Una voce – Audio lettura 4

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Legge Giuseppe Tizza
«Raccolse le sue robe, e il giorno prima che egli lasciasse la casa di salute, se ne partì ignorata, per rimanere almeno nella memoria di lui una voce, ch’egli forse, uscito ora dal suo bujo, avrebbe cercata su molte labbra, invano.»

Prime pubblicazioni: Regina, 20 settembre 1904, poi in Erma bifronte, Treves, Milano 1906.

Una voce
Edvard Munch (1863-1944), La voce, notte d’estate, 1896

Una voce

Voce di Giuseppe Tizza

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             Pochi giorni prima che morisse, la marchesa Borghi aveva voluto consultare, più per scrupolo di coscienza che per altro, anche il dottor Giunio Falci, per il proprio figlio Silvio, cieco da circa un anno. Lo aveva fatto visitare dai più illustri oculisti d’Italia e dell’estero e tutti le avevano detto che era afflitto d’un glaucoma, irrimediabile.

             Il dottor Giunio Falci aveva vinto da poco, per concorso, il posto di direttore della clinica oftalmica; ma sia per la sua aria stanca, e sempre astratta, sia per la figura sgraziata, per quel suo modo di camminare tutto rilassato e dinoccolato, con la grossa testa precocemente calva, buttata indietro, non riusciva a cattivarsi né la simpatia né la confidenza d’alcuno. Egli lo sapeva e pareva ne godesse. Rivolgeva agli scolari, ai clienti domande curiose, penetranti, che aggallavano e sconcertavano; e troppo chiaramente lasciava intendere il concetto che s’era formato della vita, così nudo di tutte quelle intime e quasi necessarie ipocrisie, di quelle spontanee, inevitabili illusioni che ciascuno, senza volerlo, si crea e si compone per un bisogno istintivo, quasi di pudor sociale, che la sua compagnia diveniva a lungo andare insopportabile.

             Invitato dalla marchesa Borghi, aveva esaminato a lungo, attentamente, gli occhi del giovine, senza prestare ascolto, almeno in apparenza, a tutto ciò che la marchesa intanto gli diceva intorno alla malattia, ai giudizi degli altri medici, alle varie cure tentate. Glaucoma? No. Non aveva creduto di riscontrare in quegli occhi i segni caratteristici di questa malattia, il colore azzurrognolo o verdiccio dell’opacità, ecc. ecc.; gli era parso piuttosto che si trattasse di una rara e strana manifestazione di quel male che comunemente suol chiamarsi cateratta. Ma non aveva voluto manifestare così in prima alla madre il suo dubbio, per non farle nascere d’improvviso foss’anche una tenue speranza. Dissimulando il vivissimo interesse che quel caso strano gli destava, le aveva invece manifestato il desiderio di tornare a visitar l’infermo fra qualche mese.

             Era infatti ritornato; ma, insolitamente, per quella via nuova, sempre deserta, in fondo ai Prati di Castello dove sorgeva il villino della marchesa Borghi, aveva trovato una frotta di curiosi davanti al cancello aperto. La marchesa Borghi era morta d’improvviso, durante la notte.

             Che fare? Tornarsene indietro? Aveva pensato che, se nella prima visita avesse manifestato il dubbio che il male di quel giovine non fosse, a suo modo di vedere, un vero e proprio glaucoma, forse quella povera madre non sarebbe morta con la disperazione di lasciare il figlio irrimediabilmente cieco. Ebbene, se non gli era più dato di consolare con questa speranza la madre, non avrebbe potuto almeno cercare di recar con essa un gran conforto al povero superstite, così tremendamente colpito da quella nuova, improvvisa sciagura?

             Ed era salito al villino.

             Dopo una lunga attesa, fra il trambusto che vi regnava, gli si era presentata una giovine vestita di nero, bionda, dall’aria rigida, anzi severa: la dama di compagnia della defunta marchesa. Il dottor Falci le aveva esposto il perché di quella sua visita, che sarebbe stata altrimenti importuna. A un certo punto, con una lieve meraviglia che tradiva la diffidenza, quella gli aveva domandato:

             – Ma vanno dunque soggetti anche i giovani alla cateratta?

             Il Falci l’aveva guardata un tratto negli occhi, poi, con un sorriso ironico, percettibile più nello sguardo che sulle labbra, le aveva risposto:

             – E perché no? Moralmente, sempre, signorina: quando s’innamorano. Ma anche fisicamente, pur troppo.

             La signorina, irrigidendosi di più, aveva allora troncato il discorso, dicendo che, nelle condizioni in cui il marchese si trovava in quel momento, non era proprio possibile parlargli di nulla; ma che, quando si fosse un po’ quietato, ella gli avrebbe detto di quella visita e certo egli lo avrebbe fatto chiamare.

             Eran trascorsi più di tre mesi: il dottor Giunio Falci non era stato richiamato.

             Veramente, la prima visita aveva lasciato alla marchesa defunta una pessima impressione del dottore. La signorina Lydia Venturi, rimasta come governante e lettrice del giovane marchese, lo ricordava bene. Per istintivo malanimo contro quell’antipaticissimo dottore non considerava intanto, se per avventura non sarebbe stata diversa quell’impressione della marchesa, ove il Falci fin da principio le avesse fatto sperare non improbabile la guarigione del figlio. Per conto suo, stimò da ciarlatano e peggio la seconda visita, quel venire proprio nel giorno che la marchesa era morta a manifestare un dubbio, ad accendere una speranza di quella sorta. Tanto più che il giovane marchese pareva ormai rassegnato alla sciagura. Mortagli così d’un tratto la madre, oltre al bujo della sua cecità, un altro bujo s’era sentito addensare più dentro che attorno, terribile, di fronte al quale, è vero, tutti gli uomini sono ciechi. Ma da questo bujo, chi abbia gli occhi sani può almeno distrarsi con la vista delle cose intorno: egli no: cieco per la vita, cieco ora anche per la morte. E in quest’altro bujo, più freddo e più tenebroso, sua madre era scomparsa, silenziosamente, lasciandolo solo, in un vuoto orrendo.

             A un tratto – non sapeva bene da chi – una voce d’una dolcezza infinita era venuta a lui, come una luce soavissima. E a questa voce tutta l’anima sua, sperduta in quel vuoto orrendo, s’era aggrappata.

             Non era altro che una voce per lui la signorina Lydia. Ma era pur colei che più di tutti, negli ultimi mesi, era stata vicina a sua madre. E sua madre – egli lo ricordava – parlandogli di lei, gli aveva detto ch’era buona e attenta, di squisite maniere, colta, intelligente; e tale egli ora la sperimentava nelle cure che aveva per lui, nei conforti che gli dava.

             Lydia, fin dai primi giorni, aveva sospettato che la marchesa Borghi, prendendola al suo servizio, non avrebbe veduto male, nel suo egoismo materno, che il figlio infelice si fosse in qualche modo consolato con lei: se n’era acerbamente offesa e aveva costretto la sua naturale alterezza a irrigidirsi in un contegno addirittura severo. Ma, dopo la sciagura, quand’egli, tra il pianto disperato, le aveva preso una mano e vi aveva appoggiato il bel volto pallido, gemendo: «Non mi lasci!… non mi lasci!», s’era sentita vincere dalla compassione, dalla tenerezza, e s’era dedicata a lui, senza più sospetto.

             Presto, con la timida ma ostinata e accorante curiosità dei ciechi, egli s’era messo a torturarla. Voleva «vederla» nel suo bujo; voleva che la voce di lei diventasse immagine dentro di sé.

             Furono dapprima domande vaghe, brevi. Egli volle dirle come se la immaginava, sentendola leggere o parlare.

             – Bionda, è vero? – Sì.

             Bionda era; ma i capelli, alquanto ruvidi e non molti, contrastavano stranamente col colore un po’ torbido della pelle. Come dirglielo? E perché?

             – E gli occhi, ceruli? – Sì.

             Ceruli; ma cupi, dolenti, troppo affossati sotto la fronte grave, triste, prominente. Come dirglielo? E perché?

             Bella non era, di volto; ma di corpo elegantissima. Belle, veramente belle, aveva le mani e la voce. La voce, segnatamente. D’una ineffabile soavità, in contrasto con l’aria cupa, altera e dolente del volto.

             Ella sapeva com’egli, per la malia di questa voce e attraverso alle timide risposte che riceveva alle sue domande insistenti, la vedeva; e si sforzava davanti allo specchio di somigliare a quell’immagine fittizia di lei, si sforzava di vedersi com’egli nel suo bujo la vedeva. E la sua voce, ormai, per lei stessa non usciva più dalle sue proprie labbra, ma da quelle ch’egli le immaginava; e, se rideva, aveva subito l’impressione di non aver riso lei, ma d’aver piuttosto imitato un sorriso non suo, il sorriso di quell’altra se stessa che viveva in lui.

             Tutto ciò le cagionava come un sordo tormento, la sconvolgeva: le pareva di non esser più lei, di mancare man mano a se medesima, per la pietà che quel giovine le ispirava. Pietà soltanto? No: era anche amore, adesso. Non sapeva più ritrarre la mano dalla mano di lui, scostare il volto dal volto di lui, se egli la attirava troppo a sé.

             – No: così, no…, così, no…

             Si dovè presto, ormai, venire a una deliberazione, che alla signorina Lydia costò una lunga e dura lotta con se stessa. Il giovane marchese non aveva parenti, era padrone di sé e dunque di fare quel che gli pareva e piaceva. Ma non avrebbe detto la gente che ella approfittava della sciagura di lui per farsi sposare, per diventar marchesa e ricca? Oh sì, certamente, questo e altro avrebbe detto. Ma tuttavia, come rimanere più oltre in quella casa, se non a questo patto? E non sarebbe stata una crudeltà abbandonare quel cieco, privarlo delle sue cure amorose, per paura dell’altrui malignità? Era, senza dubbio, per lei una gran fortuna; ma sentiva, in coscienza, di meritarsela, perché ella lo amava; anzi, per lei la maggior fortuna era questa, di poterlo amare apertamente, di potersi dir sua, tutta e per sempre, di potersi consacrare a lui unicamente, anima e corpo. Egli non si vedeva: non .vedeva altro entro di sé che la propria infelicità; ma era pur bello, tanto! e delicato come una fanciulla; e lei, guardandolo, beandosene, senza che egli se n’accorgesse, poteva pensare: «Ecco, sei tutto mio, perché non ti vedi e non ti sai; perché l’anima tua è come prigioniera della tua sventura e ha bisogno di me per vedere, per sentire». Ma non bisognava prima, condiscendendo alla voglia di lui, confessargli ch’ella non era com’egli se la immaginava? Non sarebbe stato il tacere un inganno da parte sua? Sì, un inganno. Ma egli era pur cieco, e per lui dunque poteva bastare un cuore, come quello di lei, devoto e ardente, e l’illusione della bellezza. Brutta, del resto, non era. E poi una bella, veramente bella, forse, chi sa! avrebbe potuto ingannarlo ben altrimenti, approfittando della sciagura di lui, se veramente egli, più che d’un bel volto che non avrebbe potuto mai vedere, aveva bisogno d’un cuore innamorato.

             Dopo alcuni giorni di angosciosa perplessità, le nozze furono stabilite. Si sarebbero fatte senz’alcuna pompa, presto, appena spirato il sesto mese di lutto per la madre.

             Ella aveva dunque davanti a sé circa un mese e mezzo di tempo per preparar l’occorrente alla meglio. Furono giorni d’intensa felicità: le ore volavano fra le lietissime, affrettate cure del nido e le carezze, da cui ella si scioglieva un po’ ebbra, con dolce violenza, per salvare da quella libertà che la convivenza dava al loro amore, qualche gioja, la più forte, per il giorno delle nozze.

             Ci mancava ormai poco più d’una settimana, quando a Lydia fu annunziata improvvisamente una visita del dottor Giunio Falci.

             Di primo impeto, fu per rispondere:

             –   Non sono in casa!

             Ma il cieco, che aveva udito parlar sottovoce, domandò:

             –    Chi è?

             –    Il dottor Falci, – ripeté il servo.

             –    Sai? – disse Lydia, – quel medico che la tua povera mamma fece chiamare pochi giorni prima della disgrazia.

             –    Ah, sì! – esclamò il Borghi, sovvenendosi. – Mi osservò a lungo… a lungo, ricordo bene, e disse che voleva ritornare, per…

             –    Aspetta, – lo interruppe subito Lydia, agitatissima. – Vado a sentire.

             Il dottor Giunio Falci stava in piedi in mezzo al salotto, con la grossa testa calva rovesciata indietro, gli occhi socchiusi, e si stirava distrattamente con una mano la barbetta ispida sul mento.

             –   S’accomodi, dottore, – disse la signorina Lydia, entrata senza ch’egli se n’accorgesse.

             Il Falci si scosse, s’inchinò e prese a dire:

             –   Mi scuserà, se…

             Ma ella, turbata, eccitata, volle premettere:

             –    Lei finora veramente non era stato chiamato, perché…

             –    Anche quest’altra mia visita è forse inopportuna, – disse il Falci, col lieve sorriso sarcastico su le labbra. – Ma lei mi perdonerà, signorina.

             –    No… perché? anzi… – fece Lydia, arrossendo.

             –    Lei non sa, – riprese il Falci, – l’interesse che a un pover’uomo che si occupa di scienza possono destare certi casi di malattia… Ma io voglio dirle la verità, signorina: mi ero dimenticato di questo caso, quantunque a parer mio molto raro e strano. Ieri, però, chiacchierando del più e del meno con alcuni amici, ho saputo del prossimo matrimonio del marchese Borghi con lei, signorina; è vero?

             Lydia impallidì e affermò, alteramente, col capo.

             –    Permetta ch’io me ne congratuli, – soggiunse il Falci. – Ma guardi, allora, tutt’a un tratto, mi sono ricordato. Mi sono ricordato della diagnosi di glaucoma fatta da tanti illustri miei colleghi, se non m’inganno. Diagnosi spiegabilissima, in principio, non creda. Io sono sicuro, infatti, che se la signora marchesa avesse fatto visitare il figliuolo da questi miei colleghi nel tempo che lo visitai io, anch’essi avrebbero detto facilmente che di glaucoma vero e proprio non era più il caso di parlare. Basta. Mi sono ricordato anche della mia seconda visita disgraziatissima, e ho pensato che lei, signorina, dapprima nello scompiglio cagionato dall’improvvisa morte della marchesa, poi nella gioja di questo avvenimento, si era di certo dimenticata, è vero? dimenticata…

             –    No! – negò con durezza Lydia a questo punto, ribellandosi alla tortura che il lungo discorso avvelenato del dottore le infliggeva.

             –    Ah, no? – fece il Falci.

             –    No, – ripeté ella con accigliata fermezza. – Io ho ricordato piuttosto la poca, per non dir nessuna fiducia, scusi, che ebbe la marchesa, anche dopo la sua visita, su la guarigione del figlio.

             –    Ma io non dissi alla marchesa, – ribatté pronto il Falci, – che la malattia del figlio, a mio modo di vedere…

             –    È vero, lei lo disse a me, – troncò Lydia di nuovo. – Ma anch’io, come la marchesa…

             –    Poca, anzi, nessuna fiducia, è vero? Non importa, – interruppe a sua volta il Falci. – Ma lei non riferì, intanto, al signor marchese la mia venuta e la ragione…

             –    Sul momento, no.

             –    E poi?

             –    Neppure. Perché…

             Il dottor Falci alzò una mano:

             – Comprendo. Nato l’amore… Ma lei, signorina, mi perdoni. Si dice, è vero, che l’amore è cieco; lei però lo desidera proprio cieco fino a questo punto, l’amore del signor marchese? Cieco anche materialmente?

             Lydia sentì che contro la sicura freddezza mordace di quell’uomo non bastava il contegno altero, in cui man mano, per difendere la sua dignità da un sospetto odioso, s’interiva vieppiù. Tuttavia si sforzò di contenersi ancora e domandò con apparente calma:

             –    Lei insiste nel ritenere che il marchese possa, con l’ajuto di lei, riacquistare la vista?

             –    Piano, signorina, – rispose il Falci, alzando un’altra volta la mano. – Non sono, come il Signor Iddio, onnipossente. Ho esaminato una volta sola gli occhi del signor marchese, e m’è parso di dovere escludere assolutamente che si tratti di glaucoma. Ecco: questo, che può essere un dubbio, che può essere una speranza, mi pare che dovrebbe bastarle, se veramente, com’io credo, le sta a cuore il bene del suo fidanzato.

             –    E se il dubbio, – s’affrettò a replicare Lydia, con aria di sfida, – dopo la sua visita non potesse più sussistere, se la speranza restasse delusa? Non avrà lei inutilmente, crudelmente, ora, turbata un’anima che si è già rassegnata?

             –    No, signorina, – rispose con dura e seria calma il Falci. – Tanto vero, ch’io ho stimato mio dovere, di medico, venire senza invito. Perché qua, lo sappia, io credo di trovarmi non solo di fronte a un caso di malattia, ma anche di fronte a un caso di coscienza, più grave.

             –    Lei sospetta… – si provò a interromperlo Lydia; ma il Falci non le diede tempo di proseguire.

             –    Lei stessa, – seguitò, – ha detto or ora di aver taciuto al marchese la mia venuta, con una scusa ch’io non posso accettare, non perché m’offenda, ma perché la fiducia o la sfiducia verso me non doveva esser sua, se mai, ma del marchese. Guardi, signorina: sarà anche puntiglio da parte mia, non nego; le dico anzi che io non prenderò nulla dal marchese, se egli verrà nella mia clinica, dove avrà tutte le cure e l’ajuto che la scienza può prestargli, disinteressatamente. Dopo questa dichiarazione, sarà troppo chiederle che ella annunzii al signor marchese la mia visita?

             Lydia si levò in piedi.

             – Aspetti, – disse allora il Falci, levandosi anche lui e riprendendo la sua aria consueta. – La avverto ch’io non dirò affatto al marchese d’essere venuto quella volta. Dirò anzi, se vuole, che lei, premurosamente, mi ha fatto chiamare, prima delle nozze.

             Lydia lo guardò fieramente negli occhi.

             –    Lei dirà la verità. Anzi, la dirò io.

             –    Di non aver creduto in me?

             –    Precisamente.

             Il Falci si strinse nelle spalle, sorrise.

             –    Potrebbe nuocerle. E io non vorrei. Se lei anzi volesse rimandar la visita a dopo le nozze, guardi, io sarei anche disposto a ritornare.

             –    No, – fece, più col gesto che con la voce, Lydia, soffocata dall’orgasmo, avvampata in volto dall’onta che quell’apparente generosità del medico le cagionava; e con la mano gli fé’ cenno di passare.

             Silvio Borghi attendeva impaziente nella sua camera.

             –    Ecco qua il dottor Falci, Silvio; – disse Lydia, entrando convulsa. – Abbiamo chiarito di là un equivoco. Tu ricordi che il dottore, nella sua prima visita, disse che voleva ritornare, è vero?

             –    Sì, – rispose il Borghi. – Ricordo benissimo, dottore!

             –    Non sai ancora, – riprese Lydia, – ch’egli difatti ritornò, la stessa mattina che avvenne la disgrazia di tua madre. E parlò con me e mi disse di ritenere che il tuo male non fosse propriamente quello che tanti altri medici avevano dichiarato; e non improbabile perciò, secondo lui, la tua guarigione. Io non te ne dissi nulla.

             –    Perché la signorina, badi, – s’affrettò a soggiungere il dottor Falci, – trattandosi d’un dubbio espresso da me, in quel momento, in termini molto vaghi, lo considerò piuttosto come un conforto ch’io volessi apprestare, e non vi diede molto peso.

             –    Questo è ciò che ho detto io, non quel che pensa lei, – rispose Lydia, pronta e fiera. – Il dottor Falci, Silvio, ha sospettato ciò che, del resto, è vero, ch’io cioè non ti dissi nulla della sua seconda visita; ed è voluto venir lui spontaneamente, prima delle nozze, per prestarti le sue cure, senz’alcun compenso. Ora puoi credere con lui, Silvio, ch’io volessi lasciarti cieco, per farmi sposare da te.

             –    Che dici, Lydia? – scattò il cieco.

             –    Ma sì, – riprese ella subito, con uno strano riso. – E può esser vero anche questo, perché, difatti, a questo solo patto io potrei diventare la tua…

             –    Che dici? – ripeté il Borghi, interrompendola. – Te ne accorgerai, Silvio, se il dottor Falci riuscirà a ridarti la vista. Io vi lascio.

             –    Lydia! Lydia! – chiamò il Borghi.

             Ma ella era già uscita, tirando l’uscio a sé con violenza.

             Andò a buttarsi sul letto, morse rabbiosamente il guanciale e ruppe dapprima in singhiozzi irrefrenabili. Ceduta la prima furia del pianto, rimase attonita e come raccapricciata di fronte alla propria coscienza. Le parve che tutto ciò che il medico le aveva detto, con quel suo fare freddo e mordace, da molto tempo lei lo avesse detto a se stessa, o meglio, che qualcuno in lei lo avesse detto; e lei aveva finto di non udire. Sì, sempre, sempre si era ricordata del dottor Falci, e ogni qual volta l’immagine di lui le si era affacciata alla mente, come il fantasma d’un rimorso, ella l’aveva respinta con una ingiuria: «Ciarlatano!». Perché, – come negarlo più, ormai? – ella voleva, voleva proprio che il suo Silvio rimanesse cieco. La cecità di lui era la condizione imprescindibile del suo amore. Che se egli, domani, avesse riacquistato la vista, bello com’era, giovine, ricco, signore, perché avrebbe sposato lei? Per gratitudine? Per pietà? Ah, non per altro! E dunque, no, no! Seppure egli avesse voluto; lei, no; come avrebbe potuto accettare, lei che lo amava e non lo voleva per altro? lei, che nella sventura di lui vedeva la ragione del suo amore e quasi la scusa, di fronte alla malignità altrui? E si può dunque transigere così, inavvertitamente, con la propria coscienza, fino a commettere un delitto? fino a fondar la propria felicità su la sciagura di un altro? Ella, sì, veramente, non aveva allora creduto che colui, quel suo nemico, potesse fare il miracolo di ridar la vista al suo Silvio; non lo credeva neanche adesso; ma perché aveva taciuto? proprio perché non aveva creduto di prestar fiducia a quel medico; o non piuttosto perché il dubbio che il medico aveva espresso e che sarebbe stato per Silvio come una luce di speranza, sarebbe stato invece per lei la morte, la morte del suo amore, se poi si fosse affermato? Pur ora ella poteva credere che il suo amore sarebbe bastato a compensar quel cieco della vista perduta; credere che, se pure egli, per un miracolo, avesse ora riacquistato la vista, né questo bene sommo, né tutti i piaceri che avrebbe potuto pagarsi con la sua ricchezza, né l’amore d’alcun’altra donna, avrebbero potuto compensarlo della perdita dell’amore di lei. Ma queste erano ragioni per sé, non per lui. Se ella fosse andata a dirgli: «Silvio, tu devi scegliere fra il bene della vista e il mio amore», «E perché tu vuoi lasciarmi cieco?», avrebbe egli certamente risposto. Ma perché così soltanto, cioè a patto della sciagura di lui, era possibile la sua felicità.

             Si levò in piedi improvvisamente, come per un subito richiamo. Durava ancora la visita, di là? Che diceva il medico? Che pensava egli? Ebbe la tentazione di andare in punta di piedi a origliare dietro quell’uscio ch’ella stessa aveva chiuso; ma si trattenne. Ecco: dietro l’uscio era rimasta. Lei stessa, con le sue mani, se l’era chiuso, per sempre. Ma poteva forse accettare le velenose profferte di colui? Era arrivato finanche a proporle di rimandar la visita a dopo le nozze. – Se ella avesse accettato… – Nò! No! Si strinse tutta in sé, dal ribrezzo, dalla nausea. Che mercato infame sarebbe stato! il più laido degli inganni! E poi? Disprezzo, e non più amore…

             Sentì schiudere l’uscio; ebbe un sussulto; corse istintivamente al corridojo per cui il Falci doveva passare.

             – Ho rimediato, signorina, alla sua soverchia franchezza, – diss’egli freddamente. – Io mi sono raffermato nella mia diagnosi. Il marchese verrà domattina nella mia clinica. Vada, vada intanto da lui che la aspetta. A rivederla.

             Come annientata, vuota, lo seguì con gli occhi fino all’uscio, in fondo al corridojo; poi udì la voce di Silvio che la chiamava, di là: si sentì tutta rimescolare; ebbe come una vertigine; fu per cadere; si recò le mani al volto, per frenar le lagrime; accorse.

             Egli la attendeva, seduto, con le braccia aperte; la strinse, forte, forte a sé, gridando la sua felicità e che per lei soltanto voleva riacquistar la vista, per veder la sua cara, la sua bella, la sua dolce sposa.

             – Piangi? Perché? Ma piango anch’io, vedi? Ah che gioja! Ti vedrò… ti vedrò! Io vedrò!

             Era ogni parola per lei una morte; tanto che egli, pur nella gioja, intese che il pianto di lei non era come il suo e prese allora a dirle che certo, oh! ma certo neanche lui, in un giorno come quello, avrebbe creduto alle parole del medico, e dunque, via, basta ora! Che andava più pensando? Era giorno di festa, quello! Via tutte le afflizioni! via tutti i pensieri, tranne uno, questo: che la sua felicità sarebbe stata intera, ormai, perché egli avrebbe veduto la sua sposa. Ora ella avrebbe avuto più agio, più tempo di preparare il nido; e doveva esser bello, come un sogno, questo nido, ch’egli avrebbe veduto per prima cosa. Sì, prometteva che sarebbe uscito con gli occhi bendati dalla clinica, e che li avrebbe aperti lì, per la prima volta, lì, nel suo nido.

             –    Parlami! parlami! Non lasciar parlare me solo!

             –    Ti stanchi?

             –    No… Chiedimi di nuovo: «Ti stanchi?» con questa tua voce. Lasciamela baciare, qui, su le tue labbra, questa tua voce…

             –    Sì…

             –    E parla, ora; dimmi come me lo preparerai, il nido.

             –    Come?

             –    Sì, io non t’ho domandato nulla, finora. Ma no, non voglio saper nulla, neanche adesso. Farai tu. Sarà per me uno stupore, un incanto… Ma io non vedrò nulla, dapprima te sola!

             Ella, risolutamente, soffocò il pianto disperato, s’ilarò tutta in volto, e lì, inginocchiata innanzi a lui, con lui curvo su di lei, abbracciato, cominciò a parlargli del suo amore, quasi all’orecchio, con quella sua voce più che mai dolce e maliosa. Ma quand’egli, ebbro, la strinse e minacciò di non lasciarla più, in quel momento, ella si sciolse, si rizzò, fiera, come d’una vittoria di fronte a se stessa. Ecco: avrebbe potuto, anche ora, legarlo a sé indissolubilmente. Ma no! Perché ella lo amava.

             Tutto quel giorno, fino a tarda notte, lo inebriò della sua voce, sicura, perché egli era ancora nel bujo, là, suo; nel bujo, in cui già fiammeggiava la speranza, bella come l’immagine ch’egli s’era finto di lei.

             La mattina seguente volle accompagnarlo in vettura fino alla clinica e, nel lasciarlo, gli disse che si sarebbe messa subito subito all’opera, come una rondine frettolosa.

             – Vedrai !

             Attese due giorni, in un’ansia terribile, l’esito dell’operazione. Quando lo seppe felice, attese ancora un po’, nella casa vuota; gliela preparò amorosamente, mandando a dire a lui che, esultante, la voleva lì, anche per un minuto, che avesse pazienza ancora per qualche giorno; non accorreva per non agitarlo; il medico non permetteva…

             – Sì? – Ebbene, allora sarebbe venuta…

             Raccolse le sue robe, e il giorno prima che egli lasciasse la casa di salute, se ne partì ignorata, per rimanere almeno nella memoria di lui una voce, ch’egli forse, uscito ora dal suo bujo, avrebbe cercata su molte labbra, invano.

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