La confessione di Vitangelo. Nuda vita e produzione di soggettività in «Uno, nessuno e centomila».

Di Antonio Schiavulli 

Il problema della maschera che così insistentemente si pone nell’opera complessiva di Pirandello, e di conseguenza nella critica che ha affrontato gli intrecci psicologici più tortuosi dei suoi personaggi, va riproposto allora secondo un’altra prospettiva teorica che tenga conto che la nozione non può ridursi a quella puramente psicologica e negativa della maschera come oggetto che occulta un’autenticità originaria violata dalla falsa coscienza e dall’alienazione. 

Indice Tematiche

Saggio. Uno nessuno e centomila
immagine dal Web

La confessione di Vitangelo.
Nuda vita e produzione di soggettività
in «Uno, nessuno e centomila».

In STUDI CULTURALI
Anno V, n. 3, dicembre 2008
Pagine 407-434

Da Academia.edu

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di eccezione»
(Ausnahmezustand) in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere
a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà
davanti, come nostro compito, di suscitare il vero stato d’eccezione,
migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, VIII

1. Pratiche di identificazione: il volto, la maschera

Con questo intervento vorrei proporre una lettura di Uno, nessuno e centomila nel contesto più generale della pratica della confessione, intesa non come genere letterario delimitato da precise coordinate strutturali, ma come dispositivo di costruzione della soggettività. Schematicamente il problema si può riassumere qui nella centralità che la soggettività sembra rivestire nell’enunciazione di Vitangelo Moscarda, che non funziona più semplicemente da pretesto per offrire un punto di vista straniato sul mondo, ma si offre ora come oggetto e sostanza della trama testuale, fino a divenire il sostegno stesso della narrazione. Il narratore, in Uno, nessuno e centomila, si mette in scena, infatti, come soggetto attuale del discorso piuttosto che come soggetto delle azioni che racconta e, a differenza che nelle altre opere, le vicende che costituiscono l’intreccio hanno un’importanza minore rispetto all’atto enunciativo che le sostiene.

Ciò accade, mi sembra, in quanto Uno, nessuno e centomila, rispetto ad altri testi pirandelliani, risponde a una richiesta, avanzata dal sapere giuridicopsichiatrico, di una narrazione esaustiva di sé così come comincia a delinearsi in Europa all’incirca intorno alla metà del XVII secolo e che si articola e si definisce con precisione proprio nel corso dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. In questo periodo la confessione diviene una pratica che, sotto la guida del medico, consente al soggetto che vi si sottopone di avviare un’ermeneutica di se stesso che ha come fine l’emersione di una verità nascosta nelle profondità più riposte del sé, che il soggetto ha l’obbligo di svelare e di esporre e che, nello stesso tempo, lo costituisce come individuo consentendogli di riconoscersi e di essere riconosciuto socialmente come tale. Come vedremo, infatti, ciò che contraddistingue Vitangelo rispetto ad altri narratori autodiegetici*** è che, mentre sembra costruire uno spazio di liberazione dai vincoli del riconoscimento sociale, egli edifica parallelamente il soggetto destinato ad abitarvi, solo apparentemente demolendone l’ossatura psicologica e invece ancorandone la sostanza esistenziale alla necessità dell’identificazione.

*** Il narratore Autodiegetico è un termine utilizzato nella teoria della narrazione per descrivere un tipo di narratore che è anche un personaggio all’interno della storia che sta raccontando.

La presunta apocalisse del soggetto, di cui nel corso del Novecento si è a lungo parlato come istanza principale dell’opera di Pirandello, andrà allora intesa primariamente nel suo significato di epifania del sé. Alla catastrofe, come vedremo, occorrerà alludere invece per delimitare il solo paesaggio residuale, che dell’imminente rovina, storica e politica prima ancora che individuale, porta già i segni, le stimmate, i simulacri. E la confessione come pratica di soggettivazione sarà lo strumento utile a rivendicare il possesso di un’identità e a verificarne la tenuta.

Con la nozione di «soggetto» intendo qui riferirmi all’essere soggetti a determinate pratiche di identificazione: «soggettività, di conseguenza, si riferisce al modo in cui il soggetto fa esperienza di sé medesimo nell’ambito di una pratica di autoidentificazione (o di relazione con se stesso). Se individuo o persona alludono all’oggetto dell’identità personale, le «pratiche di identificazione» alludono alle modalità secondo cui l’identità è riconosciuta e ascritta (ma anche negata o sottratta, naturalmente), ossia alle attività formatrici di identità» (Davide Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, p. 20). In quest’ottica, occorre sottolineare la posizione ambivalente di Vitangelo che, mentre subisce passivamente la coazione al riconoscimento entro il dispositivo individualizzante della psichiatria, insieme innesca, attivamente, con lo strumento della confessione, il processo destinato a costituirlo finalmente come soggetto, sebbene entro i contorni della follia. La costruzione del sé, del resto, non pertiene al soggetto né alla comunità di cui questi fa parte. Esso è piuttosto il frutto di una costante negoziazione (e dell’eventuale conflitto) tra le parti in causa nella dimensione di un’ininterrotta comunicazione (Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza,1961, p. 193).

L’ipotesi che occorrerà verificare sarà allora quella che concerne le strategie discorsive messe in atto da Vitangelo per testimoniare della propria esistenza a partire dal ruolo cruciale svolto dalla confessione in quanto forma espressiva, poiché essa consente di prendere in considerazione il contesto scenico dell’identità al quale prendono parte le cerchie di riconoscitori che concorrono nell’identificare gli individui e i loro atti. Ciò comporta di ragionare nell’orizzonte di un’idea dinamica dell’identità individuale, che non intenda cioè quest’ultima come un primum autosufficiente al di fuori o al di sopra di una relazionalità intersoggettiva che fornisce i criteri che ne rendono possibile la definizione (Cit., Davide Sparti, 1996, p. 78).

La forza dell’atto enunciativo di Vitangelo consiste insomma nella comprensione che la delimitazione della propria identità passa prima di tutto attraverso il riconoscimento dell’altro. Sia nel senso che occorre che l’altro venga riconosciuto dal soggetto nella sua irriducibile differenza; sia nel senso che il soggetto può affermare la propria identità nella misura in cui dall’altro venga riconosciuto come tale. Quando il protagonista del romanzo mette alla prova la tenuta della propria identità sperimentando la possibilità di rinunciare ai vincoli che le vengono imposti da una convenzione sociale che non lo soddisfa e nella quale, da un certo momento in poi, ha smesso di riconoscersi, in prima istanza deve rivolgersi all’altro (Dida, Firbo, il notaio, Anna Rosa, il Monsignore, la comunità di Richieri) per chiedere la verifica e il riconoscimento di una nuova identità individuale e sociale. E poiché la sua richiesta passa attraverso le pratiche individualizzanti della disciplina giuridico-psichiatrica, rinunciando alla sua condizione di «usurajo», egli potrà costituirsi come individuo possessore di un’identità solo nel momento in cui comincerà ad abitare lo spazio socialmente costruito della malattia mentale. Il prezzo che Vitangelo dovrà pagare al suo rifiuto di una maschera sociale consisterà infine nell’assunzione di un’altra maschera non meno socialmente costruita.

Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce; perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli (R, 844. Il corsivo è dell’autore.) [1]

[1] Si fa riferimento qui all’edizione compresa in Tutti i romanzi (a cura di Giovanni Macchia), Milano, Mondadori, 1973, vol. II, segnalata d’ora in avanti con la sigla R seguita dal numero di pagina.

Il problema della maschera che così insistentemente si pone nell’opera complessiva di Pirandello, e di conseguenza nella critica che ha affrontato gli intrecci psicologici più tortuosi dei suoi personaggi, va riproposto allora secondo un’altra prospettiva teorica che tenga conto che la nozione non può ridursi a quella puramente psicologica e negativa della maschera come oggetto che occulta un’autenticità originaria violata dalla falsa coscienza e dall’alienazione. Più produttiva, nell’economia del nostro discorso, sarebbe l’ipotesi che ha visto nella maschera e nell’atto di indossarla «una tecnica di costituzione del soggetto che produce fissità per liberare un divenire» (in Roberta Sassatelli, La maschera e l’identità. Conversazione con Alessandro Pizzorno, 2005, p. 71). È certamente vero, dunque, che la maschera nasconde l’identità di chi la indossa, ma nello stesso tempo, nel tempo del culto, della cerimonia o della festa, essa realizza l’identificazione con ciò che rappresenta, rivelando una nuova identità agli occhi di chi la guarda (Alessandro Pizzorno, Sulla maschera, 1960, pp. 49-50). [2]

[2] Occorre rilevare a margine che Pizzorno, presentando il suo studio sulla maschera, fa riferimento alle numerose rappresentazioni parigine del teatro pirandelliano fra il 1950 e il 1953: «Quello di Pirandello era chiaramente un teatro del riconoscimento. I sei personaggi sono gente che cerca qualcuno che li riconosca: non esistono che fino a quando non saranno riconosciuti. Questo era il tema che mi animava: cercare come si forma l’identità. Ripensandoci oggi direi che quello che cercavo aveva anche un carattere più generale: pensavo alla maschera in maniera positiva (credo di dirlo all’inizio del saggio), non solo come cosa che nasconde, ma anche come cosa che rivela» (Cit., Roberta Sassatelli, 2005, p. 74). 

La maschera deposta da Vitangelo che trovava consistenza nella casa paterna, in quella coniugale e nel mestiere di banchiere, e le altre che gli vediamo indossare di fronte alla comunità di Richieri e ai suoi rappresentanti – queste ultime strenuamente disegnate sulla fisionomia dell’anormale – risultano infine come le successive declinazioni di un’identità che viene costituendosi, e il romanzo appare, sotto questa luce, come la storia dei riconoscimenti che il soggetto ha ricevuto nei vari contesti entro i quali ha voluto giocare la sua partita con la sfera pubblica. Essere riconosciuto come folle è per Vitangelo, piuttosto che la resa di fronte all’orizzonte dell’alienazione novecentesca, l’unica garanzia rimasta contro il misconoscimento e il decentramento della propria soggettività. Dopo essersi spogliato della maschera sociale di usuraio e una volta indossata quella del folle, Vitangelo si ritroverà ad abitare la terra desolata dell’internamento e, finalmente costituitosi come persona, [3] potrà aprirsi al mondo come orizzonte di possibilità solo a condizione di ridursi, come vedremo, a nuda vita.

[3] Nel saggio citato, Pizzorno prende le distanze dall’ormai classica definizione di «persona» fornita da Marcel Mauss (Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di io, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, 1938) poiché la considera priva di un’organica proposta teorica che spieghi il rapporto tra soggettività e identità e come esso si modifichi nella storia (Cit.,Alessandro Pizzorno, 1960, 99n e 75-80).

Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà che se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto (R, 778-779).

Vitangelo avrà percezione del proprio cambiamento nel momento in cui farà propria la verità negoziata con il suo interlocutore nel corso della confessione. Egli potrà finalmente riconoscersi in una nuova identità disegnata nel quadro dell’anormalità e della malattia mentale solo quando sarà in grado di identificarsi nella persona di cui sta parlando la narrazione offerta durante la sua confessione. Il che comporta un’operazione preliminare di autoriconoscimento che consenta di riappropriarsi dei riconoscimenti ricevuti poiché «trasformando i riconoscimenti in identità personale, l’autoriconoscimento assicura la possibilità di definire se stessi sia come durevoli (attribuendo una continuità ai riconoscimenti accumulati), sia come distinti e specifici (individuati)» (Cit., Davide Sparti, 1996, p. 130). È sulla base di questa narrazione, e dell’operazione di autoriconoscimento e individualizzazione che essa comporta, che l’individuo che si confessa può costituirsi come soggetto. Egli appare come tale, cioè, nella misura in cui sta rivelando una verità personale, ed è da questo punto che occorre cominciare l’analisi dei procedimenti confessionali da lui attivati nel corso del racconto della sua vicenda. 

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2. Le mie curiosissime considerazioni sulla vita

Occorre chiedersi ora, preliminarmente, quali siano le coordinate formali e sostanziali che inscrivono il racconto di Vitangelo nella cornice di quel particolare tipo di confessione che, con Foucault, consideriamo come dispositivo di individualizzazione nel contesto delle forme di controllo attivate dalla disciplina psichiatrica. E, dal momento che «la confessione è un rituale discorsivo […] che si dispiega in un rapporto di potere, poiché non [ci] si confessa senza la presenza almeno virtuale di un partner che non è semplicemente l’interlocutore, ma l’istanza che richiede la confessione, l’impone, l’apprezza ed interviene per giudicare, punire, perdonare, consolare, riconciliare» (Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1,1976, p. 57), converrà avviare l’indagine proprio a partire dal soggetto che si dispone a ricevere la confessione del protagonista insieme al pubblico dei lettori tradizionalmente indicato – com’è ovvio dato lo statuto di genere del romanzo, pure quando esso si arrischia su di un limite speculativo – come destinatario più probabile. [4]

[4] Si vedano, tra gli altri, Renato Barilli, La linea Svevo-Pirandello, 2003, p. 211 e Guido Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco,1986, p. 102). Sulla presenza del lettore nel testo, rimando alle posizioni di Giancarlo Mazzacurati, Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila ,1994, p. 166 e di Marziano Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, 1964, p. 111-112). Quanto allo statuto di genere, Giacomo Debenedetti parlava, a suo tempo, di «trattato, più ancora che romanzo» (Il romanzo del Novecento, 1998, p. 270) e Grignani, per parte sua, denunciava «lo statuto antiromanzesco del libro, la cui tenuta narrativa è perennemente minacciata dalla vocazione saggistica» (Maria Antonietta Grignani, Retoriche pirandelliane, 1993, p. 90)

A ben guardare, è nell’ottavo e ultimo libro di Uno, nessuno e centomila che – tra interrogatori, processi e condanne; tra tribunali, ospedali e ospizi di mendicità; tra medici, polizia e giudici – si chiarisce la dimensione giuridicopsichiatrica entro cui si muove il discorso di Vitangelo. Qui gli inquirenti e i medici fanno la loro comparsa per accompagnare Vitangelo lungo la transizione dalla condizione di vita normale all’internamento e fra questi il giudice emerge sul proscenio dell’intreccio per emettere il suo verdetto di condanna contro il protagonista. Ciò accade malgrado la testimonianza favorevole di Anna Rosa che scagiona Vitangelo e lo assolve così, definitivamente, dal sospetto di averla aggredita. I fatti, insomma, sembrano chiariti, non meritano ulteriori spiegazioni e in altre circostanze – senza cioè la volontà espressa da Dida e dagli amministratori dei beni di Gengè di avanzare un procedimento di interdizione – il processo si risolverebbe in un’archiviazione. E invece, come ci racconta il protagonista,

il giudice scrupoloso, non soddisfatto del sommario ragguaglio che Anna Rosa aveva potuto dargli di quelle mie considerazioni, stimò suo dovere averne una più precisa e particolare informazione, e volle venire di persona a parlare con me (R, 895-896).

Ciò che è in causa dunque, nel secondo interrogatorio cui Vitangelo è sottoposto, non sono più le circostanze della presunta aggressione e del conseguente ferimento da parte di Anna Rosa, ormai chiarite nelle fasi precedenti delle indagini, ma piuttosto quelle «considerazioni sulla vita» che poche righe più sopra il protagonista ha definito «curiosissime» e che, invece dell’inesistente aggressione, sono state la causa reale del profondo turbamento di Anna Rosa e hanno causato lo sparo che ha ferito Vitangelo. È su di esse che il giudice intende acquisire maggiori informazioni ed è sulla base della loro esposizione che verrà emessa la sentenza a conclusione del processo. Anche perché, nelle nuove forme giuridiche che prendono corpo nel corso del XIX secolo, non è più in questione la verità dell’infrazione commessa, ma l’adeguamento del soggetto alla norma e la sua potenziale pericolosità sociale come elemento di costituzione dell’individualità che viene perennemente indagato, controllato e sottoposto a forme di disciplinamento (Michel Foucault, La verità e le forme giuridiche, 1973, pp. 127-128).

Il sapere giuridico che si costituisce in Occidente nel corso dell’Ottocento è, insomma, non tanto diretto a determinare se qualcosa è accaduto o no, ma a verificare piuttosto se un individuo agisce o meno in conformità alla norma sociale, secondo un’indagine che investe il comportamento e le potenzialità del soggetto, l’osservazione delle regole e il progresso morale (Ivi, pp. 109 e 112). Così, Vitangelo, disegnando la figura del giudice dentro l’immagine della Legge, insiste costantemente nel corso di queste ultime pagine sull’attenzione quasi pedante con cui questi conduce l’istruttoria:

Mi duole, a ripensarci, se egli quel giorno se n’andò da casa mia con l’impressione ch’io volessi burlarmi di lui. Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla più alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani (R, 896-897).

«Onesto per natura e per principio» e «scrupolosissimo» (R, 894; ma si veda anche 896ss.), Vitangelo ci assicura che «moralmente, nessuno sapeva rigare più dritto di lui» (R, 897), al punto che le riflessioni che hanno accompagnato il divenire del suo racconto nel corso di tutto il romanzo avrebbero, sulla sua incrollabile personalità, effetti devastanti, peggiori, se possibile, da quelli indotti in Anna Rosa:

Ma se io gliele ripetessi, signor giudice, ho gran paura che lei non ucciderebbe più me, ma se stesso, per il rimorso d’avere per tanti anni esercitato codesto suo ufficio (ibidem).

Le «considerazioni sulla vita» che Vitangelo afferma di non voler ripetere al giudice rappresentano precisamente, nella prospettiva entro cui ci stiamo muovendo, il nucleo fondante di una confessione esaustiva di ordine disciplinare così come si è venuta configurando nella modernità. Essa si distingue dal rituale della penitenza della prima cristianità per l’esigenza di totalizzazione che investe il soggetto dell’obbligo di dire tutto su di sé e di costruire passo per passo la verità della propria esistenza con l’aiuto del direttore di coscienza, del giudice, dello psichiatra. Non essendo più occasionale e legata strettamente al singolo peccato commesso, essa implica che vadano denunciati singolarmente tutti i peccati che hanno condotto il soggetto alla sua condizione attuale e con essi gli avvenimenti, le riflessioni, i pensieri che ne sono alla base.

Anche perché il soggetto non è in possesso del sapere necessario a distinguere il peccato veniale da quello mortale, la semplice trasgressione dal crimine, anche potenziale, anche semplicemente sepolta nel carattere e pronta a scatenarsi contro la collettività. Egli deve affidarsi per questo all’istituzione che meglio saprà ascoltare e giudicare. La funzione svolta in prima battuta dal prete e, nella successiva fase di secolarizzazione del processo confessionale, dall’istituzione che si pone all’ascolto (la psichiatria o la magistratura, a seconda delle specificità disciplinari) è, infatti, quella di ricevere dal soggetto la delega al discernimento attraverso un sapere che il soggetto non possiede (Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, 1976, pp. 62-63).

La scrittura diviene ora il punto nodale attorno a cui il soggetto si espone nella sua «visibilità integrale» che Foucault individua come storicamente connessa con il controllo del potere disciplinare sui corpi dei soggetti, nella direzione di una «individualizzazione schematica e centralizzata» (Michel Foucault, Il potere psichiatrico, 1974, p. 57). Qui, possiamo specificare, la scrittura si sostituisce al corpo e Vitangelo trova in essa il proprio dispositivo di soggettivazione col rinunciare a guardarsi nello specchio per non doversi confrontare più con le considerazioni che hanno aperto la sua crisi esistenziale. È la scrittura, così, che spoglia il soggetto e lo espone come corpo nudo, nuda vita di fronte a se stesso e alla società (Ivi, pp. 64-65).

Ciò non significa, secondo Foucault, che quella del potere disciplinare si dia, nella modernità, come l’unica procedura di individualizzazione all’interno delle pratiche di potere. Si tratta piuttosto di affermare che essa risulta come la forma terminale attraverso cui il potere «costituisce l’individuo come bersaglio, come obiettivo, come interlocutore, come termine di confronto all’interno dei rapporti di potere» (Ivi, p. 65). In questa prospettiva, di conseguenza, l’individuo non può essere considerato come un’istanza metastorica e ontologicamente fondata che preesiste alla determinazione psicologica e all’istanza normalizzatrice del potere. [5]

[5] Poiché l’argomento è troppo vasto per essere più che accennato qui, rimando in proposito agli studi sull’«interazione simbolica» di Erving Goffman (vedi bibliografia in calce1959; 1961; 1963).

Al contrario, quanto sostiene Foucault comporta che proprio grazie a questi meccanismi disciplinari qualcosa come l’individuo è potuto comparire all’interno del sistema politico della modernità occidentale.

L’individuo risulta dunque come l’esito di qualcosa che lo precede e che consiste in questo meccanismo che agisce sul suo corpo per costituirlo come tale attraverso un sistema di sorveglianza e una serie di procedure di normalizzazione. Vedremo tra breve quale sia il risultato ultimo, tragico ma forse ancora provvisorio, dell’attivazione di tali dispositivi di potere. Conviene ora fermarci ancora un momento, però, sullo sviluppo della narrazione pirandelliana.

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3. Nella vispa infanzia della mia follia

In questa prospettiva, un primo elemento di interesse sta nel fatto che la struttura del romanzo sembra rispondere con una certa precisione allo schema tradizionale della confessione così come viene descritta da Foucault (Il potere psichiatrico, 1974, pp. 234-241), il quale indica che le tre questioni attorno a cui deve ruotare il discorso del soggetto sottoposto all’interrogatorio sono, in primo e in secondo luogo, la ricerca degli antecedenti individuali e di quelli famigliari della malattia; e in terzo luogo, l’emersione di una verità soggettiva dalla profondità del soggetto. [6]

[6] A conclusioni simili giunge alcuni anni prima anche Erving Goffman (Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, 1961, pp. 180-181).

A questo tipo di ricerca Vitangelo dedica una parte cospicua della sua confessione, in specie quella che comprende i primi tre libri nei quali l’istanza diegetica risulta secondaria rispetto alla necessità di spiegare da quali circostanze nasca il suo caso, da quali riflessioni esso prenda l’avvio e secondo quale razionalità egli possa costituirsi come soggetto solo a condizione di riconoscersi all’interno della patologia mentale.

Vitangelo, insomma, non è solo consapevole della propria eccentricità e delle conclusioni alle quali devono condurlo le sue riflessioni sulla vita, ma attorno alla sua elaborata anomalia e agli atti che in essa possono ascriversi costruisce la propria unicità di soggetto. Il protagonista comincia da qui a rintracciare scrupolosamente e a indicare al lettore i segni della sua follia e la domanda posta in queste prime pagine: «Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?» (R, 748) è quella che egli pone alla base dell’eziologia nosografica e che contrassegna la malattia come discorso di verità su di sé.

La conclusione cui egli giunge fin d’ora, in questa sorta di prologo alla sua storia («quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie», R, 751) sembra darsi insomma come l’estremo tentativo di spiegare la razionalità del suo agire, nel momento in cui questo sta cominciando a privarsi di ogni logica. Ecco allora che Vitangelo, fatte queste dovute premesse, può iniziare a raccontare «quelle piccole [pazzie] che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia» (ibidem) e che oscillano ambiguamente lungo l’asse del volontario e dell’involontario. [7]

[7] L’elemento di novità che caratterizza la nuova psichiatria a partire dalla fine dell’Ottocento, consiste, secondo Foucault, nella sostituzione, come discrimine dello stato del folle rispetto alla condizione di normalità, del delirio nelle sue varie declinazioni, con l’istinto «inteso come pulsione irresistibile, come comportamento normalmente integrato o anormalmente spostato sull’asse del volontario o dell’involontario» (Michel Foucault, Gli anormali, 1975, pp. 244-245). 

Si tratta davvero di poca cosa, insufficiente a condannare un individuo all’internamento o a indicare la via di una dispersione soggettiva. Ma queste piccole, innocue pazzie da una parte sono elementi utili per dimostrare a se stesso che la follia si sta già costituendo come malattia; dall’altra indicano che questi segni non costituivano realmente la follia come tale, ma le sue condizioni di possibilità: «È come se il medico ingiungesse all’ammalato: dimmi che cos’è accaduto, dammi delle informazioni sulla tua vita; quando ti sei ammalato, che cosa ti è successo? E così via. Tutto ciò presuppone che la follia come malattia abbia sempre preceduto se stessa» (Michel Foucault, Il potere psichiatrico, 1974, p. 235).

Vitangelo, però, non scava nella propria infanzia, come prevede la nascente psicoanalisi e come la medicina ha già cominciato a imporre all’interrogato, ma in quella della sua follia. A fondamento dell’edificio identitario del protagonista sarà quindi il corpo, che della memoria ha sgretolato, all’inizio del romanzo, i tradizionali sostegni. Vitangelo ricomincia dal corpo, dunque, il suo percorso di individualizzazione secondo un procedimento omeopatico di cui aveva anticipato la strategia nelle prime pagine del romanzo:

Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene (R, 20).

Il male che ha preso avvio da una nuova percezione del corpo, nel corpo troverà la sua spiegazione, poiché – una volta rinunciato al nome e a ogni altro riconoscimento sociale che non passi per la follia – solo al corpo in quanto nuda vita resterà il compito di difendere la persistenza della soggettività a se stessa. Pur essendo affidato al mondo, infatti, il corpo delimita lo spazio di Vitangelo e la sua differenza, per quanto egli tenti di negarlo ponendosi, nell’immagine dello specchio, di fronte a esso. L’estraneo che in ogni momento tenta di far emergere da sé come responsabile delle proprie azioni si scontra con la coscienza della illogica razionalità della propria vicenda e dimostra al protagonista che il senso che egli ha di se stesso passa prima di tutto nel proprio incorporamento, in una dimensione performativa che si mostra nel modo in cui egli si muove, si dispone nello spazio sociale, nel modo in cui, in una parola, egli agisce:

Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente! Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo i casi e gli umori. E anch’io… Ma sì! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo così come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre.
[…]
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma all’improvviso, mentre così pensavo, avvenne tal cosa che mi riempì di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l’apatica e attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in sù e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare così un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo d’aria entrato chissà donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori dalla mia volontà.
– Salute! – gli dissi.
E guardai nello specchio il mio primo sorriso da matto (R, 757 e 758. Mio il corsivo).

Lungi dal rappresentare un’ulteriore testimonianza dello sdoppiamento o, meglio, della moltiplicazione dei Moscarda, nel quadro di una più ampia strategia di deresponsabilizzazione messa in atto da Vitangelo per attribuire a un altro sé la direzione delle proprie azioni, questa pagina, nel processo che descrive, segnala invece l’identità fra le immagini che si guardano, che, attraversando lo specchio, si riconoscono nello stesso corpo mentre sono alla ricerca degli antecedenti della propria follia. Il problema qui è piuttosto quello di attraversare la condizione abitata fino a quel momento, per approdare presso i territori inesplorati della pazzia, mettendo alla prova la tenuta degli istinti nel confronto con le convenzioni socialmente negoziate. Poiché l’agire è incorporato, tanto più quando ha perso altri puntelli cui sostenersi, suicidare un’identità perché se ne produca una nuova e rinnovata è un atto che deve passare in prima istanza dal corpo. [8]

[8] Per un’indagine dettagliata sulla presenza e sul significato del corpo nel complesso dell’opera pirandelliana, rimando almeno a Paola Daniela Giovanelli, Dicendo che hanno un corpo. Saggi pirandelliani, 1994.

Volevo compiere un atto che non doveva essere mio, ma di quell’ombra di me che viveva realtà in un altro; così solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell’ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri.
Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sì, un brutto tiro […] cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse così agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri? (R, 813-814). 

La follia confessata da Vitangelo fin dalle prime pagine, che essa giustifica e alle quali restituisce senso nell’economia del suo racconto, assume tutto l’aspetto di una strategia produttiva che mentre spoglia il protagonista riducendolo all’essenza di se stesso col privarlo di ogni riconoscimento materiale e sociale, lo traveste invece da anormale, facendone un soggetto suscettibile di analisi dal punto di vista psicologico. La ricerca degli antecedenti della malattia si costituisce così come il retroterra e l’innesco della diegesi che da qui, siamo ormai all’altezza del quarto libro e in prossimità dell’episodio di Marco di Dio, può finalmente prendere corpo.

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4. Nel nome del padre

La ricerca degli antecedenti della malattia nella formulazione della confessione non si sviluppa semplicemente sul piano individuale, ma ruota anche intorno al problema dell’ereditarietà. Attraverso un’indagine accurata sulla presenza dei sintomi psichiatrici lungo l’asse famigliare, è possibile, al medico come al soggetto interessato, risalire a un substrato materiale di tipo patologico che si sovrapponga a quello organico, inesistente nella nosografia delle discipline della follia.

Da questo punto di vista, risulta trascurabile che, nell’indagine sugli antecedenti famigliari, Vitangelo non riesca a rintracciare i sintomi di una patologia mentale che giustifichi la sua. Non solo perché nella confessione conta soprattutto che il malato abbia avviato l’indagine sulla famiglia di provenienza perché questa fondi un discorso di verità sul malato stesso; ma anche perché, specchiandosi nella sanità paterna, Vitangelo può rivendicare per sé la propria differenza svincolandosi da ogni determinismo ereditario. Tagliare le radici che vincolano al padre e che intitolano il terzo capitolo del terzo libro, avocare l’autonomia da «quel seme gettato ch’egli non sapeva» (R, 787) al centro del capitolo successivo, sono i primi, irrevocabili passi da compiere per rifiutare la sovradeterminazione genetica e avviare la rinascita del soggetto che non intende riconoscersi che nella propria indipendenza da ogni vincolo famigliare e sociale. Vedremo tra breve a quale prezzo. Per ora ci basta sottolineare come la costruzione della verità su di sé non possa che passare dalla relazione famigliare.

La storia della mia famiglia! La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l’ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d’atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare. Mi credevo un uomo nella vita, un uomo qualunque, che vivesse così alla giornata una scioperata vita in fondo, benché piena di curiosi pensieri vagabondi; e no, e no: potevo essere per me uno qualunque, ma per gli altri no; per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato; e quel mio poter credermi un uomo qualunque, voglio dire quel mio stesso ozio, che credevo proprio mio, non era neanche mio per gli altri: m’era stato dato da mio padre, dipendeva dalla ricchezza di mio padre; ed era un ozio feroce, perché mio padre…
Ah, che scoperta! Mio padre… La vita di mio padre… (R, 789-790).

L’ereditarietà genetica si materializza per Vitangelo nell’eredità di certi tratti somatici, dei beni materiali e degli atteggiamenti che lo costituiscono come soggetto sociale agli occhi della comunità alla quale appartiene e che si riassumono nel titolo di «usurajo» con il quale deve fare i conti nel corso del romanzo. La scoperta di essere un soggetto determinato, materializzata nella dimensione del corpo, si realizza concretamente come possesso di beni e come riconoscimento professionale ereditato dalla famiglia. Finché dunque sussiste l’identificazione col padre, l’identità di Vitangelo non può rifondarsi e rispondere alle sue ansie di rinnovamento. La realizzazione che, in fondo, il corpo (e a partire da esso l’anima, le percezioni, gli atteggiamenti, il ruolo rivestito nella società) non gli appartiene più perché risulta anch’esso sostanzialmente sovradeterminato dalla genetica corrisponde all’altro elemento che concorre a concludere questo lungo prologo in una sostanziale «distruzione di un universo di segni (la propria immagine, la casa, la figura del padre)» (Guido Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco,1986, p. 103).

Così scomposta e frammentata, la figura paterna non può essere più assunta nella sua unità, ma nei residui materiali che ha lasciato nel mondo dopo la sua scomparsa. Vitangelo si confronta ora con l’eredità famigliare e con quello che resta della figura del padre in un mondo che, secondo il protagonista, ha fatto del patrimonio (dell’avere) il simulacro dell’essere. Non stupisce allora che spetti a Stefano Firbo e a Sebastiano Quantorzo di farsi figure vicarie del padre assente alle quali è demandato di gestire i beni dell’erede non meno che il suo buon senso nell’amministrarli. Il confronto con il modello paterno, in assenza della figura che tradizionalmente lo rappresenta, si verifica dunque solo con il suo spettro, nella somiglianza fisica. L’identità sociale, invece, dovrà verificarsi nella relazione assai più prosaica con gli amministratori, con i quali la parentela, sebbene solo notarile e burocratica, è sufficiente a consentire a Vitangelo di prendere le parti della moglie di Firbo, «che ti conviene tener chiusa al manicomio!» (R, 823) come se si trattasse di cosa che lo riguarda.

Voglio che tu mi renda conto di ciò che hai detto per mia moglie! M’inginocchiai.
Ma sì! Guarda! – gli gridai, – così! E toccai con la fronte il
Ebbi subito orrore del mio atto, o meglio, ch’egli potesse credere con Quantorzo che mi fossi inginocchiato per lui. Li guardai ridendo e tónfete, tónfete, ancora due volte a terra, la fronte.
Tu, non io, capisci? davanti a tua moglie, capisci? dovresti star così! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così!
Balzai in piedi, friggendo. I due si guardarono negli occhi spaventati. L’uno domandò all’altro:
Ma che dice?
Parole nuove! – gridai. – Volete ascoltarle? Andate, andate là, dove li tenete chiusi: andate, andate a sentirli parlare! Li tenete chiusi perché così vi conviene!
Afferrai Firbo per il bavero della giacca e lo scrollai, ridendo:
Capisci, Stefano? Non ce l’ho mica soltanto con te! Tu ti sei No, caro mio! Che diceva di te tua moglie? Che sei un libertino, un ladro, un falsario, un impostore, e che non fai altro che dire bugie! Non è vero. Nessuno può crederlo. Ma prima che tu la chiudessi, eh? stavamo tutti ad ascoltarla, spaventati. Vorrei sapere perché!
Firbo mi guardò appena, si voltò a Quantorzo come a chiedergli consiglio con scimunita angustia e disse:
Oh bella! Ma appunto perché nessuno poteva crederlo!
Ah no, caro! – gli – Guardami bene negli occhi!
Che intendi dire?
Guardami negli occhi! – gli ripetei. – Non dico che sia vero! Stai tran
Si sforzò a guardarmi, smorendo.
Lo vedi? – gli gridai allora, – lo vedi? tu stesso! lo hai anche tu, ora, lo spavento negli occhi!
Ma perché mi stai sembrando pazzo! – mi urlò in faccia, esasperato. Scoppiai a ridere, e risi a lungo, a lungo, senza potermi frenare, notando la paura, lo scompiglio che quella mia risata cagionava a tutt’e due (R, 825-827).

E in effetti, come si vede in questo stralcio di straordinaria sceneggiatura farsesca, che valeva la pena di citare generosamente, la cosa lo riguarda forse più da vicino di quanto si potesse pensare in un primo momento. Non solo perché come a Firbo, proprio negli anni in cui scrive il suo romanzo – all’altezza precisamente del 1919 – capita anche all’inventore del personaggio Moscarda di internare la moglie; non solo, inoltre, perché Firbo porta il nome del padre (e del figlio) di Pirandello; ma anche perché, nell’economia della narrazione e forse anche in virtù dei due indizi che abbiamo appena segnalato, la pazzia della moglie di Firbo somiglia a un morbo che si pone come problema di famiglia in cui Vitangelo può specchiare il suo destino. [9]

[9] Come ha notato Giovanni Macchia «il nucleo famigliare è l’oscuro germe da cui nascono gli infiniti casi pirandelliani, in combinazioni sempre nuove e fortuite. È nella famiglia che le forme della vita e della morte appaiono strette, legate fino a togliere il respiro» (Giovanni Macchia, Luigi Pirandello, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, vol. IX, 1969, p. 459). Sull’importanza della famiglia nucleare per la costituzione del potere disciplinare nella modernità rimando ancora a Foucault (Gli anormali, 1975, p. 227).

Che alla follia non sia consentita la parola e che a essa sia dato solo di essere presa come oggetto del discorso è cosa ben chiara a Pirandello e ai suoi personaggi (si pensi al Berretto a sonagli, che proprio sulla negazione della verità pone in gioco l’alternativa dell’internamento) che non risulterebbero altrimenti eccentrici e insieme preoccupati, come Vitangelo, di gestire tanto razionalmente il proprio desiderio di irrazionalità. Una volta di più se allo stesso Pirandello capita di dover internare la moglie per le stesse ragioni per cui Stefano Firbo ha internato la sua.

Ciò che conta, piuttosto, è che alla follia sia concesso di raccontarsi dentro la verità della ratio, che essa cioè non sia la verità, ma una verità che spetta al giudice e al medico di verificare, purché sotto il vincolo di una confessione esaustiva, come Vitangelo deve sapere dagli anni passati in collegio per volontà del padre. Sull’importanza di questa sorta di cronòtopo della storia sociale europea ha insistito a lungo, nel corso del suo lavoro sulla disciplina psichiatrica, lo stesso Foucault (si veda, ad esempio, Gli anormali, 1975, pp. 171-172) e, in effetti, di collegi Vitangelo, poiché dice di averne abitati tre, «ove rimasi fino ai diciott’anni» (R, 793), deve saperne a sufficienza perché la sua richiesta di riconoscimento si muova sull’asse della malattia e della sanità secondo una grammatica collaudata nelle tradizionali pratiche interne alla direzione di coscienza.

Nei collegi europei, infatti, così come in tutti gli altri apparati disciplinari costituiti a partire dal XVII secolo per istruire forme di controllo e di sorveglianza sul corpo degli adolescenti (seminari, scuole, caserme, ospedali), lo spazio analitico che istituisce una nuova anatomia politica del corpo passa proprio attraverso l’esercizio delle pratiche di penitenza e di confessione di cui lo stesso Vitangelo ci sta raccontando. La stranezza del suo comportamento, l’illogica derealizzazione della relazionalità intersoggettiva sulla quale si sta ossessivamente fissando e che informa le sue considerazioni sulla vita, lungi dal restare imprigionate nell’interiorità del penitente, hanno bisogno di liberarsi, di esprimersi all’esterno perché egli si realizzi come soggetto e perché la sua parola si istituisca come discorso di verità su se stesso.

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5. Nient’altro che la verità

Che il percorso di Vitangelo verso la salvezza e verso l’atarassia, sulla strada diretta alla liberazione dalle passioni mondane che passa prima di tutto dalla rinuncia ai beni materiali, sia inscrivibile nella dimensione del cammino di un’«ascesi mistica», è circostanza ampiamente commentata dalla critica, secondo indicazioni più o meno omogenee [10] che possono trovare riscontro, certo, nell’onomastica e nella toponomastica pirandelliana e nel decorso terapeutico per cui opta il protagonista, così simile, a seconda dello sguardo che vi si pone, a una anabasi o a una catabasi cristiana, che al Cristo cioè guarda come modello di martirio o di resurrezione possibile.

[10] In proposito, si vedano almeno Margherita Ganeri, Pirandello romanziere, 2001, p.231; Renato Barilli, La linea Svevo-Pirandello, 2003, p. 215ss. e p. 223n.). Di «misticismo ateo» aveva già parlato Adriano Tilgher, Studi sul teatro contemporaneo, 1928, p. 264), ma si veda anche Cesare Guasco, Ragione e mito nell’arte di Luigi Pirandello ,1954, p. 123. Un accenno alla questione anche in Giacomo Debenedetti, Il romanzo del Novecento, 1998, p. 351) e in Gioanola che parla di un «recupero laico della follia francescana» (Elio Gioanola, Pirandello la follia, 1983, p. 110). Più interessanti le posizioni di Giancarlo Mazzacurati (Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila ,1994, p. 166) e Guglielmi (La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco, 1986, pp. 106 e 107). Da un punto di vista filosofico, vanno ricordati almeno due considerazioni di Arthur Schopenhauer sull’ascesi, che, peraltro, Pirandello deve avere certamente presenti (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1859, par. 68 e 71).

Se non bastano tutti i preti presenti nell’universo pirandelliano e le resurrezioni, da quella romanzesca di Mattia a quella teatrale del protagonista di Lazzaro, tutte circoscritte in una dimensione laica e umoristica quando non esplicitamente anticlericale (come nel caso del trittico delle Tonache di Montelusa), si pensi allo spazio mistico entro cui si compie la svolta romanzesca di Uno, nessuno e centomila e alla sospensione estatica che precede, nella badìa, l’incontro risolutivo con Anna Rosa e il primo colpo di rivoltella (R, 873). Anche se la figura di Anna Rosa assume qui davvero le sembianze dell’apparizione mariana, [11] sembra piuttosto che lo spazio della badìa si disegni entro una cornice onirica in cui la sospensione del tempo storico preannuncia l’avvento di qualcosa che sfugge alla razionalità quotidiana.

[11] Difficile qui non ricordare lo scalpore per l’apparizione di Lourdes del 1858 che aveva interessato persino Zola. Più a ridosso del romanzo di Pirandello, al 1917, risale l’apparizione di Fatima. Entrambe ci interessano solo per denunciare, con Foucault, come nel corso del XIX secolo l’interesse dell’autorità ecclesiastiche si appunti sul bambino innocente: «nella nuova grande ondata di cristianizzazione che dilagherà nel XIX secolo, si vede la convulsione diventare un oggetto sempre più squalificato nella pietà cristiana, cattolica e anche protestante. Alla convulsione succederà l’apparizione» (Michel Foucault Gli anormali, 1975, p. 199).

Il presunto ascetismo di Vitangelo andrà allora inscritto dentro altre coordinate, che restituiscano il segno di una più complessa relazione del soggetto con la verità, in quanto questa si impone come terzo elemento in questione, dopo la determinazione degli antecedenti individuali e famigliari, nell’interrogatorio davanti al giudice; e in quanto proprio la relazione con la verità è la posta in gioco della costituzione del soggetto nel divenire del pensiero occidentale. Già nell’accezione cristiana, infatti, l’esame di coscienza viene declinato allo svelamento di una verità nascosta all’interno del soggetto, nell’emersione di desideri sepolti nell’individuo e non nelle sue azioni, poiché la verità è propria dell’anima individuale e in essa è situata (Davide Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, pp. 164-165).

La confessione, che stiamo utilizzando qui come criterio di interpretazione del testo, si può dunque far risalire alle pratiche cristiane di autosservazione come fondamento privilegiato dell’accesso a una nuova condizione, diversa e purificata, dell’identità del soggetto. Lo scopo ultimo dell’askesis cristiana, dunque, poiché consiste nell’approdo a un nuovo modo di essere, sarà fondato sull’emersione di una verità nascosta che inerisce già al soggetto e che preesiste al suo interno. Ciò comporta che la verità non è mai concessa pienamente al soggetto, che il soggetto in quanto tale, cioè, non è in grado di accedere alla verità e che per avere il diritto di accedere alla verità è necessario che egli si trasformi e divenga, in un certo modo, altro da sé, poiché così come egli è non è capace di verità (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, pp. 17-18). 

Come avviene nel caso di Vitangelo, il primo movimento del soggetto sarà un movimento di «ascensione» alla verità per mezzo del quale essa lo tocchi e lo illumini. In secondo luogo, esso consisterà in «un lavoro di sé su di sé, un’elaborazione di sé compiuta su di sé, una trasformazione di sé su di sé di cui si è direttamente responsabili attraverso il lungo sforzo dell’ascesi (askesis). […] La verità è quel che illumina il soggetto, quel che gli concede la beatitudine, quel che gli consente di ottenere la tranquillità dell’anima. Insomma, nella verità, e nell’accesso a essa, c’è qualcosa che realizza il soggetto stesso, che realizza l’essere stesso del soggetto, o che lo trasfigura» (Ivi, p. 18). In questo senso si può certamente dire che la «conversione» di Vitangelo abbia qualcosa a che vedere con l’ascesi cristiana e che, in particolare, essa riguardi il rispetto del precetto della rinuncia a se stessi (al proprio desiderio, ai beni materiali, all’identità), della morte a se stessi per rinascere in un altro sé dalla forma di vita del tutto rinnovata al fine ultimo di conseguire la salvezza. Ma tutto ciò non sembra sufficiente a spiegare l’operazione compiuta da Pirandello, specie se la si guarda sotto la luce della dimensione laica entro cui si compie svincolandola da ogni escatologia individuale o collettiva.

Intendo riferirmi qui al processo di secolarizzazione che le pratiche cristiane subiscono a partire dalla modernità e che è stato individuato dallo stesso Foucault all’altezza della definizione della soggettività cartesiana (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, p. 168). Accade infatti che, anche nella modernità, il lavoro ermeneutico sul soggetto si fondi ancora sulla sostanziale differenza tra ciò che il soggetto veramente è e ciò che il soggetto crede di essere, e che questo comporti ancora la definizione di un modello di soggetto caratterizzato da una profondità che occorre disvelare, da una verità nascosta che è necessario far emergere, in contrapposizione a un regime di apparenze superficiali sotto le quali alberga la sua essenza originaria e più pura. Ciò che viene meno, però, nel corso della modernità, è l’idea di salvezza sulla quale si reggeva il disvelamento della verità profonda del soggetto, e con essa l’elemento fondamentale che giustifica la rinuncia e l’ascesi, senza però che si perda l’idea di qualcosa di nascosto da individuare nelle profondità più riposte dell’individuo attraverso pratiche, come la confessione, che vengono a giocare un ruolo decisivo nell’istituzionalizzare l’interesse per l’intimità del soggetto.

Da questo punto di vista, a partire dal XVII secolo, la cultura occidentale eredita dal cristianesimo un modello di soggettività che implica il riferimento a una verità nascosta sulla quale cominceranno a esercitare la propria presa le tecnologie di potere del diritto e della medicina. Come si vede, un’idea di individuo che ancora oggi investe la nostra percezione della persona umana e che trova ragione nella credibilità che concediamo alle discipline psichiatriche e nel primato del privato sul pubblico e delle libertà individuali sugli obblighi collettivi. Le scienze umane (dalla giurisprudenza alla psichiatria), però, non riescono comunque a rispondere della perdita dovuta alla caduta dell’idea di salvezza e il problema è che in mancanza di essa «è proprio il permanere di un rapporto storicamente privilegiato fra soggetto e verità (la “sua” verità) che dà origine a un’esperienza, dirò così, luttuosa. L’esperienza della mancanza indotta dalla perdita della giustificazione cristiana alla rinuncia di sé produce quella che potremmo chiamare la valenza tragica o frustrante del nesso moderno fra verità e soggetto, e con essa l’elaborazione del lutto per tale perdita. Chi è privo della necessità di svelare qualcosa (di nascosto) vive un’esperienza di carenza d’identità» (Davide Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1996, p. 168).

È probabilmente per elaborare questa esperienza «luttuosa» che la modernità trova nell’autobiografia una forma di identificazione normalmente orientata alla dimostrazione di una verità sul soggetto confessante che ne dimostri l’irriducibilità a ogni identità pubblicamente riconosciuta (Ivi, 169). Da questo momento in poi, cioè, la condizione a partire dalla quale il soggetto può affermare di possedere un’identità consiste in prima istanza nell’elaborazione di una cartografia del sé che consenta l’emersione dall’autobiografia di una verità profonda e antagonista a quella superficiale e socialmente conosciuta (Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 1982, p. 232).

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6. «Ausnahmezustand» e «bloßes Leben»

Di là dal titolo sotto il quale sono raccolte, compresa quella eponima, un gruppo delle Novelle per un anno e di là dal richiamo alla nudità delle maschere teatrali sotto cui l’autore raccolse nel 1921 una parte delle sue sceneggiature, Pirandello, nelle pagine finali dell’Umorismo, considera la vita nuda come una sorta di fine ultimo cui pervenire nell’elaborazione dell’opera d’arte (SI, 946-947). [12]

[12] Si fa riferimento qui all’edizione compresa in Saggi e interventi (a cura di Fedinando Taviani), Milano, Mondadori, 2006, segnalata d’ora in avanti con la sigla SI seguita dal numero di pagina.

La «vita nuda», qui, è topologicamente situata nello spazio della vita naturale, quello spazio «senz’ordine almeno apparente», scrive Pirandello, che eccede ogni nomos ideale dell’ordine artistico, ogni istanza precettistica su di esso, ogni teoresi normativa che ne limiti il potenziale conoscitivo. [13]

[13] È forse appena il caso di ricordare che siamo in pieno clima crociano e che proprio l’intrinseca normatività dell’estetica idealistica è oggetto della polemica pirandelliana

Esiste o può esistere, sembra dirci lo scrittore, un luogo in cui è possibile che la legge che governa la sfera politica attraverso le convenzioni della vita civile subisca una sospensione nella quale ci è dato di vedere la vita per quello che è e l’uomo spogliato degli abiti civili e ridotto all’originaria condizione animale. Mentre gli «scrittori ordinarii» fanno di tutto per vestire quella vita d’altri abiti e d’altre regole, dunque, l’umorista avrà il compito di tenere aperto lo spazio sospeso della vita naturale entro cui solo abita la vita nuda. Lo spazio dell’umorismo è quindi per Pirandello lo spazio dell’eccezione in cui la sospensione della legge, attivata per mezzo dell’arte, consente di vedere nuda la vita. 

Se vale l’analisi di Uno, nessuno e centomila messa a punto finora, la strategia formulata nell’Umorismo, e in certo modo portata a compimento con il romanzo del 1926, sembra dunque quella di elaborare il lutto per la perdita della salvezza ultraterrena con una sorta di remissione laica della colpa davanti alla Legge, intesa quest’ultima, giusta la maiuscola, come l’intero testo della tradizione nel suo aspetto regolativo (che si tratti della Torah, del dogma cristiano o del nómos profano) che, una volta perduta la sua connessione con la salvezza e ormai secolarizzata e incorporata nell’individuo disciplinare, sopravvive in lui come colpa. In questo senso, la colpa «non si riferisce alla trasgressione, cioè alla determinazione del lecito e dell’illecito, ma alla pura vigenza della legge, al suo puro riferirsi a qualcosa» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, p. 32. Corsivo dell’a.). È questo il caso di una Legge che vige ma non significa, in cui il gesto più innocente si carica delle più estreme conseguenze: la potenza vuota della Legge è tale in quanto si esercita nei corpi e ai corpi di chi le è soggetto pertiene.

Per comprendere come la Legge cessi di essere tale «per indeterminarsi in ogni punto con la vita» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003, p. 82), si consideri il ruolo del giudice nel romanzo di Pirandello: egli è il rappresentante periferico di una serie di relazioni di potere di cui è parte lo stesso Vitangelo nel momento in cui si pone all’interno del regime confessionale che prevede il racconto dettagliato della sua vita e l’autobiografia che il protagonista gli restituisce si delinea dunque come una tecnologia attraverso la quale si attua il processo di soggettivazione che conduce Vitangelo a vincolarsi, da una parte, alla propria identità e alla propria coscienza formalizzate all’interno della pratica discorsiva della confessione e, dall’altra, a una forma di controllo esterna che rappresenta il modo in cui il potere penetra nel corpo stesso dei soggetti e delle loro forme di vita. E infatti, la Legge – incarnata qui nel rappresentante supremo della giustizia immanente – emette già in ospedale, prima ancora di istruire nella sede deputata il rito del processo, il suo verdetto di condanna: il giudice, racconta Vitangelo ancora convalescente, «restò lì, stordito, a guardarmi come si guarda un malato incurabile» (R, 897-898).

Vitangelo però è innocente e tuttavia subisce una condanna all’internamento anche se il giudice non sta decidendo del lecito e dell’illecito, perché la dichiarazione di Anna Rosa lo ha già scagionato dall’accusa di aggressione sessuale. Si considerino, ad esempio, le risate che circondano il protagonista del romanzo durante il processo; o l’abbigliamento di Vitangelo, vestito di un «berretto, gli zoccoli e un camiciotto turchino dell’ospizio» (R, 900), che nulla ha a che vedere con l’altro ospizio di mendicità della narrativa pirandelliana nel quale non vi sono divise e dal quale Serafino Gubbio può entrare e uscire a suo piacimento; [14] lo stesso Vitangelo, infine, si rivolge al giudice e al lettore con parole che denunciano l’accesso a una ratio altra rispetto a quella dei suoi ascoltatori.

[14] Del resto, ancora per gran parte del Novecento, e specie in Italia, è sulla coincidenza tra povertà e follia che pervicacemente troverà fondamento l’istituzione manicomiale nella quale saranno ospitate insieme l’indigenza e la follia in quanto portatrici di un’alterità radicale non integrabile nei meccanismi della produzione (si vedano Klaus Dörner, Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria, 1969 e, per il contesto italiano, Ferruccio Giacanelli, Appunti per una storia della psichiatria in Italia, 1975 e Valeria Babini, La storia della psichiatria italiana del Novecento: i primi venti anni, 2006). 

E, finalmente, la costruzione di una nuova identità che si rispecchia nell’ilarità generale e da essa trae la propria consistenza al punto da potersi sostituire all’identificazione nominale e al riconoscimento del sé attraverso lo specchio, diviene dunque il mezzo dell’assoluzione di Anna Rosa e, implicitamente, della condanna di Vitangelo all’interdizione.
Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.
Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse (R, 900-901. Mio il corsivo).

E in effetti nell’ospizio di mendicità (proprio come accade nello spazio manicomiale) [15]

[15] Tutti questi elementi, infatti, sono analizzati con precisione da Erving Goffman, Soggetti al tempo. Identità personale tra analisi filosofica e costruzione sociale, 1961, pp. 43-150).

in primo luogo egli sarà privato della possibilità di distinguersi dagli altri (attraverso un abbigliamento anonimo e spersonalizzante); in secondo luogo, gli sarà impedita l’interazione con gli altri al punto da ridurre le relazioni sociali all’immersione e all’identificazione con la natura, con l’albero, la nuvola e l’asino; egli si spoglierà inoltre del proprio passato rifiutando il nome che contrassegnava la vecchia identità, le proprietà personali che ne ratificavano lo statuto sociale e persino i ricordi che lo ancoravano al divenire della propria soggettività nel tempo (l’unico passato disponibile sarà, così, la storiografia individuale compresa nel romanzo) per cui, nelle ultime pagine, potrà limitarsi all’uso del presente indicativo per contrassegnare l’eterno presente privo di storia e di destino in cui si prepara a vivere; egli stesso si negherà, infine, ogni autonomia laddove afferma:

Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni (R, 901-902).

Nel situarlo in questa zona liminare della polis, la funzione del giudice non si è svolta dunque né all’interno di una categoria esclusivamente giuridica (poiché non esiste un reato che giustifichi la detenzione) né all’interno di una categoria esclusivamente politica, poiché la detenzione si fonda su di una presunzione di pericolosità sociale (la tentata violenza su Anna Rosa), che Anna Rosa smentisce nella sua deposizione. In questo senso, il ruolo del giudice si inscrive allora nella struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in sé attraverso la propria sospensione e che trova ragione presso le forme di controllo della sessualità studiate da Foucault per le quali al giudice, allo psichiatra, al direttore di coscienza è demandata la decisione sull’implicazione del vivente nella sfera del diritto. Intendo dire, cioè, che se Vitangelo, che non è colpevole di alcun delitto, è però divenuto un individuo potenzialmente pericoloso, il suo internamento è possibile solo in una relazione di eccezione, nel vuoto legislativo che si determina nel momento della sospensione dell’ordine giuridico (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003).

La relazione che si instaura fra il giudice e Vitangelo e fra Vitangelo e il corpo sociale si può dunque inscrivere nei termini del bando così come il concetto è stato descritto da Jean-Luc Nancy (L’imperativo categorico, 1983) secondo il quale «colui che è stato messo al bando non è, infatti, semplicemente posto al di fuori della legge e indifferente a questa, ma è abbandonato da essa, cioè esposto e rischiato nella soglia in cui vita e diritto, esterno e interno si confondono. Di lui non è letteralmente possibile dire se sia fuori o dentro l’ordinamento (per questo, in origine, «in bando, a bandono» significano in italiano tanto «alla mercé di» che «a proprio talento, liberamente» […])» (Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, p. 34). Così la comunità di Richieri, attraverso il giudice, mette al bando Vitangelo col riconoscimento della sua anormalità, ma la posta in gioco di questo riconoscimento è il disconoscimento della sua soggettività come parte integrante della comunità stessa alla quale egli appartiene: attraverso un’inclusione esclusiva, essa lo esclude da se stessa solo nel momento in cui lo include al proprio interno fornendolo di un’identità socialmente garantita. L’abbandono, in questo senso, non costituisce, ancora secondo Nancy, la citazione a comparire sotto una o l’altra disposizione di legge, ma la costrizione a comparire davanti alla Legge tutta intera, consegnato all’assoluto della Legge al di fuori (e al di dentro) di ogni giurisdizione.

L’adesione al ciclo naturale della vita, con l’istanza di rigenerazione che comporta e della quale è in cerca il protagonista, colloca Vitangelo fuori dalla relazione sociale quotidiana (che ha rifiutato nel corso del romanzo insieme alla vecchia identità) e lo situa in uno stato di natura che non è esterno alla legge degli uomini, ma ne contiene tutta la virtualità. Esso si disegna infatti come una soglia di indifferenza fra natura e cultura, fra la violenza del potere e la legge sociale. Nei termini di Benjamin, Vitangelo diviene così portatore del nesso tra violenza che precede il diritto e lo pone, e violenza che lo conserva, lo spazio che egli chiama della «nuda vita»:

Poiché il sangue è il simbolo della nuda vita. La dissoluzione della violenza giuridica risale quindi […] alla colpevolezza della nuda vita naturale, che affida il vivente, innocente e infelice, al castigo, che «espia» la sua colpa – e purga anche il colpevole, non però da una colpa, ma dal diritto sul vivente (Walter Benjamin, Sulla critica della violenza, 1921, p. 26).

La sua vita, infatti, subisce la doppia esclusione dal riconoscimento politico (in quanto la sua identità non è più socialmente integrabile) e da quello giuridico (in quanto si è posto fuori dal diritto nel momento in cui è stato giudicato malgrado l’inesistenza del reato) ed egli si riconosce come soggetto solo nel ciclo naturale e nell’intima simbiosi con la morte senza però appartenere ancora al mondo dei defunti. In questa zona liminare, nel limite, cioè, in cui si costituisce come soggetto nello spazio vuoto dello stato di natura, Vitangelo si riconosce finalmente come nuda vita, come soggetto politico incarnato in un corpo attraversato dalla meccanica del potere.

Poiché non è più un animale politico (ha rifiutato l’identità socialmente riconosciuta, ha rifiutato la comunità) e insieme non è ancora ridotto alla pura vita biologica (si propone di non ricordare, si propone di non pensare, ma ancora pensa e ricorda e la memoria del suo passato è il romanzo stesso) possiamo localizzare Vitangelo nella zona di indiscernibilità tra nomos e physis che non si identifica né nel bios politico né nella zoé naturale, ma nella «zona di indistinzione in cui, implicandosi l’un l’altro, essi si costituiscono a vicenda» (Giorgio Agamben, Homo sacer, 1995, p. 101): egli è nuda vita che abita la terra di nessuno tra la casa e la città.

La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridìo delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori (R, 902).

In questa prospettiva, dunque, le finestre dell’istituzione manicomiale delimitano una soglia extratemporale e extraterritoriale in cui il corpo umano è sciolto dal suo statuto politico normale e, in stato di eccezione, è abbandonato alle più estreme peripezie concesse dalla vita naturale.

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7. Pirandello fascista? Il campo come spazio politico del soggetto disciplinare

Il 19 settembre del 1924, a un anno dalla pubblicazione di Uno, nessuno e centomila sulla «Fiera Letteraria» e mentre ne sta presumibilmente terminando la redazione definitiva, Pirandello affida al giornale fascista «L’Impero» una copia della lettera con la quale chiede a Mussolini l’iscrizione al Pnf (SI, 1249). L’occasione, per la verità, è davvero la più propizia per Mussolini e per la gerarchia fascista che, in conseguenza del delitto Matteotti, scomparso nel giugno di quell’anno, e delle reazioni che in Parlamento e nel paese quel delitto aveva suscitato, stanno attraversando proprio in quei giorni l’unica vera crisi del nuovo regime dal momento del suo insediamento a Palazzo Chigi.

La preoccupazione di Mussolini, più che giustificata allora, consisteva soprattutto nella necessità di rafforzare la sua alleanza con le forze moderate e conservatrici che fino ad allora lo avevano più o meno apertamente sostenuto e che chiedevano ora a gran voce di chiudere la fase delle violenze indiscriminate delle squadracce e di aprire una nuova epoca di normalità politica e di pacificazione nazionale (si veda Giorgio Candeloro, Il fascismo e le sue guerre, 1981, pp. 68-101). La parola che più diffusamente circola in quei giorni, in una vasta area di simpatizzanti e fiancheggiatori che va dal padronato industriale e agrario alla piccola-borghesia impiegatizia, è «normalizzazione» e per Mussolini, che dalle opposizioni viene chiamato in causa come mandante dell’omicidio, l’appoggio di un intellettuale autorevole anche sul piano internazionale come Pirandello, se non è determinante, risulta comunque utile. Per quanto la critica si sia spesa fin da subito a indagare le ragioni del sostegno di Pirandello al regime giustificandole o condannandole, [16] le scelte politiche dello scrittore restano per noi oggi sostanzialmente insondabili.

[16] Segnalo, tra le tante indicazioni possibili, la posizione benevola di Giudice disposto a vedere in quell’opzione la necessità di un riconoscimento pubblico (Gaspare Giudice, Luigi Pirandello, 1963, p. 420) e quella di Venè che tenta di avvalorare la tesi di un Pirandello fascista ante litteram secondo una lettura sociologica della sua opera (Gian Franco Venè, Pirandello fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione, 1981).

Quello soltanto che ci rimane come un dato di fatto inaggirabile è la realtà della sua sottoscrizione, resa pubblica, oltretutto, in un momento che avrebbe sconsigliato qualunque presa di posizione a una personalità, come doveva essere quella di Pirandello, poco propensa alla polemica sulle cose dello Stato.

Eppure, è proprio la circostanza che vede coincidere la conclusione di Uno, nessuno e centomila, la promulgazione delle leggi fascistissime e l’avvicinamento di Pirandello al duce, che ci consente di comprendere meglio il senso del finale del romanzo alla luce delle considerazioni fatte fino ad ora. Se infatti prestiamo fede alle riflessioni di Agamben, non possiamo non riconoscere in questa fase politica del ventennio un esempio palese di sospensione del diritto o, meglio, la soglia stessa e il concetto-limite che definiscono lo stato di eccezione, sotto la pressione del quale la vita politico-costituzionale delle società occidentali comincia progressivamente ad assumere una forma nuova. In particolare, in questa prospettiva, il delitto Matteotti e la crisi che ne segue sono gli eventi che accelerano un processo che, con l’emanazione delle leggi del 1925-1926 emerse dall’esigenza di normalizzazione, esprimono al meglio le condizioni di sussistenza e di articolazione dello stato di eccezione.

Il paradosso su cui occorre fermare l’attenzione consiste proprio nella circostanza per cui la normalizzazione, intesa più propriamente come ritorno alla dimensione normativa dello stato di diritto secondo un processo per cui lo stato di eccezione diviene la regola e, appunto, si normalizza, comporta e provoca sì una sospensione o addirittura un annullamento della norma, ma solo perché sia possibile l’applicazione della norma stessa. Secondo Carl Schmitt, che dello stato di eccezione è stato certamente il teorico più rigoroso (Carl Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, 1921; Teologia politica, 1922), esso «separa, cioè, la norma dalla sua applicazione, per rendere quest’ultima possibile. Esso introduce nel diritto una zona di anomia, per rendere possibile la normazione effettiva del reale» (Giorgio Agamben, Stato di eccezione, 2003, p. 49).

Agamben, inoltre, ridiscutendo del concetto di stato di natura in Hobbes, non lo considera più come un’epoca reale che precede la civilizzazione, ma come un principio interno allo Stato nel momento in cui lo si considera «come se fosse dissolto» (Giorgio Agamben, Homo sacer, 1995, pp. 41-42; 117-123). Lo stato di natura non è quindi il caos che precede l’ordine, ma la situazione che risulta dalla sua sospensione, e cioè dallo stato di eccezione: «lo stato di natura è, in verità, uno stato di eccezione, in cui la città appare per un istante (che è, insieme, intervallo cronologico e attimo intemporale) tamquam dissoluta» (Ivi, p. 121). Stato di natura e stato di eccezione vanno considerate dunque come «due facce di un unico processo topologico in cui, come in un nastro di Moebius o in una bottiglia di Leida, ciò che era presupposto come esterno (lo stato di natura), ricompare ora all’interno […]. Lo stato di eccezione non è, cioè, tanto una sospensione spazio-temporale, quanto una figura topologica complessa, in cui non solo l’eccezione e la regola, ma anche lo stato di natura e il diritto, il fuori e il dentro transitano l’uno nell’altro» (Ivi, p. 44).

Lo stato di natura di Hobbes e di Rousseau coincide, in questa prospettiva, con lo stato di eccezione e non risulta dunque un momento compiuto una volta per tutte, ma è invece continuamente operante nello stato civile nella forma di un potere che si riferisce alla vita non in quanto vita naturale (zoé) o in quanto forma di vita socialmente qualificata (bios), ma in quanto zona di indifferenza e di transito tra l’una e l’altra, tra la belva e l’uomo, tra la natura e la cultura nello spazio della nuda vita. Essa è, come tale, la vita esposta a una violenza senza precedenti, sulla presa della quale si esercita il potere totalitario, che Agamben considera l’estrema conseguenza del potere disciplinare e il paradigma di governo della modernità.

Il fascismo e il nazionalsocialismo rappresentano, così, la conseguenza estrema del discorso di Foucault e l’esito ultimo della configurazione disciplinare del potere. Il medico e lo scienziato, in questa prospettiva, investendo i corpi di un meccanismo di potere che li penetra come nuda vita, si muovono sul terreno battuto tradizionalmente dalla sola sovranità (Ivi, 135). Vi è dunque un intimo legame tra il potere disciplinare che interviene sui corpi individuali assoggettandoli nello Stato-nazione moderno e il Reich nazionalsocialista che segna il momento in cui l’integrazione fra medicina e politica comincia ad assumere la sua forma compiuta.

Qui il medico e il sovrano sembrano scambiarsi le parti, la loro funzione si svolge in una relazione di interdipendenza garantita dallo stato di eccezione che è diventato la regola e nel quale il dato biologico è, come tale, immediatamente politico. L’assetto spaziale permanente che si apre alla nuda vita costantemente al di fuori dell’ordinamento normale è precisamente quello del campo di concentramento, esterno all’ordinamento giuridico ma in esso incluso in quanto sospensione della norma che la garantisce. Nel campo il dato di fatto (la sua istituzione al di fuori della legge) transita nel diritto (la sua giustificazione giuridica) e viceversa, e la posta in gioco della sua esistenza è la presa su un corpo ridotto a nuda vita, né animale né umano, bandito dalla vita, ma non ancora morto.

L’orizzonte di possibilità che si apre a Vitangelo nello spazio dell’istituzione totale, in quanto soglia di indifferenza tra anomia e diritto, si delinea dunque nei contorni di un paesaggio in cui la massima soggezione della vita al diritto si rovescia nella massima libertà (non essere più uno, ma diventare nessuno, per essere centomila) nella connessione fra anomia e normazione. [17]

[17] Si ricordi, ad esempio, quanto sostiene Arendt a proposito dello Stato totalitario entro il quale «tutto è possibile» (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, 1966, p. 439 ss.).

Ciò che Pirandello non comprende nel vortice dell’entusiasmo per l’ascesa del fascismo è che le estreme conseguenze della riduzione a nuda vita non si esprimono nel carnevale dell’anomia, ma nell’oppressione del campo. Inconsapevolmente, dunque, la vita nuda di Vitangelo assume per noi la fisionomia della nuda vita dello Häftling nel campo di concentramento:

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che sia così (Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947, p. 23).

Sono numerosi i riscontri testuali che mettono in relazione stretta il prigioniero di Auschwitz e il destino scelto volontariamente da Vitangelo come promessa di serenità. Ma non basta a giustificare questa relazione la circostanza per cui la realtà del campo, associata com’è allo stato di eccezione, precedesse quella nazionalsocialista che ancora oggi desta in noi più scandalo. [18]

[18] Si veda in proposito Agamben (Homo sacer, 1995, pp. 185-186) quando stabilisce una connessione tra stato di eccezione e regime coloniale. Si pensi, per l’Italia, al triste primato del campo di Nocra, vicino Massaua, durato ininterrottamente per cinquantaquattro anni, dal 1887 al 1941 (Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, 2005, 73-87). Lo stesso Primo Levi, del resto, aveva precocemente messo in relazione l’oppressione del lager e quella coloniale (Se questo è un uomo, 1947, p. 83).

Sia perché è verosimile che Pirandello non ne fosse a conoscenza e non potesse avere sentore della possibile violenza perpetrata in questi termini dall’uomo sull’uomo. Sia perché è meno importante per noi che la nuda vita di Vitangelo e quella sottoposta alla disciplina concentrazionaria siano fondate su di una relazione di interdipendenza per cui la seconda giustifica e spiega la prima in base alla realtà della intentio auctoris***.

*** Che il significato di un’opera sia esattamente quello che l’autore ha inteso attribuirle.

L’interesse della posizione di Agamben che stiamo qui utilizzando per leggere la conclusione del romanzo di Pirandello consiste invece proprio nell’ipotesi dello stato di eccezione come paradigma del moderno e dello spazio del campo come esito necessario del processo di incarnazione del potere disciplinare. [19]

[19] Per comprendere come il senso concreto dell’ipotesi di Agamben si incroci con la nostra quotidianità si consideri come la dimensione del campo attraversi l’intero corpo della politica occidentale. Dai campi profughi palestinesi all’orrore non ancora rivelato di Guantanamo, dalle decretazioni di emergenza del Decennio rosso alla caserma di Bolzaneto, dalle carceri di Abu Grahib ai più domestici Cpt, la nuda vita appare oggi davvero come paradigma politico diffuso e si incarna nel corpo del prigioniero, del profugo, del rifugiato, del migrante. In questo elenco vanno annoverati però, allo stesso titolo, i vecchi, ma anche e soprattutto i nuovi manicomi che, pur ripuliti e caricati di paternalismo, nascondono dietro più edulcorate forme di detenzione la violenza perpetrata sulla vita ridotta alla sua essenza naturale nello stato di eccezione.

Ciò comporta di portare alle estreme conseguenze la disciplina giuridico-psichiatrica cui Vitangelo Moscarda è sottoposto e che si esprime nel racconto della sua vicenda e si compie dunque nello stato di eccezione istituito dal regime fascista cui aderisce Pirandello, che vi inscrive una soggettività possibile prefigurandone gli esiti politici. L’impossibilità di un destino, bloccato quest’ultimo dal suo posizionamento fuori dal tempo storico, fonda la possibilità storiografica di Vitangelo, che «non conclude» perché sopravvive nello spazio della memoria, costretto circolarmente a ricominciare la narrazione della propria storia per aggirare l’horror vacui della nuda vita, «l’orrore di qualche cosa che da un momento all’altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri» (R, 844). Per vincere sulle condizioni che lo istituiscono, il suo discorso finisce per avvolgersi su se stesso in una vana ripetizione («rinasco nuovo e senza ricordi») priva di pensiero («impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare») che consegue all’uscita del personaggio dalla diegesi per farsi regista del proprio essere-stato-attore ora che non è più, definitivamente, in grado di agire.

Ha certamente una sua ragion d’essere l’ipotesi formulata da coloro che hanno visto, nel bisogno di Pirandello di ancorarsi a un saldo punto di riferimento politico, la reazione naturale di chi sta diagnosticando la labilità dell’io e l’esposizione della civiltà al rischio della decomposizione e della degenerazione paventata da Nordau. La disgregazione dei singoli io, in questo caso, non più sottoposta al controllo di un io egemone individuale, trova all’esterno un omologo nello Stato (si pensi, nel caso, al pensiero di Giovanni Gentile) e nel suo rappresentante supremo, nel meneur des foules, nel capo carismatico in grado di dare forma all’informe, di scolpire personalità sane, giovani, virtuose che alla frantumazione e al decentramento soggettivo reagiscono con la creazione di un soggetto integro e «centrato» (si veda Remo Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, 2004, pp. 220-248).

Vi è insomma un’intima connessione fra l’agire di Vitangelo e la formalizzazione filosofica del soggetto e dello Stato prodotta dalla declinazione gentiliana dell’idealismo crociano e dal supporto che essa offre sul piano teoretico al fascismo, dal momento che «non più rinchiuso entro il carcere dell’interiorità, ciascuno può ora, finalmente, abbandonarsi al flusso degli eventi, avvertendone, sotto la guida altrui, la mobile apertura al nuovo» (Ivi, p. 240). L’ansia di una liberazione, per quanto illusoria e destinata alla disfatta, si presenterebbe, dunque, certamente come un orizzonte aperto alle possibilità offerte dalla coincidenza con la vita mentre accade. Ma si può forse pretendere di più da un romanzo che ancora oggi interroga il nostro presente sul destino del soggetto che lo abita. La percezione visionaria di Vitangelo Moscarda allora ci aprirà davanti un paesaggio politico possibile, esito tragico delle categorie del moderno e opzione drammatica per la sfera pubblica contemporanea che trova la sua ragione e il suo compimento nello spazio del campo. In questo senso, le parole di Gengè «non concludono» e ottengono consistenza «fuori d’ogni legge sociale e dentro la folle legge della natura» (Giancarlo Mazzacurati, Introduzione a Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila , 1994, p. 166), entro lo spazio in cui l’individuo disciplinare ottiene la sua ragione d’essere nello stato di eccezione che è diventato la regola, poiché sottrae al soggetto la fisionomia di una forma di vita.

Antonio Schiavulli
Dicembre 2008

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