Una sfida – Audio lettura 3

Legge Valter Zanardi
«Forse, a osservar bene addentro, si potrebbe scoprire in quel suo sorriso che lui chiuderebbe un occhio, anche se indovinasse che l’intenzione dell’ammalato è proprio quella d’andarsi a buttare dalla finestra.»

Prime pubblicazioni: Corriere della Sera, 1 gennaio 1936, poi in Una giornata, Mondadori, Milano 1937.

Una sfida
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Una sfida

Legge Valter Zanardi

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             Forse Jacob Shwarb non pensava nulla di male. Solo, forse, di far saltare tutto il mondo con la dinamite. Ma sarebbe stato male, certo, far saltare uno solo. Tutto il mondo, con la dinamite, non voleva dire proprio nulla. A ogni buon fine, credeva gli convenisse tener la fronte nascosta sotto un gran ciuffo arruffato di capelli rossastri.

             Gran ciuffo. Mani affondate nelle tasche dei calzoni. Operajo disoccupato.

             Si ribellò quando, ammesso all’Israel Zion Hospital di Brooklyn per una grave malattia di fegato, fu tosato. Senza più i capelli, ebbe la sensazione che gli fosse quasi svanita la testa. Se la cercò con le mani. Non gli parve più la sua e s’infuriò.

             Voleva sapere se, con questa soperchieria che gli avevano fatta, lo volevano considerare più come ergastolano che come ammalato.

             Motivo d’igiene?

             Se n’infischiava lui dell’igiene.

             Oh guarda un po’!

             Meno male che, in mancanza dei capelli, gli restavano ancora le grosse sopracciglia spioventi, sempre aggrottate, per covare negli occhi torbidi il rancore contro tutti e contro la vita stessa.

             Per tutto il tempo che rimase all’ospedale, Jacob Shwarb non poté dire di che colore propriamente fosse, se più giallo o più verde, a causa di quella malattia di fegato che gli diede tormenti senza fine e un umore che si può bene immaginare.

             Coliche terribili.

             D’estate, due mesi, in una corsia dove di giorno e di notte tutti gli ammalati si lamentavano e chi non si lamentava più segno ch’era morto; smanie; sbuffi; coperte che facevano il pallone ora su un letto ora su un altro o, in un moto d’esasperazione, erano buttate all’aria, e subito allora un accorrere precipitoso d’infermieri o di sorveglianti notturni.

             Jacob Shwarb li conosceva tutti a uno a uno quei sorveglianti notturni e per ciascuno aveva un’antipatia particolare. Particolarissima, quella per un certo Jo Kurtz che talvolta, per la stizza che gli suscitava, lo faceva perfino ridere; s’intende di quel riso che fanno i cani quando vogliono mordere.

             Infatti questo Jo Kurtz aveva un modo tutto suo speciale d’esser dispettoso. Non parlava mai, se non proprio forzato; non faceva nulla; sorrideva soltanto d’un frigido sorriso che, non contento di stirargli la bocca dalle labbra bianche e sottili gli s’appunti va anche negli occhi pallidi bigi; e sempre teneva la testa piegata su una spalla, una testa d’avorio senza un pelo; e sempre come appese al petto, sul lungo camice bianco, le grosse mani slavate.

             Forse non capiva quanta e quale incompatibilità ci fosse tra questo suo perpetuo sorriso e i lamenti continui dei poveri ammalati, perché veramente non si poteva ammettere che, capendolo, potesse seguitare a sorridere così. Tranne che, all’insaputa degli ammalati, tutti quei loro lamenti non avessero ai suoi orecchi un che di comico e piacevole, fatti com’erano in varii toni, con diversa intensità, alcuni per abitudine, altri per un modo di darsi sfogo o conforto, e tutti insomma tali da comporre per lui una curiosa e divertente sinfonia.

             Costretto a vegliar tutta la notte, ognuno s’ajuta contro il sonno come può.

             Ma poi anche Jo Kurtz aveva forse da sorridere così ai suoi pensieri. Poteva anche essere innamorato, sebbene in tarda età. E forse da tutti quei lamenti s’astraeva in un beato silenzio ch’era soltanto della sua anima bennata.

             Ora, una notte che la corsia era insolitamente calma e lui solo, Jacob Shwarb, soffriva da non trovar più requie un momento in quel letto che da due mesi sapeva tutti i suoi tormenti, era appunto di guardia questo sorvegliante Jo Kurtz.

             Spente tutte le lampade, tranne quella per il sorvegliante, riparata da una ventola di mantino verde sul tavolino della parete di fondo, un gran chiaro di luna entra da tutti i finestroni della corsia e segnatamente da quello più grande, aperto, nel mezzo della parete dirimpetto.

             Comprimendo quanto più può gli spasimi Jacob Shwarb osserva dal suo letto Jo Kurtz seduto davanti al tavolino con la faccia d’avorio illuminata dalla lampada e, per quanto abbia in odio l’umanità, si domanda come si possa sorridere a quel modo, come si possa restare così indifferente, stando di guardia a una corsia d’ospedale dove un ammalato si dibatta come si dibatte lui; in un orgasmo crescente di punto in punto fin quasi a farlo diventar pazzo, pazzo, pazzo. E all’improvviso, chi sa come, gli salta in mente un idea: quella di vedere se Jo Kurtz rimarrà così, se ora lui lascia il letto e va a buttarsi da quel finestrone aperto in fondo alla corsia.

             Non vede ancor chiaro da che sorga propriamente in lui così d’improvviso questa idea: se più dall’esasperazione ormai incontenibile della sua sofferenza, che gli appare ferocemente ingiusta in quella notte di calma di tutta la corsia, o più dal dispetto che gli fa Jo Kurtz.

             Fino al momento di lasciare il letto non sa ancor bene se la sua vera intenzione sia quella d’andarsi a buttare dalla finestra o non piuttosto di mettere a prova quell’indifferenza di Jo Kurtz, di sfidare quella sorridente placidità per il disperato bisogno d’offrirsi uno sfogo con lui: con lui che certamente ha l’obbligo d’accorrere a trattenerlo, vedendogli lasciare il letto senza prima averne ottenuto il permesso.

             Il fatto si è che Jacob Shwarb butta all’aria le coperte e springa ritto in piedi, proprio in atto di sfida, sotto gli occhi di Jo Kurtz. Ma Jo Kurtz non solo non si muove dal tavolino, ma non si scompone nemmeno.

             D’agosto, fa un gran caldo. Può credere che l’ammalato voglia andare a prendere un po’ d’aria alla finestra.

             Tutti sanno che lui, Jo Kurtz, è di manica larga e indulgente verso gli ammalati che trasgrediscono a certe inutili prescrizioni dei medici.

             Forse, a osservar bene addentro, si potrebbe scoprire in quel suo sorriso che lui chiuderebbe un occhio, anche se indovinasse che l’intenzione dell’ammalato è proprio quella d’andarsi a buttare dalla finestra.

             Ha forse il diritto d’impedirglielo, lui Jo Kurtz, se poverino quell’ammalato soffre da non poterne più? Lui ne ha, se mai, solo il dovere, perché quell’ammalato è sotto la sua sorveglianza. Ma potendo seguitare a supporre che l’ammalato abbia lasciato il letto solo per un momentaneo refrigerio, ecco che la sua coscienza è a posto, può render ragione di non essersi mosso; e l’ammalato poi faccia quello che vuole: se vuol togliersi la vita, se la tolga pure; è affar suo.

             Intanto Jacob Shwarb s’aspetta d’esser trattenuto, prima d’arrivare al finestrone in fondo alla corsia; è già quasi per arrivarci, e si volta fremente di rabbia a guardare Jo Kurtz: lo vede ancor là, seduto impassibile al suo tavolino, e tutt’a un tratto si sente come disarmato: non sa più né andare avanti né tornare indietro.

             Jo Kurtz seguita a sorridergli, non per fargli dispetto, ma per fargli comprendere che capisce benissimo che un ammalato può aver tante necessità di lasciare momentaneamente il letto: basta che ne domandi, anche con un piccolo segno, il permesso. Ora può senz’altro interpretare che con quel suo fermarsi a guardarlo l’ammalato gliel’abbia chiesto; china più volte la testa per dirgli che sta bene e gli fa cenno con la mano che vada pure, vada pure.

             È per Jacob Shwarb, il colmo del dileggio, la risposta più insolente alla sua sfida. Ruggendo, leva i pugni, digrigna i denti, corre verso il finestrone e si precipita giù.

             Non muore. Si spezza le gambe; si spezza un braccio e due costole; si ferisce anche gravemente alla testa. Ma, raccolto e curato, guarisce di tutte le sue ferite non solo, ma per uno di quei miracoli che sogliono operare certi violenti insulti nervosi guarisce anche della malattia di fegato. Dovrebbe ringraziare Iddio, se anche a costo di tutte quelle ferite è scampato, fuggendo così precipitosamente per la finestra, alla morte che gli era forse riserbata, se fosse rimasto ad aspettarla fra i tormenti all’ospedale. Nossignori. Appena guarito, consulta un avvocato e cita l’Israel Zion Hospital a pagargli venti mila dollari di danni per le ferite riportate nella caduta. Non ha altro mezzo di vendicarsi di Jo Kurtz. L’avvocato gli assicura che l’ospedale pagherà e che Jo Kurtz sarà certamente licenziato. Difatti, se gli è avvenuto di buttarsi dalla finestra, la colpa è della negligenza e della mancata sorveglianza dell’ospedale.

             Il giudice gli domanda: – Ma t’ha forse preso qualcuno e costretto a buttarti dalla finestra? Il tuo atto fu volontario. – Jacob Shwarb guarda l’avvocato, e poi risponde al giudice:

             –    Nossignore. Io ero sicuro che me l’avrebbero impedito.

             –    Il sorvegliante?

             –    Sissignore. Era suo obbligo. Invece, non si mosse. Aspettai che si movesse. Gli diedi tutto il tempo; tant’è vero che, prima di buttarmi, mi voltai a guardarlo.

             –    E lui che fece?

             –    Lui? Niente. Come fa sempre, mi sorrise e, con la mano, mi fece: «vai pure, vai pure».

             Difatti Jo Kurtz, anche lì davanti al giudice, sorride. Il giudice se n’indigna e gli domanda se è vero ciò che dice Jacob Shwarb.

             – Sì, Vostro Onore, – gli risponde Jo Kurtz, – ma perché credetti che volesse prendere un po’ d’aria.

             Il giudice batte un pugno sulla tavola.

             – Ah, voi credeste questo?

             E condanna l’Israel Zion Hospital a pagare a Jacob Shwarb venti mila dollari di danni.

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