09. Convegno

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Convegno

09. Convegno

Nella Rivista d’Italia,  ottobre 1901.….

I

Per le città, nostre o d’oltralpe, in ogni
luogo, ov’ho fatto alcun tempo dimora,
io vedo un altro me, com’ero allora,
il qual lieto s’aggira entro a quei sogni,
che suoi soltanto e non pur miei son ora.

Né verun d’essi sa, che piú ne sia
di me. Qua vive o là, chiuso ciascuno
nel proprio tempo. Oltre non vede. E uno
si ferma, or ecco, a sera, in una via
di Como, e guarda in sú, se un viso bruno…

Ahi, quella bruna – egli no ‘l sa – maestra
ora è di vizii e di sé locandiera…
Ma come può saperlo, se ogni sera
davvero ancor s’affaccia alla finestra
ella, e d’amor gli parla ed è sincera?

L’altro, eccolo in Germania, a Bonn sul Reno,
sotto un cappello di castoro, enorme:
magro egro smunto: non mangia, non dorme;
studia sul serio (o cosí crede almeno)
del linguaggio le origini e le forme.

Studia, ma… è notte: brontola il camino;
fuori, la neve lenta eterna fiocca:
pian l’uscio s’apre e, un dito su la bocca,
entra scalza Jenny… Libro latino,
di ravvivare il fuoco ora ti tocca!

Oh, chi a Palermo incontrasse per caso
quell’altro me, che della vita mia
la stagione piú bella tuttavia
colà si gode, sgombro e ancor non raso
il mento, alato il cor di poesia,

deh, l’induca a venire a me per poco:
or son qui solo; e, nella fredda, oscura
notte, la solitudine paura
quasi mi fa. Seduto accanto al foco,
nella prigion di queste quattro mura,

io gli altri me chiamo a convegno. Solo,
fors’egli solo non verrà, che troppo
son io diverso ora da lui: vo zoppo
pe ‘l cammin che intraprese egli di volo,
e la trama ch’ ei finse or io rattoppo.

 

II

Silenzio. Gli altri, con le amiche a braccio,
entrano. Come io resterei, se vecchio
mi vedessi d’un tratto in uno specchio,
essi, cosí, dinanzi a me. L’impaccio
vincon prima le donne, e in un orecchio

vien la bruna di Como a dirmi in fretta:
«Tu sai che cosa io sono, ora; ma a lui
non dirne nulla: ei mi vede qual fui!»
Ti basta un sol mio sguardo, o poveretta,
e in un brivido tutta ti rabbuj.

Egli ha guardato me; qual sei ti vede.
Non nasconderti il viso, ché di te
non ha ragione di lagnarsi: in me
vani egli or vede l’amor tuo, la fede
che gli giuravi, e vana ombra pur sé.

E tu, Jenny? Ti sei nascosta dietro
la tenda? Piangi? Il magro tuo dottore
mi guarda, come oppresso di stupore.
Da quella neve, da quell’aer tetro
venía la sua magrezza, il suo squallore.

Eh, tu, dottor, lassú donde t’ho tratto,
ree promesse ripeti alla gentile
compagna. E vedi? Or ella piange. Vile
forse son io? Non tu, piuttosto, matto?
Le ho mandato da Roma un bel monile…

Mi chiedi conto de’ tuoi studii? E voi
dei vostri sogni mi chiedete conto?
Vedete, io non mi lagno, non m’adonto
dei lievi o gravi error vostri, che poi
m’han cagionato i danni ch’ora sconto.

Io vedo in voi ciò che ho man man perduto.
Delle perdite sue non s’era intanto
accorto alcun di voi, poi ch’ancor tanto
restava a me da perdere. Or che muto
e vuoto son rimasto, odio il rimpianto.

I capelli? Debbo anche dei capelli
rispondervi? Oh che bei ciuffi avevate
voi tutti: biondi, come il sol d’estate…
Con gli anni, via, via coi sogni anche quelli!
O lasciatemi in pace, andate, andate.


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