Mondo di carta – Audio lettura 2

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Legge Giuseppe Tizza
«Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l’ombra azzurra della cattedrale. – Niente lì si doveva toccare. Era così, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 4 ottobre 1909, poi in La mosca, Bemporad, Firenze 1923.

Mondo di carta
By Rob Gonsalves. Da Internet

Mondo di carta

Voce di Giuseppe Tizza

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            Un gridare, un accorrere di gente in capo a Via Nazionale, attorno a due che s’erano presi: un ragazzaccio sui quindici anni, e un signore ispido, dalla faccia gialliccia, quasi tagliata in un popone, su la quale luccicavano gli occhialacci da miope, grossi come due fondi di bottiglia.

             Sforzando la vocetta fessa, quest’ultimo voleva darsi ragione e agitava di continuo le mani che brandivano l’una un bastoncino d’ebano dal pomo d’avorio, l’altra un libraccio di stampa antica.

             Il ragazzaccio strepitava pestando i piedi sui cocci d’una volgarissima statuetta di terracotta misti a quelli di gesso abbronzato della colonnina che la sorreggeva.

             Tutti attorno, chi scoppiava in clamorose risate, chi faceva un viso lungo lungo e chi pietoso: e i monelli, attaccati ai lampioni, chi abbajava, chi fischiava, chi strombettava sul palmo della mano.

             – È la terza! è la terza! – urlava il signore. – Mentre passo leggendo, mi para davanti le sue schifose statuette, e me le fa rovesciare. E la terza! Mi dà la caccia! Si mette alle poste! Una volta al Corso Vittorio; un’altra a Via Volturno; adesso qua.

             Tra molti giuramenti e proteste d’innocenza, il figurinajo cercava anch’esso di farsi ragione presso i più vicini:

             –    Ma che! È lui! Non è vero che legge! Mi ci vien sopra! O che non veda, o che vada stordito, o che o come, fatto si è…

             –    Ma tre? Tre volte? – gli domandavano quelli tra le risa.

             Alla fine, due guardie di città, sudate, sbuffanti, riuscirono tra tutta quella calca a farsi largo; e siccome l’uno e l’altro dei contendenti, alla loro presenza, riprendevano a gridare più forte ciascuno le proprie ragioni, pensarono bene, per togliere quello spettacolo, di condurli in vettura al più vicino posto di guardia.

             Ma appena montato in vettura, quel signore occhialuto si drizzò lungo lungo sulla vita e si mise a voltare a scatti la testa, di qua,, di là, in su, in giù; infine s’accasciò, aprì il libraccio e vi tuffò la faccia fino a toccar col naso la pagina; la sollevò, tutto sconvolto, si tirò sulla fronte gli occhialacci e rituffò la faccia nel libro per provarsi a leggere con gli occhi soltanto; dopo tutta questa mimica cominciò a dare in smanie furiose, a contrarre la faccia in smorfie orrende, di spavento, di disperazione:

             – Oh Dio. Gli occhi. Non ci vedo più. Non ci vedo più!

             Il vetturino si fermò di botto. Le guardie, il figurinajo, sbalorditi, non sapevano neppure se colui facesse sul serio o fosse impazzito; perplessi nello sbalordimento, avevano quasi un sorriso d’incredulità sulle bocche aperte.

             C’era là una farmacia; e, tra la gente ch’era corsa dietro la vettura e l’altra che si fermò a curiosare, quel signore, tutto scompigliato, cadaverico in faccia, sorretto per le ascelle, vi fu fatto entrare.

             Mugolava. Posto a sedere su una seggiola, si diede a dondolare la testa e a passarsi le mani sulle gambe che gli ballavano, senza badare al farmacista che voleva osservargli gli occhi, senza badare ai conforti, alle esortazioni, ai consigli che gli davano tutti: che si calmasse; che non era niente; disturbo passeggero; il bollore della collera che gli aveva dato agli occhi. A un tratto, cessò di dondolare il capo, levò le mani, cominciò ad aprire e chiudere le dita.

             – Il libro! Il libro! Dov’è il libro?

             Tutti si guardarono negli occhi, stupiti; poi risero. Ah, aveva un libro con sé? Aveva il coraggio, con quegli occhi, di andar leggendo per istrada? Come, tre statuette? Ah sì? e chi, chi, quello? Ah sì? Gliele metteva davanti apposta? Oh bella! oh bella!

             – Lo denunzio! – gridò allora il signore, balzando in piedi, con le mani protese e strabuzzando gli occhi con scontorcimenti di tutto il volto ridicoli e pietosi a un tempo. – In presenza di tutti qua, lo denunzio! Mi pagherà gli occhi! Assassino! Ci sono due guardie qua; prendano i nomi, subito, il mio e il suo. Testimoni tutti! Guardia, scrivete: Balicci. Sì, Balicci; è il mio nome. Valeriano, sì, via Nomentana 112, ultimo piano. E il nome di questo manigoldo, dov’è? è qua? Lo tengano! Tre volte, approfittando della mia debole vista, della mia distrazione, sissignori, tre schifose statuette. Ah, bravo, grazie, il libro, sì, obbligatissimo! Una vettura, per a casa! Resta denunziato.

             E si mosse per uscire, con le mani avanti; barellò; fu sorretto, messo in vettura e accompagnato da due pietosi fino a casa.

             Fu l’epilogo buffo e clamoroso d’una quieta sciagura che durava da lunghissimi anni. Infinite volte, per unica ricetta del male che inevitabilmente lo avrebbe condotto alla cecità, il medico oculista gli aveva dato di smettere la lettura. Ma il Balicci aveva accolto ogni volta questa ricetta con quel sorriso vano con cui si risponde a una celia troppo evidente.

             – No? – gli aveva detto il medico. – E allora seguiti a leggere, e poi mi lodi la fine! Lei ci perde la vista, glielo dico io. Non dica poi, se me lo credevo! Io la ho avvertita!

             Bell’avvertimento! Ma se vivere, per lui, voleva dir leggere! Non dovendo più leggere, tanto valeva che morisse.

             Fin da quando aveva imparato a compitare, era stato preso da quella mania furiosa. Affidato da anni e anni alle cure di una vecchia domestica che lo amava come un figliuolo, avrebbe potuto campare sul suo più che discretamente, se per l’acquisto dei tanti e tanti libri che gì’ingombravano in gran disordine la casa, non. si fosse perfino indebitato. Non potendo più comprarne di nuovi, s’era dato già due volte a rileggersi i vecchi, a rimasticarseli a uno a uno tutti quanti dalla prima all’ultima pagina. E come quegli animali che per difesa naturale prendono colore e qualità dai luoghi, dalle piante in cui vivono, così a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli. Discesa a grado a grado tutta la scala della miopia, ormai da alcuni anni pareva che i libri se li mangiasse davvero, anche materialmente, tanto se li accostava alla faccia per leggerli.

             Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujò, non s’illuse più neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena potè uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprì, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l’ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lì, tutto il suo mondo! E non poterci più vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!

             La vita, non l’aveva vissuta: poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva più leggere.

             La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s’era proposto di mettere un po’ d’ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l’aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l’avesse fatto, ora, accostandosi all’uno o all’altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.

             Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d’ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che – via – doveva essere uscito di cervello quel pover uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.

             –    Professore, – sbuffava il giovanotto. – Ma così badi che non la finiamo più!

             –    Sì, sì, ecco, ecco, – riconosceva subito il Balicci. – Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l’ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.

             Erano per la maggior parte libri di viaggi, d’usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e d’amena letteratura, libri di storia e di filosofia.

             Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il buio gli s’allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a covarlo.

             Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro. Scene, episodi, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti più impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell’alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d’un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.

             Ma non potè reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com’era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità. Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava l’immagine d’una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s’arrestasse d’un subito, con furioso sbattito d’ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.

             Irruppe nello studio, gridando il suo nome:

             – Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già… me lo… sicuro, Balicci, c’era scritto sul giornale… anche su la porta… Oh Dio, per carità, no! guardi, professore, non faccia così con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.

             Questa fu la prima entrata. Non se n’andò. La vecchia domestica, con le lagrime a gli occhi, le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.

             – Niente pericoli?

             Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po’ strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là, non sapeva più se fosse donna o strofinaccio.

             – Purché lei glieli legga bene.

             La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, è appuntandosi l’indice d’una mano sul petto:

             – Io?

             Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.

             Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.

             – No! Così no! Così no! per carità! – si mise a gridare.

             E la signorina Pagliocchini, con l’aria più ingenua del mondo:

             –    Non leggo bene?

             –    Ma no! Per carità, a bassa voce! Più bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!

             –    Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.

             Il Balicci s’interi va pallido:

             –    Le proibisco!

             –    Ma no, scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo così, io fischio l’esse, professore!

             Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, su per giù, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.

             – Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.

             La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d’occhi.

             –    Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?

             –    Sì, ecco, per conto suo.

             –    Ma grazie tante! – scattò, balzando in piedi, la signorina. – Lei si burla di me? Che vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?

             –    Ecco, le spiego, – rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. – Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel’ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà… oh, basterà un cenno… e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!

             –    Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! – protestò, sulle furie, la signorina.

             –    Lo credo, lo so – disse subito il Balicci. – Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?

             – Ebbene, ci sto, sì. Dia qua!

             In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n’andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: – Bello, eh? – oppure: – Ha voltato? – Non sentendola nemmeno fiatare, s’immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.

             – Sì, legga, legga… – la esortava allora, piano, quasi con voluttà. Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci

             coi gomiti su i bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani.

             – Professore, a che pensa?

             –    Vedo… – le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: – Eppure ricordo che erano di pepe!

             –    Che cosa, di pepe, professore?

             –    Certi alberi, certi alberi in un viale… Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz’ultimo libro.

             –    Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? – gli domandava la signorina, spaventata e sbuffante.

             –    Se volesse farmi questo piacere.

             Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s’irritava alle raccomandazioni di far piano. Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe più tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:

             – Ma che! ma che! ma che! – proruppe su tutte le furie. – Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com’è detto qua!

             Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d’ira e convulso:

             – Io le proibisco di dire che non è com’è detto là! – le gridò, levando le braccia. – M’importa un corno che lei c’è stata! E com’è detto là, e basta! Dev’essere così, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può più stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!

             Rimasto solo, Valeriano Balicci, dopo aver raccattato a tentoni il libro che la signorina aveva scagliato a terra, cadde a sedere su la poltrona; aprì il libro, carezzò con le mani tremolanti le pagine gualcite, poi v’immerse la faccia e restò lì a lungo, assorto nella visione di Trondhjem con la sua cattedrale di marmo, col cimitero accanto, a cui i devoti ogni sabato sera recano offerte di fiori freschi – così, così com’era detto là. – Non si doveva toccare. Il freddo, la neve, quei fiori freschi, e l’ombra azzurra della cattedrale. – Niente lì si doveva toccare. Era così, e basta. Il suo mondo. Il suo mondo di carta. Tutto il suo mondo.

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