Legge Gaetano Marino.
«Da tutta la campagna intorno, ove tante erbe e tante cose sparse da tempo erano seccate, vaporava nella calura quasi un alido antico, denso, che si mescolava coi tepori grassi del fimo fermentante in piccoli mucchi sui maggesi, e con le fragranze acute dei mentastri ancor vivi e delle salvie.»
Prime pubblicazioni: Il Marzocco, 23 giugno 1907, poi in Un cavallo nella luna, Treves Milano 1918.
Un cavallo nella luna
Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)
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Di settembre, su quell’altipiano d’aride argille azzurre, strapiombante franoso sul mare africano, la campagna già riarsa dalle rabbie dei lunghi soli estivi, era triste: ancor tutta irta di stoppie annerite, con radi mandorli e qualche ceppo centenario d’olivo saraceno qua e là. Tuttavia fu stabilito che i due sposi vi passassero almeno i primi giorni della luna di miele, in considerazione dello sposo.
Il pranzo di nozze, preparato in una sala dell’antica villa solitaria, non fu davvero una festa per i convitati.
Nessuno di essi riuscì a vincere l’impaccio, ch’era piuttosto sbigottimento, per l’aspetto e il contegno di quel giovanotto grasso, appena ventenne, dal volto infocato, che guardava qua e là coi piccoli occhi neri, lustri, da pazzo, e non intendeva più nulla, e non mangiava e non beveva e diventava di punto in punto più pavonazzo, quasi nero.
Si sapeva che, preso d’un amor forsennato, per colei che ora gli sedeva accanto, sposa, aveva fatto pazzie, fino al punto di tentare di uccidersi: lui, ricchissimo, unico erede dell’antico casato dei Berardi, per una che, dopo tutto, non era altro che la figlia d’un colonnello di fanteria, venuto col reggimento da un anno in Sicilia. Ma il signor colonnello, mal prevenuto contro gli abitanti dell’isola, non avrebbe voluto accondiscendere a quelle nozze, per non lasciare là, come tra selvaggi, la figliuola.
Lo sbigottimento per l’aspetto e il contegno dello sposo cresceva nei convitati, quanto più essi avvertivano il contrasto con l’aria della giovanissima sposa. Era una vera bambina ancora, vispa, fresca, aliena: e pareva si scrollasse sempre d’addosso ogni pensiero fastidioso con certi scatti d’una vivacità piena di grazia, ingenua e furba nello stesso tempo. Furba però, come d’una birichina ancora ignara di tutto. Orfana, cresciuta fin dall’infanzia senza mamma, appariva infatti chiaramente che andava a nozze affatto impreparata. Tutti, a un certo punto, finito il pranzo, risero e si sentirono gelare a un’esclamazione di lei, rivolta allo sposo:
– Oh Dio, Nino, ma perché fai codesti occhi piccoli piccoli? Lasciami… no, scotti! Perché ti scottano così le mani? Senti, senti, papà, come gli scottano le mani. Che abbia la febbre?
Tra le spine, il colonnello affrettò la partenza dei convitati dalla campagna. Ma sì, per togliere quello spettacolo che gli pareva indecente. Presero tutti posto in sei vetture. Quella dove il colonnello sedette accanto alla madre dello sposo, anch’essa vedova, andando a passo per il viale, rimase un po’ indietro, perché i due sposi, lei di qua, lui di là, con una mano nella mano del padre e della madre, vollero seguirla per un tratto a piedi, fino all’imboccatura dello stradone che conduceva alla città lontana. Qua il colonnello si chinò a baciar sul capo la figliuola; tossì, borbottò:
– Addio, Nino.
– Addio, Ida, – rise di là la madre dello sposo; e la carrozza s’avviò di buon trotto per raggiungere le altre dei convitati.
I due sposi rimasero per un pezzo a seguirla con gli occhi. La seguì la sola Ida veramente, perché Nino non vide nulla, non sentì nulla, con gli occhi fissi alla sposa rimasta lì, sola con lui finalmente, tutta, tutta sua. Ma che? Piangeva?
– Il babbo, – disse Ida, agitando con la mano il fazzoletto in saluto. – Là, vedi? Anche lui…
– Ma tu no, Ida… Ida mia… – balbettò, singhiozzò quasi, Nino, facendo per abbracciarla, tutto tremante.
Ida lo scostò.
– No, lasciami, ti prego.
– Voglio asciugarti gli occhi…
– Ma no, caro, grazie: me li asciugo da me.
Nino rimase lì, goffo, a guardarla, con un viso pietoso, la bocca semiaperta. Ida finì d’asciugarsi gli occhi; poi:
– Ma che hai? – gli domandò. – Tu tremi tutto. Dio, no, Nino: non mi star davanti così! Mi fai ridere. E non la finisco più, bada, se mi metto a ridere. Aspetta, ti sveglio.
Gli posò lievemente le mani sulle tempie e gli soffiò su gli occhi. Al tocco di quelle dita, all’alito di quelle labbra, egli si sentì mancar le gambe; fu per cadere in ginocchio; ma lei lo sostenne, scoppiando in una risata fragorosa:
– Su lo stradone? Sei matto? Andiamo, andiamo! Là, guarda: a quella collinetta là! Si vedranno ancora le carrozze. Andiamo a vedere!
E lo trascinò via per un braccio, impetuosamente.
Da tutta la campagna intorno, ove tante erbe e tante cose sparse da tempo erano seccate, vaporava nella calura quasi un alido antico, denso, che si mescolava coi tepori grassi del fimo fermentante in piccoli mucchi sui maggesi, e con le fragranze acute dei mentastri ancor vivi e delle salvie. Quell’alido denso, quei grassi tepori, queste fragranze pungenti, li avvertiva lui solo. Ida dietro le spesse siepi di fichidindia, tra gli irti ciuffi giallicci delle stoppie bruciate, sentiva, invece, correndo, come strillavano gaje al sole le calandre, e come, nell’afa dei piani, nel silenzio attonito, sonava da lontane aje, auguroso, il canto di qualche gallo; si sentiva investire, ogni tanto, dal fresco respiro refrigerante che veniva dal mare prossimo a commuover le foglie stanche, già diradate e ingiallite, dei mandorli, e quelle fitte, aguzze e cinerulee degli olivi.
Raggiunsero presto la collinetta; ma egli non si reggeva più, quasi cascava a pezzi, dalla corsa; volle sedere; tentò di far sedere anche lei, lì accanto, tirandola per la vita. Ma Ida si schermì:
– Lasciami guardare, prima.
Cominciava a essere inquieta, entro di sé. Non voleva mostrarlo. Irritata da certe curiose ostinazioni di lui, non sapeva, non voleva star ferma; voleva fuggire ancora, allontanarsi ancora; scuoterlo, distrarlo e distrarsi anche lei, finché durava il giorno.
Di là dalla collina si stendeva una pianura sterminata, in un mare di stoppie, nel quale serpeggiavano qua e là le nere vestigia della debbiatura, e qua e là anche rompeva l’irto giallore qualche cespo di cappero o di liquirizia. Laggiù laggiù, quasi all’altra riva lontana di quel vasto mare giallo, si scorgevano i tetti d’un casale tra alte pioppe nere.
Ebbene, Ida propose al marito d’arrivare fin là, fino a quel casale. Quanto ci avrebbero messo? Un’ora, poco più. Erano appena le cinque. Là, nella villa, i servi dovevano ancora sparecchiare. Prima di sera sarebbero stati di ritorno.
Cercò d’opporsi Nino, ma ella lo tirò su per le mani, lo fece sorgere in piedi, e poi via di corsa per il breve pendio di quella collinetta e quindi per quel mare di stoppie, agile e svelta come una cerbiatta. Egli, non facendo a tempo a seguirla, sempre più rosso, e come intronato, sudato, ansava, correndo, la chiamava, voleva una mano:
– Almeno la mano! almeno la mano! – andava gridando.
A un tratto ella si fermò dando un grido. Le si era levato davanti uno stormo di corvi, gracchiando. Più là, steso per terra, era un cavallo morto. Morto? No, no, non era morto: aveva gli occhi aperti. Dio, che occhi! Uno scheletro, era. E quelle costole! quei fianchi!
Nino sopravvenne, stronfiando, arrangolato:
– Andiamo… subito, via! Ritorniamo indietro!
– È vivo, guarda! – gridò Ida, con ribrezzo e pietà. – Leva la testa… Dio, che occhi! guarda, Nino!
– Ma sì, – fece lui, ancora ansimante. – Son venuti a buttarlo qua. Lascia; andiamocene! Che gusto? Non senti che già l’aria…
– E quei corvi? – esclamò lei con un brivido d’orrore. – Quei corvi se lo mangiano vivo?
– Ma, Ida, per carità! – pregò lui a mani giunte.
– Nino, basta! – gli gridò allora lei, al colmo della stizza nel vederlo così supplice e melenso. – Rispondi: se lo mangiano vivo?
– Che vuoi che sappia io, come se lo mangiano. Aspetteranno…
– Che muoja qui, di fame, di sete? – riprese ella, col volto tutto strizzato dalla compassione e dall’orrore. – Perché è vecchio? perché non serve più? Ah, povera bestia! che infamia! che infamia! Ma che cuore hanno codesti villani? che cuore avete voi qua?
– Scusami, – diss’egli, alterandosi, – tu senti tanta pietà per una bestia…
– Non dovrei sentirne?
– Ma non ne senti per me!
– E che sei bestia tu? che stai morendo forse di fame e di sete, tu, buttato in mezzo alle stoppie? Senti… oh guarda i corvi, Nino, su… guarda… fanno la ruota. Oh che cosa orribile, infame, mostruosa. Guarda… oh, povera bestia… prova a rizzarsi! Nino, si muove… forse può ancora camminare… Nino, su, ajutiamola… smuoviti!
– Ma che vuoi che gli faccia io? – proruppe egli, esasperato. – Me lo posso trascinare dietro? caricarmelo su le spalle? Ci mancava il cavallo, ci mancava! Come vuoi che cammini? Non vedi che è mezzo morto?
– E se gli facessimo portare da mangiare?
– E da bere, anche!
– Oh, come sei cattivo, Nino! – disse Ida con le lagrime agli occhi.
E si chinò, vincendo il ribrezzo, a carezzare con la mano, appena appena, la testa del cavallo che s’era tirato su a stento da terra, ginocchioni su le due zampe davanti, mostrando pur nell’avvilimento di quella sua miseria infinita un ultimo resto, nel collo e nell’aria del capo, della sua nobile bellezza.
Nino, fosse per il sangue rimescolato, fosse per il dispetto acerrimo, o fosse per la corsa e per il sudore, si sentì all’improvviso abbrezzare, stolzò e si mise a battere i denti, con un tremore strano di tutto il corpo; si tirò su istintivamente il bavero della giacca e, con le mani in tasca, cupo, raffagottato, disperato, andò a sedere discosto, su una pietra.
Il sole era già tramontato. Si udivano da lontano le sonagliere di qualche carro che passava laggiù per lo stradone.
Perché batteva i denti così? Eppure la fronte gli scottava e il sangue gli frizzava per le vene e le orecchie gli rombavano. Gli pareva che sonassero tante campane lontane. Tutta quell’ansia, quello spasimo d’attesa, la freddezza capricciosa di lei, quell’ultima corsa, e quel cavallo ora, quel maledetto cavallo… oh Dio, era un sogno? un incubo nel sogno? era la febbre? Forse un malanno peggiore. Sì! Che bujo, Dio, che bujo! O gli s’era anche intorbidata la vista? E non poteva parlare, non poteva gridare. La chiamava: «Ida! Ida!» ma la voce non gli usciva più dalla gola arsa e quasi insugherita.
Dov’era Ida? Che faceva?
Era scappata al lontano casale a chiedere ajuto per quel cavallo, senza pensare che proprio i contadini di là avevano trascinato qua la bestia moribonda.
Egli rimase lì, solo, a sedere sulla pietra, tutto in preda a quel tremore crescente; e, curvo, tenendosi tutto ristretto in sé, come un grosso gufo appollajato, intravide a un tratto una cosa che gli parve… ma sì, giusta, ora, per quanto atroce, per quanto come una visione d’altro mondo. La luna. Una gran luna che sorgeva lenta da quel mare giallo di stoppie. E, nera, in quell’enorme disco di rame vaporoso, la testa inteschiata di quel cavallo che attendeva ancora col collo proteso; che avrebbe atteso sempre, forse, così nero stagliato su quel disco di rame, mentre i corvi, facendo la ruota, gracchiavano alti nel cielo.
Quando Ida, disillusa, sdegnata, sperduta per la pianura, gridando: – Nino! Nino! – ritornò, la luna s’era già alzata; il cavallo s’era riabbattuto, come morto; e Nino… – dov’era Nino? Oh, eccolo là, per terra anche lui.
Si era addormentato là?
Corse a lui. Lo trovò che rantolava, con la faccia anche lui a terra, quasi nera, gli occhi gonfi serrati, congestionato.
– Oh Dio!
E si guardò attorno, quasi svanita; aprì le mani, ove teneva alcune fave secche portate da quel casale per darle a mangiare al cavallo; guardò la luna, poi il cavallo, poi qua per terra quest’uomo come morto anche lui; si sentì mancare, assalita improvvisamente dal dubbio che tutto quello che vedeva non fosse vero; e fuggì atterrita verso la villa, chiamando a gran voce il padre, il padre che se la portasse via, oh Dio! via da quell’uomo che rantolava… chi sa perché! via da quel cavallo, via da sotto quella luna pazza, via da sotto quei corvi che gracchiavano nel cielo… via, via, via…
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