1917 – Cappiddazzu paga tuttu – Commedia in tre atti in dialetto Siciliano

Non tutti sanno che Luigi Pirandello e Nino Martoglio scrissero ben due commedie a quattro mani; e non tutti sanno che in tali opere appare con decisione una Sicilia diversa: vera, bellissima e violenta, metafora di tutto un mondo e portatrice di valori diversi. Una Sicilia il cui tratto più significativo e più precipuo è un certo fatalismo, e una certa ciclicità, quasi da girone dantesco.

Pirandello e il Martoglio scrissero  A vilanza (3 atti in siciliano messi in scena all’Olympia di Palermo il 27 agosto 1917 dalla compagnia Marcellini) e Cappiddazzu paga tuttu (3 atti in siciliano: rappresentazione postuma, Taormina, palazzo del Parlamento, 8 marzo 1958, compagnia del Teatro Mediterraneo diretta da Giovanni Cutrufelli).

Trama, personaggi e biografia di Nino Martoglio
Prim’attu
Secunn’attu
Terz’attu

Cappiddazzu paga tuttu
Dipinto eseguito da Tony Carciotto ispirato a “Cappiddazzu paga tuttu”. Belpasso (CT), Via XII Traversa, 91.
Dal sito Prolocobelpasso

Cappiddazzu paga tuttu
Commedia in tre atti – 1917
con le maschere di Pirandello e Martoglio
di Nino Martoglio e Luigi Pirandello

Trama

da cirosca.blogspot.com

Don Zulo torna nel proprio paese d’origine dopo aver trascorso vent’anni in America del Sud. Divenuto ricco, l’uomo ordisce una macchinosa vendetta nei confronti dei propri familiari rei di averlo lasciato solo e di non essersi minimamente preoccupati di lui. Il protagonista mette in piedi una vera e propria messinscena allo scopo di suscitare litigi e meschinità tra i parenti.

Motivo della discordia il falso arrivo, diffuso da Don Zulo, di un giovane straricco americano in cerca di moglie. L’apice della vendetta di Don Zulo sarà la piccola rappresentazione teatrale da lui allestita ed interpretata, con la scusa di preparare una sorpresa per il giovane ospite in arrivo, con tutte le maschere tipiche della tradizione siciliana: la vecchia di l’acito, donna Tinnirina, la zia Vittula, don Ninnaru, don Sucasimula, Peppi Nappa, don Cola Mecciu, Giufà e Cappiddazzu paga tuttu, quest’ultima maschera della prodigalità interpretata dal protagonista.

Il richiamo, naturalmente, è a due temi pirandelliani, trattati con ironia: il teatro nel teatro e l’essere e l’apparire. Tramite loro il protagonista smaschererà i familiari e raggiungerà il suo obiettivo.

Personaggi

Don Nzulu Ventura

50 anni; grigio; capelli piuttosto folti e lunghi; tutto raso; volto stanco, da malato; occhio vivacissimo; movimenti e gesti rapidi; tradisce di tanto in tanto come degli improvvisi arresti al cuore e al respiro. Veste alla buona. Parla, ora con umiltà, ora con bonaria indulgenza o fine arguzia, ma pure a tempo e a luogo, sa levarsi su tutti all’improvviso con grande e generosa fierezza, da dominatore.

Donna Pràzzita Cannalonga

sua cugina; 55 anni; donnone atticciato, dalla faccia rinfichita, gialliccia, itterica fin nelle labbra smorte. Affetta un fare e un parlare mellifluo, sotto al quale traspare acre e in continuo fermento il veleno accumulato in tanti anni di sterili aspirazioni e di voglie insoddisfatte. Veste con decoro e ricercatezza, ma all’antica, con sul capo una «spagnoletta» di merletto nero; mezzi guanti di seta, e lenti con lunga catenina d’oro.

Tidda Spina

cugina di entrambi; 38 anni; simpaticissima, sanguigna, di una avvenenza non del tutto ancora svanita; occhi grandi, vivaci, provocanti; carattere buono per natura, ma ribelle, impulsivo, sempre pronto all’aggressione, fino ad apparire da forsennata, quantunque in principio faccia di tutto per dimostrarsi mansueto e accomodante. Veste abiti di taglio semplice, ma di colori accesi; porta anch’essa la spagnoletta, ma di merletto bianco; e calza con gusto, scarpette di coppale, con tacchetti alti su calzette rosse, fiammanti: ha nell’aria e nel vestire un che della sivigliana.

Rachilina Niscemi

nipote di donna Pràzzita; 20 anni; figurina esile, bionda, occhi languidi, colorito roseo, denti e unghie curatissimi, pettinatura bizzarra, con fiocchi e pettinesse; aria sentimentale, facile alla commozione; leggiadra; si lascia per natura indurre a innamorarsi di questo e di quello, ma senza malizia e un po’ sospirosamente. Veste di chiaro, all’ultima moda, con cappellino a fiori.

Don Liddu Bellè

24 anni; giovanotto elegantissimo, squisitamente curato nei modi e nel vestire, con un che di femminile non affettato, e senza scapito di una certa maschile fierezza che sa usare all’occasione, come di chi nel pieno vigore della salute e nella spensierata indipendenza dei mezzi, sa di non dovere temer di niente e di nessuno.

Don Nittu Scavu

28 anni; magro, pallido, stremenzito; senza mezzi e senza risorse, con nascosti eroici sacrifizii, simula una eleganza ridicola, che tradisce pur non di meno la miseria.

Don Iacu Naca

39 anni; robusto, spavaldo, spocchioso, parla con voce rotonda e gesto teatrale da maffioso; è però in fondo pauroso e calcolatore, sorretto solo da una grande improntitudine, pronta a calar le vele a ogni minaccia d’uragano. Veste con pacchiana eleganza, sovraccarico d’anelli e di ciondoli.

Don Gasparinu Sòlima

40 anni; magro; bilioso, nervosissimo e quindi irrequieto; gestisce e parla a scatti e a schizzi, tartagliando; ombroso, diffidente; diventa minaccioso e pericoloso appena si sente preso di fronte; veste compostamente, con sobria eleganza, da persona agiata.

Brasi Nasca

servo di don Nzulu; 40 anni; tozzo, semplicione, con faccia da scemo, e sguardo spento, che però s’illumina di tanto in tanto di sorniona e furbesca malizia; veste goffamente, e si muove con ondeggiamenti da pachiderma.

Don Sciaveriu

sarto di provincia; 45 anni.

Donna Rusulina

sua moglie; 42 anni.

 Le maschere

Cappiddazzu paga tuttu

enorme cappello a cupola dalle amplissime tesi rigide con nappe e fiocchi penduli, tutto nero; ampia cappa di seta nera, con largo bavero e lunghi fiocchi come sopra: maniche a sbuffi fermi nel polso con risvolti bianchi, smerlettati; la cappa è lunga fin sotto i ginocchi; calzoni alla francese, larghi alla coscia e stretti al tallone, con tasche davanti; panciotto di velluto nero alla marescialla; ampio colletto inamidato a svolti sul bavero della cappa e cravattone a svolazzo anch’esso nero, di crespo di Cina; scarpe a gondola di camoscio nero; borsa di seta a maglia, con bocca d’argento ad anello a molla, capace e rigonfia, pendente sotto il panciotto.

La vecchia di l’acitu

abito di lana color tabacco di Spagna, tutto a smerli, guarniti di gallone nero, lustro, con guardinfante; pellegrina di panno viola sulle spalle; parrucca grigiastra; occhiali a staffa; mezzi guanti, e un fiasco capace, tutto pancia, dal collo a fungo, strettissimo: vi si legge in mezzo, a grossi caratteri neri: «Acitu».

La Zì Vittula

abito, anch’esso con guardinfante, a liste trasversali rosse e bianche, le rosse il doppio più larghe delle bianche, senza gale, e tutto pendulo di code di gatto; parrucca nera; bottoni a occhi di gatto; fermagli a zampe unghiute; le braccia nude fino al gomito, e guanti bianchi fino al polso.

Donna Tinnirina

parrucca biondo-dorata, a lunghi boccoli; abito anch’esso a guardinfante, tutto a sbuffi, a gale, a trine, aereo, vaporoso; scarpine di seta dello stesso colore, e calze rosee; guanti di seta bianchi, lunghi fino al gomito; ventaglio di merletto; astuccio con fialette di sali, d’argento; una sciarpa di finissimo velo rosa sulle spalle.

Don Ninnaru

giacca cortissima, attillata, di panno nero, di poco più lunga davanti, con gli orli gallonati di seta; grande fiore all’occhiello; fazzoletto di finissima batista, per metà fuori della tasca; calzoni chiari a tubo, larghi, a quadretti bianchi e neri, con larga banda nera; panciotto corto di velluto rosso-granato, a doppio petto e con larghi risvolti; camicia con merletti, allo sparato e ai polsi; cravatta nera a farfalla e colletto alto ad ali; mazzetta di ebano con pomo di avorio; scarpe alla francese, con tacchi alti, e tuba di media altezza con falde rigide.

Don Sucasimula

farsetto lustro, sorcigno, stretto alla vita, stretto e corto di maniche e molto accollato, con miserrimo bavero; panciotto di seta color nocciola che appare appena a due punte sotto il farsetto abbottonato; calzoni bianco-latte alla cavallerizza; mezze scarpe di coppale, un po’ scorticate e ghette color nocciola; tuba alta a cono con falde tese strettissime; guanti d’un bianco-sporco, filettati di nero; colletto altissimo e cravattina nera, piccolissima; bastoncino di canna spagnuola con testina di cane; occhialetto (monocolo) cerchiato e con sostesto di finto oro, appeso ad una catenina anch’essa d’oro falso, fissato al bavero; fiore all’occhiello.

Peppi Nnappa

calzoni strettissimi al ginocchio, che finiscono a campana, così ampia da nascondere quasi il piede; giacca larga e corta ampiamente scollata con largo bavero; il tutto di velluto olivigno; fazzoletto di seta rosso, fuori della tasca; cravatta svolazzante; colletto rivoltato alla marinaia, e camicia di flanella chiara, con taschino sulla sinistra; il panciotto è sostituito da una larga fascia rossa a frangia, sotto la quale s’intravede il calcio di una grossa pistola; berretto a barca con code, pettinatore a fiaccagote, e coppie di fiammiferi di legno insellati nell’orecchio destro; enorme canna d’India, con manico di corno.

Don Cola Mecciu

parrucca di capelli neri, lunghi, a istrice; finanziera stretta alla vita e lunghissima, con calzoni alla francese, il tutto di stoffa color acciaio, disegnata a scaglie; colletto altissimo, dritto; cravatta a punte, all’insù; cappello a staio, sempre in una mano insieme con un ampio fazzoletto di seta gialla, nell’altra mano un ombrello verde, scarpe a punta con tacchi altissimi.

Giufà

calzoni aderentissimi fino al ginocchio, di fustagno turchino; amplissima giacca della stessa stoffa, con capacissime tasche imbottite, lunga fin quasi ai ginocchi; camiciona di tela grossolana, spettorata, calzettone di lana nera rivoltate alle ginocchia; zoccoli; berrettino tondo, senza falda e con nappa in cima; porta un sacco di tela d’Olanda, colmo e ricoperto di frasche; cammina con le gambe larghe.

Avvertenza: Per quanto gli autori abbiano segnate tutte le battute delle singole scene più concertate, non che quelle intercalate dagli spettatori alla commediola del terzo atto, per la maggiore evidenza ed efficacia della rappresentazione, si affidano agli interpreti di questa commedia, ove occorra, fondano insieme queste battute, o altre ne aggiungano, con parsimonia e buon senso, laddove la scena sembri per avventura languire o il cambiamento del vestiario sia causa di non preveduti indugi.

Nino Martoglio
Belpasso (CT) 3/12/1870 – Catania 15/09/1921

Nino Martoglio (1870 – 1921)

Cantore di un microcosmo popolare fortemente regionale e folcloristico, di una realtà storico-sociale dai connotati inconfondibilmente provinciali, ancorata a usanze e costumi atavici e nello stesso tempo in perpetuo fermento, Nino Martoglio, “Goldoni siciliano”, secondo la felice definizione di Vittorio Emanuele Orlando, ingiustamente obliato o relegato dalla critica ai margini di una cultura dialettale considerata a torto produzione artigianale e strapaesana, è stato il testimone e il protagonista febbrile di un’epoca che, pur nutrendosi ancora degli esiti del positivismo letterario, ne rivelava la crisi ansiosa di rinnovamento.
Giornalista, poeta, dicitore, commediografo, capocomico, regista cinematografico, fondatore e animatore di quello straordinario fenomeno teatrale che nel primo ventennio del Novecento vide imporsi sui più prestigiosi palcoscenici europei autori e attori siciliani, Nino Martoglio fu un intellettuale intuitivo, eclettico, inquieto, coinvolgente, alle cui sollecitazioni si deve, fra l’altro, la “fatale” scelta drammaturgia di Luigi Pirandello, amico e sodale che siglò insieme a lui due commedie: ‘A vilanza e Cappiddazzu paga tuttu.

Nell’orbita dei maestri del verismo, Capuana, Verga, De Roberto, con le quali condivideva l’attenzione vigile e rigorosa verso un’umanità dolente di cui, attenuato il disperato sentimento della sconfitta, coglie con fresco impressionismo il comico bagliore, il disincanto e l’autoironia, quel rire local di cui parla Bergson, che ne stempera l’aspra lotta per l’esistenza, Martoglio ripropone una nuova epopea dei venti rinunciando ai toni imbellettati ed eruditi della lingua e optando per il dialetto siciliano schietto, plebeo e colto insieme; alla prediletta e privilegiata parlata catanese, estrosa e inventiva, mescola sapientemente vari registri pervenendo a risultati di esilarante deformazione grottesca, quei gusti spropositi linguistici che costituiscono la spia dell’avvertito, intimo bisogno di promozione sociale degli umili che passa attraverso l’esibita conoscenza di un codice “altro”, segno indiscutibile di potere culturale ed economico. E in quel dialetto che cementa la commedia e la tragedia dell’umano sentire, al quale Luigi Pirandello riconosce dignità d’arte, considerandolo insostituibile quando la natura dei sentimenti e delle immagini dello scrittore è “talmente radicata nella propria terra di cui egli si fa voce, che gli parrebbe disadatto o incoerente un altro mezzo di comunicazione”, diversamente da Verga che alieno da ogni forma di regionalismo letterario, affidava ad altri (lo stesso Martoglio) la traduzione in siciliano del suo teatro, Martoglio trova, come egli stesso dichiarava, il codice adatto a rendere “l’indole, il pensiero, il costume, il sentimento” del variopinto mondo polifonico e polimorfo della Civita, il popolare quartiere della Catania di allora che “piangeva e rideva in dialetto” (così D’Annunzio e Pavese).
Battagliero paladino della rintuzza (popolani e piccolo-borghesi) – ma nessun provincialismo in questo circoscritto orizzonte, narrando il proprio villaggio, insegna Tostoj, l’artista raggiunge una dimensione universale – dopo un precocissimo apprendistato giornalistico (collabora a varie testate cittadine fra cui la “Gazzetta di Catania”), appena diciannovenne Martoglio fonda e dirige l’ebdomadario politico-letterario “D’Artagnan”. Per quindici anni (il primo numero vede la luce il 20 aprile 1889, l’ultimo il 17 aprile 1904), mediante il “D’Artagnan”, l’evento giornalistico più vivace e significativo di quel tempo – a cui collaborarono, fra fra gli altri, Trilussa, Di Giacomo, Pascarella, Fucini, Russo – Martoglio riferisce e dibatte avvenimenti di politica e mondanità municipali, nazionali e internazionali, manifestazioni culturali, episodi di costume, iniziative sociali. “Attacchi, polemiche, indiscrezioni, mottetti, allusioni, satire pullulavano in quel diabolico foglio dove le parole erano sempre sostenute con la punta del fioretto o con la lama della sciabola. Duelli a rotazione dovette affrontare Martoglio in quegli anni”, scrive Giuseppe Villaroel. Ma, al di là degli infocati editoriali del suo direttore, delle cronache, delle battaglie politiche e sociali, il “D’Artagnan” s’impone all’attenzione per i “dialoghi popolari”, preziosi incunaboli del suo teatro, disquisizioni argute e vivaci su problemi di varia umanit consegnate all’immaginifico eloquio di turbolenti, mordaci civitoti: famosi Cicca Stonchiti che ritornerà ne I civitoti in pretura e don Procopiu Ballaccheri che sarà protagonista de ‘U contra, autorevole, magniloquente “allitterato”, il quale s’innalza sulla diffusa ignoranza dei più, intento a sfoggiare un “codice elaborato”, per dirla con termini bernsteiniani, pronto ad addottorare sulla politica di Crispi e Di Rudinì, come sugli accadimenti domestici e quotidiani. E’ la Catania appassionata, eroica, romantica, fantasiosa, allegra disincantata, avvilita o delusa ma mai rassegnata, cantata nelle liriche di O’ scuru o’ scuru, ‘A tistimunianza, Centona che apparentano Martoglio ai grandi poeti dialettali Belli, Pascarella, Di Giacomo, Trilussa.
Lo stesso colorito scenario – cortili sovraffollati, viuzze intricate, dove nel chiacchiericcio petulante e sapido dei “civitoti” o nel laconico, antico cerimoniale della piccola malavita di quartiere si consumano ideali, aspettative, amori, tradimenti – rivive nelle commedie di Martoglio che colgono tutti gli aspetti di un piccolo universo provinciale, nel suo multiforme atteggiarsi, alle prese con i cambiamenti della storia: rivendicazioni d’indipendenza affettiva e sentimentale, conflitti di classe, istanze socialisteggianti s’insinuano tra le pieghe di una bonaria, godibile ironia.
A Nino Martoglio, intraprendente manager teatrale ante litteram (dopo di lui anche Edoardo Boutet e Marco Praga affronteranno la via del capocomicato), va il merito, tra difficolt e dissapori, d’avere dato vita, nell’arco di tempo che va dal 1903 al 1919, a varie compagnie di successo – Compagnia drammatica dialettale siciliana (1903, 1904, 1907), teatro minimo o a sezioni (1910), Compagnia drammatica del Teatro mediterraneo (1919) – e di avere scoperto e valorizzato attori e attrici dialettali di talento: Giovanni Grasso, “il più grande attore tragico del mondo” per unanime riconoscimento critico (da Bjornstjerne a Isaak Babel’, da Vsevolod Meverhold a Carlo Michelstaedter, da catulle Mendès a Lee Strasberg), per il quale Martoglio scrisse Nica, Capuana la versione dialettale di Malia e Lu cavalieri Pedagna, Gabriele D’Annunzio La figlia di Iorio, la cui traduzione in siciliano fu affidata alla perizia del giovane Giuseppe Antonio Borghese; Angelo Musco, interprete straordinario di tante fortunate commedie martogliane, “il signore del riso” (D’Annunzio) che, “prezioso strumento d’arte incomparabile potenza” secondo la definizione di Pirandello, potè vantarsi non soltanto di essere stato il protagonista nel 1915 del primo testo dialettale dell’agrigentino ma anche della gran parte dei suoi capolavori; Marinella Bragaglia, Mimì Aguglia, Virginia Balistreri, Rosina Anselmi, attrici di forte temperamento, loro eccezionali comprimarie.
A Martoglio si deve inoltre la creazione di un ricco repertorio teatrale siciliano e il coinvolgimento nella sua esaltante avventura di scrittori della statura di Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello, Rosso di San Secondo, e numerosi autori minori e minimi in una stagione in cui la cultura isolana, per eccezionale convergenza di eventi, s’imponeva con forza e autorevolezza a livello non solo nazionale.
Le polemiche che finirono con l’accompagnare gli strepitosi successi in Italia e all’estero di Giovanni Grasso, il cui repertorio sembrava eccessivamente unilaterale e diffamatorio dell’isola e in genere del teatro italiano, dei quali era accusato di offrire un’immagine mutilata e distorta, eccessivamente passionale, violenta, talora quasi granguignolesca, spingevano verso un repertorio diverso che mettesse in scena i multiformi aspetti e le varie classi sociali della realtà isolana , popolata anche di personaggi miti e sobri, non soltanto drammatici e a forti tinte.
I tempi erano frattanto maturi perché Musco, sganciandosi da Grasso, desse vita ad una sua compagnia. Martoglio, primo ed entusiasta estimatore del grande comico, da tempo vagheggiava un repertorio liberato dalla componente sanguigna di Grasso, alimentatrice di un cartellone non più adatto alla nuova dimensione culturale, arroccato sui modelli di un verismo di maniera giusto ad inaugurare una stagione – lunga in verità e pregna di apprezzabili risultati artistici agli inizi del secolo – ora in lento declino per le mutate condizioni storico-sociali. Ma a Musco per rinnovare il repertorio mancavano i copioni: bisognava indirizzare gli autori verso un “nuovo” teatro siciliano “fatto di mitezza e di bontà, sorriso di sole e di poesia”, secondo il programma di Martoglio che in ciò si adopera con infaticabile lena.
Voracemente, l’Europa sta bruciando il traumatico evento della grande guerra, le angosce legate al sanguinoso conflitto e le incertezze della ricostruzione devono essere lenite con immagini di più serena laboriosità, se è vero, con Aristotele, che il teatro è un momento insostituibile di catarsi e se non esiste, con Bergson, comicità lontana dall’umano sentire. Nasce così un teatro “del folclore e delle virtù domestiche, delle creature poetiche dai sacrifici sublimi che – dichiara sempre Martoglio – avrebbe estasiato il mio grande e buon Pitrè”.
La versatilità di Martoglio, la sua sensibilità verso nuove forme espressive, fanno si che egli inserisca da protagonista pure nella storia del cinema muto italiano che muoveva negli stessi anni i primi incerti passi. Sullo scorcio del 1913, mentre agiscono dibattendosi fra non poche difficolt economiche ben oltre quaranta case produttrici, Martoglio è nominato direttore artistico della “Morgana films edizioni d’arte” con sede a Roma. Sotto la sua direzione la “Morgana films” programma di produrre lavori cinematografici “su scenari dei maggiori autori, interpretati dai più grandi artisti”. La serie ha inizio con Capitan Blanco, dal dramma ‘U paliu dello stesso Martoglio, segue il film Sperduti nel buio, dall’omonimo dramma di Roberto Bracco, entrambi con splendidi Giovanni Grasso e Virginia Balistreri, e quindi Teresa Raquin, dall’omonimo romanzo di Emile Zola. Grave la perdita di questa triade firmata da Martoglio, particolarmente nel caso di Sperduti nel buio, film ormai mitico, che costituisce l’antesignano del neorealismo, di cui va sottolineata l’importanza per la straordinaria cura del dettaglio, per il naturalismo delle immagini, per il linguaggio cinematografico che utilizza il montaggio di contrasto e di parallelismo anticipando tecniche che saranno di David Wark Griffith, Vsevolod I. Pudòvkin, Sergej Michajlovic Ejzenstejn, ma pure di Jean Renoir, Marcel Carnè, Julien Duvivier.
Verso la fine del 1918, Nino Martoglio, con la collaborazione di Luigi Pirandello e Pier Maria Rosso di san Secondo (direttore scenico Anton Giulio Bragaglia), avviava una nuova impresa artistica, più ambiziosa delle precedenti: la Compagnia drammatica del teatro mediterraneo, “di complesso” e non ” a mattatore”, e con elementi fondamentali il dialetto e la musica. La Compagnia rivendicava, secondo le dichiarazioni di Martoglio, i diritti dell’invenzione e della scrittura, condannando “le falsificazioni brutali che attori drammatici e comici troppo acclamati hanno finito con l’apportare alla concezione degli autori”, dove s’avvertiva l’eco delle antiche polemiche nei confronti di Grasso e delle recenti nei confronti di Musco. Purtroppo l’iniziativa martogliana, finalizzata alla valorizzazione della cultura dell’area mediterranea in un’epoca storica in cui la questione meridionale assumeva uno spessore sempre maggiore, sostenuta dalla critica ma non dal pubblico, nonostante il repertorio di prestigio e il valore di attori quali Giovannino Grasso junior, Virginia Balistreri, salvatore Lo Turco, Rocco Spadaro, Carolina Bragaglia, ebbe, come le precedenti, esito negativo. Fortemente amareggiato, Martoglio – creatore di quel teatro siciliano che doveva le sue fortune anche all’assenza di una drammaturgia italiana (“bisogna passare nel teatro regionale”, avverte Capuana, “a fine di arrivare a quel teatro nazionale che non ha altra via di salvezza, se vuol essere opera d’arte e non opera d’artificio”) e il suo lento declino alle pressioni dell’aristocratica egemonia crociata, alle istanze omologanti degli eventi politici, all’affermarsi del teatro in lingua di Pirandello che da quell’esperienza aveva tratto linfa vitale – abbandona il capocomicato per dedicarsi alla stesura della storia di quel teatro di cui era stato non piccola parte. Ma il progetto non sarà realizzato. Una morte improvvisa e tragica sui cinquant’anni, come profetizzatogli da una zingara, lo coglieva il 15 settembre 1921 a Catania, dove precipitava, in modo ancora per tanti aspetti misterioso, nella tromba dell’ascensore in costruzione dell’Ospedale Vittorio Emanuele. Così lo ricorda pochi giorni dopo, sul “Messaggero della Domenica” del 18-19 settembre, l’amico e sodale Luigi Pirandello: “non fu poeta lirico soltanto: fu anche, come si sa commediografo acclamato, in lingua e in dialetto. Quello che non si sa, fu quanto gli costò, di amarezze, di cure, di fatiche, di spese, il teatro siciliano, che vive massimamente per lui e di lui, e di cui egli fu il vero ed unico fondatore.”

(da Nino Martoglio, Tutto il Teatro e Centona, tutte le poesie siciliane, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Newton & Compton, 1966).

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Commedia in tre atti – 1917
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di Nino Martoglio e Luigi Pirandello

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Introduzione al Teatro di Luigi Pirandello

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