“C’è qualcuno che ride”, analisi della novella di Luigi Pirandello (con Audio lettura)

Di Ubaldo Riccobono.

Appena due giorni prima di ricevere la conferma dell’assegnazione del Nobel, consumò la sua vendetta personale, pubblicando la novella satirica contro il regime “C’è qualcuno che ride”: racconto di sottile e sfumata parodia della dittatura, della sua censura, del conformismo, del lavaggio del cervello, della prevaricazione.

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C è qualcuno che ride. Analisi
Umberto Boccioni (1882-1916), La risata, 1911

“C’è qualcuno che ride”
di Luigi Pirandello

da Amici di Pirandello, Sciascia, Empedocle

Leggi e ascolta. Voce di Giuseppe Tizza. 

Da che mondo è mondo, la satira politica non ha mai risparmiato niente e nessuno. La satira giornalistica talora è graffiante, talaltra ammiccante, è professionale e quasi scientifica,  anche se si consuma nella contingenza del momento. Ma assai spesso non si va a fondo, i fatti e le responsabilità restano nel limbo e i fatti vengono utilizzati ad usum delphini. La satira letteraria o saggistica, viceversa, viene sviluppata secondo canoni e modi del tutto diversi, perché il racconto, il romanzo, il pamphlet polemico o il singolo saggio, nella visione degli autori sono generi destinati a vivere e a perpetuarsi.

La satira principalmente vuol colpire e persuadere l’uditorio, che viene stimolato a recepire attraverso il taglio espressivo fondato sull’ironia polemica, mediante l’invettiva, l’aggressione violenta, i doppi sensi ecc. La satira umoristica, invece, si attua con una velata, sottintesa gradazione, che va da un temperato grottesco sarcasmo a un sorriso appena accennato, che si ammanta d’inquieta e pensosa amarezza. Un esempio di questo genere ce lo fornisce Luigi Pirandello nella novella “C’è qualcuno che ride”.  La novella fu pubblicata per la prima volta dal Corriere della  Sera il 7 novembre del 1934 e poi fece parte della raccolta “Una giornata” pubblicata postuma da Mondadori nel 1937.

Per darne la spiegazione, però, bisogna fare un piccolo passo indietro e risalire al 1924, data in cui lo scrittore diede a sorpresa la sua adesione al partito fascista con un telegramma diretto a  Mussolini in persona. Fu un’adesione eclatante imposta? Non lo sapremo mai. Certo Pirandello con la sua arte non poteva ritenersi funzionale al fascismo, anzi lo contraddiceva alquanto (così come d’altronde continuò ad avvenire con la poetica successiva). Poté trattarsi anche di un’illusoria e ingenua convinzione formatasi in Pirandello, alla stregua del filosofo Fichte, sul fatto che un uomo forte potesse cambiare l’individuo e la sua etica. Comunque, a riprova che non si fosse trattato di una sostanziale adesione ideologica sta il fatto che Mussolini e il fascismo non furono tanto teneri con Pirandello e neanche prodighi con il Teatro dell’arte da lui creato, il quale fu invece sempre vessato da tasse e imposizioni disparate, alle quali lo scrittore dovette sobbarcarsi con grandi sacrifici. Il duce tentò persino di opporsi al conferimento del Premio Nobel a Pirandello, mostrando sfacciatamente  di preferirgli D’Annunzio, ma dovette ingoiare il rospo. E’ ben noto inoltre che Mussolini il 24 marzo del 1934, data in cui si rappresentava all’Opera di Roma “La favola del figlio cambiato”, avesse lasciato lo spettacolo, dopo il primo atto, uscendosene visibilmente contrariato. Alla fine, la commedia fu contestata da una artata claque di fascisti e il duce ne “approfittò” per vietarne le repliche, perché il fascismo, “pretestuosamente”, intravide nel re da burla della Favola (il rex stultorum delle feste carnascialesche di Bachtin) la controfigura di Hitler o di Vittorio Emanuele III. Però, la prima assoluta dell’opera, avvenuta  senza alcun problema nel gennaio del ’34 proprio in Germania, a Braunscheweug, lascia opinare che si sia trattato di un autentico boicottaggio inscenato contro Pirandello, già premio Nobel “in pectore” e “reo” di non voler piegare il suo “intelletto” al regime. Una testimonianza di Indro Montanelli getta chiara luce sul rapporto di Pirandello con il fascismo. Il 17 marzo del 2001, nella sua “Stanza” del Corriere della Sera, ricordando di aver conosciuto Pirandello, presentatogli da Massimo Bontempelli pochi mesi prima che lo scrittore morisse, Montanelli riportò un giudizio lapidario del premio Nobel sul fascismo, con una perentoria risposta a un suo quesito su come mai il fascismo fosse riuscito a sopravvivere così a lungo:

Semplicissimo, ragazzo mio: questo regime è un tubo vuoto, che ognuno può riempire di ciò che più gli aggrada. I vecchi conservatoti ci vedono il ripristino dello Stato, i nazionalisti il culto della patria, i liberali l’ordine, i socialisti la corporazione, gli intellettuali la feluca e lo spadino dell’accademico, o alla  peggio il sussidio del Minculpop… Un simile regime, chi può aver interesse a buttarlo giù?”

Il testamento dello scrittore, che stabiliva che fosse portato all’ultima dimora senza accompagnamento di familiari e amici, in una cassa e in un carro dei poveri, impedì al regime di celebrare onoranze funebri solenni. Mussolini si vendicò mandando in esilio a Venezia Massimo Bontempelli che osò commemorare Pirandello ufficialmente nell’Accademia d’Italia, della quale il Premio Nobel faceva parte.

Nella raccolta poetica “Fuori di chiave” si ricava una sorta di premonizione pirandelliana, quasi inquietante, dell’acquisizione di una “tessera” sciagurata, che arieggia come preveggenza quella del 1924 del partito fascista:

Affondai la man tremante
in quel cavo enorme, oscuro,
e la sorte mia pescai;
poscia entrai… Ne ho visto tante,
che oramai più non mi curo
di saper qual male mai
rechi la  mia tessera.

Un rapporto, invero, non idilliaco con un regime avaro e restio. La caratura intellettuale, le tematiche e l’ideologia di Pirandello non potevano essere imbrigliate in un qualsivoglia movimento e nella prassi nuocevano al fascismo, che avrebbe desiderato una cultura gregaria e sottomessa. Pirandello, quando seppe in anticipo di essere stato scrutinato favorevolmente per il premio Nobel, appena due giorni prima di riceverne la comunicazione, consumò la sua vendetta personale, pubblicando la novella satirica contro il regime “C’è qualcuno che ride”: racconto di sottile e sfumata parodia della dittatura, della sua censura, del conformismo, del lavaggio del cervello, della prevaricazione.

“Serpeggia una voce in mezzo alla riunione:

–          C’è qualcuno che ride.

Qua , là, dove la voce arriva, è come se si drizzi una vipera, o un grillo springhi, o sprazzi uno specchio a ferir gli occhi a tradimento.

–          Chi osa ridere?”

“La verità è che tutti questi invitati non sanno la ragione dell’invito. E’ sonato in città come l’appello a un’adunata.”

A nessuno è lecito ridere, senza il consenso superiore, in un convegno ufficiale.

“Suscita un fierissimo sdegno, e proprio perché tutti sono in quest’animo; sdegno come per un’offesa personale, che si possa avere il coraggio di ridere apertamente… Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l’esempio, se tutto quest’incubo frana d’improvviso in una risata generale, addio ogni cosa!”

E allora bisogna trovare il responsabile che potrebbe fomentare gli altri, metterlo con le spalle al muro.

“Ma c’è veramente questo qualcuno che seguita a ridere, nonostante la voce che serpeggia da un pezzo in mezzo alla riunione? Chi è? Dov’è?  Bisogna dargli la caccia, afferrarlo per il petto, sbatterlo al muro, e, tutti coi pugni protesi, domandargli perché ride e di chi ride.”

Si sparge la voce: i responsabili sono tre, un padre e due figli. I “maggiorenti” si riuniscono in una sala appartata e decidono di intervenire, mettendosi a capo di tutta la folla che stringe i tre “trasgressori” che siedono in un divano.

“Appena sono davanti al divano, una enorme sardonica risata di tutta la folla degli invitati scoppia fracassante e rimbomba orribile più volte nella sala.”

E’ la risata del conformismo, suscitata dai “tre maggiorenti” che si oppone alla risata “libera” dei “tre trasgressori”.
Il sentimento del contrario e le maschere pirandelliane sono evidenti. E come si evince dal bel quadro del maestro Vincenzo Sciamè, che ha saputo artisticamente rappresentare la maschera del sorriso e, nel suo stesso rovescio, quella del pianto, il dramma suscitato nella gente comune dalla apologia del fascismo (mangia e taci, obbedire e credere) con esasperante ed esasperata pazzia di tirannia autocratica è il tema focale della esemplare descrizione pirandelliana. Non una esilarante risata, quindi, ma il grottesco, come tragedia preannunciata della seconda guerra mondiale e dello schieramento sciagurato a  fianco del nazismo.

Pirandello si stava preparando a consumare in silenzio un’altra vendetta, riproponendo La favola del figlio cambiato nel corpo dei Giganti della Montagna, ma il suo disegno fu spezzato dalla morte e il mito rimase incompiuto. Anche se egli, morente, tracciò lucidamente al figlio il finale, non sappiamo cosa avrebbe riservato contro il fascismo e il nazismo. Certo un messaggio contro l’uccisione dell’arte da parte della cultura del tempo è persino evidente nei primi due atti de “I giganti”.

Ubaldo Riccobono

31 marzo 2008

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