Questa sera si recita a soggetto – Avvertenza

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Questa sera si recita a soggetto - Avvertenza
Scuola del Teatro Musicale, Questa sera si recita a soggetto, 2017. Immagine dal Web.

1930
Questa sera si recita a soggetto
Avvertenza

       L’annunzio di questa commedia, così nei giornali, come nei manifesti, dev’essere dato, senza il nome dell’autore, così:

TEATRO N. N.
QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO
sotto la direzione del DOTTOR HINKFUSS

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

col concorso del pubblico che gentilmente si presterà

e delle Signore

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

e dei Signori

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

       Dove sono i puntini, i nomi delle Attrici e degli Attori principali. Non è poco: ma basterà così.

       La sala del teatro è piena questa sera di quegli speciali spettatori che sogliono assistere alla prima rappresentazione di ogni commedia nuova.

       L’annunzio, nei giornali e nei manifesti, d’un insolito spettacolo di recita a soggetto ha fatto nascere in tutti una grande curiosità. Solo i signori critici drammatici dei giornali della città non ne danno a vedere, perché credono di poter dire domani facilmente che pasticcio sarà. (Dio mio, su per giù qualche cosa come la vecchia commedia dell’arte: ma dove son oggi gli attori capaci di recitare a soggetto, come al loro tempo quei comici indiavolati della commedia dell’arte, ai quali del resto e gli antichi canovacci e la maschera tradizionale e i repertorii facilitavano il compito, e non di poco?) C’è in essi piuttosto una certa stizza perché non si legge nei manifesti, né si sa d’altronde, il nome dello scrittore che avrà pur dato agli attori di questa sera e al loro direttore un qualsiasi scenario: privati d’ogni indicazione che li possa comodamente riportare a un giudizio già dato, temono di cadere in qualche contraddizione.

       Puntualmente, all’ora indicata per la rappresentazione, i lumi della sala si spengono e si accende bassa la ribalta sul palcoscenico.

              Il pubblico, nell’improvvisa penombra, si fa dapprima attento; poi, non udendo il gong che di solito annunzia l’aprirsi del sipario, comincia ad agitarsi un po’; e tanto più, allorché dal palcoscenico, attraverso il sipario chiuso, gli giungono voci confuse e concitate, come di proteste di attori e di riprensioni da parte di qualcuno che voglia imporsi per troncare quelle proteste.

       UN SIGNORE DELLA PLATEA: (si guarda in giro e domanda forte)  Che avviene?

       UN ALTRO DELLA GALLERIA: Si direbbe una lite sul palcoscenico.

       UN TERZO DELLE POLTRONE: Forse farà parte dello spettacolo.

       Qualcuno ride.

       UN SIGNORE ANZIANO, DA UN PALCO: (come se quei rumori fossero un’offesa alla sua serietà di spettatore molto per la quale) Ma che scandalo è questo? Quando mai s’è sentita una cosa simile?

       UNA VECCHIA SIGNORA: (balzando dalla sua sedia di platea, nelle ultime file, con una faccia di gallina spaventata) Non sarà mica un incendio, Dio liberi?

       IL MARITO: (sùbito trattenendola) Sei pazza? Che incendio?

       Siedi e stai tranquilla.

       UN GIOVANE SPETTATORE VICINO: (con un malinconico sorriso di compatimento) Non lo dica nemmeno per ischerzo! Avrebbero abbassato il sipario di sicurezza, signora mia.

       Suona finalmente il gong sul palcoscenico.

       ALCUNI NELLA SALA: Ah, ecco! ecco!

       ALTRI: Silenzio! Silenzio!

       Ma il sipario non s’apre. S’ode, invece, di nuovo il gong; a cui risponde dal fondo della sala la voce bizzosa del direttore Dottor Hinkfuss che ha aperto con violenza la porta d’ingresso e s’avanza iroso per il corridojo che divide nel mezzo in due ali le file della platea e delle poltrone.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Ma che gong! Ma che gong! Chi ha ordinato di sonare il gong? Lo comanderò io, il gong, quando sarà tempo!

       Queste parole saranno gridate dal Dottor Hinkfuss mentre attraversa il corridojo e sale i tre gradini per cui dalla sala si può accedere al palcoscenico. Ora egli si volta al pubblico, contenendo con ammirevole prontezza il fremito dei nervi.

       In frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio, il Dottor Hinkfuss ha la terribilissima e ingiustissima condanna d’essere un omarino alto poco più d’un braccio. Ma se ne vendica portando un testone di capelli così. Si guarda prima le manine che forse incutono ribrezzo anche a lui, da quanto sono gracili e con certi ditini pallidi e pelosi come bruchi: poi dice senza dar molto peso alle parole:

       Sono dolente del momentaneo disordine che il pubblico ha potuto avvertire dietro il sipario prima della rappresentazione, e ne chiedo scusa; benché forse, a volerlo prendere e considerare quale prologo involontario –

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: (interrompendo, contentissimo) Ah, ecco! L’ho detto io!

       IL DOTTOR HINKFUSS: (con fredda durezza) Che ha da osservare il signore?

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: Nulla. Sono contento d’averlo indovinato.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Indovinato che cosa?

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: Che quei rumori facevano parte dello spettacolo.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Ah sì? Davvero? Le è parso che siano stati fatti per trucco? Proprio questa sera che mi son proposto di giocare a carte scoperte! Si disilluda, caro signore. Ho detto prologo involontario e aggiungo non del tutto improprio, forse, all’insolito spettacolo a cui or ora assisterete. La prego di non interrompermi. Ecco qua, Signore e Signori.

       Cava da sotto il braccio il rotoletto.

       Ho in questo rotoletto di poche pagine tutto quello che mi serve. Quasi niente. Una novelletta, o poco più, appena appena qua e là dialogata da uno scrittore a voi non ignoto.

       ALCUNI, NELLA SALA: Il nome! Il nome!

       UNO, DALLA GALLERIA: Chi è?

       IL DOTTOR HINKFUSS: Prego, signori, prego. Non mi sono mica inteso di chiamare il pubblico a comizio. Voglio sì rispondere di quello che ho fatto; ma non posso ammettere che me ne domandiate conto durante la rappresentazione.

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: Non è ancora cominciata.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Sissignore, è cominciata. E chi meno ha diritto di non crederlo è proprio lei che ha preso quei rumori in principio come inizio dello spettacolo. La rappresentazione è cominciata, se io sono qua davanti a voi.

       IL SIGNORE ANZIANO, DAL PALCO: (congestionato) Io credevo per chiederci scusa dello scandalo inaudito di quei rumori. Del resto le faccio sapere che non sono venuto per ascoltare da lei una conferenza.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Ma che conferenza! Perché osa credere e gridare così forte ch’io sia qua per farle ascoltare una conferenza?

       Il Signore Anziano, molto indignato di quest’apostrofe, scatta in piedi ed esce bofonchiando dal palco.

       Oh, se ne può pure andare, sa? Nessuno la trattiene. Io sono qua, signori, soltanto per prepararvi a quanto d’insolito assisterete questa sera. Credo di meritarmi la vostra attenzione. Volete sapere chi è l’autore della novelletta? Potrei anche dirvelo.

       ALCUNI, NELLA SALA: Ma sì, lo dica! lo dica!

       IL DOTTOR HINKFUSS: Ecco, lo dico: Pirandello.

       ESCLAMAZIONI, NELLA SALA: Uhhh…

       QUELLO DELLA GALLERIA: (forte, dominando le esclamazioni) E chi è?

       Molti, nelle poltrone, nei palchi e in platea, ridono.

       IL DOTTOR HINKFUSS: (ridendo un poco anche lui) Sempre quello stesso, sì; incorreggibilmente! Però, se già l’ha fatta due volte a due miei colleghi, mandando all’uno, una prima volta, sei personaggi sperduti, in cerca d’autore, che misero la rivoluzione sul palcoscenico e fecero perdere la testa a tutti; e presentando un’altra volta con inganno una commedia a chiave, per cui l’altro mio collega si vide mandare a monte lo spettacolo da tutto il pubblico sollevato; questa volta non c’è pericolo che la faccia anche a me. Stiano tranquilli. L’ho eliminato. Il suo nome non figura nemmeno sui manifesti, anche perché sarebbe stato ingiusto da parte mia farlo responsabile, sia pure per poco, dello spettacolo di questa sera.
L’unico responsabile sono io.
Ho preso una sua novella, come avrei potuto prendere quella d’un altro. Ho preferito una sua, perché tra tutti gli scrittori di teatro è forse il solo che abbia mostrato di comprendere che l’opera dello scrittore è finita nel punto stesso ch’egli ha finito di scriverne l’ultima parola. Risponderà di questa sua opera al pubblico dei lettori e alla critica letteraria. Non può né deve risponderne al pubblico degli spettatori e ai signori critici drammatici, che giudicano sedendo in teatro.

       VOCI, NELLA SALA: Ah no? Oh bella!

       IL DOTTOR HINKFUSS: No, signori. Perché in teatro l’opera dello scrittore non c’è più.

       QUELLO DELLA GALLERIA: E che c’è allora?

       IL DOTTOR HINKFUSS: La creazione scenica che n’avrò fatta io, e che è soltanto mia.
Torno a pregare il pubblico di non interrompermi. E avverto (giacché ho visto qualcuno dei signori critici sorridere) che questa è la mia convinzione. Padronissimi di non rispettarla e di seguitare a prenderla ingiustamente con lo scrittore, il quale però, concederanno, avrà pur diritto di sorridere delle loro critiche, come loro adesso della mia convinzione: nel caso, s’intende, che le critiche saranno sfavorevoli; perché, nel caso opposto, sarà ingiusto invece lo scrittore prendendosi le lodi che spettano a me. La mia convinzione è fondata su solide ragioni. L’opera dello scrittore, eccola qua.

       Mostra il rotoletto di carta.

       Che ne fo io? La prendo a materia della mia creazione scenica e me ne servo, come mi servo della bravura degli attori scelti a rappresentar le parti secondo l’interpretazione che io n’avrò fatta; e degli scenografi a cui ordino di dipingere o architettar le scene; e degli apparatori che le mettono su; e degli elettricisti che le illuminano; tutti, secondo gli insegnamenti, i suggerimenti, le indicazioni che avrò dato io.
In un altro teatro, con altri attori e altre scene, con altre disposizioni e altre luci, m’ammetterete che la creazione scenica sarà certamente un’altra. E non vi par dimostrato con questo che ciò che a teatro si giudica non è mai l’opera dello scrittore (unica nel suo testo), ma questa o quella creazione scenica che se n’è fatta, l’una diversa dall’altra; tante, mentre quella è una? Per giudicare il testo, bisognerebbe conoscerlo; e a teatro non si può, attraverso un’interpretazione che, fatta da certi attori, sarà una e, fatta da certi altri, sarà per forza un’altra. L’unica sarebbe se l’opera potesse rappresentarsi da sé, non più con gli attori, ma coi suoi stessi personaggi che, per prodigio, assumessero corpo e voce. In tal caso sì, direttamente potrebbe essere giudicata a teatro. Ma è mai possibile un tal prodigio? Nessuno l’ha mai visto finora. E allora, o signori, c’è quello che con più o meno impegno s’ingegna di compiere ogni sera, coi suoi attori, il Direttore di scena. L’unico possibile.
Per levare a quello ch’io dico ogni aria di paradosso, v’invito a considerare che un’opera d’arte è fissata per sempre in una forma immutabile che rappresenta la liberazione del poeta dal suo travaglio creativo: la perfetta quiete raggiunta dopo tutte le agitazioni di questo travaglio. Bene.
Vi pare, signori, che possa più essere vita dove non si muove più nulla? dove tutto riposa in una perfetta quiete? La vita deve obbedire a due necessità che, per essere opposte tra loro, non le consentono né di consistere durevolmente né di muoversi sempre. Se la vita si movesse sempre, non consisterebbe mai: se consistesse per sempre, non si moverebbe più. E la vita bisogna che consista e si muova.
Il poeta s’illude quando crede d’aver trovato la liberazione e raggiunto la quiete fissando per sempre in una forma immutabile la sua opera d’arte. Ha soltanto finito di vivere questa sua opera. La liberazione e la quiete non si hanno se non a costo di finire di vivere.
E quanti le han trovate e raggiunte sono in questa miserevole illusione, che credono d’essere ancora vivi, e invece son così morti che non avvertono più nemmeno il puzzo del loro cadavere.
Se un’opera d’arte sopravvive è solo perché noi possiamo ancora rimuoverla dalla fissità della sua forma; sciogliere questa sua forma dentro di noi in movimento vitale; e la vita glie la diamo allora noi; di tempo in tempo diversa, e varia dall’uno all’altro di noi; tante vite, e non una; come si può desumere dalle continue discussioni che se ne fanno e che nascono dal non voler credere appunto questo: che siamo noi a dar questa vita; sicché quella che do io non è affatto possibile che sia uguale a quella di un altro. Vi prego di scusarmi, signori, del lungo giro che ho dovuto fare per venire a questo, che è il punto a cui volevo arrivare.
Qualcuno potrebbe domandarmi:
«Ma chi ha detto a lei che l’arte debba esser vita? La vita deve sì obbedire alle due necessità opposte che lei dice, e per ciò non è arte; come l’arte non è vita proprio perché riesce a liberarsi da codeste opposte necessità e consiste per sempre nell’immutabilità della sua forma. E ben per questo l’arte è il regno della compiuta creazione, laddove la vita è, come dev’essere, in una infinitamente varia e continuamente mutevole formazione. Ciascuno di noi cerca di crear se stesso e la propria vita con quelle stesse facoltà dello spirito con le quali il poeta la sua opera d’arte. E difatti, chi più n’è dotato e meglio sa adoperarle, riesce a raggiungere un più alto stato e a farlo consistere più durevolmente. Ma non sarà mai una vera creazione, prima di tutto perché destinata a deperire e finire con noi nel tempo; poi perché, tendendo a un fine da raggiungere, non sarà mai libera; e infine perché, esposta a tutti i casi impreveduti, imprevedibili, a tutti gli ostacoli che gli altri le oppongono, rischia continuamente d’esser contrariata, deviata, deformata. L’arte vendica in un certo senso la vita perché, la sua, in tanto è vera creazione, in quanto è liberata dal tempo, dai casi e dagli ostacoli, senza altro fine che in se stessa». Sì, signori, io rispondo, è proprio così.
E tante volte, vi dico anzi, m’è avvenuto di pensare con angoscioso sbigottimento all’eternità di un’opera d’arte come a un’irraggiungibile divina solitudine, da cui anche il poeta stesso, sùbito dopo averla creata, resti escluso: egli, mortale, da quella immortalità.
Tremenda, nell’immobilità del suo atteggiamento, una statua.
Tremenda, questa eterna solitudine delle forme immutabili, fuori del tempo.
Ogni scultore (io non so, ma suppongo) dopo aver creato una statua, se veramente crede d’averle dato vita per sempre, deve desiderare ch’essa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggiamento, e muoversi, e parlare.
Finirebbe d’essere statua; diventerebbe persona viva. Ma a questo patto soltanto, signori, può tradursi in vita e tornare a muoversi ciò che l’arte fissò nell’immutabilità d’una forma; a patto che questa forma riabbia movimento da noi, una vita varia e diversa e momentanea: quella che ciascuno di noi sarà capace di darle.
Oggi si lasciano volentieri in quella loro divina solitudine fuori del tempo le opere d’arte. Gli spettatori, dopo una giornata di cure gravose e affannose faccende, angustie e travagli d’ogni genere, la sera, a teatro, vogliono divertirsi.

       IL SIGNORE DELLE POLTRONE: Alla grazia! Con Pirandello?

       Si ride.

       IL DOTTOR HINKFUSS: Non c’è pericolo. Stiano sicuri.

       Mostra di nuovo il rotoletto.

       Robetta. Farò io, farò io: tutto da me.
E confido d’avervi creato uno spettacolo gradevole, se quadri e scene procederanno con l’attenta cura con cui io li ho preparati, così nel loro complesso come in ogni particolare; e se i miei attori risponderanno in tutto alla fiducia che ho riposto in loro. Del resto, sarò io qua tra voi, pronto a intervenire a un bisogno, o per ravviare a un minimo intoppo la rappresentazione, o per supplire a qualche manchevolezza del lavoro con chiarimenti e spiegazioni; il che (mi lusingo) vi renderà più piacevole la novità di questo tentativo di recita a soggetto. Ho diviso in tanti quadri lo spettacolo. Brevi pause dall’uno all’altro. Spesso, un momento di bujo soltanto, da cui un nuovo quadro nascerà all’improvviso, o qua sul palcoscenico, o anche tra voi: sì, in sala (ho lasciato apposta, lì vuoto, un palco che sarà a suo tempo occupato dagli attori; e allora anche voi tutti parteciperete all’azione). Una pausa più lunga vi sarà concessa, perché possiate uscire dalla sala, ma non a rifiatare, ve n’avverto fin d’ora, perché una nuova sorpresa vi ho preparato anche di là, nel ridotto. Un’ultima brevissima premessa, perché possiate sùbito orientarvi.
L’azione si svolge in una città dell’interno della Sicilia, dove (come sapete) le passioni son forti e covano cupe e poi divampano violente: tra tutte, ferocissima, la gelosia.
La novella rappresenta appunto uno di questi casi di gelosia, e della più tremenda, perché irrimediabile: quella del passato. E avviene proprio in una famiglia da cui avrebbe dovuto stare più che mai lontana, perché, tra la clausura quasi ermetica di tutte le altre, è l’unica della città aperta ai forestieri, con un’ospitalità eccessiva, praticata com’è di proposito, a sfida della maldicenza e per bravar lo scandalo che le altre se ne fanno.
La famiglia La Croce.
È composta, come vedrete, dal padre, Signor Palmiro, ingegnere minerario: Sampognetta come lo chiamano tutti perché, distratto, fischia sempre; dalla madre, Signora Ignazia, oriunda di Napoli, intesa in paese La Generala; e da quattro belle figliuole, pienotte e sentimentali, vivaci e appassionate:
Mommina,
Totina,
Dorina,
Nenè.
E ora, con permesso.

       Batte le mani in segno di richiamo; e, scostando un poco un’ala del sipario, ordina nell’interno del palcoscenico:

       Gong!

       Si ode un colpo di gong.

       Chiamo gli attori per la presentazione dei personaggi.

       Si apre il sipario.

1930 – Questa sera si recita a soggetto – Commedia in tre atti ed un Intermezzo
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