Pallottoline! – Audio lettura

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Legge Gaetano Marino
«Giove… forse! Ma non crediate che potreste scorgerlo a occhio nudo! Forse con qualche telescopio di prim’ordine; e non lo so di certo. Pallottoline, care mie, pallottoline! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. E volete far sparire anche il sole?»

Prime pubblicazioni: Quand’ero matto, Renzo Streglio e C. Editori, Torino, 1902, poi in La giara, Bemporad, Firenze 1928.

Pallottoline
Immagine dal Web

Pallottoline!

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Ventotto agosto. Benone! Pochi giorni ancora: meno che un mese. Benone! E riponeva da parte il fogliolino del calendario insieme con gli altri precedenti, perché ottimo per…

             –    Ssss!

             –    Che c’è di male?

             –    Bada, vien gente.

             –    Zitta lì, zitta lì. Non ci sono; o, se mai: Il professore studia! di’ così, di’ così, mi raccomando.

             Chiudeva subito l’uscio; poi, trac! accostava la persiana. Oh, e ora… Eccolo là: segnale a pagina 124.

             L’universo è finito o infinito? Questione antica. E certo che a noi riesce assolutamente impossibile…

             – Ufff! ufff! ufff! – tre volte di seguito, sempre allo stesso posto: lì, nel mezzo della fronte, ronzando. Ah, ma anche per le mosche, se Dio voleva, erano gli ultimi giorni di baldoria, come per gli «insetti umani» che, a piedi o su somarelli, s’inerpicavano fin lassù, a circa mille metri sul livello del mare. E per vedere che cosa infine? I laghi d’Albano e di Nemi: un paio d’occhiali insellato su quel gran naso con la punta all’insù, ch’è il Monte Cave.

             Già cominciavano infatti a spesseggiare i giorni di nebbia: quella nebbia umida e densa che toglie lo spettacolo incantevole dei due laghi gemelli ora vaporosi ora morbidi come azzurri veli di seta: occhi, più che occhiali, tra le folte ciglia dei boschi di ippocastani; occhi della pianura laziale, in cui, come serpente lucido enorme, il Tevere, dall’oscuro grembo di Roma, visibile appena là in fondo, si svolge, ricomparendo qua e là nelle ampie volute, fino al mare visibile appena laggiù.

             Ma nel mentre Jacopo Maraventano si fregava lieto le mani, tappato là, in quel camerino dell’Osservatorio Meteorologico, al piano superiore dell’antico convento, situato con l’attigua chiesetta su la cima del monte; alla nebbia invadente imprecava all’incontro l’oste velletrano, che aveva avuto la cattiva ispirazione di ridurre a miseri camerini d’albergo le povere cellette dei frati cacciati via da quel loro alpestre romitorio, e tavole e tavolini aveva disposti per gli avventori su la spianata dietro al convento, dalla parte di levante, sotto un enorme faggio secolare.

             –   Asino! Ci ho piacere! Piacerone!

             Quell’alta vetta di monte, di cui egli con la famigliuola pativa per tutto l’inverno i rigori crudissimi, la desolazione della neve, l’esiliarne assedio della nebbia, la furia dei venti doveva con la bella stagione diventare per gli altri a un tratto luogo di delizia!

             –   Ecco la nebbia, asino! Ben ti stia! Piacere, piacerone!

             Non la pensavano però come lui la moglie e la figlia Didina, già su i vent’anni, e neanche Franceschino, che pure era nato e cresciuto lassù. Per loro l’estate era una benedizione, e la sospiravano ardentemente in segreto tutto l’inverno. Potevano almeno sentire in quei mesi un po’ di vita attorno e veder gente e scambiare qualche parola; e Didina, chi sa! poteva anche dar nell’occhio a qualche giovanotto, tra i tanti che salivano a visitare l’Osservatorio, ai quali la buona signora Guendalina, bruna, magra, ossuta, col volto bruciato dai rigori invernali, non mancava di ripetere, invece del marito, come poteva (cioè sempre con le stesse parole e gli stessi gesti), la spiegazione dei pochi strumenti per le osservazioni meteorologiche. Dopo la spiegazione presentava ai visitatori un registro, perché vi apponessero la firma e, accanto, qualche pensiero.

             Lasciava andar certi sospironi la povera Didina rileggendo in quel registro, nelle serate d’inverno lassù, quei pensieri in margine e talvolta qualche poesiola: quella, per esempio, indirizzata proprio a lei (All’edelweiss di Monte Cave). Ah, il giovane poeta che l’aveva scritta chi sa dov’era ormai, se pensava più a lei, se sarebbe ritornato la ventura estate!

             La signora Guendalina tentava, ma timida, d’indurre il marito rinchiuso a farsi vedere dai visitatori. Non foss’altro, per dovere d’ospitalità, diceva. Ma Didina, ogni qualvolta la madre si provava a muovere questo discorso, le dava sotto sotto gomitate: poi, a quattr’occhi, le faceva notare che, se il babbo non si persuadeva prima a farsi tagliare quell’aspra selva di capelli riccioluti e quel barbone mostruoso, arruffato che gli aveva invaso le guance fin sotto gli occhi, era meglio che non si lasciasse vedere.

             La madre ne conveniva, sospirando; e alla domanda dei visitatori:

             – Il professore dov’è?

             –   Il professore studia, – rispondeva con gli occhi bassi, invariabilmente.

             Studiava davvero il Maraventano, o almeno stava immerso tutto il giorno nella lettura di certi libracci che trattavano d’astronomia, unico suo pascolo. La lettura però andava a rilento, poiché egli si lasciava distrarre dalla fantasia, rapire da ogni frase per le infinite plaghe dello spazio, da cui non sapeva poi ridiscendere più, come la moglie avrebbe desiderato. Ma ridiscendere perché? Per mostrare lì alla gente che veniva a frastornarlo, a seccarlo, e da cui una così sterminata distanza lo allontanava, come agisse un pluviometro o un anemometro, per far vedere i sismografi o i barometri? Eh via! Un giorno gli sapeva un anno, che quella processione di seccatori terminasse.

             Per fortuna, dei pochi matti che avevano preso alloggio nel sedicente albergo, uno solo resisteva ancora alle incalzanti minacce del tempo. Già l’autunno si ridestava con certi sbuffi che scotevano là sulla cima la grave e stanca immobilità dei grandi alberi esausti; e quando quegli sbuffi non avevano alcun impeto contro le povere foglie moribonde, erano fitti ribocchi di nebbia, che si ergevano a onde, impigliandosi pigri tra i rami attediati, in basso stagnando sui laghi; o fumigavano qua e là dai boschi sottoposti, che pareva ardessero a lento, senza fiamma, senza crepito. Sembrava certi giorni che tutta l’aria si fosse raddensata in un fumo bianchiccio, umido, accecante: e allora la vetta del monte restava come esiliata dal mondo, e dalla spianata non si sarebbe potuto scorgere neanche a un passo il convento.

             E tuttavia quell’ultimo matto resisteva lì.

             Jacopo Maraventano non tardò a intenderne la ragione.

             Una sera, dalla sua finestretta, per entro a quella nebbia fittissima, udì, o gli parve, certi bisbigli, che non potevano esser presi per gli acuti stridii che sogliono lanciare nell’aria i pipistrelli, o gli scojattoli su per i rami degli alberi.

             Zitto zitto, quatto quatto, scese su la spianata. Né egli discerneva tra la nebbia gl’innamorati, né questi tra loro si discernevano.

             Dall’alto sospirava una voce:

             –    Cadrà tanta neve… tanta neve…

             –    Dev’esser bello, – rispondeva dalla spianata l’altra voce.

             –    Bello sarebbe per me, se tu rimanessi qua; ma per te no, caro. Si muore di freddo, sai?

             –    Povero amore! Ma ora io debbo partire. Ti giuro però che tornerò tra poco.

             –    Non tornerai, ne sono certa, lo resterò per te, nel tuo cuore, il ricordo di un’estate in montagna…

             La voce dalla spianata voleva protestare; ma Jacopo Maraventano tossì forte, e subito corse con le mani avanti, come un cieco, in direzione del convento, per tagliar la via al giovanotto che se la svignava radendo il muro. Venne proprio a cadérgli tra le braccia. All’inciampone, indietreggiò, balbettando:

             –    Oh, scusi… Buo… buona sera, professore.

             –    Buona sera. Lei va a far le valige, non è vero?

             –    Sì… sissignore… Conto di partire domattina.

             –    Fa bene. Buon viaggio! Quassù non tira più buon’aria. E neanche il babbo si riesce più a scorgere…

             –    Come dice?

             –    Non dico a lei, dico a mia figlia. E vero, Didina, che con questa nebbia non scorgi più neanche il babbo tuo?

             Ma Didina era già scappata in lagrime a rifugiarsi presso la mamma.

             Con la partenza di quel giovanotto parve davvero che l’inverno si stabilisse finalmente lassù. L’oste chiuse l’albergo e, borbottando imprecazioni, se ne discese a Velletri.

             Su la vetta ormai si udiva solo il vento parlare con gli alberi antichi. Jacopo Maraventano restava assoluto padrone della solitudine, libero in mezzo alla nebbia, signore dei venti, piccolo su quell’alta punta nevosa al cospetto del cielo che da ogni parte lo abbracciava e nel quale d’ora in poi poteva tornare a immergersi, a naufragare, non più infastidito o distratto. Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventava per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè di questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventavano questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità?

             E di questo suo disprezzo, non che della Terra, ma di tutto il sistema solare, e della stima che si era ridotto a far delle cose umane, considerandole da tanta altezza, avrebbe voluto far partecipi moglie e figliuola, che si lamentavano di continuo ora per il freddo ora per la solitudine, traendo da ogni piccola infelicità argomento di lagni e di sospiri.

             E le sere d’inverno, lassù, mentre Didina e la madre, infreddolite, se ne stavano raccolte in cucina e lui, senza neppure saperlo, sventolava davanti al fornello per far bollire la pentola, parlava loro delle meraviglie del cielo, spiegava la sua filosofia.

             –    Punto di partenza: ogni stella un mondo a sé. Un mondo, care mie, non crediate, più o meno simile al nostro; vale a dire: un sole accompagnato da pianeti e da satelliti che gli rotano intorno, come i pianeti e i satelliti del nostro sistema attorno al sole nostro, il quale, sapete che cos’è? Vi faccio ridere: nient’altro che una stella di media grandezza della Via Lattea. Ne volete un’idea? Trasportate nello spazio il nostro mondo – questo così detto sistema solare – a una distanza uguale… non dico molto – a poche migliaja di volte il suo diametro, cioè, alla distanza delle stelle più vicine. Orbene, il nostro gran sole sapete a che cosa sarebbe ridotto rispetto a noi? Alle proporzioni d’un puntino, luminoso, alle proporzioni di una stella di quinta o sesta grandezza: non sarebbe più, insomma, che una stellina in mezzo alle altre stelle.

             –    Scusa, – interloquiva Didina, che insieme con la madre, non sapendo che fare, gli prestava ascolto, d’inverno. – Hai detto rispetto a noi. Ma, trasportando il sole, la terra non dovrà pure, per conseguenza…

             –    No, asinella! – la interrompeva il padre. – La terra lasciala qua. E un’ipotesi, per farti capace.

             Didina alzava le spalle: non si capacitava.

             –    Che c’entra! Il sole è sempre il sole.

             –    E che cos’è? – le gridava allora il padre sdegnatissimo. – Ma lo sai che se Sirio sputa, il sole ti si spegne, come una candela di sego? Sappilo: – pah! si spegne.

             –    Jacopo, – diceva placidamente la signora Guendalina. – Se non ci metti altro carbone, ti si spegne pure il fuoco e l’acqua ti bolle per l’anno santo.

             Egli allora scoperchiava la pentola, guardava dentro, poi rispondeva alla moglie:

             – No, comincia a muoversi. Faccio vento, lo vedi. Ma veniamo ai nostri grandi pianeti. Care mie, alla distanza che vi ho detto, s’involerebbero addirittura al nostro sguardo, tutti, meno, forse, Giove… forse! Ma non crediate che potreste scorgerlo a occhio nudo! Forse con qualche telescopio di prim’ordine; e non lo so di certo. Pallottoline, care mie, pallottoline! Quanto a noi, alla nostra Terra, non se ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. E volete far sparire anche il sole? Basta, col beneplacito di Didina, senz’altro, là! retrospingerlo alla distanza delle stelle di prima grandezza. C’è? Non c’è? Uhm! Sparito.

             Il vento cacciava dentro la stanza, attraverso la gola del camino, un mugolìo continuo, opprimente. Nei brevi intervalli tra una fase e l’altra del Maraventano pareva che il silenzio sprofondasse pauroso nella tenebra. Si udivano allora gemere gli alberi tormentati della vetta, e se questi alberi tacevano per un istante e si udiva invece da più lontano il frascheggiare confuso dei boschi sottoposti, lassù pareva si stesse sospesi tra le nuvole, come in un pallone. Ma se poi dal fornello scoppiava una favilla, le due donne sentivano il conforto di quella stanza familiare, illuminata, intepidita dal fuoco; e la immobilità delle stoviglie appese alle pareti e della povera e scarsa suppellettile rassettava il loro animo conturbato dal vento e dal panico della notte in quella orrenda solitudine alpestre.

             Il Maraventano, sopra le regioni del vento, sopra le nuvole più alte, era rimasto intanto con la ventola da cucina in mano nella remotissima plaga dello spazio, dove un momento innanzi aveva lanciato, come un giocoliere i suoi globetti di vetro, tutto il sistema planetario, e scrollava il capo, con le ciglia aggrottate, gli occhi socchiusi e gli angoli della bocca contratti sdegnosamente in giù. A un tratto esplodeva tra il barbone abbatuffolato, come se ripiombasse su la terra, lì, in cucina:

             – Bah!

             E con la ventola faceva un largo gesto indeterminato. Poi riprendeva, con gli occhi immobili e invagati:

             – Pensare… pensare che la stella Alfa della costellazione del Centauro, vale a dire la stella più vicina a questo nostro cece, alias il signor pianetino Terra, dista da noi trentatré miliardi e quattrocento milioni di chilometri! Pensare che la luce, la quale, se non lo sapete, cammina con la piccolissima velocità di circa duecento novantotto mila e cinquecento chilometri al minuto secondo (dico secondo), non può giungere a noi da quel mondo prossimo che dopo tre anni e cinque mesi – l’età cioè del nostro buon Franceschino che sta a sfruconarsi il naso col dito, e non mi piace… Pensare che la Capra dista da noi seicentosessantatré miliardi di chilometri, e che la sua luce, prima d’arrivare a noi, con quel po’ po’ di velocità che v’ho detto, ci mette settant’anni e qualche mese, e, se si tien conto dei calcoli di certi astronomi, la luce emessa da alcuni remoti ammassi ci mette cinque milioni d’anni, come mi fate ridere, asini! L’uomo, questo verme che c’è e non c’è, l’uomo che, quando crede di ragionare, è per me il più stupido fra tutte le trecento mila specie animali che popolano il globo terraqueo, l’uomo ha il coraggio di dire: «Io ho inventato la ferrovia!». E che cos’è la ferrovia? Non te la comparo con la velocità della luce, perché ti farei impazzire; ma in confronto allo stesso moto di questo cece Terra che cos’è? Ventinove chilometri, a buon conto, ogni minuto se condo; hai dunque inventato il lumacone, la tartaruga, la bestia che sei! E questo medesimo animale uomo pretende di dare un dio, il suo Dio a tutto l’Universo!

             Qui il Maraventano e la moglie si guastavano.

             –    Jacopo! – pregava la signora Guendalina. – Non bestemmiare. Fallo almeno per pietà di noi due povere donne esposte quassù…

             –    Hai paura? – le gridava il marito. – Temi che Dio, perché io bestemmio, come tu dici, ti mandi un fulmine? C’è il parafulmine, sciocca. Vedi dond’è nato il vostro Dio? Da codesta paura. Ma sul serio potete credere, pretendere che un’idea o un sentimento nati in questo niente pieno di paura che si chiama uomo debba essere il Dio, debba essere quello che ha formato l’Universo infinito?

             Le due donne si turavano gli orecchi, chiudevano gli occhi; allora il Maraventano scaraventava per terra la ventola, e gridando con le braccia per aria:

             – Asine! asine! – andava a chiudersi nella sua stanzetta e, per quella sera, addio cena.

             Simili scene avvenivano assai di frequente, poiché né Didina né la moglie volevano adattarsi alla filosofia di lui, specialmente quando avevano bisogno di qualche cosa.

             –    Diviene, – diceva loro il Maraventano – dal non sapere filare un ragionamento semplicissimo; dal non volere guardare in su un momentino. Oh Alfa del Centauro! oh Sirio, oh Capella! sapete perché piange Didina? Piange perché non ha una veste nuova d’inverno da farsi ammirare in chiesa, le domeniche, a Rocca di Papa. Roba da ridere!

             –    Roba da ridere; ma io mi muojo dal freddo, – rispondeva tra le lagrime Didina.

             E il Maraventano:

             – Senti freddo, perché non ragioni !

             Non a parole soltanto dimostrava egli il disprezzo in cui teneva la terra e tutte le cose della vita. Soffriva di mal di denti, e talvolta la guancia per la furia del dolore gli si gonfiava sotto il barbone come un’anca di padre abate: ebbene, senz’altro, retrospingeva nello spazio il sistema planetario: spariva il sole, spariva la terra, tutto diventava niente, e con gli occhi chiusi, fermo nella considerazione di questo niente, a poco a poco addormentava il suo tormento.

             – Un dente cariato, che duole nella bocca di un astronomo… Roba da ridere. Sia d’estate, sia d’inverno, fosse nuvolo o sereno, si recava a piedi, dalla

             cima del monte, fino a Roma. Avrebbe potuto spedire per posta da Rocca di Papa il bollettino meteorologico all’ufficio centrale; ma a Roma lo attendeva il maggior godimento della sua vita. Vi si tratteneva ogni volta una notte, e per grazia particolare del Direttore del Collegio Romano la passava beatamente tutta intera al telescopio. La moglie, nel vederlo partire, tentava d’indurlo a servirsi della vettura da Rocca di Papa a Frascati o, almeno, della ferrovia da Frascati a Roma:

             –    Prenderai un’insolazione!

             –    Il sole, mia cara, ti serva: non è neanche buono da regolare gli orologi! – le rispondeva il Maraventano.

             E il suo orologio, infatti, sul cui quadrante aveva scritto con inchiostro rosso: Solis mendaces arguii horas, non era regolato col tempo solare.

             La distanza? Ma su la terra per lui non ci erano distanze. Congiungeva ad anello l’indice e il pollice d’una mano e diceva alla moglie sghignazzando:

             – Ma se la Terra è tanta…

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