Leviamoci questo pensiero – Audio lettura 3

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Legge Giuseppe Tizza
«Lo credevano senza cuore, perché egli non piangeva. Ma dimostrava forse il pianto la intensità del dolore? Dimostrava la debolezza di chi soffre. Chi piange vuol far conoscere che soffre, o vuole intenerire, o chiede conforto e commiserazione.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 19 luglio 1910, poi in Terzetti, Treves, Milano 1912.

Leviamoci questo pensiero
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Leviamoci questo pensiero

Voce di Giuseppe Tizza

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             Nella camera mortuaria erano raccolti tutti i parenti: il padre vecchissimo, le sorelle coi loro mariti, i fratelli con le loro mogli e i figliuoli più grandi; e chi piangeva silenziosamente, col fazzoletto sugli occhi; e chi, scotendo amaramente il capo, appena appena, con gli angoli della bocca contratti in giù, mirava sul letto tra i quattro ceri la povera morta cosparsa di fiori, con un piccolo crocefisso d’argento e la corona del rosario di grani rossi tra le mani dure, livide, composte a forza sul petto.

             Bernardo Sopo, il marito, passeggiava nella camera accanto.

             Di larghe spalle, quantunque povero e tardo di gambe, calvo e barbuto come un padre cappuccino, con gli occhi socchiusi, le lenti dimenticate su la punta del naso, le mani a tergo, passeggiava; si fermava di tratto in tratto; diceva:

             – Er

             Nella camera mortuaria erano raccolti tutti i parenti: il padre vecchissimo, le sorelle coi loro mariti, i fratelli con le loro mogli e i figliuoli più grandi; e chi piangeva silenziosamente, col fazzoletto sugli occhi; e chi, scotendo amaramente il capo, appena appena, con gli angoli della bocca contratti in giù, mirava sul letto tra i quattro ceri la povera morta cosparsa di fiori, con un piccolo crocefisso d’argento e la corona del rosario di grani rossi tra le mani dure, livide, composte a forza sul petto.

             Bernardo Sopo, il marito, passeggiava nella camera accanto.

             Di larghe spalle, quantunque povero e tardo di gambe, calvo e barbuto come un padre cappuccino, con gli occhi socchiusi, le lenti dimenticate su la punta del naso, le mani a tergo, passeggiava; si fermava di tratto in tratto; diceva:

             – Ersilia… poveretta…

             Si rimetteva a passeggiare, e poco dopo si rifermava per ripetere:

             – Poveretta.

             Il suono de’ suoi passi, il suono della sua voce, in quella che non pareva neppure un’esclamazione di compianto, ma quasi una conclusione ragionata, urtavano i parenti muti e raccolti nel cordoglio. Urtava peggio la sua presenza, ogni qual volta egli veniva a fermarsi un momento su la soglia e, col capo reclinato indietro e gli occhi tra i peli, guardava tutti in giro, come per compassione di quello spettacolo di morte, ch’essi stavano lì a rappresentare sinceramente, quasi per esercizio d’un dovere, oh tristissimo sì, ma al tutto inutile.

             E appena egli voltava le spalle per rimettersi a passeggiare nella stanza accanto, tutti avevano l’impressione che, così passeggiando, quell’uomo stesse ad aspettare, con forzata pazienza, che si finisse una buona volta di piangere.

             A un certo punto lo videro entrare nella camera con un’aria che gli conoscevano bene, aria di rassegnazione, ma testarda, con la quale sfidava le proteste e accoglieva le ingiurie di tutti, come un asino le nerbate senza rimuoversi d’un passo dall’orlo del precipizio.

             Quasi quasi temettero che andasse a soffiare sui quattro ceri per spegnerli, come a dire che lo spettacolo era già durato abbastanza e poteva aver fine.

             Di tanto tutti quei parenti stimavano capace Bernardo Sopo. E certo, se fosse dipeso da lui – no, spenti no, spenti mai – ma non sarebbero stati certo accesi quei ceri, né sparsi quei fiori, né posti in mano alla morta quel crocefisso e quella corona di grani rossi. Non per la ragione, però, che con maligno animo sospettavano i parenti.

             Bernardo Sopo si accostò al suocero e lo pregò di recarsi con lui, per un momento, nello scrittojo.

             Qua, la vista dei mobili quieti, in penombra, che non sapevano nulla di quanto era accaduto di là, lo fece sbuffare, specialmente la vista degli scaffali pieni zeppi di pesanti libri di filosofia. Aperto un cassetto della scrivania, ne trasse una cartella di rendita intestata alla moglie defunta, e la porse al suocero.

             Questi, stordito dalla sciagura, guardò coi calvi occhi, insanguati nel pianto, prima quella cartella, poi il genero, senza comprendere.

             – La dote d’Ersilia, – gli disse il Sopo.

             Il vecchio, sdegnato, buttò la cartella su la scrivania e, poiché anche lì, non reggendosi in piedi, era cascato a sedere su la prima seggiola, si levò come sospinto da una susta, per ritornare alla camera mortuaria. Ma Bernardo Sopo, strizzando dolorosamente gli occhi e protendendo le mani, cercò di trattenerlo.

             –    Per carità. – pregò. – Tutto quello che si deve fare…

             –    Ma piangere! – gli gridò il vecchio, – piangere! piangere per ora, e niente altro!

             Bernardo Sopo tornò a strizzare dolorosamente gli occhi, per pietà profonda di quel povero vecchio, di quel povero padre; ma poi sollevò la faccia, sollevò il petto, trasse con le nari quanta più aria poté, e quindi, votandosene, con gesto di sconsolata stanchezza, disse:

             – A che giova?

             Non avendo avuto figliuoli dalla moglie, egli doveva restituire la dote.

             Bisognava che si levasse questo pensiero.

             Un altro pensiero, che non gli pareva l’ora di levarsi, era quello della casa. Morta la moglie e dovendo restituire la dote, egli con quel che aveva di suo e coi tanti pesi che aveva addosso, non poteva più sostenerne la pigione. Quella casa, per altro, sarebbe stata troppo grande per lui, che restava ormai solo. Per fortuna, essa figurava come locata alla moglie; sicché dunque il contratto, con la morte di questa, si scioglieva naturalmente.

             Ma c’erano i mobili, i mobili, tutti quei mobili di cui la povera morta, che amava gli agi, aveva ingombrato le stanze fin negli angoli più riposti. E Bernardo Sopo se li sentiva come tanti macigni sul petto.

             Ci mancavano ancora sei giorni a finire il mese. La pigione di quel mese era pagata; non avrebbe voluto pagare quella del mese venturo a cagione di tutti quei mobili là, di cui non sapeva che farsi. Aveva già stabilito d’andarsene in una camera mobiliata. Intanto, come far presto? Per levarsi quest’altro pensiero dei mobili, bisognava che prima la moglie fosse portata via al camposanto; e dovevano passare almeno quarantotto ore, per espressa volontà dei parenti, morta com’era all’improvviso, di paralisi cardiaca.

             «Quarantotto ore,» diceva tra sé Bernardo Sopo, seguitando a passeggiare con gli occhi socchiusi e grattandosi il mento con la mano irrequieta tra i peli della folta barba da padre cappuccino. «Quarantotto ore! Come se la povera Ersilia potesse non esser morta davvero! Purtroppo è morta! Purtroppo per me, non per lei. Ah lei sì, povera Ersilia, se l’è levato questo pensiero della morte. Mentre noi qua, ora… Tutte queste sciocchezze da fare; e che si devono fare! la veglia al cadavere, sicuro, e i ceri e i fiori e i funerali in chiesa e il trasporto e il seppellimento. Quarantotto ore!»

             E non badando alle torve occhiate che tutti gli lanciavano per quel che or ora il suocero era tornato a riferire su la cartella della dote, seguitò a dimostrare in tutti i modi la smania, l’affanno che quell’attesa forzata gli cagionava.

             Assillato dalla sollecitudine, non trovava requie; s’accostava a questo e a quello dei parenti più intimi della defunta, irresistibilmente tratto dall’idea di proporgli qualcuna delle tante cose che si dovevano fare; ma subito avvertiva in quello la repulsione, l’urto. Non se n’aveva per male. Già c’era avvezzo. Del resto riconosceva che quella repulsione, quell’urto erano naturali verso uno che, come lui, stava a rappresentare le dure necessità dell’esistenza. Comprendeva e compativa. Gli restava un pezzo accanto, a guardarlo attraverso le palpebre semichiuse, inerte, ingombrante, soffocante, finché non provocava con uno sbuffo la domanda:

             – Mi vuoi?

             Accennava di sì col capo, mestamente, e con aria stanca, abbattuta, se lo portava a passeggiare nella sala da pranzo.

             Qua, dopo essere andato due o tre volte su e giù, esclamando a tratti: – La vita, caro, che tristezza! – La vita… che miseria! – oppure di nuovo: – Ersilia… poveretta… – si fermava e, con atteggiamento umile e pietoso, o fingendosi all’improvviso distratto, sospirava:

             – Tu, se vuoi, caro, potresti prenderti intanto queste due vetrine col servizio da tavola e la cristalliera; anche la credenza, se vuoi.

             L’offerta, in quel punto, col cadavere ancor lì presente, pareva a quello un insulto, anzi peggio, un pugno sul petto. E senza avere altra risposta, che uno sguardo di disgusto, d’abominazione, Bernardo Sopo si vedeva lasciato in asso.

             Il che però non gli toglieva l’animo d’accostarsi, poco dopo, a un altro dei parenti più intimi e di portarselo a passeggiare nel salotto per proporgli a un certo punto, come a quell’altro:

             –   Se ti piacciono questo canapè e queste poltroncine, puoi prenderle, sai, caro!

             Finché, vedendo che tutti a un modo i più intimi gli si rivoltavano scandalizzati, non cominciò a profferire i mobili e gli oggetti della casa ai meno intimi e anche a qualche estraneo, amico di casa, i quali, con minor scrupolo, ma pur perplessi e timidi, lo ringraziavano. Bernardo Sopo troncava subito i ringraziamenti con un gesto della mano, alzava le spalle per significare che non dava alcuna importanza al regalo, e soggiungeva:

             –   Dovresti affrettarti piuttosto a farli portar via; mi preme di sgombrare al più presto.

             Quegli altri allora presero a fulminarlo dalla camera mortuaria con certi occhiacci da spiritati e a dar segni d’ira e di sdegno e di dispetto, per un altro verso.

             No, non avevano diritto, nessun diritto su quei mobili che appartenevano a lui soltanto, a Bernardo Sopo; ma perdio, era un’indecenza!

             E a uno a uno, non riuscendo più a trattenersi, balzarono da sedere e corsero a investirlo, a gridargli tra i denti che doveva vergognarsi di quel che stava facendo, vergognarsi, come si vergognavano per lui quelli stessi che, nell’imbarazzo, non avevano saputo opporsi alle profferte. Li chiamavano in testimonianza:

             –   E vero? è vero?

             Quelli si stringevano nelle spalle, con un sorriso afflitto su le labbra.

             – Ma certo! ognuno! – esclamavano allora i parenti. – Sono mortificazioni! E Bernardo Sopo, sempre con gli occhi chiusi, aprendo le braccia:

             – Ma scusate, perché, cari, perché? Io mi spoglio… Per me è finita, cari miei! Bisogna che non ci pensi più! So quello che porto addosso. Lasciatemi fare. Son cose che si devono fare.

             Quelli gridavano:

             –    Va bene, si devono fare; ma a tempo e a luogo, perdio! E allora lui, per troncare il discorso, rimettendosi:

             –    Capisco… capisco…

             Ma non capiva affatto; o piuttosto, capiva questo soltanto: ch’era una debolezza quell’indugio che si voleva frapporre; una debolezza, come tutto quel pianto là.

             Lo credevano senza cuore, perché egli non piangeva. Ma dimostrava forse il pianto la intensità del dolore? Dimostrava la debolezza di chi soffre. Chi piange vuol far conoscere che soffre, o vuole intenerire, o chiede conforto e commiserazione. Egli non piangeva, perché sapeva che nessuno avrebbe potuto confortarlo, e che era inutile ogni commiserazione. Né c’era da aver pena per quelli che se n’andavano. Fortunati da invidiare, anzi!

             La vita era per Bernardo Sopo profondamente oscura; la morte, uno sbuffo di più densa tenebra nell’oscurità. Né al lume della scienza per la vita, né al lume della fede per la morte riusciva a dar credito; e in tanta oscurità non vedeva profilarsi altro, a ogni passo, che le sgradevoli, dure, ispide necessità dell’esistenza, a cui era vano tentar di sottrarsi, e che si dovevano subito perciò affrontare o subire, per levarsene al più presto il pensiero.

             Ecco, sì, levarsene il pensiero! Tutta la vita non era altro che questo: un pensiero, una sequela di pensieri da levarsi. Ogni indugio era una debolezza.

             Tutti quei parenti che s’indignavano, sapevan pur bene che egli era stato sempre così. Quante volte non li aveva fatti ridere la loro Ersilia, raccontando con festosa esagerazione le furiose avventure della sua vita coniugale con quell’uomo, il quale, poveretto, che poteva farci? aveva in corpo la smania, la frenesia di levarsi tutti i pensieri, appena gli si affacciassero alla mente come un’ineluttabile necessità. Anche, anche a letto, sì, tutti i pensieri! Ed ella, la poverina, si rappresentava come una cagnetta stanca, in corsa perpetua, dietro a lui, sempre con tanto di lingua fuori.

             Si doveva andare a teatro? Quell’uomo non aveva più requie. Non già perché gli premesse il teatro; anzi il contrario! Il pensiero d’andarci diventava per lui un tale incubo, che non gli pareva l’ora di levarselo; e, sissignori, ogni volta, un’ora prima, nel palco, al bujo, ad aspettare!

             Si doveva partire? Misericordia di Dio! Un precipizio. Bauli, valige, fagotti; caccia, cocchiere! corri, facchino! E i sudori! e i sudori! e quante cose smarrite, e quante dimenticate, per arrivare alla stazione due ore prima della partenza del treno! Non già perché temesse di perdere la corsa, ma perché non poteva più aspettare in casa, neanche un minuto, con quel pensiero della partenza che lo assillava.

             E quante volte non s’era presentato in casa con un fagotto di cinque o sei paia di scarpe, per levarsi per un pezzo il pensiero di comperarle! Era forse l’unico dei contribuenti che pagasse tutte in una volta per l’annata le rate delle tasse, sempre il primo dietro gli sportelli dell’esattoria. Per miracolo, all’alba del giorno segnato per il pagamento della prima rata, non andava a svegliare in casa l’esattore.

             Sempre, nel vederlo assaettato così in tutte le faccende, aveva cercato di arrestarlo la povera Ersilia; poi, quando lo vedeva stanco o smanioso, con tanto tempo avanti a sé che non sapeva più come riempire, gli domandava:

             – Vedi? Ti sei levato il pensiero, Bebi mio; e ora? e ora?

             A questa domanda Bernardo Sopo si metteva a scuotere il capo, sempre con gli occhi chiusi.

             Non voleva confessare, non che agli altri, ma nemmeno a se stesso, che nel fondo più recondito di quella oscurità che si sentiva dentro e che né il lume della scienza né quello della fede riuscivano mai a stenebrare neppur d’un primo frigido pallor d’alba, gli palpitava come un’ansia indefinibile, l’ansia di un’attesa ignota, un presentimento vago, che nella vita ci fosse da fare qualche cosa, che non era mai quella delle tante a cui correva dietro per levarsene subito il pensiero. Ma pur troppo, sempre, quando di queste s’era levato il pensiero, restava come sospeso e anelante in un vuoto smanioso. Gli rimaneva quell’ansia, dentro: ma l’attesa, ahimè, era sempre vana, sempre.

             E gli anni erano passati e passavano, e Bernardo Sopo, oggi più stanco e più stufo di jeri, ma pur non meno obbediente a tutte le più dure necessità dell’esistenza, anzi tanto più obbediente quanto più stanco e più stufo, non riusciva a comprendere che proprio per questo, proprio per obbedire a quelle necessità, si stesse nella vita.

             Possibile che non ci fosse da fare altro? che si fosse venuti su la terra e ci si stesse per questo?

             Oh sì, c’erano i sogni dei poeti, le architetture mentali dei filosofi, le scoperte della scienza. Ma a Bernardo Sopo parevano tutti scherzi, questi, scherzi graziosi o scherzi ingegnosi, illusioni. Che concludevano?

             S’era convinto, man mano sempre più, che l’uomo su la terra non poteva concluder nulla, che tutte le conclusioni a cui l’uomo credeva d’esser venuto, erano per forza illusorie o arbitrarie.

             L’uomo è nella natura, è la natura stessa che pensa, che produce in lui i suoi frutti di pensiero, frutti secondo le stagioni anch’essi, come quelli degli alberi, effimeri forse un po’ meno, ma effimeri per forza. La natura non può concludere, essendo eterna; la natura, nella sua eternità, non conclude mai. E dunque, neppur l’uomo!

             Se n’accorgeva bene Bernardo Sopo, quando, nel tempo che sempre gli avanzava, si astraeva dalle volgari contingenze, dalle brighe quotidiane, dai doveri che s’era imposti, dalle abitudini che s’era tracciate, e allargava i confini della consueta visione della vita e si sollevava, spassionato, a contemplare da questa altezza tragica e solenne la natura. S’accorgeva che, per concludere, l’uomo si metteva un paraocchi, che gli facesse vedere per alcun tempo una cosa sola; ma, quando credeva di averla raggiunta, non la trovava più, perché, levandosi quel paraocchi e scoprendoglisi la vista di tutte le cose intorno, addio conclusione!

             Che restava dunque a non volersi illudere coscientemente, quasi per uno scherzo? Ahimè, nient’altro che le dure necessità dell’esistenza, da subire o da affrontare subito, per levarsene il pensiero al più presto. Ma allora, tanto valeva uccidersi, per levarsi subito il pensiero di tutto. Bravo, sì! uccidersi… Poterlo fare! Bernardo Sopo non poteva: la sua vita era purtroppo una necessità, di cui non si poteva levare il pensiero. Aveva fuori tanti parenti poveri, per cui doveva vivere.

             Dopo il trasporto e il seppellimento della moglie, riuscito a spogliarsi di tutto nei pochi giorni che restavano a finire il mese, si ridusse a viver solo, miseramente, in una cameretta d’affitto.

             Nessuno dei parenti della moglie volle più sapere di lui. Né egli se ne dolse.

             Si sbarazzò subito di moltissime necessità che, anche vivendo la moglie, aveva sempre stimate superflue, ma accettate per lei, subite o affrontate col solito coraggio e la solita rassegnazione. Si restrinse in tutte le spese di vitto, di biancheria, di vestiario, a cui la moglie lo obbligava, per non ridurre di troppo, ora che la moglie non c’era più, gli assegni a quei parenti poveri, che non glie ne restavano affatto grati. Neppur di questo egli si doleva. Stimava il suo sacrifizio come dovere, come necessità, anch’essa incresciosa; e lo lasciava intendere chiaramente nelle sue lettere a quei parenti, che perciò non gli restavano grati. Essi, insomma, come tutto il resto, rappresentavano per lui un pensiero da levarsi, da levarsi al più presto, ogni mese. Anche a costo di mangiare così, una sola volta al giorno, e anche scarsamente. Subito subito, anche quel desinarino, per non pensarci più per tutto il giorno.

             Sbrigate così subito le poche faccende, a cui ormai gli restava da attendere, gli crebbe innanzi più che mai il tempo, il vuoto smanioso, che non sapeva come riempire.

             Cominciò a spenderlo a profitto degli altri, di gente che conosceva appena, di cui per caso veniva a conoscere la necessità. Ma, al solito, anche da questi beneficati non ebbe altro in compenso che sgarbi e ingratitudine. Gli mancava al tutto il senso dell’opportunità, perché non riusciva a intendere che si potesse provar piacere a indugiarsi nelle illusioni, convinto com’era che ogni indugio, di fronte alle necessità impellenti e ineluttabili dell’esistenza, fosse una debolezza. E non aveva né pietà, né considerazione per tutti quei deboli che indugiavano: si presentava quando non doveva, a ricordar loro quelle necessità, con un’aria sempre più stanca e più oppressa, che diceva chiaramente: «Vedete, pur essendo così, pur costandomi tanto, io sono qua, pronto; su, cari miei, leviamoci questo pensiero!».

             E ormai tutti, appena lo vedevano da lontano, spiritavano. Era divenuto un incubo per tutti. Tutti credevano ch’egli provasse un gusto feroce a tormentare, a opprimere.

             Le gambe, con gli anni, gli divennero sempre più tarde. Nulla era più penoso che il vedere com’egli si adoperasse, ora, nella corsa dietro a quelle necessità sue e altrui, e cercasse il verso d’andare speditamente con quelle povere gambe che pareva lo lasciassero sempre allo stesso punto.

             Avviluppato nell’ombra tremenda del tempo che gli avanzava, col rodio, l’assillo di tante sollecitudini non sue soltanto, gli avveniva spesso di fermarsi di botto in mezzo alla via, non ricordandosi più dove fosse diretto, che cosa dovesse fare.

             Col bastone sotto l’ascella, il cappello in mano, l’altra mano sul mento, irrequieta tra i peli della folta barba, restava un pezzo a pensare, con gli occhi chiusi, ripetendo piano a se stesso:

             «Io dovevo fare una cosa…».

             E così una volta lo colse, in mezzo a una piazza deserta, di pieno meriggio, un’automobile che passava di furia.

             Travolto in un attimo, sballottato sotto le ruote, Bernardo Sopo, con le costole fracassate e le braccia e le gambe spezzate, fu raccolto moribondo da alcuni vetturini di stazione e trasportato all’ospedale, privo di conoscenza.

             Si riebbe pochi momenti prima di morire; riaprì gli occhi appannati; guardò un pezzo accigliato il medico e gli infermieri attorno al letto: poi, reclinando il capo sui guanciali, ripetè con l’ultimo sospiro:

             – Io dovevo fare una cosa…

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