Pirandello e l’esistenzialismo

Di Giovanni Gullace

L’opera pirandelliana, per la sua natura profondamente esistenziale, segna una svolta decisiva nella storia letteraria. La letteratura del passato si fondava su una realtà universalmente ac­cettata, su un concetto della vita ben definito, sull’esistenza d’un determinato personaggio e d’un ambiente considerati come fatti reali e indiscutibili

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Pirandello e l'esistenzialismo.
Edvard Munch – Malinconia (1894-96)

Pirandello e l’esistenzialismo

da sage Journal

Quando l’esistenzialismo cominciò ad imporsi all’attenzione del pubblico, la carriera letteraria e l’esistenza terrena di Luigi Pirandello erano da tempo finite. Ma se si dà uno sguardo, anche superficiale, ad alcuni aspetti fondamentali della letteratura esistenziale, non è difficile accorgersi della stretta parentela che lega questa letteratura alla visione pirandelliana della vita. In­fatti, leggendo oggi Pirandello, alla luce delle esperienze filosofico-letterarie degli ultimi venticinque o trenta anni, si ha ad ogni passo la precisa sensazione di trovarsi davanti ad afferma­zioni, a motivi e stati d’animo esattamente simili a quelli propagati soprattutto da Sartre. Pirandello è quindi da considerarsi uno dei diretti precursori della letteratura esistenziale, avendo egli dato espressione, con anticipo, ai motivi più significativi di essa. Bisogna pur dire “con anticipo,” perché Pirandello è rimasto per lunghi anni incompreso e inapprezzato: soltanto dopo la prima guerra mondiale la sua opera si è decisamente affermata, quando cioè il processo di sgretolamento dei valori tradizionali aveva avuto il suo tragico epilogo.

L’esistenzialismo pirandelliano va inteso nel quadro generale del decadentismo, che in Italia ha assunto due forme principali: [1] l’edonismo sensuale di d’Annunzio, che rappresenta una specie di evasione dalle pericolose tentazioni del pensiero, ed il nichilismo rassegnato del Papini di Un uomo finito, del Borgese di Rubé, della poesia crepuscolare e del teatro grottesco, che contengono, nella loro sostanza, un velato sentimento di sommissione dolorosa ad un universo irrazionale e malefico.

[1] Vedi Lander MacClintock, The Age of Pirandello (Bloomington, 1951),

Se non vi è dunque né razionalità, né leggi costanti, né criteri assoluti che presiedano all’ordine del mondo e della vita, gli uomini non sono che creature in balìa del caso, del cieco destino; creature assurde perché nessun ordine razionale le giustifica, nessuna necessità logica rende conto della loro presenza nel mondo. Questa concezione pessimistica dell’esistenza costituisce tutta la sostanza filosofica dell’opera di Pirandello. Ogni sua novella, ogni suo romanzo o dramma non è che un’analisi penetrante della condizione umana, davanti al crollo totale di tutti i valori assoluti: filosofici, religiosi, etici. Il sentimento di instabilità e di assurdità della vita, nato da questo crollo, costringe i personaggi pirandelliani a ripiegarsi su sé stessi, ad interrogarsi, a frugare negli angoli più reconditi del loro spirito, nel vano tentativo di trovare un punto fermo a cui fissare solidamente la loro vita.

L’esistenzialismo, che si è ormai specializzato in queste analisi di vita disincantata e spoglia di ogni ragion d’essere, parte dalla stessa crisi dei valori intellettuali e dalle stesse esigenze da cui è sorto il mondo pirandelliano. E per rendersi più precisamente conto del legame che unisce la letteratura esistenziale a Pirandello basterà rifarsi sommariamente ad alcuni dei canoni filosofici che la informano. Nel suo significato più generale, l’esistenzialismo è la rivendicazione del finito dell’esistenza concreta, contro l’essenzialismo o filosofia delle essenze universali. Per l’essenzialista è la forma universale che dà valore e significato al finito; per l’esistenzialista, il finito assume valore e significato propri, nella sua finitezza. I termini filosofici sono così invertiti: non è più la ragione che interroga e giudica l’esistenza; ma è l’esistenza che interroga la ragione e le segna i limiti. Da questo punto di vista, l’esistenzialismo è la rivolta contro tutta la filosofia razionalista, contro il pensiero speculativo, che comprimono l’esistenza nei loro astratti schemi di rapporti logici e ne soffocano lo slancio vitale. Negato dunque ogni valore assoluto e trascendente, spazzata via ogni essenza universale, tutta la realtà si riduce alla contingenza, al fenomeno, alla relatività delle apparenze. Sartre (e qui ci limitiamo al suo esistenzialismo) parte da due assoluti completamente gratuiti; l’essere e il nulla, la cui presenza non è che un’assurdità, non potendo essere né spiegata, né giustificata. L’essere e il nulla sono irriducibili l’uno all’altro, ma in rapporto di reciproca dipendenza, poiché sarebbe impossibile all’uno di porsi senza l’altro. L’essere è l’oggettività assoluta, la pura materialità, statica, massiccia, la cosa morta, che la coscienza percepisce come qualcosa di diverso da sé stessa. Il nulla è invece l’esistenza, la pura soggettività come coscienza di esistere, che si pone, nel suo incontro con l’essere, come il non-essere, cioè il nulla. Questo nulla dell’esistenza, posto all’origine di tutto il mondo reale, coincide con la libertà asso­ luta, concepita come pura possibilità.

Ma l’esistenza è tendenza ad uscire dal proprio nulla per porsi come esistenza di qualche cosa: da ciò il suo carattere dinamico, il suo continuo fluire. Essa aspira alla stabilità dell’essere; ma l’essere è l’oggettività statica, la morte. Darsi l’essere sarebbe quindi morire. Attuare la pienezza di essere e di esistere è assolutamente impossibile, perché i termini del binomio si escludono reciprocamente. Restare il nulla o morire: questi i due estremi entro cui si svolge il destino umano. Nella sua perpetua e vana aspirazione verso la stabilità dell’essere, l’esistenza è costretta a muoversi entro una serie di situazioni in cui essa si dà delle essenze finite e provvisorie. Essendo libertà assoluta e quindi pura possibilità, essa può darsi le essenze che vuole, può scegliersi ad ogni istante, assumendo così delle essenze più diverse. L’ansia di superare i limiti della contingenza la sollecita ad uscire da una situazione per gettarsi in un’altra; ma ogni suo sforzo si esaurisce a metà strada; ogni suo nuovo tentativo è un nuovo scacco. Le essenze finite e diverse che l’esistenza assume nella sua tendenza verso l’essere costituiscono la realtà: una serie di fenomeni mutevoli in cui l’esistenza prende temporaneamente forma. La realtà non è quindi nulla di assoluto: essa è la mia, la tua realtà, a seconda della situazione. Si può dire così che tra il nulla della pura esistenza e la materialità massiccia dell’essere si svolge tutto il dramma del reale, cioè della vita, su un terreno molle, cedevole, viscoso, luogo intermedio tra il fluire inafferrabile della pura esistenza e la solidità statica dell’essere. Il grado di fusione del solido e di solidificazione del liquido danno il grado di autenticità della vita, cioè le proporzioni di esistenza e d’essere, di vita e di morte, che la compongono. Che fare allora? Accettare con coraggio e rassegnazione la tragica ed assurda condizione umana, senza cercare di nasconderla o di mascherarla. Rigettare l’inganno della filosofia raziocinante che costringe l’uomo ad immaginarsi felice. Coloro che si rifugiano nelle credenze religiose o filosofiche sono i codardi, quelli cioè che hanno paura di togliersi la maschera e di vedersi nella loro nudità e assurdità.

Da questi concetti, nasce tutta una gamma di temi letterari di vario genere, di trame di romanzi e di opere teatrali, che tentano di cogliere l’esistenza, ora nei suoi compromessi con l’essere, ora nella sua autenticità, ora nell’angoscia che accompagna il sentimento della propria gratuità, ora nell’esilio della libertà a cui essa è condannata. Le opere di Sartre -soprattutto i romanzi La Nausée e quelli della trilogia Les Chemins de la liberté, le novelle del Mur, i drammi Les Mouches, Huis Clos, Les Mains sales, Le Diable et le bon Dieu – illustrano più che ampiamente il tragico dibattersi della vita tra l’essere e il nulla. Le premesse filosofiche che ispirano e penetrano l’opera letteraria di Pirandello non sono per niente dissimili da quelle esistenzialiste, che abbiamo qui molto schematicamente cercato di definire. L’opera pirandelliana è anch’essa una diffida al razionalismo, alla trascendenza e a tutte quelle incrostazioni di cultura che mirano a conferire all’uomo una condizione soddisfatta e sicura, dissimulandogli la irreparabile finitezza umana, l’assurdità dell’esistenza, la molteplicità del reale, la relatività di ogni valore. Al dualismo esistenza-essenza, corrisponde in Pirandello il ben noto dualismo vita-forma, magistralmente definito da Adriano Tilgher nei suoi studi sul teatro contemporaneo. [2]

[2] Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, Roma : Libreria di scienze e lettere, 1923.

Dalle relazioni tra la vita e la forma, tra il libero e alogico fluire dell’esistenza e tutto ciò che tende a cristallizzarla nell’oggettività della cosa (come tradizioni, idee, convenzioni sociali, ecc.), nasce tutta la problematica pirandelliana. In questa antitesi tra l’infinità della vita come infinita possibilità (cioè, il nulla) e il bisogno di finitizzarsi in questa o quella vita e quindi morire come vita, non è difficile ravvisare il dramma esistenziale nella sua antitesi di esistenza e di essere. Ciò che non è fissato è il nulla, ciò che è fissato è morto. Pirandello sente quindi il dramma del nostro vivere svolgersi tra il mutamento perpetuo che è in noi e il cristallizzarsi di forme fisse in cui gli altri ci intendono e ci caratterizzano. Nella Diana e la Tuda la modella, che sente nella sua intima soggettività tutto il tumulto della vita e della passione, lotta disperatamente contro l’artista che la vede e la sente nell’oggettività fredda e inanimata della statua:

Ma lei lo capisce? Là là con la mia carne, col mio sangue, con gli occhi che vedevano ciò che egli faceva di me, che mi prendeva, mi prendeva tutta per la sua statua; essere io, là -viva – e non essere nulla! Possibile? – se non si fosse accorto che soff rivo! Ma se n’è accorto, se n’è accorto, se m’ha fatto questi occhi là nella statua! – lo so, lo so: non dovevo essere nulla per lui; ma ero di carne, io! di carne che mi s’è macerata cosi. [3]

[3] Luigi Pirandello, Maschere nude, Mondadori, Milano, 1958, vol. I, p. 463.

E l’artista, il cui interesse è l’arte e non la vita, cerca invano di cogliere la mutevole bellezza della modella per fissarla nella sta­ tua: Tuda gli sfugge nel flusso continuo della vita e la statua rimane incompiuta. Portarla a compimento significherebbe la morte di Tuda nella fissità e unità della forma, perché solo la morte conferisce la forma definitiva alla vita. La modella in tal caso, svuotata della propria vita, esisterebbe nelle forme immutabili di Diana, nell’eterna prigione del marmo.

” Tout existant,” dice Sartre, ” nalt sans raison, se prolon­ ge par faiblesse et meurt par rencontre;” [4] cioè, appena un altro esistente lo incontra, lo percepisce oggettivamente, esso cade nella fissità della cosa, nell’inerzia assoluta, che è la morte.

[4] Jean-Paul Sartre, La Nausée,139e édition, Paris, Gallimard, 1954, p. 169.

Lo sguardo altrui è quindi la mia morte, poiché esso mi fissa nello spazio e nel tempo, riducendomi alla cosa. Ma, d’altra parte, senza lo sguardo altrui non: mi sarebbe possibile uscire dal nulla, non sarei che un perpetuo e inafferrabile fluire. I miei rapporti con l’altro oscillano tra momenti di superamento del suo sguardo, in cui io riacquisto il mio nulla, e momenti di caduta nell’essere, tra l’io-soggetto e l’io-oggetto. L’altro ha quindi un’indispensa­bile funzione mediatrice:

L’autre n’a d’intérét pour moi que dans la mesure où il est un autre moi, un moi-objet pour moi et, inversement, dans la mesure où il re:flète mon moi, c’est-à-dire en tant que je suis objet pour lui. Par cette nécessité où je suis de n’étre objet pour moi que là-bas, dans l’autre, je dois obtenir de l’autre la reconnaissance de mon étre. Mais si ma conscience pour soi doit étre médiée avec elle-méme par une autre conscience, son étre-pour-soi – et par conséquent son étre en général – dépend de l’autre. Tel j’apparais à l’autre, tel je suis. Et outre, puisque l’autre est tel qu’il m’apparaìt et que mon étre dépend de l’autre, la façon dont je m’apparais – c’est-à-dire le moment du développement de ma conscience de moi – dépend de la façon dont I’autre m’apparaìt. [5]

[5] Jean-Paul Sartre, L’Etre et le Néant, 42e édition Paris, Gallimard, 1953, p. 292.

Egisto, nelle Mouches, non esiste se non nell’immagine che gli abitanti d’Argo si fanno di lui:

Je ne me vois que comme ils me voient, je me penche sur le puits béant de leurs ames, et mon image est là, tout au fond, elle me répugne et me fascine. Dieu tout-puissant, qui suis-je, sinon la peur que les autres ont de moi? [6]

[6] Jean-Paul Sartre, Théatre, 106e édition, Paris, Gallimard, 1951, pp. 77-78.

E lo stesso Giove sente il suo nulla al di fuori degli sguardi e dei pensieri degli uomini:

Qui clone crois-tu que je sois? (désignant la statue). Moi aussi, j’ai mon image. Crois-tu qu’elle ne me donne pas le vertige? Depuis cent mille ans je danse devant les hommes. Une lente et sombre danse. Il faut qu’ils me regardent: tant qu’ils ont les yeux fixés sur moi, ils oublient de regarder en eux-mémes. Si je m’oubliais un seul instant, si je laissais leur regard se détourner … [7] Ibid., p. 78.

Nel Sursis la presenza dell’altro assume drammatico rilievo nella coscienza di uno dei personaggi che ha vissuto questa esperienza rivelatrice:

Un instant, en ce soir de juin où il m’a plu de me confesser à toi, j’aì cru me toucher dans tes yeux effarés. Tu me voyais; dans tes yeux j’étais solide et prévisible; mes actes et mes humeurs n’étaient plus que les consequences d’une essence fìxe. Cette essence, e’est par moi que tu la connaissais, je te l’avais décrite, avec mes mots, je t’avais révélé des faits que tu ignorais et qui t’avaient permis de l’entrevoir … Un instant tu as été le médiateur entre moi et moi-méme, le plus précieux du monde à mes yeux, puisque cet étre solide et dense que j’étais, que je voulais étre, tu le percevais aussi simplement, aussi communément que je te percevais… m’ai compris alors qu’on ne pouvait s’atteindre que par le jugement d’un autre, par la haine d’un autre. Par l’amour d’un autre aussi, peutétre. [8]

[8] Jean-Paul Sartre, Le Sursis, 126e édition, Paris, Gallimard, 1955, p. 318.

In queste relazioni con l’altro, Daniel ha cessato di essere quella “matière molle et mouvante” che egli stesso non arrivava ad afferrare: “On me voit, donc je suis.” (Sono visto, quindi sono.) [9] Ibid., p. 320.

L’azione dello sguardo altrui è parossisticamente illustrata nel dramma allucinante Huis Clos dove, soppressi tutti i sotterfugi di cui l’uomo si serve per mascherare la propria identità e quindi sottrarla alla vista del­ l’altro, ci si accorge che ogni tentativo di esistenza senza compromessi si rivela impossibile alla presenza di un altro, perché l’occhio di costui, simile a quello di Medusa, mi fissa e mi pietrifica. Ma non è soltanto lo sguardo altrui che arresta la mia vita, cioè finitizza la mia esistenza: il pensiero riflesso mi getta ugualmente nell’inerzia dell’oggetto. Daniel infatti dichiara: “Plus je pensais, moins il me semblait etre.” (Più ci pensavo, meno mi sembrava di esserlo.) [10] Ibid., p. 320.

La sua sogget­tività, presa nella “materia molle e instabile” e confusa con questa, non riusciva a prendere la necessaria distanza per vedersi oggettivamente come una qualsiasi forma individuale di essere, senza l’azione del pensiero riflesso.

In questi atteggiamenti esistenziali non è difficile scorgere la presenza di Pirandello, per il quale il dramma dell’esistenza è appunto nell’antitesi tra vivere e vedersi vivere. Vedere la propria vita, significa uscire fuori di essa, oggettivarla: questa oggettivazione è la morte. Conoscersi totalmente, è morire. Ma la nostra conoscenza è parziale e illusoria; è conoscenza di forme provvisorie e di apparenze mutevoli in cui la vita si cala per un istante. Noi siamo nessuno in sé e centomila per gli altri e per il nostro pensiero riflesso. Solo la morte ci dà la totale conoscenza e quindi l’oggettività assoluta della cosa. Nei Quaderni di Serafino Gubbio, Pirandello scrive:

Porsi davanti la vita come un oggetto da studiare, è assurdo, perché la vita, posta davanti, cosi, perde per forza ogni consistenza reale e diventa un’astrazione vuota di senso e di valore. E come è possibile spiegarsela? L’avete uccisa. Potete tutt’al più farne l’anatomia. La vita non si spiega, si vive. La ragione è nella vita; non può essere fuori. E la vita non bisogna porsela davanti, ma sentirsela dentro, e vi verla.

[11] Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, V edizione, Mondadori, Milano, 1949, vol. II, pp. 555-556.

Il personaggio della novella La Carriola, vedendo davanti alla sua porta la targa col suo nome e i suoi titoli professionali, si accor­ge d’un tratto di essere irriconoscibile a se stesso. La sua vita, guardata dal di fuori, non è la stessa di quella che egli sente va­gamente  scorrere  dentro:

Ora la mia tragedia è questa. Dico la mia, ma chi sa di quanti! Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte. Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come di­ cono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non ci conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le con­ dizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla, e morrem­ mo ogni giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire. [12]

[12] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III edizione, Mondadori, Milano, 1959, vol. II, p. 718.

I due passi sopracitati potrebbero benissimo essere accostati ad alcune righe della Nausée:

L’existence n’est pas quelque chose qui se laisse penser de loin; il faut que ça vous envahisse brusquement, que ça s’arrete sur vous, que ça pèse. lourd sur votre coeur comme une grosse bete immobile, ou alors il n’y a plus rien du tout. [13]  (L’esistenza non è qualcosa che può essere pensata da lontano; deve invaderti all’improvviso, deve fermarsi su di te, deve appesantire. pesante sul tuo cuore come una grande bestia immobile, altrimenti non c’è proprio niente.)

[13] Jean-Paul Sartre, La Nausée, 139e édition, Paris, Gallimard, 1954, p. 174.

Per Pirandello, colui che vive non pensa, perché la vita è ane­lito perpetuo a sfuggire all’azione del pensiero che tende a de­ terminarla, a darle forma, a farla questa o quella vita. Ma per essere, bisogna accettare la prigione della forma: questa la tra­gica condizione dell’esistenza: ” Ogni cosa porta con sé la pena della sua forma, la pena d’essere così e di non poter essere altri­ menti.” [14]

[14] Luigi Pirandello, Novelle per un anno, III edizione, Mondadori, Milano, 1959, vol. II, p. 602

Per essere, è necessario lasciarsi prendere in trappola e soffrire il dolore della trappola: ” Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale. La vita che s’è fissata, per essere, nella nostra forma corporale, a poco a poco uccide la sua forma. Il pianto di questa natura fissata è l’irreparabile, continuo invecchiare del nostro corpo.” [15]

[15] Luigi Pirandello, Prefazione ai Sei personaggi, Maschere nude, Mondadori, Milano, 1959, vol. I, p. 65.

Ma la morte del corpo non è che la morte della vita: quindi o la pri­gione o la morte. I drammi Quando si è qualcuno, Sei personaggi in cerca d’autore, Il gioco della parti, Trovarsi, Diana e la Tuda, i romanzi Quaderni di Serafino Gubbio, Uno, nessuno e centomila) e molte novelle, offrono esempi più o meno tipici del tragico dibattersi della vita tra l’azione pietrificante del pensiero o dello sguardo altrui, che la fissano in un destino di morte, e il suo nulla libero in perpetuo fluire. Da una parte il tentativo di uscire dal proprio nulla per costruirsi in questa o quella vita, in forma più o meno stabile, dall’altra il desiderio di “trovarsi” nella propria autenticità soggettiva. L’attrice di Trovarsi si rende conto di non essere più se stessa ma le molteplici incarna­ zioni in cui gli altri la vedono e l’ammirano; e sente il bisogno di uscire da questo continuo infingimento per ritrovare la pro­ pria soggettività, la propria vita. Ma la vita, nella sua intima soggettività, non è che il nulla, perché l’attrice esiste soltanto nelle creature della sua arte, nelle forme illusorie che essa si dà agli occhi del pubblico. L’arte le è quindi necessaria per essere. Ma il giovane nel cui amore essa crede per un momento di trovare se stessa vede subito in lei l’attrice e non la donna, colei che recita nella vita così come recita sul palcoscenico e la fugge inorridito. Egli che è tutto vita, perché vive e non pensa, non può capire l’arte, non può capire cioè che la donna da lui amata, per esistere, deve essere le centomila incarnazioni in cui essa si dà forma. Sicché, il tentativo di far coincidere l’arte con la vita fallisce miseramente, perché la vita aborre la forma. Donata Genzi rinunzia quindi all’amore per ritornare all’arte, accettando così l’ineluttabile condizione dell’esistenza. L’unità vita-forma, esistenza-essere, si rivela impossibile: o la vita o la forma. Fer­ marsi alla vita significherebbe restare nel nulla, in un fluire sen­ za posa; solo nell’arte è possibile trovarsi: ” Vero è soltanto che bisogna crearsi, creare! E allora soltanto, ci si trova.” [16] Ma e che vale trovarsi? “Non ci si trova alla fine che soli!” [17]

[16] Luigi Pirandello, Maschere nude, Mondadori, Milano, 1959, vol. II, p. 968.
[17] Ibid., p. 964.

Non potendo fissarsi in una delle due posizioni assolute – la vita o la forma, l’esistenza o l’essere – senza incorrere nel suo nulla iniziale o nella sua morte finale, l’esistenza si lascia temporaneamente prendere ” in trappola ” per darsi una realtà:

Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non :fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto… La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte. Noi tutti siamo essere presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte… [18]

[18] Luigi Pirandello, “La trappola,” Novelle per un anno, III edizione, Mondadori, Milano, 1959, vol. I, p. 682.

La realtà dell’esistenza non è che un susseguirsi di apparenze, di forme incoerenti in cui la vita si arresta per un momento. Le teorie e le affermazioni, le credenze religiose e morali, non sono che formulazioni effimere che la vita crea e distrugge nel suo effimero costruirsi ora come questa, ora come quella vita. Tanto per Pirandello che per Sartre, anche se detto con concetti diversi, la realtà è una serie di punti intermedi tra il nulla del- 1’esistenza e la fissità dell’essere, tra la liquidezza scorrevole dell’acqua e la solidità della terra. Questi punti intermedi non solo altro che i vari gradi di quel che Sartre chiama la ” viscosità,” [19] cioè i gradi di fusione del solido e di solidità del liquido. Tra la vita che è ” il mare ” e la forma che è ” la terra che s’in­ crosta ” vi sono le centomila vite che formano la dolorosa realtà quotidiana, vi è il terreno molle, viscoso, in cui si muovono e soffrono le creature di Pirandello e quelle di Sartre.

[19] Jean-Paul Sartre, L’Etre et le Néant, 42e édition Paris, Gallimard, 1953, p. 696.

La reazione contro ogni forma di razionalismo e l’attenzione rivolta tutta al problema dell’uomo concreto, con le sue contraddizioni, la sua irrazionalità, le sue angosce; l’idea del­ l’assoluta gratuità e assurdità dell’esistenza; l’affermazione che la prima realtà è la vita, come tendenza spontanea, assoluta­ mente libera ed alogica; l’antitesi tra la vita e la forma; la concezione della realtà come qualche cosa che si costruisce attimo per attimo; l’asserzione che la vita si vive e non si spiega, per­ché spiegarla significherebbe costringerla negli schemi artificiali dei ragionamenti che l’uccidono; l’idea d’una filosofia non come teoria da apprendere, ma come vicenda da vivere autenticamente; infine, il più totale relativismo, psicologico, gnoseologico, etico, religioso: tutti questi atteggiamenti di pensiero, ampia­ mente illustrati dalle numerose opere pirandelliane, ci conducono agli aspetti più significativi dell’esistenzialismo rappresen­tato dalla scuola di Sartre. L’esistenzialismo di Pirandello rimane, infatti, tutto umano e irreligioso come quello di Sartre.

La dialettica vita-forma, al pari di quella esistenza-essere, staccata come è dalla trascendenza manca di sintesi risolutiva; essa rimane imprigionata in un circolo chiuso: se prevale il termine forma, si ha l’uomo inautentico, l’uomo cioè inserito in un complesso di circostanze esterne che lo obbligano ad essere solo una maschera di se stesso e gli impediscono di attingere la vita che è la sua più intima realtà; se prevale il termine vita, si ha l’uomo autentico, nella sua spontaneità e libertà, ma privo di individualità e quindi nel suo nulla. L’anello, così, si chiude, ma il problema rimane sempre aperto. Questa situazione, logi­camente assurda, ma tragicamente reale nel senso strettamente umano, si dissolve nell’opera pirandelliana in un riso sardonico, penetrato di infinita tristezza, in quella di Sartre in un senso di nausea ed in atteggiamento assurdamente stoico.

L’opera pirandelliana, per la sua natura profondamente esistenziale, segna una svolta decisiva nella storia letteraria. La letteratura del passato si fondava su una realtà universalmente ac­cettata, su un concetto della vita ben definito, sull’esistenza d’un determinato personaggio e d’un ambiente considerati come fatti reali e indiscutibili. Tutto il giuoco delle passioni, dei senti­menti, tutto lo svolgimento delle idee, riposavano, in tal modo, su una concezione filosofica o morale, su delle credenze religiose presupposte ad ogni rapporto umano. Pirandello, negando ogni ordine di valori a priori, ha sospinto la letteratura ai limiti estremi del reale, ai confini tra il mondo empirico e gli abissi dell’ignoto. Non è più il problema dei rapporti tra esistenti che la sua opera dibatte e illustra nella sua vasta tematica, ma il problema dell’esistenza stessa: l’esistenza soprattutto del personaggio e del suo mondo. L’autore ha dato così il primo avvio ed il più potente contributo ad una letteratura-problema-fìlosofìco in cui è caratterizzato l’umanesimo del ventesimo secolo. È nel­l’opera pirandelliana che la diagnosi della personalità umana ha trovato la più nuda espressione. A Pirandello è toccato, tra i primi, di difendere l’uomo nella sua concretezza e spontaneità, contro tutte le forze che tendono a comprimere la vita negli schemi della logica astratta e nelle formule scientifiche che la steriliscono. L’esistenzialismo pirandelliano appare perciò come uno dei migliori antidoti contro tutte le tendenze che, nella società attuale, minacciano lo spontaneo fluire dell’esistenza umana:

L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dan­noso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricare di ferro, d’acciaio le sue nuove divinità ed è divenuto servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita! Vi resta ancora, o signori, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare … La macchina è fatta, per agire, per muoversi, ha bisogno d’ingoiarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. [20]

[20] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio, Tutti i romanzi, V edizione, Mondadori, Milano, 1949, vol. II, p. 440.

Queste parole, scritte oltre mezzo secolo fa, precorrono l’esi­genza esistenzialista di un ritorno all’umano, esigenza sentita oggi più che mai davanti alla crescente brutalità del mondo meccanico.

Giovanni Gullace
State University of New York Binghamton
Dicembre 1967

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