Romolo – Audio lettura

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Legge Gaetano Marino
«Non è mica vero che gli uomini si mettono insieme per darsi conforto e ajuto a vicenda. Insieme si mettono per farsi la guerra. Quando una casa sorge in un punto, l’altra casa non le si mette mica accanto come una compagna o una buona sorella»

Prime pubblicazioni: E domani, lunedì, Treves, Milano 1917, già composta probabilmente nel 1915.

Romolo
Gaetano Bocchetti (1888-1990), Strada di campagna con casolari.

Romolo

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Nelle società così dette civili, o dette anche storiche, la leggenda – si sa – non può più nascere. Potrebbe nascere e spesso anche nasce, ma umile, e striscia timida, tra il popolino: lumachella che ha gli occhi nelle corna e subito li ritira tra il bollichio della vana bava, appena col dito rigido e sporco d’inchiostro un professore di storia glieli tocchi.

             Crede, il professore di storia, che in quel suo dito rigido e sporco d’inchiostro sia la santa verità, e che sia un bene far ritirare le corna alla lumachella. Disgraziato! E più disgraziati i posteri che avranno minuto per minuto documentati i fatti degli avi e dei padri, che forse, abbandonati alla memoria e all’immaginazione, a poco a poco, come ogni cosa lontana, s’inazzurrerebbero di qualche poesia.

             Storia, storia. Finiamola con la poesia.

             Ecco qua, senza lupa, senza il fratello Remo, senza volo d’avvoltoj, Romolo, come ce lo fanno conoscere gli storici; come l’ho conosciuto io, jeri, vivo.

             Romolo: un fondatore di città.

             E dire che, a guardarlo bene negli occhi di lupo, peccato! si poteva credere benissimo che davvero una lupa lo avesse allattato, bambino, circa novanta anni fa. Il suo Remo di fronte, rivale, quantunque non fratello, lo aveva avuto davvero. Non l’aveva ucciso, solo perché Remo aveva pensato lui di morire prima, a tempo, da sé. Ma non andate ora a cercare nelle carte geografiche la città fondata da questo Romolo. Non la trovereste. La troveranno i posteri di sicuro, di qui a tre o quattrocent’anni, e anche segnata vi so dire con uno di quei cerchietti che indicano le città capoluogo di provincia e il suo bravo nome accanto: Riparo, che ciascuno dentro ci potrà immaginare le belle cose che vi saranno, vie, piazze, palazzi, chiese, monumenti, col signor prefetto e la signora prefettessa, se dureranno ancora questi saggi ordinamenti sociali e se un terremoto prima (con l’ajuto di Dio che castiga le ambizioni degli uomini) non l’avrà fatta crollare dalle fondamenta; ma speriamo di no.

             Per ora, è più che un casale; di già una bella borgata, con presto due chiesine.

             Una è questa qua. Stalla un tempo, per consiglio di Romolo adattata a chiesina; con un solo altarino dentro, di vecchio legno ingrassato al tanfo caldo del letame, e una stampa del sacro cuore di Gesù attaccata al muro coi chiodini; alla meglio, si sa, ma che importa? Gesù ce la respira davvero, qui dentro, la sua natività.

             Da miglia e miglia lontano, ogni domenica, ci viene con la mula un prete a dir messa, tutto sudato e impolverato, d’estate; intabarrato fino agli occhi e con l’ombrellone di seta verde, d’inverno, come nelle oleografie. La mula, legata per la cavezza all’anello accanto alla porta, aspetta, sbuffando e scalciando per le mosche culaje. Ecco qua in terra il segno delle scalciature. Povera bestia, non lo sa che è ufficio divino. Le pare una gran seccatura e mill’anni che finisca.

             L’altra, la nuova, sarà presto terminata e sarà una vera galanteria, col campanile e tutto, tre altarini e il pulpito e la sagrestia; tutto insomma; chiesa, per davvero, levata di pianta per chiesa, con un tanto a testa di tutti i borghigiani.

             Ora, quando qui sarà città, nessuno dei tanti figli di essa saprà di questo Romolo primo loro padre; come, perché sia nata la città; perché qui e non altrove. Su la terra, in un luogo, non si riesce più a vedere questa terra e questo luogo com’erano prima che la città vi sorgesse. Cancellare la vita è difficile, quando la vita in un luogo si sia espressa e imposta con tanto ingombro di pesanti aspetti: case, vie, piazze, chiese.

             C’era il deserto, un beato deserto, qua. Uomini che come un nastro svolgevano la vita da lontano lontano, passarono allungando il nastro per questo deserto. Uno stradone. E carri cominciarono a poco a poco a passare, nella solitudine, per questo stradone, e qualche uomo a cavallo, armato, che volgeva attorno gli occhi guardinghi, dallo sgomento che si scoprisse per la prima volta a lui solo la vista di tanta solitudine così lontana e ignota a tutti. Silenzio intorno e aperto, sotto la vastità cupa del cielo.

             Quando, di qui a quattrocent’anni, campanelli di tram elettrici, trombe d’automobili squilleranno, streperanno tra la confusione delle vie affollate, illuminate da lampade ad arco, con luccichii e sbarbagli di vetri, di specchi negli sporti, nelle vetrine delle ricche botteghe, chi penserà a una lampada sola, in cielo, la Luna, che nel silenzio e nella solitudine, guardava dall’alto il nastro bianco dello stradone in mezzo al deserto sterminato, e ai grilli e alle raganelle che qui scampanellavano soli? Chi penserà tra le chiacchiere vane nei caffè alle cicale che qui arrabbiate tra le stoppie segate segavano la vasta e ferma afa nell’abbagliamento delle eterne giornate estive?

             Carri, uomini a cavallo, qualcuno raro a piedi, passavano e tutti sentivano di quella solitudine uno sgomento che a mano a mano diveniva oppressione intollerabile. Che era per essi quello stradone? Lunghezza di cammino; via da fare. Chi poteva pensare di fermarcisi?

             Un uomo. Questo vecchio qua. Allora sui trent’anni, andando un giorno d’estate appresso ai pensieri che lo traevano fuori del consorzio degli altri uomini a cercare nella solitudine la sua ventura, ebbe il coraggio di fermare in mezzo a questo stradone l’ombra del suo corpo. Sentì forse che in quel punto tanti come lui, passando, avevano, avrebbero sentito il bisogno d’un poco di riposo, d’un poco di conforto e d’ajuto. E disse qua.

             Si guardò attorno a osservare ciò che prima aveva soltanto guardato con l’occhio distratto di chi passa e non pensa di fermarsi; guardò col senso della sua presenza, non per un solo momento qua, ma stabile; e si provò a respirare l’aria allora deserta, a vedere intorno le cose, come quelle che dovevano essere la sua aria e la sua vista di tutti i giorni. E col coraggio che gli sorgeva dentro per distendersi e imporsi attorno comparò la tristezza infinita di quella solitudine, se il suo coraggio avrebbe saputo resisterle e durarvi, quando – non ora – d’inverno, col cielo aggrondato e il freddo, nell’eterne giornate di pioggia, si sarebbe fatta più squallida e paurosa.

             Parla per apologhi il vecchio; e narra che da ragazzo aveva una sorellina malatuccia e disappetente, che faceva tanto penar la madre per contentarla.

             Ora un giorno, mentr’egli giocava per istrada coi compagni a un gioco furioso, la madre, che se ne stava seduta allo scalino davanti la porta, lo chiamò perché piano piano, con un sorsellino cauto si sorbisse da un uovo, ch’ella teneva in mano, la chiara soltanto, non ben cotta, la chiara soltanto, di cui la sorellina malatuccia e disappetente aveva schifo.

             Ebbene, con quel sorsellino che avrebbe dovuto scoronar l’uovo appena appena, egli, nella furia del gioco interrotto, senza farlo apposta, s’era tirato dentro tutto l’uovo, chiara e torlo, tutto quanto, lasciando con tanto d’occhi sbarrati per la sorpresa e il guscio in mano, vuoto, la madre e la sorellina.

             Lo stesso ora qua, per lo stradone.

             Quando disse «qua», non aveva certo in mente questa borgata d’oggi, la città di domani. Pensava che sarebbe restato sempre lui solo a offrire ajuto a tutti quelli che sarebbero passati di là. Ma dentro quel suo primo respiro, tratto in mezzo allo stradone, non c’era soltanto aria per un solo tetto di paglia; c’era dentro l’aria per tutta questa borgata d’oggi, per la città di domani. E tanto era stato il suo coraggio nel levare quel primo tetto di paglia, che altri per forza dovevano sentirsene attirati.

             Quando però una necessità non pensata si para davanti a una illusione, questa necessità ci sembra un tradimento.

             Ecco qua: dopo che lui, sfidando gli orrori della solitudine, per mesi e mesi solo, era riuscito a far fermare davanti a quel suo tetto di paglia i carri che passavano, e poi, levata a poco a poco la casetta di pietra e fatta venir la moglie coi figliuoli, era riuscito a far sedere sotto la pergola i carrettieri a bere il vino, di cui una bottiglina di saggio pendeva appesa con una frasca d’insegna alla porta, e a mangiare in rozze scodelle campestri i cibi cucinati dalla moglie, mentr’egli attendeva a riparare una ruota o una molla a qualche carro o a ferrar la mula o il cavallo; un altro era venuto su lo stradone, un po’ più in giù, a levar contro alla sua casa un’altra casa.

             Perché un paese (ora il vecchio lo sa bene e lo può dire per esperienza) un paese nasce così.

             Non è mica vero che gli uomini si mettono insieme per darsi conforto e ajuto a vicenda. Insieme si mettono per farsi la guerra. Quando una casa sorge in un punto, l’altra casa non le si mette mica accanto come una compagna o una buona sorella; di fronte le si mette, come una nemica, a toglierle la vista e il respiro.

             Egli non aveva il diritto d’impedire che un’altra casa gli sorgesse di fronte. La terra su cui sorgeva, non era sua. Ma questa terra prima era un deserto. Che vita aveva? La vita gliel’aveva data lui. E l’usurpazione e la frode che quell’altro era venuto a commettere, non era della terra, ma della vita che egli a questa terra aveva dato.

             «Qua non è tuo!», poteva soltanto dirgli quell’altro.

             «Sì. Ma che era qua prima per te?», poteva gridargli lui. «E ci saresti tu venuto, se prima non ci fossi venuto io? Qua non c’era nulla; e tu vieni adesso a rubarmi quello che ci ho messo io!»

             Troppo, però, veramente – doveva riconoscerlo – troppo ci aveva messo per uno solo.

             Tutti i carri che passavano, spesso in lunga fila, si fermavano là, ora, per una sosta abituale. La moglie non riparava a servir tutti e non si reggeva più in piedi dalla fatica; anch’egli, quelle due braccia sole che Dio gli aveva date, non se le sentiva più, la sera, dalla stanchezza. C’era dunque posto e lavoro non solo per un altro, ma anche forse per tre o quattro altri.

             Il vecchio ora dice che l’avrebbe preferito. Tre o quattro altri insieme sarebbero stati compagni, e si sarebbero diviso il lavoro; e sua moglie forse, allora, non sarebbe morta di fatica. Ma quell’uno fu per forza nemico, un nemico da respingere, anche col coltello in pugno, dalla vita che egli aveva fatto nascere su quello stradone, e ch’era sua. Di fronte a tre o quattro altri insieme, egli avrebbe cercato e stabilito un accordo; e certo sarebbe stato da essi riconosciuto e rispettato come il primo e come il capo. Da quell’uno dovette invece accanitamente difendersi la vita, da non lasciargliene prendere nulla o quel poco soltanto che alle sue braccia non riusciva più di contenere. Ma l’effetto fu questo: che gli morì la moglie dalla troppa fatica.

             – Dio! – dice il vecchio, adesso, alzando una mano con l’indice teso.

             E lascia nell’ombra i casi e gli eventi passati, di cui riconosce in Dio la causa, e dunque l’obbligo per gli uomini d’accettarli con obbedienza e rassegnazione, per quanto dolorosi e crudeli possano parere. I casi passano e vanità è ricordarli di fronte a questa certezza: che la giustizia di Dio trionfa sempre.

             Romolo non può parlare altrimenti. Deve riconoscere, Romolo, che fu giustizia di Dio la morte della moglie: che Dio, cioè, con questa morte lo volle punire del suo voler troppo. Perché alla fine il trionfo della giustizia divina Romolo deve additarlo in lui, che – morto Remo – ne sposò in seconde nozze la moglie. E perché morì Remo? Ma anche lui per punizione di Dio, per una gran paura che Dio gli mise addosso; morì perché comprese che l’uomo, a cui egli era venuto a mettersi contro ora, stroncato dalla morte della moglie, avrebbe certo rovesciato su lui il furore della sua disperazione.

             Poteva Dio permettere che una sua punizione diventasse soverchia e dunque ingiusta, lasciando che quell’altro profittasse di quanto ora a lui era venuto a mancare con la morte della moglie? La punizione, ch’era dolore per lui, doveva essere paura per quell’altro; e tanta fu, che ne morì. Romolo non dice altro.

             Soggiunge però, che allora, nelle due case di contro, popolate tutte e due di figliuoli, a cui finora non era stato mai concesso d’accostarsi gli uni agli altri per mettere insieme i loro giuochi; nelle due case di contro restarono, qua un uomo senza donna, là una donna senza uomo. E l’uno vestito di nero vide l’altra vestita di nero; e nel cuore dell’uno e dell’altra ecco che Dio allora fece sbocciare la carità, un reciproco bisogno d’ajuto e di conforto.

             E la prima guerra finì.

             Romolo tentenna il capo e sorride.

             Vede in mente come, dopo le prime due, nacquero le altre case di questa borgata, quando i figliuoli da una parte e dall’altra crebbero, e alcuni fecero nozze tra loro e altri portarono da lontano chi la moglie, chi il marito.

             Ah, una di qua, una di là, quelle case! Non propriamente nemiche. No. Scontrose. Le spalle non se le voltavano; ma l’una s’era messa un po’ di fianco e l’altra un po’ di traverso, come se tra loro non volessero vedersi in faccia.

             Finché, con l’andare degli anni, tra questa e quella una terza non sorse in mezzo, come paciera, a riunirle.

             – Per questo, – dice Romolo, – le strade antiche dei piccoli paesi sono tutte storte, che ogni casa vi scantona.

             Per questo, sì. Ma poi viene, o Romolo, la civiltà coi piani regolatori, che obbligano le case a stare in riga.

             – La guerra allineata, – tu dici.

             Sì; ma civiltà vuol dire appunto il riconoscimento di questo fatto: che l’uomo, tra tanti altri istinti che lo portano a farsi guerra, ha anche quello che si chiama istinto gregario, per cui non vive se non coi suoi simili.

             – E or dunque vedi da questo, – tu concludi, – se l’uomo può mai essere felice!

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