Contro il meccanicismo: la relazione arte-scienza nell’estetica di Luigi Pirandello

Di Ilaria Salonna

Anziché considerare l’artista come un genio fuori dal normale, Pirandello dimostra che se il folle è colui che si trova a essere ‘frammentato’ tra le proprie innumerevoli idee o prigioniero di un’idea fissa, allora il genio artistico non può di necessità esserlo.

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Arte-scienza nell’estetica di Pirandello
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Contro il meccanicismo: la relazione arte-scienza
nell’estetica di Luigi Pirandello

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Sull’estetica di Pirandello

L’intera opera di Luigi Pirandello è segnata trasversalmente da una solida e costante riflessione estetica la quale, prendendo spunto dalla poetica dello scrittore siciliano, può trovare una sua autonomia e unità di pensiero. A questo riguardo non è possibile prescindere da un esaustivo e ancora oggi significativo volume di Claudio Vicentini che, pubblicato nel 1970 [1] , ripercorre in senso storico cronologico l’evoluzione del pensiero estetico di Pirandello, e ne rintraccia le linee fondamentali definendole secondo l’origine e lo sviluppo nell’arco dell’intera opera dello scrittore. Sotto l’influenza delle teoria della formatività di Luigi Pareyson [2] , che vede la poetica dell’artista come un processo di genesi e formazione attiva, Vicentini fa emergere dall’intera opera di Pirandello un’autentica riflessione estetica.

[1] Claudio Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970

[2] Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Torino, Edizioni di «Filosofia», 1954 (nuova ed. Milano, Bompiani, 1988).

Già al tempo di Pirandello erano apparsi contributi che tentavano di definire la poetica dell’autore nei termini di un sistema filosofico vero e proprio. In particolare Adriano Tilgher è il critico letterario che più di altri definì una tale filosofia in modo per lo più autonomo rispetto allo stesso Pirandello. Tilgher delineò la filosofia di Pirandello nella sostanziale dialettica tra arte e vita, in cui la forma si trova a essere sempre in opposizione e dialogo con l’inconsistente, il divenire costante, l’infinito. [3]

[3] Adriano Tilgher, Il teatro di Luigi Pirandello, in Studi sul teatro contemporaneo, preceduto da un saggio su l’arte come originalità e i problemi dell’arte, III ed. aggiornata e accresciuta, Roma, Libreria di scienze e Lettere, 1928.

Vicentini, invece, opera diversamente e fornisce uno strumento in grado di dare al lettore interessato alle risposte di Pirandello sulle questioni circa l’arte, le modalità sensibili della conoscenza, e sul problema della rappresentazione della realtà, una chiara panoramica a partire dalla sua opera.

Un tale approccio mostra un aspetto molto importante che qui ci preme sottolineare e che, a nostro parere, rende il pensiero di Pirandello di grande attualità rispetto alla riflessione estetica contemporanea. Ci riferiamo alla dimensione del fare artistico e del processo di creazione, che apre il problema della tecnica, il quale si accompagna, nel discorso estetico, al rapporto dialettico tra teoria e prassi, tra forma e contenuto di un’opera d’arte, ma anche tra emozione e riflessione, espressione e intuizione rispetto all’esperienza estetica. In tutti gli scritti teorici di Pirandello ritroviamo molte variazioni della stessa problematica legata al processo di creazione e a una possibile risposta rispetto al problema di un’oggettività tutta individuale, concetto del tutto ossimorico e legato alla personale responsabilità dell’autore di strutturare la realtà secondo una forma. Nei primi anni del Novecento, Pirandello comincia a sviluppare nel suo pensiero «un movimento teso a rendere sempre più importante la funzione del soggetto nel procedimento conoscitivo fino a tramutare la conoscenza del mondo in costruzione» [4].

[4] Claudio Vicentini, op. cit., p. 28

 Questa tendenza trova un’origine sicuramente nella temperie culturale che si respirava in quegli anni e che era fortemente intrisa delle nuove teorie scientifiche sia nell’ambito della fisica, ma anche della neonata scienza psicologica. È lo stesso Pirandello a citare autori come Alfred Binet [5], teorico delle alterazioni della personalità umana, Gabriel Séailles [6] e Giovanni Marchesini [7] , le cui teorie di certo lo influenzarono [8].

[5] Alfred Binet, Les altérations de la personnalité, Paris, Alcan, 1892.

[6] Gabriel Séailles, Essai sur le genie dans l’art, Paris, Alcan, 1883.

[7] Giovanni Marchesini, Le finzioni dell’anima, Bari, Laterza, 1905.

[8] Cfr. luigi Pirandello, Scienza e critica estetica (1900), ripubblicato in Gösta Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, «Romanica Stockholmiensia», vol. 2, Stoccolma, Almqvist & Wiksell, 1966, pp. 227–228.

È in particolare nel confronto con il pensiero di Séailles che Pirandello arriva a definire la propria riflessione estetica descrivendo il processo artistico come uno sviluppo organico mediato dall’individualità dell’artista. Partendo dal presupposto della frattura tra natura e spirito, il processo creativo esercita proprio qui la sua funzione ‘organatrice’ e spinge naturalmente a due tipi di sguardo, l’uno che vede l’arte in un rapporto critico con la realtà secondo una sua specifica modalità, ovvero l’umorismo, e l’altro che consente una costante formatività nel senso di una realizzazione piena e totale dell’individualità, come si vedrà nella teoria del personaggio. Relativamente a quest’ultima, uno dei testi pirandelliani di riferimento, oltre agli scritti teorici sul teatro, resta il trattato di estetica teatrale in forma drammatica dei Sei personaggi in cerca d’autore. Per quel che riguarda invece il tema connesso all’arte nel suo rapporto critico con la realtà, Pirandello ce ne offre una rilevante presentazione soprattutto nei saggi coevi L’umorismo e Arte e scienza, pubblicati entrambi nel 1908, in occasione della nomina a professore ordinario in Stilistica e Retorica alla facoltà di Magistero. In questi saggi troviamo l’esposizione di un principio che vede «il riconoscimento di una scienza implicita nell’arte» [9] che determina il rapporto dialettico di compresenza tra soggetto e oggetto secondo una distinzione dei due termini superata proprio nel processo artistico. Il superamento di una tale distinzione corrisponde anche al rifiuto di una separazione netta tra concetti scientifici e concetti empirici, i quali possono essere intesi in senso opposto solo da un punto di vista linguistico e strumentale, ma non rispetto alla conoscenza, la quale ne risulterebbe altrimenti troppo sommaria e incompleta [10].

[9] Claudio Vicentini, op. cit., p. 110. Vicentini sottolinea come proprio su questo punto si evidenzi l’influenza di Séailles sul pensiero di Pirandello, di cui «adotta volentieri termini, espressioni e a volte interi brani» (Ibidem).

[10] Luigi Pirandello, L’Umorismo, in id., Saggi, poesie scritti varii, a cura di Manlio lo Vecchio – Musti, Milano, Mondadori, 1960, pp. 15–160, passim e p. 123: «Dalla somma, ripeto, di tutte queste caratteristiche e conseguenti definizioni si può arrivare a comprendere, così, in generale, che cosa sia l’umorismo, ma nessuno negherà che non ne risulti una conoscenza troppo sommaria. Che se accanto ad alcune determinazioni affatto incompiute, come abbiamo veduto, altre ve ne sono indubbiamente più comuni, l’intima ragione di esse non è poi veduta affatto con precisione né spiegata».

La polemica con Benedetto Croce

La posizione di Pirandello è nettamente opposta alla filosofia estetica di Benedetto Croce, la quale infatti risulta essere per lo scrittore siciliano il principale bersaglio polemico nello sviluppo delle sue idee sull’arte e sul ruolo della riflessione in questo ambito. Questa polemica non ebbe grosse conseguenze, dal momento che si trattava di posizioni radicalmente opposte, lontanissime tra loro e difficilmente collocabili in un vero e proprio dialogo, poiché «lo sforzo speculativo di Pirandello era diretto a riconoscere nell’organicità dell’arte la presenza della criticità della vita, mentre la teoria di Croce, al contrario, esigeva il superamento di ogni criticità particolare nella serenità dell’arte» [11].

[11] Claudio Vicentini, op. cit., p. 135.

Tuttavia, nonostante questa opposizione insanabile che al momento non provocò conseguenze troppo visibili, è ad ogni modo interessante vedere, a nostro parere, cosa sia rimasto di essa e come rintracciarne le conseguenze per un dibattito attuale.

In questa polemica ritroviamo innanzitutto, come in una sorta di variazione in miniatura, un momento chiave del dibattito tra scienza e filosofia che intercorse nei primi anni del Novecento. Da un lato, la rivoluzione scientifica aveva portato a una distinzione netta tra una verità della scienza e una dei filosofi, nella ferma convinzione di regole diverse per quel che riguarda il mondo della fisica materiale e quello dello spirito, mentre dall’altro vediamo imporsi la necessità di provare a concepire, proprio di fronte alla crisi, un nuovo spirito scientifico, per usare un’espressione di Gaston Bachelard, il quale fu più tardi proprio un sostenitore e teorizzatore di questa posizione [12].

[12] Gaston Bachelard, Le nouvel esprit scientifique, Paris, P.U.F., 1934.

Da un lato, la divisione preservava una continuità in particolare dal punto di vista della rappresentazione ed espressione in termini linguistici della realtà, in una perfetta corrispondenza con i concetti; dall’altro lato, troviamo invece un modello razionale fondato piuttosto sulla discontinuità e composto da vuoti e salti, in una struttura ritmica costante, ma adattabile a diverse circostanze, in particolare psichiche e inconsce. L’ingresso della soggettività nel discorso scientifico ha imposto di compiere una scelta di campo, specialmente rispetto al problema del linguaggio e della logica. Anche Gramsci, spende una riflessione a riguardo, la quale sembra riportarci a importanti conseguenze epistemologiche rispetto alla polemica con la filosofia di Croce. Riferendosi al saggio di Croce, Questa tavola rotonda è quadrata, Gramsci mostra in esso un’aporia anche dal punto di vista stesso della filosofia crociana che vedeva il primato del concetto di espressione. Parlando di logica grammaticale Gramsci sostiene, contrariamente al Croce, che «tutto ciò che non è “grammaticalmente esatto” può essere giustificato dal punto di vista estetico, logico, ecc., se lo si vede non nella particolare logica, ecc., dell’espressione immediatamente meccanica, ma come elemento di una rappresentazione più vasta e comprensiva» [13].

[13] Antonio Gramsci, Note per un’introduzione allo studio della grammatica (1935), «Quaderno 29 (XXI)», Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, vol. III, Torino, Einaudi, Torino 1975, p. 2341.

La coerenza «in un quadro più vasto» [14] implica che la grammatica in sé non può considerarsi un sistema immutato e non relativo e, soprattutto, si evince che per questa ragione ciò che in essa non rientra, ovvero le «“sgrammaticature” (che sono assenza di “disciplina mentale”, neolalismo, particolarismo provinciale, ecc.)» [15], possono essere invece logiche se comprese appunto in un determinato contesto, con una determinata funzione.

[14] [15] Ibidem

In questa frattura si mostra l’importanza di una vera e propria dimensione pratica legata al linguaggio, connessa alla sua funzione, e dunque in questo senso retorica, che sappiamo invece essere esclusa dal Croce. La retorica e la stilistica, presenti nella scuola italiana, andarono addirittura via via scomparendo, anche e soprattutto a causa dell’influenza del pensiero crociano, che ne dichiarò l’assoluta secondarietà in quanto discipline non necessarie all’esperienza estetica: «Alcuni, concedendo l’insussistenza estetica delle categorie rettoriche, soggiungono una riserva circa l’utilità di esse e i servigi che renderebbero, specie nelle scuole di letteratura. Confessiamo di non intendere come l’errore e la confusione possano educare la mente alla distinzione logica o servire all’apprendimento di quei principii di scienza che da essi vengono turbati e oscurati. Ma forse si vorrà dire che quelle distinzioni in quanto classi empiriche, possono agevolare l’apprendimento e giovare alla memoria, in modo conforme a quanto sia ammesso di sopra circa i generi letterari e artistici: su di che, nessuna obiezione. – Per un altro fine le categorie rettoriche debbono, di certo, seguitare a comparire nelle scuole: per esservi criticate» [16].

[16] Benedetto Croce, Estetica, a cura di Giuseppe Galasso, Milano, Adelphi, 1990, pp. 92–93.

L’autorevolezza dell’affascinante filosofia estetica di Benedetto Croce, concepita come un sistema con una forte e intima coerenza, sancì importanti conseguenze, anche se tuttavia non trovò posto negli sviluppi delle correnti di estetica successive, in particolare quelle legate all’ermeneutica e alla fenomenologia. Se si mantiene la prospettiva pratica dell’artista, quale è per esempio quella di Pirandello, la corrispondenza (e continuità) tra espressione e logica, si presenta come un meccanicismo. Per quanto per Benedetto Croce questo punto di vista non fosse per nulla contemplato, in quanto non rilevante al suo sistema, ecco che tuttavia ci sembra interessante ripercorre le argomentazioni di Pirandello contro il meccanicismo che ne deriverebbe. Come poter ridurre il processo di creazione per opera dell’individualità dell’artista a una meccanica? Si tratterebbe infatti di una contraddizione inconcepibile nella definizione di un’opera d’arte. Eppure esiste una logica dentro il fare artistico?

Queste domande, che si evincono dalla riflessione pirandelliana, ci riportano immediatamente agli studi più recenti della critica filosofica e letteraria interessata a indagare i processi di formazione del pensiero e anche a sondare la processualità intrinseca alla genesi di un’opera artistica, proprio nel senso della tecnica e della pratica. Per altro lo stesso Pirandello seguiva particolarissimi processi di lavoro, come si evince dai suoi taccuini, in cui si può notare quanto la discontinuità apparentemente illogica domini su tutto e che «non l’ideazione di un soggetto intorno al quale egli poi compie via via gli studi finalizzati a concretizzarlo; al contrario, è da frammenti centrifughi che Pirandello ricava per induzione il soggetto, inesistente quando ha accumulato i materiali che solo in un secondo tempo andranno a comporlo. Con il vantaggio – da non sottovalutare – della potenzialità illimitata di un simile laboratorio, che consente di produrre molteplici soggetti dalle medesime particelle irrelate» [17].

[17] Annamaria Andreoli, Nel laboratorio di Pirandello, in Luigi Pirandello, Taccuino segreto, ed. a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1997, p. 172.

Ora vogliamo soffermarci sul saggio Arte e scienza e sui termini in cui, all’interno di esso, si esprime la polemica di Pirandello con Croce.

La relazione Arte – Scienza

Pirandello scrive per opposizioni e, da maestro nell’arte drammatica quale è, si serve della legge del conflitto e della struttura frammentaria fatta di exempla, per un secondo fine, indiretto, che si muove tra i termini della sua composizione più che dentro di essi. Il suo avversario o l’oggetto della sua invettiva ha sempre un carattere funzionale che gli permette di raggiungere un passaggio successivo nello sviluppo del suo pensiero. Anche nello scritto Arte e scienza egli si mantiene su questa linea di principio. Se guardiamo l’inizio, Pirandello si contrappone a «tali professori di critica antropologica» [18], i quali, egli dice, «dàn patente di pazzia o di degenerazione ad artisti che, anche per poco, non stiano nella linea d’una astratta normalità» [19].

[18]Luigi Pirandello, Arte e scienza, in id., Saggi, poesie, scritti varii, cit., pp. 161–179, qui p. 164.

[19] Ibidem.

Anziché considerare l’artista come un genio fuori dal normale, Pirandello dimostra, citando lo scienziato della psicologia Alfred Binet, che se il folle è colui che si trova a essere ‘frammentato’ tra le proprie innumerevoli idee o prigioniero di un’idea fissa, allora il genio artistico non può di necessità esserlo. Nel delineare questo esempio e costruendo i termini della sua invettiva, Pirandello definisce un principio di partenza fondamentale: l’artista (e il genio) opera secondo un’attività razionale e dunque secondo una certa logica. Pirandello dice: «il genio è lo spirito che produce l’unità organatrice dalla diversità delle idee che vivono in lui, mediante la divinazione dei loro rapporti» [20].

[20] Ivi, p. 165.

Se l’artista opera secondo una logica, ciò vuol dire che quest’ultima non necessariamente deve essere la logica delle scienze positive. Dire che il genio opera secondo delle leggi, significa negare l’idea della priorità di un’intuizione pura, ai limiti della razionalità, vicina invece a un’idea per lo più romantica di genio ispirato dal talento che quasi immediatamente realizza l’opera d’arte nella sua perfetta fissità. Il bersaglio polemico successivo sono le scienze umane e sociali che, nate nella prima metà dell’Ottocento, hanno basato l’analisi del materiale umano, psicologico e sociale, su leggi fisiche e matematiche. Pirandello si inserisce appieno nel dibattito culturale del suo tempo, dimostrandosi un lettore critico anche di saggi scientifici, citando per esempio il teorico dell’evoluzionismo Herbert Spencer, autore dei Principles of Psychology e Hippolyte Taine. Egli sostiene che per chi vede le opere artistiche come effetti dei principi necessari delle scienze naturali e sociali è impossibile penetrare «veramente nell’intimità dell’arte» [21].

[21] Ivi, p. 166.

Dunque Pirandello ci dice chiaramente che questi scienziati compiono l’errore di imporre sull’arte l’attività logica dell’intelletto fondata sulle leggi della fisica.

Se dunque è cosa errata imporre una superiorità della scienza sull’arte, l’inverso è ancora più insensato per Pirandello. La superiorità dell’intuizione artistica su ogni tipo di attività logica, affermata da Benedetto Croce nella sua Estetica, è il vero bersaglio polemico di Pirandello. Per Pirandello, come si può comprendere, questa variante è più inconcepibile della prima. Questa differenza di grado nella gravità degli argomenti viene espressa da Pirandello attraverso la composizione del saggio Arte e scienza e dalla sua stessa scrittura che si sposta da un’invettiva ironica sugli scienziati positivisti – che letteralmente ci fa sorridere perché giocata sull’esagerazione – a una critica molto più serrata, profonda e definitiva contro le tesi di Croce, di cui sempre Pirandello si sforza di mostrare l’inconsistenza. Pirandello è un artista e come tale egli vuole affermare la dignità del proprio fare. Le tesi crociane, invece, letteralmente tagliano fuori, come si è detto, tutto quel che riguarda il processo creativo che conduce all’opera, anzi questo concetto è del tutto estraneo a Croce, perché egli insiste sulla superiorità della forma e la sua perfezione per quel che riguarda l’esperienza estetica. Quest’ultima, dice Croce, è data solamente dall’intuizione artistica e solo secondariamente da una riflessione razionale su di essa e questo risulta per Pirandello «assolutamente arbitrario» [22].

[22] Ivi, p. 167.

Pirandello sottolinea invece un rapporto di inscindibilità tra le attività, genericamente definite, dello spirito, e al Croce non fa che rimproverare questa sua posizione: «Escludendo il sentimento e la volontà, cioè gli elementi soggettivi dello spirito, e fondando l’arte solamente su la conoscenza intuitiva, dicendo cioè che l’arte è conoscenza, il Croce non riesce a vedere il lato veramente caratteristico di essa, per cui essa si distingue dal meccanismo» [23].

[23] Ivi, p. 168.

Vediamo dunque che Pirandello sviluppa la sua argomentazione fondandosi sulla critica della meccanicità che deriva da una tale idea di arte e dal fatto che Croce pone l’equazione intuizione = espressione. Pirandello dice ancora: «Il fatto estetico, com’egli (Croce, nda) lo intende, ha inevitabilmente tutti i caratteri del fatto fisico isolato per astrazione, cioè i caratteri di necessità, di fissità, assenza di fini e valore soltanto quantitativo» [24].

[24] Ivi, p. 169.

Egli invece ritiene che: «Perché il fatto estetico avvenga, bisogna che si abbia non la espressione, la forma astratta, meccanica, oggettiva della intuizione, ma la soggettivazione di essa; perché il fatto estetico avvenga, bisogna, in altri termini, che l’intuizione non sia l’impressione formata astrattamente, meccanicamente, oggettivamente, ma la forma concreta, libera e soggettiva d’una impressione» [25].

[25] Ivi, p. 175.

In questo senso, se il discorso crociano sfocia sul piano quantitativo, Pirandello reclama quello qualitativo composto dai valori della soggettività che rendono mobile l’opera a seconda di chi la crea, la vive, la riceve. Più oltre dice: «Questione di più o meno, quantitativa? No! Perché quella è una forma astratta, oggettiva, meccanica, e questa una forma concreta, libera, soggettiva. La differenza è qui, ed è qualitativa, non quantitativa, giacché non dobbiamo misurar la quantità della qualità oggettiva, ma la qualità della quantità espressiva; non la qualità astratta di quell’alba, ma la qualità concreta nella forma del Manzoni: la qualità, insomma, non del contenuto oggettivato, che non importa nulla, ma della forma soggettiva, che è tutto. […] L’impressione, divenuta espressione (interna), bisogna che ridiventi impressione, materia elaborata» [26].

[26] Ibidem.

Il grande taciuto dentro la polemica di Pirandello è la definizione stessa dell’arte, ma anche quella di scienza. Tuttavia tentare una definizione non è di certo, e non potrebbe esserlo, parte degli intenti di Pirandello. Arte e scienza si caratterizzano come due poli distinti, ma con un legame intrinseco che di certo, egli ci suggerisce, vale la pena di esplorare, interrogandosi sulle reciproche dinamiche. Pirandello insiste piuttosto sul carattere processuale, non meccanico, della relazione che intercorre tra arte e scienza, senza arguire su che cosa sia l’una e cosa sia l’altra. Egli non può concepire l’arte come un elemento fisso e finito, pur nella sua più alta perfezione, così come gli è impossibile attribuire alla scienza la superiorità concettuale nella definizione dell’operare dell’intelletto nella realizzazione di un’opera artistica. L’atto estetico non deve essere necessariamente meccanico. Ciò può essere tale a condizione di non considerare la rappresentazione artistica in modo assoluto e quindi in una fissità che ne uccide l’espressione. L’arte in sé è una rappresentazione che però non può essere l’unico riferimento, altrimenti siamo nel regno del meccanicismo, e l’esperienza estetica stessa perde di libertà e diventa soggetta a giudizi definitori e potenzialmente suscettibili di ideologismi e moralismi su ciò che, per esempio, è vera arte e ciò che non lo è. Pirandello sembra dare una lezione alla critica, perché da un lato l’arte non è riducibile alla scienza e di conseguenza giudicabile esaustivamente secondo il linguaggio scientifico; dall’altro lato però l’artista, e questo è un punto molto importante, si può avvalere d’una qualche scienza nella sua arte: «Come l’azione sintetica del genio spontanea si trova nella scienza, opera del pensiero riflesso, così nell’opera d’arte, libera creazione, si trova inclusa una scienza che ignora se stessa. La logica che qui è istintiva, là è riflessa; la fantasia che qua è cosciente è là incosciente» [27].

[27] Ivi, p. 179.

Con ciò, ancora una volta Pirandello ammette che, seppure inspiegabile in termini della logica scientifica, esiste un’altra attività razionale che opera secondo le sue proprie leggi e questa è da lui chiamata «Fantasia» [28].

[28] Luigi Pirandello, Prefazione ai «Sei personaggi in cerca d’autore», in Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, vol. II, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 2004: «È da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da jeri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere. Si chiama Fantasia».

D’altro canto la scienza può trovare nell’arte uno spazio di sperimentazione e l’artista stesso può a buon diritto avvalersene, ma secondo le leggi che la sua fantasia predispone nel processo della creazione.

Ilaria Salonna
University of Warsaw

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