L’uomo del Caos – Capitolo 7: Pirandello e l’Arte

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Di Pietro Seddio

“Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.”

Pirandello. L’uomo del Caos

Per gentile concessione dell’ Autore

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L'uomo del Caos. Capitolo 7
20 marzo 1928. Prove de La nuova colonia. Pirandello osserva i bozzetti per le scene della sua opera teatrale circondato da alcuni assistenti e attori della compagnia.
“Per il popolo la storia non è scritta;
o, se è scritta, esso la ignora o non se ne cura;
la sua storia esso se la crea,
e in modo che risponda a’ suoi sentimenti e alle sue aspirazioni.”

Luigi Pirandello, L’Umorismo, Parte prima, Capitolo V

Pirandello. L’uomo del Caos
Capitolo 7
Pirandello e l’Arte

Nonostante Pirandello fosse arrivato all’arte quasi controvoglia, perché spinto da necessità, anche finanziarie, quello che si instaurò fu un rapporto complesso, completo e per un verso indissolubile. Ne subì anche l’nfluenza negativa in quanto una volta entrato in questo mondo ne fu come inglobato, tant’è che la sua ultima opera (I giganti della montagna) fu quanto mai difficoltosa nell’elaborazione e rimase incompiuta.

Abbiamo già visto come i rapporti con il mondo che lo circondava non furono dei migliori ed il suo isolamento sembrò trovare sfogo non solo nelle sue opere, ma addirittura nell’attività teatrale che lui seguiva, ora, personalmente e dove ebbe modo d’incontrare Marta Abba. [1]

[1] Marta Abba è nata a Milano il 25 giugno 1900, ancora sconosciuta, appena agli inizi della sua carriera d’attrice, recita con la Compagnia Talli a Milano e ottiene un grande successo specialmente per la sua interpretazione del ’Gabbiano’ di Cechov. La critica scritta da Marco Praga ha un’importanza determinante nella decisione di Pirandello di scritturare la Abba come prima attrice della Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, allora in corso di formazione.

Pirandello e Marta Abba s’incontrano per la prima volta il 7 febbraio 1925 per poi rivedersi a fine febbraio dello stesso anno quando viene presentata, dopo la firma del contratto per la sua prestazione artistica, ai componenti la Compagnia a Roma nel Teatro Odescalchi. Il 22 aprile Marta Abba è l’assoluta protagonista del personaggio della commedia ‘Nostra Dea’ di Massimo Bontempelli con la regia dello stesso Pirandello.

Inizia da questo momento e fino alla morte del Maestro un sodalizio che non s’interromperà mai nonostante lo stesso sodalizio sarà intercalato da periodi di lontananza perché separatamente i due percorreranno altre strade artistiche avendo Marta Abba continuato a recitare in quasi tutti i teatri del mondo e parimenti ha fatto Pirandello che è stato presente a molte rappresentazioni delle sue opere.

E’ fittissima la corrispondenza tra i due, soprattutto da parte del Maestro che in più occasioni (soprattutto quando erano separati) ha espresso dolore e rammarico per quella forzata lontananza.

Dopo la morte di Pirandello, Marta porta a termine i suoi impegni teatrali negli Stati Uniti. Nel 1936 riceve il premio dell’American Dramatic League, e il 28 gennaio 1938 sposa un americano ricchissimo, Severance Allen Millikin. Si stabilisce a Cleveland, Ohio, abbandona le scene per desiderio del marito, e vive la vita dell’alta società locale. Nel 1952 divorzia e l’anno seguente ritorna in Italia, dove forma con l’attore Piero Cornabuci una Compagnia che ha breve durata. Vive a Milano, a Lugano, nel Principato di Monaco, sul lago di Ginevra. Nel 1986 seppur colpita da paralisi, si reca a New York e viene festeggiata a Princeton in occasione della donazione delle lettere di Pirandello alla biblioteca di quella università.

Muore a Milano il 24 giugno 1988, il giorno prima del suo ottantottesimo compleanno.

Su questo rapporto molto si è detto, scritto ed in tanti si è pensato che al di là dell’interesse artistico, tra i due ne esistesse uno più intimo.

E’ indubbio che Pirandello trascorse parte della sua vita accanto all’attrice, ma la stessa, in una intervista poco prima di morire, ha riferito che tale rapporto era da intendersi puramente intellettuale e spirituale. In ogni caso, per il Maestro fu quanto mai salutare, perché ebbe la possibilità di “calarsi” ancor più nel suo “io”, creando opere teatrali importantissime, alcune delle quali dedicò alla sua “compagna” che rivestì, anche, il ruolo di prima attrice nella compagnia diretta dallo stesso Maestro.

Nonostante il matrimonio di Marta, questa non ha mai avuto figli e quindi visse gli ultimi anni della sua vita da sola e finché fu in grado di recitare continuò a portare in giro le opere di Pirandello del quale certamente conservò un indistruttibile ricordo.

In ogni caso non ha mai voluto, a quanti le facevano domande particolari, entrare nel merito lasciando intendere che il sentimento provato per il Maestro apparteneva solo a lei.

Ed è per questo che, nel rispettare codesto desiderio, si sorvolerà su un argomento prettamente personale se non per dire semmai che Marta Abba abbia contribuito a dare un po’ di serenità a quel genio siciliano così provato dalle avversità e questo le rende merito imperituro non dimenticando che oltre ad essere la sua donna, Marta Abba fu una attrice di valore e di consumata esperienza artistica. Pirandello era solito, prima di assegnare le parti, leggere lui medesimo, per intero, il copione con assoluta padronanza dei sentimenti che erano insiti nei personaggi stessi tanto è vero che l’attore, dopo tale lettura, non faceva tanta fatica ad interpretare il “senso artistico ed estetico” dell’autore.

Da una testimonianza diretta di A. G. Bragaglia, riportata da Gaspare Giudice si legge: “… La prova ch’egli visse la vita dei suoi personaggi si aveva soprattutto alle impostazioni delle commedie… nessun attore riuscirà come lui a trasferirsi nei personaggi. Pirandello aveva il potere di rendere vive e reali le sue creature…”  [2]

[2] Gaspare Giudice, Pirandello, Ed. Utet, pag. 448

Questo contatto diretto, prima coi personaggi, poi con gli attori, era certamente una valvola di sfogo così lui stesso riprovava, nel leggere ed interpretare le sensazioni che i personaggi sul palco sperimentavano trasmettendo l’accavallarsi di passioni, di delusioni che lui aveva covato negli anni e trasmessi, in perfetta sincronia, a quanti vivevano nell’area da lui designata: la rappresentazione oggettiva.

Non si può interpretare questo avvicinarsi di Pirandello al teatro come un momento particolare, ma bisogna vederlo come una naturale connotazione spirituale che trova momento culminante non solo nella creazione, ma anche nella lettura personale rivolta a quanti poi dovevano “interpretare” il personaggio. Gli attori, a loro volta, dovevano “calarsi” nel ruolo che competeva loro, su precise e scrupolose quanto incontestabili indicazioni del Capocomico.

E tutti lo ascoltavano con religioso silenzio, pronti a carpire le sfumature che quella lettura (anche “interpretazione”) convincente, evidenziava. Era anche una lezione d’arte che ancora oggi, da molti attori, viene ripresa e non sono in pochi ad avere, per contro, creato vere scuole di recitazione. Non che Pirandello fosse un attore, infatti non recitò mai (a parte qualche ruolo durante la prima gioventù), ma era senz’altro un lettore ed un interprete vivo, quanto interessante con la possibilità di catalizzare l’attenzione attraverso la lettura che altro non era se non la continuazione del suo dramma interiore che traspariva dal dialogo di quei personaggi.

Continuava a vivere in questi ed era buona l’occasione, nel leggere le sue opere, perché quel momento che creazione non era si perpetuasse all’infinito. Poi tornava a sedersi in platea ed ascoltava, attento, all’evolversi dell’azione (o delle azioni) e quindi del lavoro che si preparava con puntiglio e assoluta professionalità.

Questo attaccamento alla sua opera, specialmente a quella teatrale, gli consentiva quindi di provare di persona tutte le emozioni che lui aveva inteso trasferire nei personaggi e avvertiva, nel contempo, le reazioni dello spettatore in quanto in quel mentre lui era autore, attore e spettatore.

Tale partecipazione diretta gli dava un più ampio respiro, lo esaltava per non dire che lo allontanava dalle traversie della vita che continuavano ad irretirlo, anche per via di alcuni critici che, ostinatamente, tendevano a demolire la sua arte.

Giustamente Corrado Simioni, nella sua introduzione al Teatro di Pirandello, scrive: “…si tratta, di una chiarificazione interiore che lo conduce a una dimensione creativa nuova e più elevata, il cui perno è costituito da rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra normalità e anormalità”. [3]

[3] Corrado Simioni, Introduzione al Teatro di Pirandello, Ed. Mondadori 1968, pag. XXIII

Esisteva, allora, preponderante, questo connubio tra l’uomo Pirandello e l’artista. Rapporto imprescindibile che costituiva il “pernio” attorno al quale doveva ruotare tutta l’essenza della vita come lui l’aveva concepita, ora nell’intento di farla comprendere agli altri che certo non mostravano entusiasmo.

E basta ricordare alcune frasi scritte dal Maestro nella Prefazione all’opera Sei personaggi in cerca d’autore, per comprendere il suo pensiero.

E cos’è il proprio dramma per un personaggio?

Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragione d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.

Quando arrivò alla forma espressiva teatrale era pronto, tanto è vero che ne ebbe la consapevolezza perché subito le prime opere, seppur di contenuto ancora “veriste”, si affacciarono alla ribalta italiana con successo e spinto da questo s’addentrò sempre più nei meandri della concezione vita-morte per creare nuovi personaggi con diverse storie che presto avrebbero varcato i confini italiani.

In questo, nell’avvicinarsi al teatro, non fu coerente perché aveva detto, al figlio, che mai avrebbe scritto per il teatro.

E non poteva essere vero in quanto i tanti personaggi già bussavano alla sua porta; aspettavano di indossare gli abiti che lui aveva confezionato, presentarsi al pubblico e parlare il linguaggio che lui aveva inventato.

Questa creazione era sofferta, costruita nel tempo, la quale non poteva esaurirsi con il completamento dell’opera per cui lo stesso Pirandello sentiva, quasi, il bisogno di vivere personalmente le “tragedie” dei suoi personaggi con “un obbligato vivere” sulle stesse tavole.

Una osmosi impeccabile, naturale che è continuata fino alla fine. Si ricordi l’ultima notte vissuta con i Giganti, alla ricerca d’una verità che forse dopo morto ha compreso e per la quale affannosamente ha peregrinato per decenni senza mai riuscire a stigmatizzare la verità assoluta.

Mi sono ridotto in un pozzo da cui non riesco più a tirarmi fuori.

Tale affermazione fa trasparire in modo inequivocabile come il suo intimo si trovasse a combattere battaglie ardue e complesse sempre da solo, eternamente da solo e seppur visse, gran parte della giornata con i suoi attori, certamente quella solitudine che lo perseguitò non riuscì a debellarla. La presenza attiva di Marta Abba fu, nel contesto, un momento di vita interiore, di relax spirituale e siamo certi che i benefici di quei momenti contribuirono a dare impulso alla lotta che ebbe il suo culmine quando il Maestro incontrò i Giganti.

Una progressione, anche umana, ma soprattutto intellettuale, che si dipana in cunicoli stretti e tortuosi, così cari al Maestro, nei quali mette a nudo anime e coscienze, rivelando un sottobosco interiore che fa paura, un nichilismo percettivo che immobilizza per un attimo il cervello pensante, così da creare una controreazione che colpisce non solo l’autore, ma l’opera stessa.

Occorre sempre ricordare la presenza di D’Annunzio che, come già detto, con le sue gesta, non solo letterarie, riempivano le pagine dei quotidiani ed erano in molti a vedere nel “vate” il simbolo non d’un decadimento culturale, ma di una ritrovava spinta a forme nuove di concezioni di vita le quali cozzavano con la concettosità astrusa dei personaggi pirandelliani.

Ma Pirandello, seppur se ne doleva, non era da meno e più lo si accusava, più lui continuava ad affondare il bisturi e a scarnire le ossa già spolpate.

Una lotta strenua con il suo stesso “io”, perché quella solitudine in cui si era venuto a trovare seppur gli pesava, costituiva la molla propulsiva alla creazione di nuove situazioni, allora paradossali, nel tempo accettate e condivise tanto è vero che la consacrazione di drammaturgo immortale n’è ampia comprova.

“La coscienza della funzione assunta a realtà è anche il principio che presiede alla teoria critica dell’umorismo e alla presenza attiva di esso nell’opera pirandelliana. La sua assunzione estetica è tale che l’umorismo non è una dimensione, non si realizza in un certo modo di estraniarsi e di ridere, ma investe globalmente il personaggio. Perché l’umorismo, come lo intende esteticamente Pirandello, deve trovare una materia resistente con la quale scontrarsi, e questa resistenza non può essere che nell’uomo, in quanto esso prende coscienza di sé, degli equivoci che lo deformano, dei condizionamenti che gli vengono imposti dalla società e insomma di tutta quella resistenza esterna o equivocamente interiore (in quanto egli può finger sua la falsa realtà che gli viene imposta) che viola la sua individualità e libertà. L’umorismo comporta dunque la coscienza della alienazione, della deformazione del sé che altri impone, ed è anche coscienza della lotta che il sé alienato impegna per liberarsi dai condizionamenti, essere se stesso, esistere e vivere”. [4]

[4] Ettore Mazzali, Pirandello, Ed. Nuova Italia 1977, pag. 70

Questo rapporto teso, pronto a recidersi, con l’arte divenne l’essenza concreta della stessa vita umana dell’autore che si fece carico delle problematiche dei suoi personaggi e se li portò dietro per l’intera vita.

Ricordiamo che fino a qualche ora prima che il Maestro morisse, gli furono vicini e sembra che lo abbiano amorevolmente assistito, ripagandolo perché, in definitiva, dovevano a quell’uomo la loro fama, il non essere più tanto “personaggi” quanto esseri viventi con la possibilità, assai rara, di poter vivere anche al di fuori delle tavole del palcoscenico.

Per queste particolari e rare caratteristiche, molto acutamente, parlando di Pirandello e del suo grande teatro, Maria Argenziano, così scrive:

“Il personaggio appartiene alla dimensione ‘eterna ed immarcescibile’ dell’arte, che l’attore trasferisce nel relativo delle coordinate spazio-temporali della resa scenica. Nell’immaginario contrasto che potrebbe sorgere tra ogni personaggio e l’attore che di volta in volta lo interpreta e nel contrasto tra questi attori e quei sei disgraziati (parla in particolar modo dei Sei personaggi…, ma il discorso si estende a tutta l’opera pirandelliana N.d.A.) personaggi, Pirandello, anche se è proprio lui ad averli abbandonati, è sicuramente dalla parte di questi ultimi. Non sono certo di carta i personaggi! E non sono entità astratte ed ideali. Esistono e sono veri, molto di più degli uomini ‘che respirano’. Per l’autore sono come figli non di carne ma di spirito, di energia psichica che si concentra, si sviluppa e cresce senza che l’autore, una volta scattata la scintilla della loro vita nel suo ricchissimo teatro interiore, li possa del tutto controllare, o inibire o volontariamente riprodurre”. [5]

[5] Maria Argenziano, Maschere Nude (Prefazione), Ed. Newton Compton 1973, pag. 70

Lo spirito indomito del Maestro creava vortici paurosi che si affacciavano improvvisi squarciando animi e soprattutto riducendo a cenere i cervelli di pensatori occasionali dell’epoca che preferivano crogiolarsi al sole anziché scavare nei meandri dell’inconscio o peggio dell’ignoto.

La controreazione alla dialettica pirandelliana non trovava pronti nemmeno i cultori potenziali che sembravano non percepire e quindi comprendere i discorsi che arrivavano dalle tavole nude del palcoscenico, per non dire che tutti quei personaggi davano l’idea che fossero circondati da una patina di grigiore ossessionante, appesantita, socialmente non accettabile. Mai un barlume di speranza, mai una composizione naturale dei conflitti che tali rimanevano, che tali si presentavano nella loro cruda, quanto asfittica, realtà. Ma la curiosità spingeva ad avvicinarsi a quel palcoscenico, a sentire quei dialoghi per meglio comprendere l’autore che continuava a vivere la sua vita.

Certamente un invisibile, quanto complesso, contrasto che al di là di espressioni e convincimenti, si intravedeva attraverso i contatti con quanti volevano essere “amici” del Maestro che negava ogni forma di semplice espressività, lesinando anche sorrisi e non concedendosi mai “gratuitamente”. In ogni caso, il rapporto umano era sempre interdipendente al momento vivibile, creativo dell’uomo-scrittore che non poteva non prescindere da questo connubio. Ed ecco che viene ad evidenziare il concetto, condiviso da molti studiosi, secondo il quale il:

“…connotato stilistico più evidente nell’opera pirandelliana è un dialogo fittissimo ed incessante, che soltanto di rado lascia spazio alla contemplazione e all’azione”. [6]

[6] Corrado Simioni, Op. Cit., pag. XXIII

Probabilmente la fitta ragnatela da lui costruita ha finito con l’irretirlo perché il non dialogo, o comunque il dialogo stereotipato, con altri ha condizionato la sua stessa vita che nel dolore creativo ha trovato una concretezza oggettiva dalla quale non ha più potuto prescindere.

E se ha saputo, e voluto creare, il rapporto sentimentale ed interiore con Marta Abba, questo deve essere visto giustamente (come lo ha affermato la stessa attrice), soltanto un’espressione individuale ed interiore bisognosa d’un corrispettivo dialogo che altri continuavano a negargli.

Momenti di vita che si afferrano disperatamente ad una realtà di esistenza che lui ha sempre negato o comunque non compreso, nemmeno dalla logica resa palpabile in ogni momento di evoluzione. Lui quasi la rinnega, tanto è vero che farà dire al personaggio Magnasco, nell’opera Ma non è una cosa seria:

La logica, sai cos’è? Ecco. Immagina una specie di pompa a filtro. La pompa è qua. Il filtro s’allunga fino al cuore. Tu hai sentimento? La macchinetta che si chiama logica te lo pompa e te lo filtra; e il sentimento perde subito il suo calore, il suo torbido; si raffredda; si purifica, si i-de-a-liz-za! Fila tutto a meraviglia perché sfido! siamo fuori dalla vita, nell’astrazione. La vita è lì, dov’è il torbido e il calore, dove non c’è più logica, capisci? Ma ti sembra logico, scusa, che tu pianga adesso? E’ umano!

Prende così corpo tutta la visione dell’esistenza umana proiettata nell’ignoto che non può definirsi e non può immaginarsi, vinti come si è già in partenza nei confronti della stessa vita. Non c’è possibilità di ripresa, né di riabilitazione in quanto ogni atto, ogni gesto è già programmato, preordinato: il destino!; la consapevolezza del prigioniero che vive nella realtà d’una cella dalla quale sa di non potere uscire.

I suoi gesti diventano espressione massima della condizione in cui si trova; ogni pensiero, ogni aspirazione, ogni forma di programmazione non possono non tenere conto di quella specifica condizione e seppur ne uscirà fuori, dentro si porterà sempre il ricordo indelebile di quei momenti che ne hanno formato il carattere, la vita stessa. Quindi prigionieri della vita e come tali succubi di tutti gli eventi.

In occasione d’un convegno internazionale su Luigi Pirandello, molti anni addietro, lo scrittore Diego Fabbri, parlando di questo rapporto con l’arte ebbe a dire:

“Eppure pochi come lui, hanno VISSUTO il teatro nella molteplicità dei suoi elementi e dei suoi motivi. Pochi come lui sono stati direi ORGANICAMENTE, costituzionalmente TEATRO fin dalle origini della sua attività non soltanto letteraria, ma umana”. [7]

[7] Diego Fabbri, Atti del Convegno Pirandelliano 1967

In questa prospettiva (l’arte ed il connubio con questa), tutte le analisi dell’intera opera non possono sott’intendere dalle verità emerse quasi subito e analizzate meglio nel tempo, in quanto ne compendiano vigorosamente l’iter letterario dell’autore che nel contesto d’una evoluzione del pensiero pone le basi a quella che diventerà la cultura ufficiale dopo la sua morte.

Anche Pirandellismo!

Nelle problematiche emergenti, nelle problematiche evidenti, nelle problematiche sviscerate, c’è sempre un comune denominatore: l’Arte, come espressione pura e comunque irreversibile d’uno status interiore che fa parte integrante della vita dell’uomo che si addossa tutto il peso componente perché unifichi la Vita e la Morte come compendio imprescindibile ed indissolubile dell’essere stesso.

Ed a proposito dell’arte, lo stesso, in più occasioni ebbe modo di esprimersi al riguardo; riportiamo, appunto, alcuni pensieri così da inquadrare sempre meglio il riscontro oggettivo.

L’arte non muove da un’idea astratta…

L’idea non ha valore in arte che quando si dà sentimento, quando dominatrice di tutto lo spirito, diviene un desiderio che suscita le immagini capaci di darle espressione vivente. L’arte insomma è la vita, non è ragionamento…

L’opera d’arte si fa pensandoci sempre, anche quando l’artista non avverte che vi si pensi…

I grandi artisti sono degli uomini capaci di concentrare tutte le loro forze e di mettersi tutti interi in quel che fanno. Mentre l’opera si compone nello spirito, la riflessione assiste al nascere e al crescere di lei, ne segue le fasi successive, e ne gode e la giudica e la critica; essa appunto talvolta impedisce ai nostri cuori di nascere…

L’artista vero è raro perché per essere artisti veri bisogna aver l’accordo di tutte le potenze interiori, il concorso perfetto di tutti gli organi della vita spirituale, di quelli cioè che presiedono al pensiero, al sentimento, alla fantasia…

L’arte è l’idea vivente, l’idea che, divenendo centro della vita interiore, crea il corpo di immagini di cui essa si veste. L’idea non è nulla senza la forma, ma che è forma senza l’idea se questo appunto crea? Nessuna formula, dunque, per l’arte. Chiunque pretenda di far uscire la bellezza da una formula, s’inganna. Da tutto essa potrà uscire, tranne che da un ragionamento premeditato. Giacché bisogna innanzi tutto che l’artista sia commosso; da questa commozione, l’opera d’arte nascerà…

Ci sarà, comunque una valvola di sfogo?

Potrà mai l’uomo di Pirandello non essere soffocato da queste convinzioni che seppur vere, abbisognano di squarci perché entri un soffio di speranza?

E’ proprio una catarsi irreversibile?

Un andare incontro alla vita e alla morte, da eterni perdenti?

Certamente.

La risposta la darà Leone che dirà a Guido, nell’opera Ma non è una cosa seria, le condizioni perché tutto questo avvenga:

Leone: Si, ma ti compensa un godimento meraviglioso: Il gioco appunto dell’intelletto che ti chiarifica tutto il torbido dei sentimenti, che ti fissa in linee placide e precise tutto ciò che ti si muove dentro tumultuosamente. Capirai però, che sarebbe molto pericoloso il godimento di questo lucido e tranquillo vuoto che ti farai dentro, tra l’altro, rischierebbe di farti andare come un pallone su tra le nuvole, se non ti mettessi anche dentro, con arte e con perfetta misura, una necessaria zavorra.

Guido: Ah ecco! Mangiando bene? 

Leone: Per ristabilire l’equilibrio: perché tu possa sempre, insomma, restare in piedi come quei buffi giocattoli, che tu puoi buttar come vuoi: ti restan sempre ritti per il loro contrappeso di piombo. Non siamo altro, credi. Ma bisogna saperselo fare, questo vuoto e questo pieno: se no, si resta per terra e nei più goffi atteggiamenti. Insomma, via, la salute è qui: trovare un pernio, caro, il pernio d’un concetto per fissarsi. 

La razionale consapevolezza del rapporto che si instaura con la vita porta a smitizzare, nel contempo, la drammaticità dell’esistenza priva d’intenti e di prospettive. Nel labirinto delle concezioni proprie umanistiche, care, allo scrittore, è difficile decifrare il contenuto assoluto ed ognuno, nella libera interpretazione, trae le conclusioni che non saranno mai quelle di Pirandello che, tra l’altro, ha sempre evitato che si potesse stigmatizzare il proprio pensiero e la concezione della vita attraverso analisi che non hanno mai corrisposto, nel senso più stretto, al pensiero vero e profondo dello scrittore.

Non si può non notare come l’attenzione alle opere, alla personalità, nell’insieme, sia cresciuta e che certe analisi hanno potuto sviscerare determinati meandri evolutivi del pensiero pirandelliano, ma nessuno può affermare di aver “detto” l’ultima parola in quanto questo complesso di opere letterarie è come un prisma dalle molteplici facce.

Ognuna indipendente, ma molto strettamente connessa, all’altra. A seconda da quale angolazione la si osserva, si potrà dare una interpretazione che non potrà mai risultare identica ad un’altra.

In questo Pirandello ha centrato il suo valore, ha creato tante situazioni per quante interpretazioni potranno darsi al suo pensiero che rimane sempre e tutto da scoprire e conoscere.

In tale ottica, in questo preciso rapporto, è quanto mai significativo riportare un brano scritto da B. Angioletti, parlando appunto dell’importanza dell’opera pirandelliana e del proprio ruolo nel rapporto con l’arte e la società.

“E’ forse ancora troppo presto per determinare con una certa approssimazione il posto che occuperà Luigi Pirandello nella storia della letteratura italiana del nostro tempo, anzi di tutti i tempi: anche se già possiamo presumere che sarà un posto altissimo.

Egli, come più volte si disse, non appartenne a nessuno dei movimenti o delle scuole che caratterizzarono la nostra vita letteraria e artistica nei primi decenni del secolo. La sua fu una apparizione solitaria e c’è da ritenere che tale rimarrà nel giudizio dei posteri. Ma proprio perché isolato dagli altri, farà più spicco, sarà più prontamente individuabile. E se continuerà a turbare lo spirito di quei critici che tendono alla sistematicità, all’inquadramento, a una etichetta da applicare magari a intere generazioni, rimarrà sempre uno scrittore grande per coloro che invece fondono il loro giudizio esclusivamente sulle opere, e ne saggiano la qualità, la forza intrinseca, la possibilità di durata”. [8]

[8] Giovanni Battista Angioletti, Pirandello, Ed. Eri-Roma, pag. 78 e segg.

Non si potrà mai smettere di continuare nella trattazione della vasta opera pirandelliana, proprio per questa particolare sfaccettatura che si presenta in varie forme. Non si potrà mai essere tutti d’accordo sui valori intrinseci, sulla complessità del suo pensiero, sulla validità di determinate prese di posizione, come non si potrà mai condividere l’immane peso dei suoi personaggi che si trascinano, a volte, sui palcoscenici di tutto il mondo, come non si potrà mai specchiare in quei conflitti interiori.

Forse è bene dire:… Ciascuno a suo modo.

Si può essere invece tutti d’accordo nel definire Pirandello un Uomo con tutte le problematiche e non scevro da pregi e difetti, visti ed analizzati perché rimanga il più umanamente possibile vicino alla nostra percezione così da considerarlo più nostro che d’un tempo indefinibile. Questo ci porta un attimo indietro per evidenziare come l’autore così restio a scrivere di teatro, si sia poi interessato tanto da creare dei veri e propri capolavori “complici” dell’assegnazione del Premio Nobel.

Appare chiaro che il destino imprescindibile aveva già scritto la sua storia a sua insaputa e quindi per realizzarla ha preso quest’uomo dal profondo Sud e inserendolo in una serie di contesti socio-culturali ha permesso che lo stesso, sia perché spinto da alcuni amici e poi perché il suo spirito era impregnato di storie, diventasse uno dei più grandi autori mondiali della letteratura internazionale.

Si è fatto riferimento ad alcune composizioni (ed anche personali interpretazioni recitative) durante la frequenza all’università anche se questo periodo è alquanto marginale nel senso che non è da considerarlo come l’inizio della attività teatrale.

Infatti da tale periodo al momento in cui inizierà a scrivere per il teatro trascorreranno tanti altri anni duranti i quali si sarà cimentato con le Novelle e con i Romanzi e con una serie di raccolte di poesie.

Il terreno fecondo culturale siciliano non poteva non inglobarlo e quindi renderlo parte attiva di quella fucina di idee che si venivano a formare e a creare formando una base granitica che aveva come epicentro la cultura intrinseca dell’isola tanto da poter offrire una vera e propria storia del teatro siciliano con una serie di autorevoli autori che ancora oggi sono studiati.

Certo il fatto che Pirandello fosse restio ad interessarsi, nello specifico, del teatro, rallentava il suo approccio, ma questo non vuol dire che lo stesso non si fosse avvicinato tanto è vero che qualche sua prima composizione (Scamandro, per ricordare una sua prima opera) ancora oggi, seppur meno nota e poca rappresentata, indica come l’autore fosse incline, almeno spiritualmente, a quella forma d’arte ch’era appunto il teatro.

La Sicilia, ricordiamolo, vantava una millenaria storia che arrivava dalla cultura greca e quindi non si può non ammettere che lo stesso scrittore non fosse impregnato. I suoi personaggi ancora non erano del tutto pronti a calcare le scene, restavano in silenzio, in un angolo del suo intelletto, pazienti ad aspettare il loro turno. [9]

[9] “Quando l’artista è una persona di questo tipo, l’atteggiamento critico che gli è abituale si riflette ovviamente nelle sue opere. L’artista, certo, non interviene intenzionalmente sullo sviluppo dell’opera. Ma rappresenta pur sempre, osserva Pirandello, il ‘terreno’ in cui il germe dell’opera cresce e si nutre, e le qualità del terreno non possono non influire, in modo del tutto ovvio e naturale, sui caratteri del prodotto.

Ora, in che consiste, concretamente, la creazione di un’opera d’arte? Consiste sempre in un singolare processo, per cui nell’animo di un artista sorge involontariamente un complesso di immagini, accompagnate da un’emozione, o da un sentimento, che si aggregano e si richiamano a vicenda, fino a formare spontaneamente un insieme organico e compiuto che è, appunto, l’opera d’arte finita. Ma quando un autore è amaramente consapevole del disagio della condizione umana, nel suo animo non può sorgere alcuna immagine unita e un’emozione o a un sentimento senza che intervenga immediatamente la riflessione, che, ‘s’insinua acuta e sottile dappertutto’, suscitando un’immagine, un’emozione, un sentimento opposti. Sicché le immagini anziché associate per somiglianza e contiguità, si presenteranno in contrasto: ognuna di essa ‘desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale irrequieto, s’ostina a trovare tra loro le relazioni più impensate’”.

Claudio Vicentini, Pirandello il disagio del teatro, Ed. Marsilio 1993, pag. 47)

Il fatto che dal 1896 al 1913 avesse solo scritto Il nibbio, Il dovere del medico, Cecè, vuol dire che lo stesso fosse, di tanto in tanto, solleticato ma certo non era da considerare un impegno così forte e radicato. Quasi un “diversivo” che si considerava per liberare il suo spirito da alcuni personaggi più insistenti i quali chiedevano di essere materializzati e catapultati sulle tavole del palcoscenico. Alcuni uomini di cultura come Lucio D’Ambra, Nino Martoglio, Ugo Fleres, Marco Praga (direttore dello Stabile del Teatro Manzoni di Milano) ed altri furono i protagonisti e coloro che spinsero il Maestro ad interessarsi più attivamente del teatro e a scrivere Proprio Marco Praga mise sulle scene nel 1915 l’opera Il Nibbio (che prese il nome di Se non così), interpretata da Irma Grammatica. L’opera, a dire il vero, nonostante l’ottima interpretazione della protagonista non fu accolta con entusiasmo da parte del pubblico e questo provocò un maggiore scoramento nello scrittore che comunque sentiva ribollire nel suo intimo la pressione dei tanti personaggi che cominciavano a “bussare”.

Per molti anni si è voluti ricordare della lettera che Pirandello (come se scrivesse al suo personaggio) indirizzò alla Grammatica quasi a rimproverarle che non era per niente adatta non solo al ruolo, ma proprio alla identificazione con il personaggio che lo stesso aveva inventato. Quasi una scollatura tra la spiritualità del personaggio e quello profuso dall’attrice che a quel tempo era considerata come una delle più rappresentative del teatro italiano.

Altra storia che ricordiamo per “cronaca”, giacché in molti testi è stata trattata, il rapporto anche controverso tra il Maestro ed Elenonora Duse nonostante tra i due intercorressero sentimenti di stima reciproca che comunque non portò a nessuna forma di collaborazione così come era desiderio reciproco.

Si deve alla testardaggine, tutta siciliana, di un altro grande del teatro siciliano, Nino Martoglio, (prolifico autore di commedie importanti e spassosissime, seppur ingiustamente dimenticato e poco rappresentato) che fece tanto per coinvolgere l’amico esortandolo a collaborare con lui.

Ed ecco la realizzazione del primo miracolo teatrale. Nascono opere come Pensaci Giacomino, Liolà, Il berretto a sonagli che furono magistralmente interpretati da Giovanni Grasso, Angelo Musco, Tina Anselmi, Edoardo Spadaro ed altri che a quel tempo costituivano l’ossatura del Piccolo Teatro Stabile di Catania. E in un secondo tempo anche le magistrali interpretazioni del grande Turi Ferro (da poco scomparso) che per lunghi decenni è stato un interprete insuperabile d’un certo tipo di teatro che tanto si avvicinava all’intuizione artistica voluta proprio da Pirandello. E non è possibile citare tutti i grandi attori che sono stati protagonisti delle opere pirandelliane perché risulterebbe essere un lavoro improbo e forse impreciso.

Le opere citate superiormente ed altre (alcune composte a due mani con lo stesso Martoglio) furono scritte in dialetto agrigentino e trovarono in quegli attori siciliani gli ideali interpreti che contribuirono a far conoscere il nome dell’autore. Il sodalizio con Martoglio, dal punto di vista di collaborazione stretta, ad un certo punto s’interruppe in quanto Pirandello comprese che scrivere in dialetto agrigentino, seppur lo interessava, certo non gli poteva bastare.

Tra l’altro anche alcune incomprensioni con Angelo Musco (allora “mattatore”) contribuirono a far decidere il Maestro che se doveva continuare a scrivere per il teatro doveva farlo a suo modo, liberandosi da quelle concezioni proprie che erano del teatro dialettale seppur per lo stesso nutriva il massimo rispetto. Come detto l’itinerario che Pirandello doveva percorrere era stato già tracciato e lui aveva iniziato il cammino spinto da un bisogno interno, dall’insistenza dei suoi “fantasmi” che ora iniziavano a concretizzarsi. Proprio da questi “contrasti” con Musco e con altri attori siciliani, già si evidenzia lo spirito critico teatrale di Pirandello che sarà Capocomico esprimendo una assoluta serietà professionale accompagnata all’estrema esigenza di far meglio e quindi non tollerando che interpreti recitassero “a soggetto” o comunque stravolgessero il contesto dell’opera.

Il problema dell’interpretazione, anche allora, era alquanto sentito in quanto non erano pochi gli attori, in odore di notorietà, che spesso per riuscire a catalizzare il loro pubblico, non esitavano a stravolgere l’opera nel suo contenuto spirituale, tematico. Pirandello non poteva permetterlo e quindi rimproverava Musco di essere indisciplinato, di non imparare la parte a memoria, di recitare senza una adeguata linea interpretativa così pretesa dall’autore, ora anche Capocomico.

(Per comprendere meglio questo particolare aspetto, consigliamo i lettori di leggere il magnifico testo di Claudio Vicentini, già citato, e specificatamente da pag. 173 e segg.).

Questo fatto, unito agli altri che si sono evidenziati, portò l’autore a decidere di allontanarsi dal teatro dialettale e provare nuove strade, cimentandosi con opere di più largo respiro scrivendole in lingua italiana. Era l’inizio di quella che sarebbe stata la sua fulgida carriera d’autore.

E’ innegabile, comunque, che la collaborazione con Nino Martoglio, la frequentazione artistica con attori come Angelo Musco, ad esempio, sia servita a Pirandello per aprire quella porta interiore oltre la quale esistevano i tanti personaggi che ormai da fantasmi prendevano corpo e vita.

E non solo quelli appositamente creati per il teatro, ma alcuni che vivevano all’interno delle novelle. Ed infatti, cosa assai sorprendente, la maggior parte delle novelle, sembrano già un primo canovaccio da cui è facile un adattamento per la rappresentazione teatrale.

Operazione che Pirandello ha condotto scrivendo ottime novelle e ricavando celebri opere teatrali, valgono per tutte Così è (si vi pare), tratta dalla novella La signora Frola e il signor Ponza suo genero e l’altra opera L’uomo dal fiore in bocca, tratta dalla novella La morte addosso, e l’elenco potrebbe continuare.

Il mondo artistico del Pirandello scrittore continua ad arricchirsi di sempre nuove deduzioni, analisi, comparazioni, a dimostrazione della complessità organica della numerosa produzione letteraria e a testimoniare che i suoi personaggi, una volta creati, sopravvivranno (è l’Arte!) ai tempi e si ricorderà questo scrittore siciliano come uno dei più grandi ed interessanti di tutta la storia del teatro mondiale così come ancora oggi ricordiamo Euripide, Sofocle ed altri altrettanto immortali. In ogni caso, a noi preme sottolineare l’aspetto prettamente umano, quello per cui si è voluti percorrere l’itinerario non sempre facile per non dire pieno di asperità e di cunicoli dove è facile smarrirsi.

Proprio per questo motivo occorre sempre tenere presente che il punto di partenza di tutta la tematica pirandelliana si aggancia al momento particolare in cui il padre Stefano, acquista dal Principe Antonio Burgio Brancaccio la zolfara Tacci-Caci che si trovava in località di Aragona, provincia di Agrigento, e che nel 1903, a causa di un allagamento, susseguente una frana, la miniera subisce danni che porterà Stefano Pirandello al fallimento. Proprio per incrementare la produzione, su vasta scala, viene costruita la Società des Mines, così da includere quella miniera nel ristretto elenco delle grandi miniere zolfifere.

Verso la metà dell’Ottocento in tale gruppo di miniere operò Stefano Pirandello sia come commerciante che come produttore di zolfare attraverso un contratto di gabella che stipulò con il citato Principe Burgio. Il fondo che prese in concessione costituiva una vasta estensione di terreni solfiferi in gran parte esplorate e con miniere già attivate.

Costituitosi in società Stefano Pirandello e &, effettuò lavorazioni presso la montagna Mintini di Aragona e feudo Diesi, per circa dieci anni. I lavori che la società eseguì riguardò le seguenti Buche:

Taccia-Caci, Taccia, Mezzogiorno, Levante, Salomone, Salomone piccolo, Mandra Principe, San Pietro, San Giuseppe e San Vincenzo.

La miniera Taccia-Caci fu fonte di notevole guadagno per la famiglia Pirandello, ma a causa del dissesto finanziario, che ritornò variamente nelle opere del figlio Luigi e che determinò la vocazione alla letteratura dello scrittore come scelta obbligata, il mezzo per procurarsi da vivere e far quadrare il bilancio familiare.

Ecco perché il momento vissuto, in modo drammatico, da Luigi Pirandello, costituisce una base dalla quale non si può prescindere se si vuole veramente entrare nel suo mondo interiore e soprattutto saperne leggere, con umiltà, i tanti e vari passaggi, spesso stretti e tortuosi, dove è maturata la forza dialettica del grande autore agrigentino.

D’altro canto è ormai notorio che ogni grande uomo di pensiero porta nel suo intimo le esperienze accumulate nell’arco della sua vita e soprattutto quelle che hanno contribuito alla sua formazione sociospirituale dalla quale far dipanare la matassa che altri continueranno a sciogliere e comunque per ripercorrerne l’itinerario umano.

Siamo stati guidati da quella serietà ed umiltà che devono contraddistinguere ogni approccio con forze tanto superiori quanto imperscrutabili cercando di offrire un ventaglio d’informazioni utili a comprendere sempre meglio l’autore che è parte integrante della nostra cultura e lo sarà fino alla consumazione dei secoli.

Dalla sperduta località Caos la prorompente personalità artistica è riuscita ad irradiarsi nel mondo intero che ancora oggi ascolta ed assiste alle rappresentazioni che si moltiplicano senza mai interrompere il dialogo con questo autore il quale viene, oggi, compreso in ogni angolo della terra. Strano destino il suo se si pensa che in vita non è stato compreso o comunque lo si è contestato fino alla sua morte (ed anche dopo!) per poi essere celebrato e venerato come si conviene a uomini immortali.

E lo sarà certamente perché la sua produzione, per il suo intuito, per la sua concezione della vita, come dice Corrado Alvaro:

Egli fu chiaroveggente scrutatore, e in qualche modo anticipatore.

Tutto si è detto e tanto si è scritto, come si diceva, su quest’autore dallo spessore complesso e quanto mai articolato e quindi se ancora, nel tempo, altri si cimenteranno a parlare di lui possiamo rallegrarcene a condizione che dello stesso si tratti con assoluta onestà d’intenti e non già per speculare sulla popolarità ormai così nota e riconosciuta in tutto il mondo.

Sarebbe un atto deprecabile, vile che non onorerebbe la Sua memoria che rimane sempre cara a tanti uomini di cultura e non, sparsi in tutto il mondo e si è certi che i tanti personaggi si ribellerebbero e griderebbero così forte, tanto da far arrossire quanti sono pronti per speculare.

Il tempo che è trascorso dal giorno in cui Luigi Pirandello nacque e dal giorno in cui ha esalato l’ultimo respiro, non ha scalfito la sua fama e grandezza che hanno un solo ed unico denominatore che più di ogni altro s’identifica con lo spirito proprio del Maestro il quale, al di là di ogni onore tributatogli in vita e dopo morte, rimane indiscutibilmente e per sempre:

l’Uomo del Caos.

Pietro Seddio

Pirandello. L’uomo del Caos

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