultato di lunghe ricerche, l’italianista francese ha messo in netto rilievo l’europeità di Pirandello, proponendo numerosissimi confronti, soprattutto con l’area dell’Espressionismo, riflettendo sull’influsso del teatro di Rosso di San Secondo su quello di Pirandello, nonché sulla fortuna del teatro pirandelliano in Francia. Rinvio al saggio di F. Orsini, Pirandello e l’Europa, Pellegrini Editore, Cosenza 2001.

Nemmeno va dimenticata l’importanza del filosofo Giuseppe Rensi, cui la critica pirandelliana ha sovente fatto riferimento.

Ora, mi pare si possa dire che il contributo di Roberto Salsano, [45] a margine del quale abbiamo discusso in queste pagine, per la novità della proposta critica impreziosisca il campo degli studi specialistici sull’agrigentino, indirizzandoli in maniera solida verso un  capitolo essenziale del Novecento europeo perlopiù scarsamente considerato dalla critica pirandelliana precedente, suggerendo alla stessa nuovi campi d’indagine per approfondimenti di tipo comparatistico e intertestuale; e questo non per alzare i toni del discorso critico o per aggiungere sterili etichette ad un’opera che non ne ha alcun bisogno, per giunta già densa di possibili rimandi, oltremodo cospicua e dalla bibliografia critica sterminata, ma per coglierne più da vicino certi aspetti particolari e fors’anche il senso profondo di una ricerca – esercitata a tutto campo nelle novelle, nei romanzi, a partire dalla poesia e finendo a teatro – del senso dell’esistenza umana e della sua intima verità, risolto da Pirandello con una infinita osservazione di situazioni che molto spesso preludono certi svolgimenti letterari e filosofici dell’esistenzialismo.

[45] Peraltro esso, solo per restare all’argomento di questo saggio, si situa in un alveo fecondo di contributi dello stesso studioso su Rosso di San Secondo e Luigi Pirandello. Si veda almeno R. Salsano, Pirandello. Scrittura e alterità, Franco Cesati Editore, Firenze 2005.

Roberto Mosena

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