L’umorismo estetico-teoretico de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

Di Domenico Papaccio

Pirandello con il fu Mattia Pascal adotta l’apporto scientifico come chiave epistemologica per investigare e rappresentare l’interiorità, l’animo e la coscienza dell’uomo innestato in contenuti morali, civili e culturali in cui non si riconosce, quella conflittualità drammatica tra “forma e vita”.

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Tesina - Il fu mattia pascal
Il fu Mattia Pascal  – Graphic novel pubblicata su TuttolibriLa Stampa del 6 Luglio 2019

L’umorismo estetico-teoretico de
Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

Per gentile concessione dell’Autore 

A mia moglie e mio fratello.

Cronologia e trama dell’opera.

Edito inizialmente a puntate sulla rivista Nuova Antologia tra i mesi di aprile e giugno del 1904, Il fu Mattia Pascal venne in seguito raccolto in volume nello stesso anno. Terzo romanzo, dopo L’esclusa e Il turno, fu composto di getto da Pirandello in un momento critico sul piano economico e familiare, travolto dalla malattia della moglie e dal fallimento finanziario, propizi alla gestazione de Il fu Mattia Pascal, scritto nelle veglie notturne alla consorte e dietro un lauto anticipo dalla rivista capitolina. La trama romanzesca di marca realistico-ottocentesca scandita nei diciotto capitoli, viene rifunzionalizzata a partire dalla duplice premessa, attraverso l’excursus della tradizione umoristica europea e italiana e all’applicazione in sede estetica della parapsichiatria di Alfred Binet. Il bildungroman del protagonista tra i capitolo III e V, avviene nella provincia ligure di Miragno in un nucleo familiare privo del sostegno paterno e stretto dalla rapacità dell’amministratore, senza la realizzazione di Mattia in homo faber e pater familias con il matrimonio e l’impiego comunale. L’allontanamento dalla cerchia sociale, l’improvvisa ricchezza dovuta alla vincita alla roulette fino allo scambio d’identità del suicida della Stìa dei capitoli VI e VII, sono dettati dalla fatalità del caso, rispondenti al desiderio di liberazione dalla forma coercitiva che il protagonista avverte verso quelle istituzioni civili, morali e sociali e che lo porteranno ad assumere l’identità di Adriano Meis fino al capitolo XVI, attuando il progressivo disvelamento dell’ inesistenza della perturbante identità reale oltre i vincoli convenzionali, come denotano i capitoli in cui soggiorna a Roma alla pensione Paleari. Il meccanismo di agnizione e riappropriazione identitaria, attuato con un farsesco secondo omicidio, viene sfumato dalla scoperta del bigamia; l’unica vendetta possibile è intimorire burlescamente con la sua immagine evanescente quell’ambiente familiare ostile, atta ad accrescere nella matrice umoristica quel senso drammatico per la definitiva perdita di consistenza formale che ne attesta l’esistenza umana, che si asconde dietro il momento meditativo del protagonista. La terza vita di Mattia Pascal, definitivamente “fu”, può evolversi unicamente nel luogo simulacro da cui prende incipit la stesura della sua vicenda, la biblioteca-cimitero in cui riposano sotto la polvere del passato le certezze teoretiche e ideologiche tramontate; riflettendo attraverso il momento diegetico della scrittura la scoperta di un protorelativismo e dell’annullamento della linearità spaziotemporale interiore, rompe la circolarità del canone romanzesco nell’impossibilità di conclusione parimenti all’improbabile oggettività esteriore dell’estetica naturalistica dinanzi al rivelarsi dell’ oltre, pronunciato attraverso un riso serio.

L’autobiografia di un antieroe

L’intento autobiografico di Mattia Pascal avviene a ridosso di due topoi emblematici quali la biblioteca e il cimitero, come osserva Mazzacurati, [1] in cui viene a palesarsi la radicale lontananza, dalle pretese educative dell’autobiografismo ruosseaniano, dall’accusa morale di De Musset, e dal vitalismo dei soggetti dannunziani.

[1] G. Mazzacurati, Prefazione de Il fu Mattia Pascal, Luigi Pirandello, Einaudi, 2014, Torino.

Il racconto delle “vite” attraversate dal protagonista avviene da una posizione di non-vita, distanziamento accettato nel finale, che permette uno scrutinio analitico della passata esperienza esistenziale tratteggiata in una modalità para-testuale comica, in cui prende luogo il risvolto drammatico dell’ homo fictus; la crisi d’identità dell’individuo, che impattata il declino del mito risorgimentale e del progresso positivista, svuotati di ogni connotazione assiologica, permanenti come ampolloso mostro formale “tolemaico” nel farsi del decentramento antropologico viene scandita nel silenzio privato. La scelta formale di Pirandello lo porta alla ripresa di un sottogenere cui riprende tutti le caratteristiche, consono per l’esplicazione della scoperta del nuovo precario status dell’Io e delle scarne possibilità estetico-teoretiche di rappresentare quella realtà magmatica. Nell’incipit del romanzo dichiara, riferendosi ad un’ottica passata: “Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”; cui fa seguito l’acre riflessione nella seconda premessa:

– Non mi par più tempo, questo, di scrivere libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico![…]

Pirandello rintraccia nella tradizione umoristica a partire dal Tristam Shandy di Sterne, un format emulativo entro cui immettere le disavventura di un personaggio, funzionale all’apertura di squarci metanarrativi di riflessione filosofico-meditativa, in modalità autodiegetica, entro cui vengono smascherate le trappole attanaglianti l’esistenza istituzionalizzata. Lo scopo memorialistico è finalizzato unicamente al loco vuoto e polveroso della biblioteca, lontano dal formalismo civile e morale da cui ha tentato di fuggire e in cui non si è mai integrato fino a restare invischiato in uno stato di non-vita, obbediente alle istanze mutevoli della propria interiorità reso simbolicamente dallo strabismo all’occhio destro, spia dell’osservazione verso “l’oltre”, verso l’apparente. Come osserva Marina Polacco, [2] due motori del genere romanzesco, la passione amorosa e il denaro, sono sinonimo dell’ineffabile mutevolezza dell’Io di Mattia Pascal; l’approdo al matrimonio, collegato alla triangolazione amorosa comica, è depotenziato di pathos sentimentale, dettato dai rapporti di forza dell’eros e della strumentalizzazione sociale, come si nota già nel monologo dal IV capitolo:

Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? Che colpa ho io se Romilda, invece d’innamorarsi di Pomino, s’innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? Che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch’io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d’una volta con le mie uscite balzane? […] Ecco: ero giunto finalmente a dubitarne!

[2] M. Polacco, Luigi Pirandello in Il romanzo in Italia Tomo III, a cura di G. Alfano e F. P. De Cristofaro, Carocci editore, Roma, pp.

E ribadite nel capitolo VIII:

[…]mi domandavo: «Sarà ancora vestita di nero Romilda? Forse si, per gli occhi del mondo. Che farà?» […] e mi immaginavo anche la vedova Pescatore, che imprecava certo alla mia memoria. […]

La stabilità economica raggiunta fortuitamente non reca la serenità borghese, funge da beneplacito per l’abbandono della burrascosa quotidianità domestica della provincia ligure nei panni del redivivo Adriano Meis, per approdare nelle metropoli italiane ed europee, emblema della modernità, esplicano il senso di estraniamento soggettivo, sintetizzato in una proposizione nel capitolo IX: “E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’intronavano”. La possibilità narrativa memorialistica è vanificata dall’impossibilità emulativa e verificabile del canone del bildungroman, perché la fenomenicità rapida della modernità, chiosando Benjamin, [3] aliena il ruolo dell’uomo empirico alla creazione del presente da trasmettere, nonostante risulti invischiato nel contingente, l’ultima barriera scelta per resistere alla schoupenoueriana volontà di vivere umana del protagonista vige nel rimedio comicamente nichilista della maschera istituzionale, in un finale limbico:

-Ma voi, insomma, si può sapere chi siete? Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: – Eh caro mio…Io sono il fu Mattia Pascal.

[3] Cfr. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikola Leskov, in Angelus Novus, Einaudi, 2014 Torino.

La menzogna della verisimiglianza, non esente nemmeno il fabulare del narratore; la realtà viene filtrata dall’occhio mobile e umorale del protagonista, stretta da una soggettività avulsa dall’emergere di un relativismo che si protrae lungo la discorsività, nella selettività aneddotica degli episodi prescelti e nell’interloquire e ridefinire nella mise en page di sé stesso e gli altri. Il divertessement umoristico pirandelliano, reso attraverso una fine tessitura linguistica che spazia all’interno del macrocosmo del comico- tra battuta ironica e deformazione caricaturale, permette di traghettare l’investigazione sul flusso continuo del vivere e della falsificabilità dell’immagine umana e della realtà, posta nel gioco di scambi di persona, di doppi, quanto alla sequenza testuale dei capitoli corredati di titoli, nel carattere connotativo dell’onomastica dei personaggi, a partire dall’ nomen omen del protagonista, su cui emerge l’allusività alla pazzia e la diffidenza sulle possibilità conoscitive dell’intelligenza umana di stampo pascaliano.

Il fu Mattia Pascal, l’umorismo come specchio della “caduta degli dei”

Mazzacurati connota come frattura definitiva con la poetica verista l’ambientazione della vicenda de Il fu Mattia Pascal nella provincia ligure di Miragno; [4] questa soglia permette di comprendere da vicino il pensiero e la poetica pirandelliana. Il superamento del modus rappresentativo del romanzo oggettivo è funzionale al processo di scomposizione descritto all’interno del saggio del 1908 “L’umorismo”, in cui sottolinea che marca dell’umorismo vige nello scompaginare i palinsesti formali e i valori subordinanti. [5]

[4] G.Mazzacurati, Prefazione Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino, 2014 pp. XIV-XV.

[5] L. Pirandello, L’umorismo, Introduzione di N. Borsellino, a cura di P. Milone, Garzanti, Firenze pp.55-58.

Nella seconda parte del saggio connota l’umorismo come disposizione creativa che dal riso innesca un moto riflessivo, capovolgendolo e assumendo con esso un rapporto bifronte e complesso, sintetizzabile nella formula di “sentimento del contrario”. [6]

[6] Ivi, pp. 172-173.

La composizione dell’umorismo pirandelliano risente dell’influsso del pensiero irrazionalistico europeo intorno all’humor tra secondo Ottocento e primo Novecento -Schoupenhauer, Lipps, Bergson- e le teorie parapsichiatriche sulla complessità dell’Io di Alfred Binet. La crisi dello scientismo positivo, acuito dallo sviluppo feroce della modernità, ha ripercussione sull’evacuazione di connotazioni etico-morali e culturali all’interno dell’omologante società borghese e un senso di disagio e straniamento dell’esistenza, determinante un’impossibilità assiologica alla condizione dell’uomo e del relazionarsi con la realtà. La vacuità emersa, secondo Pirandello, non può aver alcun soddisfacimento teologico; [7] nel capitolo X il fraintendimento mondano di un simbolo della ritualità cristiana del Mattia-Adriano perfettamente reso:

M’ero coricato con la sigaretta in bocca, ancora accesa, e m’ero messo a leggere uno di quei libri del Paleari; distratto, avevo poi posato il mozzicone spento in quell’acquasantiera. Il giorno dopo, essa non c’era più. Sul tavolino da notte invece, c’era un portacenere. Volli domandarle se la avesse tolta lei dal muro; ed ella, arrossendo leggermente, mi rispose: -Scusi tanto, m’è parso che le bisognasse piuttosto un portacenere. – Ma c’era acqua benedetta nell’acquasantiera? –C’era. Abbiamo qui di rimpetto la chiesa di San Rocco…

[7] E. Ghidetti, Introduzione a L’umorismo e altri saggi di L. Pirandello, Giunti editore, pp.XIII-XVII.

Cui fa eco il monologo interiore seguente:

Questo dell’acquasantiera m’indusse a pensare he, fin da ragazzo, io non avevo atteso a pratiche religiose, né ero entrato in alcuna chiesa per pregare, andato via Pinzone che mi conduceva per ordine della mamma. Non avevo mai sentito alcun bisogno di domandare a me stesso se avessi veramente una fede. […]

La creazione artistica umoristica riesce a dar soluzione estetico-teoretica dell’immagine frantumata dell’individuo e l’esegesi rappresentativa dell’ansia del persistente vivere, mediante lo sdoganamento dell’illusione identitaria e sociale che l’uomo si auto-costruisce attraverso l’espediente meta-letterario digressivo o con la formulazione di una riflessione protorelativistica dichiarante lo spaesamento dell’homo fictus oppure con l’autoconsapevolezza conseguita empiricamente; l’esplicazione della lanterninosofia, di forte marca schoupenauriana, del grottesco personaggio di Anselmo Paleari nel capitolo XIII, espressa in diretto libero, è la constatazione di questo status filosofico relativistico:

E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, che bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. […] Mi pare signor Meis, che ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e confusione! Tutti i lanternoni sono spenti. […]

Ripresa in seguito nell’impossibilità di esistenza della molteplicità degli stati umorali del Mattia-Adriano nel capitolo XV, speculare alle esposizioni del personaggio di Paleari è l’approdo a questa autoconsapevolezza:

Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre! Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore; e io zitto; l’ombra zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro-Là, così! Forte, sul collo! Oh, Oh, anche tu cagnolino? Su, da bravo, sì: alza un’anca! Alza un’anca! Scoppia a ridere d’un maligno riso; […] allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi dè viadanti ne avessero veramente fatto strazio.[…].

Le parti sopra citate hanno stretta specularità con le argomentazioni teoriche espresse ne L’umorismo; l’abbattimento della verisimiglianza naturalista e contro la modalità estetizzante-simbolista della Roma dannunziana, la risposta del contrasto umorista, avviene mediante l’apporto teorico-scientifico sul fronte stilistico degli studi sull’alterazione della personalità di Alfred Binet:

Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparir della nostra individualità relativa; ma nella realtà quei limiti non esistono, punto.[…] E tante cose, incerti momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza nella nostra esistenza normale e cosciente. Certi ideali che crediamo ormai tramontati in noi e non più capaci d’alcun azione nel nostro pensiero, su i nostri affetti, su i nostri atti[…]

Pirandello ribadisce una soluzione poetica fatta di “cose e non delle parole”, già proposta nel saggio Arte e Scienza, cioè la capacità di penetrazione delle scienze della psiche e la possibilità metodologica per la creazione letteraria nel rappresentare i passaggi di stato d’animo, la conflittualità coscienziale, resa non secondo la fraseologia stilizzata e preziosa, ma costituita da azioni e moti attraverso cui sia permesso di compiere uno scavo nella complessità identitaria, esistenziale e psicologia dell’uomo. Paolo Trama [8] ricalcando l’influsso della parapsichiatria e della psicologia prefreudiana d’area francese sul romanzo del d’Annunzio, di De Roberto e altri nomi del panorama italiana fino alle prime prove romanzesche di Pirandello e Svevo, costituisca un apporto linguistico, formale e tematico;

[8] Cfr. P. Trama, Verso una nuova soggettività, Il romanzo in Italia. Tomo III, Il primo Novecento, a cura di G. Alfano e F. de Cristofaro, Carocci editore, Roma, 2018 pp.188-194

Pirandello con il fu Mattia Pascal invece, adotta l’apporto scientifico come chiave epistemologica per investigare e rappresentare l’interiorità, l’animo e la coscienza dell’uomo innestato in contenuti morali, civili e culturali in cui non si riconosce, quella conflittualità drammatica tra “forma e vita”. Una connotazione che proietta ancor più Pirandello nell’ottica modernista, liberandolo dallo scolastico canone decadente e tardo-verista.

Il fu Mattia Pascal assurge prototipo contro le soluzioni poetiche ed estetiche neohegeliane dell’Estetica di Benedetto Croce, edita nel 1902 e in seguito nell’anno di pubblicazione del saggio L’umorismo. Pirandello dinanzi al disconoscimento crociano di un umorismo italiano ed dell’assenza di leggi definitive per l’umorismo, attua un duplice progetto, con un piano testuale fatto «in cui stabilisce tensioni e trasformazioni, in cui la riflessione morale e sentimentale comporta un’autoanalisi di un personaggio che fa la rivoluzione intorno ad orbite nuove e imprevedibili» e un piano saggistico teorico in cui parte dalla una definizione etimologica e storico-linguistica del termine e una rassegna di una tradizione umoristica italiana, a cui allega nomi e testi quali Didimo Chierico del Foscolo, Della peste di Berni, le Operette morali del Leopardi e il manzoniano don Abbondio. Parimenti la risposta teorica pirandelliana è estetico-teoretica; non si sofferma all’illustrazione dei meccanismi umoristici avviene secondo un’ «attività intrinseca della riflessione, e non della riflessione come materia della componente dell’arte»; o sulle caratteristiche dell’umore tratte dai tre punti teorici della riflessione dello psicologo Theodor Lipps, quali «umore, come disposizione, o modo di considerare le cose; umore come rappresentazione; umore come obiettivo». A questo avallo teorico, segue la dimostrazione esemplificativa del procedimento di “scomposizione del sentimento del contrario”, attraverso l’interno canone umoristico europeo. L’irrompere della nuova soggettività reca una nuova possibile oggettività fatta di personaggi aventi una connotazione filosofica relativistica; l’umorismo diventa arma di critica delle considerazioni crociane sulle possibilità analitico-filosofiche del ruolo dell’arte intesa come intuizione e priva di concetto, superando questo scoglio l’umorismo diviene l’abbattimento di qualsiasi confine ideologico prestabilito in cui l’homo fictus non può più genuflettersi.

Domenico Papaccio

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