Quando si è qualcuno – Personaggi, Atto primo

Premessa, analisi, note di regia
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
Atto Terzo

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Quando si è qualcuno - Atto I
Pirandello e Marta Abba

Personaggi

***, (Qualcuno)
Giovanna, la moglie
Tito, il figlio
Valentina, la figlia
S. E. Giaffredi, l’amico
Modoni, l’editore
Cesare, il cameriere
Pietro, il nipote d’America
Natascia, sua moglie
Veroccia, sorella di Natascia
Scelzi, critico
Diana
Sàrcoli e altri due giovani delaghiani
Primo giornalista
Secondo giornalista
Commesso di una casa di dischi
Commissario di polizia
Madre superiora
Carlo, cameriere di Pietro
Due suore, ragazze e ragazzi d’un educandato
Fotografi, invitati
Due camerieri d’occasione

NOTA
Nel testo le battute del Protagonista sono segnate con tre asterischi

1933
Quando si è qualcuno
Atto Primo

        Scene

        1. Studio editoriale di Pietro, editore per diletto. Chiara stanza con pochi mobili (facilmente smontabili e asportabili). Nella parete di fondo, un enorme manifesto illustrato a colori, con cui è stato lanciato americanamente il libro L’imbalconata, liriche di Dèlago. Ai due lati di questo manifesto, due ritratti ingranditi si voltano le spalle: a destra, quello di *** nel suo atteggiamento ormai famoso, perché migliaja e migliaja di volte riprodotto in libri e stampe d’ogni genere; a sinistra, quello del presunto Dèlago, cioè d’un bel giovane sui vent’annl, che potrebbe anche essere una lontana immagine giovanile di ***, ignota a tutti .e irriconoscibile.

        In luogo della parete destra ci sarà a mezza altezza un tramezzo di vetri opa­chi, che non arriverà fino In fondo e servirà a separare la parte riservata di qua al direttore da quella (Invisibile) riservata di là ai subalterni, segretario, dattilografe, assenti perché domenica. Nella parete sinistra, un divano, due poltrone, e poi l’uscio comune. Nel mezzo della scena la scrivania di Pietro. La finestra s’Immagina davanti a questa scrivania, nell’invisibile quarta pa­rete.

        2. Ma questa volta, la quarta parete, a un certo punto dell’atto, si vedrà: ca­lerà cioè dall’alto un pezzo del muro esterno della villa con due ordini di fi­nestre; e per dare agli spettatori la sensazione d’un improvviso cambiamento di prospettiva, la finestra dello studio, da cui s’affaccerà per un momento Veroccia, non sarà quella di faccia In primo plano, ma un’altra al secondo e un po’ di lato. Per ottener questo effetto con Vopportuna rapidità, basterà impo­stare subito dietro la scena che cala una comoda scala a libro, alta non più di due metri, che sarà subito aperta e sostenuta per l’attrice che vi monterà e che dovrà sporgersi a quella finestra dalla cintola In su.

        3. L’atrio della villa, magnifico, con la scala Infondo ben In vista che con­duce ai piani superiori. L’entrata s’Immagina sul davanti, nel proscenio, cioè sotto i due ordini delle finestre viste nel muro esterno. Ricchi ma pochi mobili di nuovo stile, da atrio, che diano l’impressione d’una dimora provvisoria, di stranieri che abbiano lì per lì Improvvisato una casa. (Questa terza scena sarà già preparata dietro la prima, perché il cambiamento delle tre scene sotto gli occhi del pubblico dovrà essere rapidissimo.)

        Al levarsi della tela sono In scena Pietro e Natascia. Pietro, Intento a scrivere, e Natascia al suo ricamo, seduta sul divano. Pietro è sui trent’anni – capel­luto e barbuto – testa alla De Musset – fulvo e lentigginoso – si butta a par­lare con impeto e poi d’un tratto si chiude in un silenzio d’attesa e guardingo, tanto che scappa con gli occhi qua e là. Ma basta che Natascia alzi i suoi a guardarlo; corre subito a baciarla e si calma. Perché Natascia è terribilmente

        calma. Le pazzie che le passano per il capo sono visibili soltanto in quel suo ricamo, dove nessuno ci capisce nulla. Ma lei si sfoga così, per fare poi la saggia maglietta e l’affettuosa sorellina. Pausa. Tutt’a un tratto si ode di là dal tramezzo di vetri opachi il grido di *** a cui Veroccia ha dato una forbi­ciata nei capelli a tradimento. Tutta la prima parte della scena si svolgerà di qua e di là dal tramezzo:

        *** Ma no! Sei pazza? Che hai fatto?

        VEROCCIA (vivacissima e irata): Ora di qua, aspetta!

        *** (ribellandosi): Ma che di qua! Butta via codeste forbici!

        VEROCCIA (c.s.y. No! Ancora! Ancora!

        *** Via, ti prego, Veroccia, guarda: tutta una ciocca!

        VEROCCIA: E ora l’altra di qua, lasciami fare!

        NATASCIA (alzandosi per vedere che avviene di là): Che cos’è? Oh Dio, gli ha tagliato i capelli!

        PIETRO (alzandosi a guardare anche lui): Sì, brava, Veroccia! taglia! taglia!

        *** (sempre di là): Ah no! Ah no! Basta!

        PIETRO: Eh, ma non puoi mica restare così adesso, scusa! Giù le mani, fa’ ve­dere!

        *** Ora che vengono a prendermi… – te l’immagini?

        VEROCCIA: E apposta ti sviso! Per quelli che vengono a prenderti!

        NATASCIA (con un grido di viva apprensione): Smettila, Dio, Veroccia, con quelle forbici! Vi potete far male!

        PIETRO: No, dagli, dagli, Veroccia! Via tutta quella canutiglia!

        VEROCCIA: Bisognerà per forza tagliare da quest’altra parte, adesso!

        *** Lo so! Ma non tu! Lascia, taglio io!

        VEROCCIA (pestando un piede): No! io! io!

        NATASCIA (entrando a prenderla di forza e portandola di qua riluttante): Oh insomma, Veroccia, basta! Lascialo! Vieni via!

        VEROCCIA (appena sui vent’anni, rossa di capelli, nasino ritto, occhi sfavillanti, tutta un fremito, venendo avanti, trascinata, con le forbici ancora in mano): Ma non gli taglio soltanto i capelli, lo vuoi capire? Lo stacco via da sé, lo li­bero da quella sua testa –

        PIETRO: – di pubblico dominio! Testa da moneta. (La indica nel ritratto.)

        NATASCIA: Sta per venire la moglie, siete pazzi? i figli…

        VEROCCIA: Appunto! Appunto! Per impedire che se lo riportino via!

        *** (di là, urtato): Pietro, per favore, le forbici!

        PIETRO: Da’, da’, Veroccia!

        VEROCCIA: No! Lui è capace d’accomodarseli! Debbo tagliarglieli io!

        *** Ma per forza bisogna che me li accomodi! Vuoi che mi presenti così? Qua non c’è neppure uno specchio!

        VEROCCIA: Ci ho piacere! (Salta su una sedia per guardarlo di là.) A – ah! (ride) Si sta guardando nella vetrina!

        NATASCIA: Portagli uno specchio, Pietro! E tu da’ qua le forbici!

        VEROCCIA (saltando giù dalla sedia, a Pietro che va a baciare Natascia prima di obbedire all’ordine): No! Non t’arrischiare, Pietro! Ah, bravo, sì, bacia Natascia. (Poi, ripresentandosi di là, ancora con le forbici in mano.) Non temere, lascia fare a me: te li accomodo bene!

        *** No! tu no!

        VEROCCIA: Respirerai! Il capo svelto! il collo leggero! (Entra.)

        *** Con garbo, per carità!

        VEROCCIA: «Per carità» non t’avessero più a riconoscere! Debbo io sola soppor­tare che Dèlago abbia ancora questa testa! – Ecco – fermo – su quest’altro orecchio! piano!

        VEROCCIA: – piano, sì, – aspetta – un altro po’ – così. – Oh, guarda, Pietro, se non sembra un altro!

        PIETRO: Per Dèlago, dovrebbe mostrare a dir poco venticinque anni di meno!

        VEROCCIA: Non è vero! Basta così!

        *** (con tono d’intensa passione): Ma mi dici perché Dio t’ha fatta così bella?

        VEROCCIA (adirata): Smettila adesso di far gli occhi piccoli, o te li cavo, sai! (Pestando un piede, esasperata:) E non sorridermi così!

        NATASCIA: Basta, Veroccia! Lo tormenti troppo!

        VEROCCIA (buttando a terra le forbici): Mi compatisce! Mi compatisce!

        PIETRO: Vado a prendergli lo specchio? (E si china a baciare Natascia prima d’andare.)

        VEROCCIA (rivenendo fuori e sorprendendolo): E finitela di baciarvi sempre! – Che debbo fare per scuoterlo, per scrollargli d’addosso tutta quella crosta mortificata? Mi pare Bob, Bob che va a nascondersi sotto il letto quando lo tosano.

        *** Potessi nascondermi davvero e non farmi più vedere da nessuno!

        PIETRO (ritornando con lo specchio a mano e recandolo di là): Ecco lo spec­chio: toh, guardata

        *** Oh Dio, no! – È uno scempio! – Così non è possibile! da’, da’ qua le for­bici!

        VEROCCIA (a Natascia): Nascondersi, lo senti? È tutto inutile! – Raccattagli le ciocche, Pietro, e vedi di riappiccicargliele sulle tempie! È ridicolo pigliarsela coi capelli, se non gli basta l’animo.

        *** Ridicolo, sì, ridicolo, conciarmi così! (A Pietro:) Non posso più mo­strarmi a nessuno!

        PIETRO: Ma no, aspetta: bisognerà accorciare anche di dietro. Certo che così non è possibile.

        NATASCIA: Chiama Carlo, Pietro. Non potrai farlo tu.

        PIETRO: Ah già! Siamo salvi: Carlo ha fatto il barbiere. Suona, suona Natascia! (Natascia suona il campanello. )

        VEROCCIA (a Pietro): Ma no! corri piuttosto da un parrucchiere in città con una ciocchetta per mostra e una cartolina illustrata del grand’uomo! Forse t’ap­pronterà una parrucca in tempo che gli arrivi qua la moglie coi figliuoli e tutto il seguito – (Si ode bussare all’uscio.)

        NATASCIA: Avanti.

        VEROCCIA: – a rimetterlo in trono! Entra Carlo.

        CARLO: Ha sonato?

        PIETRO (di là): Vieni, vieni qua, Carlo, c’è bisogno di te!

        VEROCCIA: Ah che idea, Natascia! Se si potesse!

        NATASCIA: Che altro ti salta in mente adesso? Finiscila!

        VEROCCIA: No! Sta’ a sentire! Sta’ a sentire!

        *** (gridando di là adiratissimo): Ma no! Che raso! Che raso!

        CARLO: Eh, guardi, scusi: qua c’è una forbiciata… Siamo quasi alla cute. A pa­reggiare…

        *** E lei non pareggi, oh bella! Cerchi d’accomodare… Il meno possibile… Un po’ dietro; e qua, da questa parte…

        VEROCCIA (assorta nella sua idea, come se la vedesse): Una parrucca e una maschera di cera – mani di cera – si fa un pupazzo – si veste – sulla parrucca gli si pianta il suo bel cappello alla moschettiera: E lui – là – come impa­gliato! – Vengono e se lo portano via! – Tanto, a loro, non serve altro di lui, per come l’hanno ridotto!

        *** (di là con uno scatto): E ti pare che io non ci abbia pensato?

        CARLO: Fermo, per carità! Eh, se lei fa così!

        *** Basta! Basta! Avete accorciato un po’ dietro?

        CARLO: Sì, ma aspetti!

        *** Non importa! Basta così! Ricresceranno subito, appena verranno a pren­dermi, vedrete, con la loro bella piega d’ali cadenti qua dietro gli orecchi. (Viene fuori. È sulla cinquantina, ma così col capo alleggerito dai capelli, in maglia estiva, svelto, estroso, ha l’aspetto quasi giovanile, agile, sciolto.) Un fantoccio, sì! Ci ho pensato anch’io, Veroccia!

        VEROCCIA (esultante): Guardalo! Guardalo, Natascia! Non è un altro? Giovane! – Così, così, voglio che ti ridano gli occhi!

        CARLO: Non c’è più bisogno di me?

        *** Nov grazie.

        PIETRO: E Dèlago, non c’è che dire: è Dèlago!

        *** Sì, coi peli dell’altro nella schiena…

        NATASCIA: Pare davvero ringiovanito di vent’anni!

        *** Io, non Dèlago! (A Veroccia:) Ma sì, se tu vuoi, Dèlago… – (Riattac­cando:) Proprio, Veroccia; ma sai quante volte, di notte, nel mio studio – op­presso da non poterne più: – un fantoccio, da lasciar lì posato a sedere da­vanti alla scrivania, al lume della lampada: la parrucca – la faccia, le mani di cera – gli occhi di vetro – lì – immobile – e io, zitto zitto, come uscito da quella spoglia – scapparmene e venirmene qua di corsa da te e poi fuggire – fuggire – sparire!

        PIETRO: Sì, sì, – tutt’e quattro insieme! – partire – benissimo!

        VEROCCIA (battendo le mani): Facciamolo! Facciamolo!

        PIETRO: Io sono già stufo di quest’avventura!

        NATASCIA: Si ritorna tutti in America con lui! Sì! Sì!

        VEROCCIA: Io so formare! La maschera e le mani di cera te le faccio io. Ti vedo!

        PIETRO: Oh, ma sai che così t’avrei sbagliato io stesso con tuo fratello?

        VEROCCIA: Non cambiar discorso, Pietro!

        PIETRO: Sì, guarda, Natascia, se non sembra proprio mio padre!

        NATASCIA: È vero, sì!

        PIETRO: Tal quale, la stessa testa – lo scopro adesso che non ha più qua (ac­cenna alle tempie) tutti quei capelli. (A Veroccia:) Non sembra anche a te?

        VEROCCIA: Ma che, no, Andrea? Tutt’altro!

        *** Ah, lo chiamavi Andrea?

        PIETRO: Andrea, Andrea, anche lui: è la sua specialità: tratta i vecchi come ra­gazzini.

        VEROCCIA: Ma chi, vecchio? Nessuno è vecchio! Ci si crede vecchi! Siamo tutti come la terra, giovanissimi e pieni di capricci.

        *** Diciott’anni… (Si passa le mani sul capo.) La sua testa… Due meno di me. Quanto insistette perché partissi con lui. Fu una fuga davvero, la sua, al­lora…

        VEROCCIA: Come dire che la tua ora sarà per burla! Eh lo so! Tu non l’hai nel sangue! non l’hai nel sangue!

        *** Ebbi pietà dei nostri vecchi che sarebbero rimasti soli…

        VEROCCIA: Ecco! Pieno anche allora di grandezza e di pietà! Ma ora basta, sai? Mi farai il piacere d’imbottirne il tuo fantoccio; Dèlago non ha bisogno di questa stoppa e dev’essere spietato!

        *** Fossi partito allora…

        PIETRO: Saresti ricco anche tu!

        *** Ah, no, questo…

        PIETRO: Socio di mio padre – ricco per lo meno quanto me!

        *** E nessuno – te l’immagini? – nessuno – uno qualunque tra la folla – senza più addosso gli occhi della gente che non ti lasciano più vivere!

        VEROCCIA: Ma va’ là, che se vi mancasse questo a voi grandi uomini!

        *** Che cosa?

        PIETRO: Esser guardati e ammirati da tutti!

        *** Grazie! Se non dovessi più vivere! Provati a esser conosciuto da tutti e a voler vivere ancora!

        PIETRO: Ah, t’assicuro che se io fossi famoso…

        *** Vorrei vederti! Con tanti specchi davanti, quanti sono gli occhi che ti stanno a guardare. Passa il grand’uomo: e ti fissano – irrigiditi – e ti irrigidi­scono – richiamandoti alla tua «celebrità» – STATUA. TU capisci? Quando hai altro per il capo e vorresti abbandonarti un momento a quello che pensi, a quello che senti! Scomporti – contorcerti, se hai un dolore dentro che ti cuoce. Perdio, non vuoi avere il diritto di sentirti, almeno allora, un po­veruomo? No – negato questo diritto! – non puoi essere un poveri uomo – sei un grand’uomo: «Su, su, non fare quella faccia! Ti guardano». – Ma sai che un mese fa, pochi giorni prima che mi fosse concesso di venire qua in villa da voi per ristorarmi un po’ – (senti, senti questa!) – uscito di casa furioso, avevo vagato tutto il giorno, lontano, non so più dove, fuori della città: entro verso sera, dovendo pur prendere un boccone, nella prima osteria che mi venne davanti; ma affogato nel mio tormento, avevo così dimenticato – ma proprio, ti giuro, proprio dimenticato – d’essere «io», che a un certo punto, non resistendo più al fastidio d’incontrar sempre, nel levar la testa dal piatto, gli occhi di due giovani che mi fissavano e ridevano, scattai in piedi gridando che, se non smettevano, avrei tirato loro in faccia la bottiglia – e l’avevo davvero ghermita e levata in atto di scagliarla.

        PIETRO (ridendo): Oh bella! Oh bella! – E quelli?

        *** Ah tu ridi? – Li vidi come scomparire dietro la tavola. La mattina dopo mi scrissero, scusandosi. Mi guardavano perché non sapevano capacitarsi ch’io fossi capitato in quella loro osteriuccia; e, avendomi riconosciuto, se ne compiacevano senza la minima irriverenza.

        PIETRO: E ti par poco?

        *** Ah sì, infatti, il compenso di due scemi che si beano di te e la soddisfa­zione che non puoi più nemmeno andare a nasconderti in un’osteria! Ma che vuoi che te n’importi, se soffri – se soffri – della tua fama? della tua gloria?

        VEROCCIA (impronta, quasi con ira): E tu perché soffri?

        *** Ah, mi domandi perché soffro? Proprio tu? Se non m’è più lecito fare, senza uno scandalo enorme, ciò che tutti farebbero – per vivere – per vivere – per respirare!

        NATASCIA (placida, ricamando): E vuol dire che tu lo farai.

        PIETRO: – ecco, lo scandalo! – Tanto, qua tutto diventa scandalo! – Veroccia t’ama? – È uno scandalo! – Ma devi pur pensare che né io, né Natascia, sa­remmo venuti dall’America, se non c’era qua da conoscere questo mio famo­sissimo zio!

        *** Sì, di cui ora vogliamo fare un fantoccio da lasciare a chi serve, nella mia biblioteca – posato davanti la scrivania – eh, Veroccia?

        VEROCCIA (assorta): Sto pensando che c’è un problema da risolvere. Bisogne­rebbe anche farlo parlare.

        *** Facile, cara! Non ti confondere! Si spacca dietro e gli si ficca nello sto­maco un grammofono.

        VEROCCIA: Ah, già, benissimo. Sì sì – coi dischi da cambiare!

        *** Per ripetere ai signori visitatori –

        PIETRO: – agli intervistatori –

        *** – tutto quello – già fissato – che ho l’obbligo di ripetere a vita. Non per­ché l’abbia detto io; perché me l’hanno fatto dire gli altri! Cose che non mi son mai sognato di pensare.

        PIETRO: Tu devi averne davvero già parecchi, di dischi…

        *** Tanti, sì. Tutto fissato, ti dico. – Perché io ormai non debbo più pensare altro – immaginare altro – sentire altro. – Che! – Ho pensato quello che ho pensato (secondo loro) e basta! – Non s’ammettono di me più altre immagini.

        – Ho espresso quello che ho sentito – e lì – fermo lì – non posso più essere diverso – guaj se lo tento – non mi riconoscono più – io non devo più muovermi dal concetto preciso, determinato in ogni minima parte, che si son fatto di me: là, quello, immobile, per sempre!

        PIETRO: Morto!

        *** Se fossi morto! La dannazione è questa, che sono vivo ancora, io! Questo si può fare solo coi morti – e neppure coi morti, neppure coi morti! perché ce n’è pur di quelli, già lontani nel tempo, che hanno – beati loro! – qualche raro appuntamento con la storia, e poi il resto della loro vita liberi, oscuri! – basta che rispondano all’appello e si presentino puntuali a quella data fissa per compiere il loro atto memorabile – 12 aprile 1426 – 15 ottobre 1571 – che sa di dove vengono – che hanno fatto prima – che faranno dopo, se in quell’atto non saranno morti – nessuno ne sa più nulla! E anche – morti – da quell’unico atto – ci può essere qualcuno che venga a rimuoverli, scoprendo qualche nuovo documento – a scomporli dall’idea che s’è fissata di loro nella storia – e li faccia rivivere sott’altro aspetto, faccia dir loro una parola nuova – li riapra alla vita rimettendoli a respirare in un’altra luce!

        PIETRO (acceso, con fuoco): Ma scusa! Ma scusa! E che altro ho fatto io con te, scusa! Sei un ingrato!

        *** Ah, tu l’hai fatto? Già, perché ti sei improvvisato editore delle liriche di Dèlago!

        PIETRO: Eh! scusa, non è avvenuto anche a te la stessa cosa? (Indica il manife­sto a colori, illustrato.) Eccoti là – divenuto appunto un altro – Dèlago – senza che nessuno lo sappia – Dèlago: la gloria nuova, il segnacolo in ves­sillo di tutti i giovani !

        *** Ah sì, Dèlago, infatti – Dèlago… – Ma non mi ha fatto rivivere Dèlago, sai, o tu o un altro! Sono io ancora vivo, io che penso, io che sento! (Prende tra le mani il volto di Veroccia.) Sì: perché dal primo momento questi occhi impertinenti si infrontarono coi miei, così, aizzosi e incantati – (soffia flihh) – sulla cenere – «tu vecchio? a chi vuoi darla a intendere? tu ardi!» – e come risero allora, da vederlo io solo, queste labbra! – Un attimo ti bastò – fru­garmi appena negli occhi – per scoprirmi vivo, di’ se non è vero! E se potesti svegliarmeli, è segno ch’erano in me – vivi, vivi – pensieri, sentimenti che cominciai, qua, subito, a esprimere nuovi, come in un sogno a cui non do­vessi credere, se tu non ci credevi – ci hai creduto – e ora sono, sono la mia vita! Si ode picchiare all’uscio.

        PIETRO: Chi è? Avanti! (Entra Carlo.)

        CARLO: Ci sono due signori e una signorina.

        VEROCCIA: Ma no! oggi è domenica, no!

        NATASCIA: E aspettiamo in mattinata…

        VEROCCIA: Restiamo tra noi, se dobbiamo concertare.

        PIETRO: Chi sono? Dove sono?

        CARLO: Son qua. (Indica dietro l’uscio.)

        *** Io mi ritiro. (Fa per ritornare dietro il tramezzo di vetri.) Sono così…

        PIETRO: Aspetta!

        Sporge prima il capo dall’uscio e poi si fa avanti Scelzi, seguito da Diana e da Sàrcoli. Sono giovani tutti e tre. Scelzi è il critico più autorevole della nuova letteratura: corpacciuto, testone, fronte a baule, occhio strabo chiuso, per cui guarda con l’altro di traverso, voltando la faccia chiazzata di sangue illividito; spirito arguto e fine tuttavia, per poter un po’ allargarsi a com­prendere qualcuno, deve soffrir le trafitture che gli dà il cilizio di tutte le sue acutissime minuterie. Diana è una giovane scrittrice avventurosa, attaccata per ora a Sàrcoli, pittore, letterato e caricaturista.

        SCELZI: Ma no, che signori! Sono io, Pietro, con Diana e Sàrcoli!

        PIETRO: Ah, voi… Avanti, Scelzi, avanti! Voi siete amici di Dèlago e miei!

        SCELZI (sorpreso e deluso, scorgendo ***): Oh! E qua lei, Maestro? (Guar­dando i due compagni:) E allora…

        PIETRO: Allora, che? E mio zio, non lo sai? L’abbiamo qua di nuovo in va­canza da una ventina di giorni.

        SCELZI: Già, ma… (di nuovo guardando i compagni) allora non sarà vero.

        SÀRCOLI: Direi che, per lo meno, non è più probabile.

        PIETRO: Che cosa?

        SCELZI (a Sàrcoli): Hai costì il giornale?

        SÀRCOLI (porgendoglielo): Sì, eccolo.

        SCELZI: Esser venuti fin qua…

        A questo punto Diana scoppia a ridere, non potendo più trattenersi, specie per l’aspetto estivo del Maestro.

        SÀRCOLI: Oh! Finiscila, Diana!

         (seguitando a ridere, indica il Maestro, e fa, più col cenno che con la voce): Lui… lui…

        SÀRCOLI: Che, lui? Eh, lo vediamo…

        PIETRO: Che ha da ridere?

        DIANA: No, non volevo… Scusi, Maestro, rido di loro… come son rimasti… s’a­spettavano… ed ecco lei, invece… mi scusi, oh Dio, con un’aria… (lo mira un po’, e scoppia a ridere) ohi, ohi, ohi… ah! ah! ah!

        PIETRO (urtato, balzando in piedi): Oh, basta!

        VEROCCIA (sdegnata): Questo, poi!

        NATASCIA (stordita): Ma che vuol dire?

        SCELZI (furioso, investendo Diana): Smetti, bada, o ti zaffo la bocca con un pugno!

        DIANA (frenandosi): Sì, sì, basta, basta… Si capisce… la gioventù… qua in va­canza…

        SÀRCOLI (a modo di scusa, tentando di riparare): Gioventù! Gioventù!

        SCELZI: È da imbecilli, che gioventù! Io sono una persona seria!

        SÀRCOLI: No, veramente, scusa, il contrasto… – salvando tutti i meriti del Mae­stro…

        PIETRO: Ma insomma, si può sapere che siete venuti a far qua?

        VEROCCIA: È incredibile!

        SCELZI: Niente! A fidarsi! M’hanno assicurato che avrei sorpreso oggi qua, na­scosto da te, Dèlago!

        PIETRO (balzando e guardando istintivamente ***); Dèlago?

        VEROCCIA (smarrita): Oh bella…

        SÀRCOLI: Ma sì, «retour d’Amérique». È stampato in quel giornale!

        SCELZI (porgendo a Pietro il giornale): Toh, leggi: segnalato il suo sbarco a Genova (indicando il punto) qua, tra gli arrivi d’America!

        PIETRO (guardando): Col «Roma»? Ma che! Io non ne so nulla. Chi ha potuto dare questa notizia?

        NATASCIA (impassibile, seguitando a ricamare): Col «Roma»? Ma tu hai rice­vuto, proprio questa mattina, col «Roma», una sua lettera da laggiù.

        PIETRO (con un viso ardente, beato, di stupore e d’ammirazione, mostrando a Veroccia e allo zio Natascia che così placidamente salva la situazione): E sembra la più saggia! Guardatela! Come trova tutto con calma! (Si china e la bacia. Poi, agli altri:) Questa mattina, appunto, una sua lettera. Figuratevi, se può essere arrivato! Col «Roma», eh già, appunto, col «Roma»!

        NATASCIA (c.s.): C’era sulla busta… stampigliato…

        SÀRCOLI (a Pietro): Ma c’è anche una nota nel giornale, guarda: «Il poeta Dè-lago in Italia». E dice che l’hanno veduto, riconosciuto…

        NATASCIA (c.s.): E allora è qua, cercatelo!

        PIETRO: Eh già, nascosto a mia insaputa!

        VEROCCIA (guardando ***): Come in un disegno per bambini! «Trovare Dè-lago.»

        SÀRCOLI: Voi scherzate?

        PIETRO: Che volete che vi dica, se lo volete qua a tutti i costi!

        SCELZI: Che! Basta guardare il sorriso soddisfatto del Maestro…

        ***…per comprendere che Dèlago non può essere qua. Ma perché poi «soddi­sfatto»?

        SÀRCOLI: Ah sì? Lei.avrebbe piacere di veder qua Dèlago in mezzo a noi gio­vani, festeggiato, esaltato?

        VEROCCIA: Sicuro! Più che piacere, gioja! E lo possiamo affermare noi, meglio di tutti! Come se festeggiaste ed esaltaste lui stesso!

        DIANA: Questo è bello da parte sua!

        PIETRO: Bello? Coerente: la pubblicazione delle liriche di Dèlago si deve a lui!

        *** No, questo è merito tuo…

        PIETRO: Il lancio che n’ho fatto, sì; ma il consiglio di farmene editore, qua e non in America, me lo desti tu, c’è poco da dire.

        *** Ma naturale…

        NATASCIA (c.s.): È la verità.

        PIETRO: Io gli portai in fondo, venendo da laggiù, cose di cui non potevo rico­noscere il valore…

        VEROCCIA (indicando ***): Fu lui!

        PIETRO: …liriche d’un giovane ignoto, di sangue nostro, che aveva saputo du­rare fedele laggiù, alla lingua nostra: mi consigliò lui di stamparle, e mi con­vinse che lanciarle in America non avrebbe avuto lo stesso effetto che qua da noi.

        SÀRCOLI (a ***): Ma lei previde che questa pubblicazione avrebbe acceso in noi giovani…?

        ***… tutta questa fiamma? No, – questo forse…

        SÀRCOLI: Ecco! Ecco! Lei non lo poteva prevedere, dico che noi giovani avremmo trovato in lui, finalmente, la nostra voce. Oh, non voglio dire con questo, che forse allora non gliel’avrebbe più consigliato! Ma era anche umano, via, che lei non lo potesse prevedere. Eppure, sa? che questa voce, lui Dèlago, l’abbia trovata per tutti noi laggiù in America, nell’urto delle forze nuove, ha il suo significato!

        PIETRO (seduto, cingendo con un braccio la vita di Veroccia e posando una mano sulla spalla di Natascia): Tu lo senti – senz’essere mai stato in Ame­rica, eh? – solo alla presenza di noi tre!

        SÀRCOLI: Ma sì: Russia, America, umanità che rivègeta! – Ah, ma ora basta, però, di stare laggiù: bisogna assolutamente che Dèlago venga tra noi! E spetta proprio a te di farlo venire, a qualunque costo!

        SCELZI: Sì, ecco, a questo credo che tu lo debba ormai persuadere!

        DIANA: Costringere! costringere!

        SÀRCOLI: Non deve più restare lontano! non può! Perdio, saprà l’incendio che ha fatto divampare!

        DIANA: L’aspettiamo come il Messia!

        PIETRO: Eh, ma per tutto quest’anno…

        VEROCCIA: Non verrà! Non verrà! Partiremo noi! Spianteremo questa baracca, e andremo tutti a raggiungerlo laggiù! (Dirà questo, infilando un braccio sotto il braccio di ***.)

        SCELZI: Anche lei, Maestro?

        *** Io non ho veramente da raggiungere nessuno…

        SCELZI: In che senso, scusi? Non sono un esaltato come gli altri; ma che Dè-lago sia proprio andato avanti a tutti, guardi che io ci credo sul serio: avanti, da non poterlo veramente raggiungere più nessuno della vecchia generazione. Questo è poco ma sicuro. Ci possiamo mettere la pietra sopra. Eh sì! – Io posso non ammirare in Dèlago tante cose – e non le ammiro: tutt’altro! – ma trovo in lui un innegabile superamento di quanto è stato fatto finora. Basta guardare soltanto il suo «modo» – non scherziamo! «Modo», dico, nel senso musicale della parola. Questo suo «modo» – e dunque tutta la sua lirica – è nuovo: ritmo d’un respiro nuovo (eh, perché vita che pulsa dentro altrimenti!) e fa ormai avvertire il vostro, come un respiro a vuoto, incoerente. Avrà sen­tito anche lei che questa è davvero altra vita?

        *** Ho sentito, sì, che è – è – vita…

        SCELZI: …con una voce «sua», che supera e fa tacere ogni altra. E dunque via! A questo ci si deve ormai rassegnare. (Rivolgendosi a Pietro:) Come noi, adesso, ad aver fatto questo viaggio inutilmente. Oh sai che stai lontano? Si vede che sei proprio venuto dall’altro mondo.

        VEROCCIA: E ci torneremo! ci torneremo!

        SCELZI: Che! Storie! Persuadete Dèlago piuttosto che lasci tutto davvero e venga qua –

        SÀRCOLI: – che non si può più stare ormai senza di lui! Ce l’avevi promesso! Perciò noi abbiamo creduto leggendo sul giornale il suo arrivo.

        SCELZI: S’era venuti – io, a intervistarlo; lui, a fargli un disegno.

        DIANA: Io a bevermelo tutto con gli occhi!

        SÀRCOLI: E siamo corsi fin qua per i primi! Vedrai quant’altri verranno!

        PIETRO: Ah no, per carità! Vi prego di smentire subito la notizia!

        SÀRCOLI: Hai voglia! Fino a domani!

        DIANA: Si precipiteranno qua tutti!

        PIETRO: Metterò subito un cartellino all’entrata della villa!

        SCELZI: Non ci crederanno!

        SÀRCOLI: Forse, se aggiungi che hai qua ospite il Maestro…

        *** Ecco: tutti i giovani, allora…

        SÀRCOLI: No, scusi, Maestro: dico perché ha già fatto l’esperienza su noi…

        ***…che non ci può essere lui, se ci sono io, si capisce.

        SCELZI (salutando): Signora… Signorina… Riverisco, Maestro… Addio, Pie­tro…

        Anche gli altri salutano. E Scelzi, Sàrcoli e Diana vanno via. Pietro, Veroc­cia e Natascia restano per un momento a guardarsi tra loro, divertiti.

        PIETRO: Oh bella! Chi sarà stato a spacciarsi a Genova per Dèlago?

        *** Ancora un’altra impostura!

        NATASCIA (a Pietro): Ah, non l’hai data tu, la notizia?

        PIETRO: Io, no! (A ***, scrollando le spalle:) Impostura… Si deve per forza, scusa, dare a credere che Dèlago possa arrivare da un momento all’altro dal­l’America, e si deve pure inventare…

        ***…ma sì! E ne profittate bene, mi pare. E con che gusto! Dovreste anche però non abusare tanto di me!

        VEROCCIA: Noi? Di te?

        *** Sì – dell’impossibilità in cui mi trovo di gridare. –

        PIETRO: Oh, senti! Gridare! Vorresti svelare? E non siamo stati tutti finora d’accordo…?

        VEROCCIA (insorgendo): E dici anche a me, approfittare che non puoi svelarti?

        *** No! Dico che almeno, via, non ci dovreste tanto scherzare, davanti a me!

        VEROCCIA: Io, scherzare? Io t’ho quasi svelato!

        *** (seguitando rivolto agli altri): Appunto, provar questa voluttà, fin quasi di svelarmi, tanto siete sicuri che nessuno può credermi Dèlago –

        PIETRO: – uh, poi, voluttà… –

        *** – sì, sì, sfrontata – e per me, beffarda – come un’incolumità che vi faccia felici di tradirmi sotto gli occhi, di spogliarmi della mia vita per vestirne un altro!

        VEROCCIA: Ma se io voglio, anzi, che tu sii, sii Dèlago per tutti! La senti tu, quest’impossibilità, perché ci vuoi star nascosto! e ora che ti ci senti soffo­care, gridi!

        PIETRO: E come se poi quest’altro non fosse lui stesso, devi dire!

        *** Non è vero! Io stesso? E non hai visto? Non posso essere «io»! Non devo essere «io»!

        VEROCCIA: Perché non devi? Gridalo tu stesso a tutti che Dèlago sei tu!

        *** Ah sì? Vuoi che lo gridi? E non capisci che allora l’uccido?

        VEROCCIA: Chi uccidi?

        *** Dèlago!

        VEROCCIA: E perché?

        *** Ma perché io non sono il Signor Nessuno – io sono QUALCUNO, te l’ho detto – «Io», ecco, «quale sono per tutti», e non posso essere un altro! Se mi scopro Dèlago è finito: diventa una mia maschera, non capisci? una maschera di giovinezza, che mi sia messa per burla! – (Con rabbia di passione:) Non deve essere sangue mio, non dev’essere vita mia, non deve appartenere a me quello che è mio; tu, tu Veroccia, viva mia, giovinezza viva mia! No! No! Tu devi essere di Dèlago, e non mia! Hai capito adesso? (Agli altri:) Ma voi al­meno non vi divertite a inventarlo tanto davanti a me, non me lo fate consi­stere tanto, da rendermene geloso! – Sì, sì, geloso! geloso! – Lo capite quello che fate! Avete visto? Me lo fate aborrire! Me l’hanno messo contro! Me lo hanno piantato davanti, a petto! E lui il vivo! e uccide me, lui! Li avete intesi? «Questo è poco, ma sicuro. Ci possiamo mettere la pietra sopra.» – Mi han seppellito! ecco, seppellito! L’ha lui la voce nuova – e m’ha messo a tacere! – Ah, ma io me lo ripiglio! io me lo ripiglio! Quello ch’è mio me lo ripiglio! Lasciate fare a me, e vedrete se tra poco non me lo ripiglio! (Li guarda.) Ora mi guardate, come chi dà un’occhiata contro il sole… Ma non ve lo dico, no. Non vi dico più nulla. Lasciate fare a me! (Si ode a questo punto come uno squillo di tromba, glorioso. ***, udendolo, smuore all’improvviso. Gli altri guardano sorpresi.) Eccoli. Vengono a prendermi.

        VEROCCIA: È l’automobile? Oh bella, suona così?

        PIETRO: Strano! M’è parso uno squillo di tromba.

        *** (con amarissima ironia, immobile, con gli occhi fermi): Sfido. Viene la gloria. Come vuoi che s’annunzii? Si libra alata sul petto di mia moglie, e non può che sonare la tromba.

        PIETRO: Che che! Saranno altri matti che vengono a suon di tromba per Dèlago. Guarda, guarda dalla finestra, Veroccia.

        E fa cenno con la mano davanti o sé. Veroccia che si troverà infondo, si di­rigerà verso il proscenio, dove Pietro indica la finestra; e, man mano che avanza, dall’alto calerà la facciata della villa con le finestre in due ordini. Ma il cenno di Pietro e la direzione presa da Veroccia nel muoversi non cor­risponderanno al punto in cui la finestra dello studio realmente si trova nella facciata. Se ci son quattro finestre, due sopra e due sotto, Veroccia si affac­cerà dalla seconda a destra di quelle di sopra, perché realmente a guardare ora la villa da fuori, lo studio di Pietro si troverà là.

        VEROCCIA (affacciata alla finestra, guardando in basso). Sì, sì, proprio loro! (Fa di no con la mano alla domanda di Pietro se per loro intende i giornali­sti.) No, no. I suoi parenti. (Poi seguita a guardare e annunzia:) Ma con altri. Son cinque. Tito è davanti. Ecco, scende l’editore, come si chiama? Modoni. E ora un signore che non conosco. Aspettate… Ah, sì, uh! è Sua Eccellenza Giaffredi… Ecco ora Valentina. E ora fanno scendere la zia. (Alza le braccia guardando in alto per trarre un profondo sospiro, come a beversi il cielo.) Ah peccato! Con una mattinata di sole così bella!

        Si ritrae dalla finestra. La facciata è tirata su. Siamo nell’atrio della villa, dove or ora sono entrati gli ospiti annunziati da Veroccia alla finestra. Sa­ranno tutti dapprima con le spalle voltate al pubblico, perché si suppongono entrati dal proscenio, dove, in corrispondenza delle finestre già viste nel muro esterno, s’immagina l’entrata della villa. Giovanna, la moglie, è sta­tuaria, formosa ma rigida personificazione della gloria ufficiale del marito: fronte bassa, austeri occhi ovati, dalla guardatura solenne; robusto naso im­perioso; mento solidissimo; veste pomposamente di nero e d’argento. Valen­tina, la figlia, ormai sui trenta, pare inaccostabile, come una figura calata da un quadro, dipinta con superbo e meticoloso artificio. Ha l’aria trasognata. Tito, il figlio, è robusto, intozzato su di sé; cupo e bilioso; quando ha detto «papà» ha detto tutto. Sua Eccellenza Giaffredi, Ministro di Stato, è sulla cinquantina, grigio, galante ma per nulla affettato. Tratto autorevole ma sor­ridente, da personaggio di riconosciuta superiorità che non può ammettere non gli si obbedisca; abituato a vivere nelle alte sfere della finanza e della politica, è, qual amico di casa, protettore e condiscendente; scusa gli umori e le bizze dei letterati, che magari lo divertono, purché poi facciano come vuol lui. Modoni, l’editore, è sui sessanta, grasso, con una testa caratteristica da israelita intelligente; furbo, fa il magnanimo, ma è rapace.

        GIAFFREDI: Ah, ma è proprio bello qua!

        GIOVANNA: Sì, amico mio; ma poco merito, coi soldi che hanno…

        MODONI: Molto molto ricco, eh?

        VALENTINA: Pare…

        TITO: Eh, non vi basta il lancio di «Dèdalo», per prova di come butta via i de­nari?

        MODONI: Già già… Ha saputo lanciarlo… C’è poco da dire!

        GIOVANNA: Ma com’è che non scende ancora nessuno? Non sarà il caso di far risonare la tromba?

        GIAFFREDI: È proprio un nipote?

        GIOVANNA: Ma sì, figlio di un fratello!

        TITO: Cosa inaudita! Lo stesso cognome…

        GIAFFREDI: Perché inaudita?

        TITO: Farsi lui – col nostro stesso cognome – editore di questo «Dèdalo» !

        VALENTINA: Dèlago, Tito.

        TITO (correggendosi): Dèlago! Dèlago!

        VALENTINA (irritata): Ma facci caso! Dici sempre «Dèdalo»!

        TITO: Lo faccio apposta!

        GIOVANNA: Ancora qua, signori miei, nel mezzo di una stanza; e nessuno che venga a dirci «s’accomodino»… Sarà bello, amico mio, ma a me non par l’ora di levarne i piedi. E poi, non c’è tempo da perdere. Su, su, andate sii voi, Modoni. Il manoscritto.

        MODONI: Eccolo qua!

        GIOVANNA: Bell’affare! Certe bili ci piglio, solo a vederlo! Via via! (a Giaf­fredi:) Che non se ne parli, anzi, davanti a me, per me è meglio amico mio. Direi cose di fuoco! (a Modoni:) Fermo eh? Senza remissioni. No, no e no!

        MODONI: Ma non credete che sarebbe meglio salisse con me anche Sua Eccel­lenza?

        GIOVANNA: Voi avete col vostro contratto abbastanza autorità, Modoni. Fatela valere, e basta!

        GIAFFREDI: A un bisogno, se occorre, verrò su anch’io, Modoni; ci parlerò io. O che scenda lui… Perché non scende?

        MODONI (col grosso manoscritto sulle mani, quasi soppesandolo). Voi lo capite, Eccellenza, con quello che so che si sta preparando, per me, rinunziare… Il cuore mi sanguina, parola d’onore! Ma basta! Io non ho guardato mai all’in­teresse. E spero che lui lo comprenderà. (E va su per la scala.)

        GIAFFREDI: Non transigete! Non transigete! E tenete a mente che, al caso, ci sono qua io!

        GIOVANNA: Poverino, è vero: era tutto felice… L’opera nuova, aspettata come la manna…

        TITO: Che doveva essere il contraltare…

        GIAFFREDI: E questo tradimento! È incredibile!

        TITO: Incredibile!

        GIAFFREDI: Scusate, Giovanna… (Se la tira in disparte.) No, io dicevo, se è così tanto ricco e… parente, nipote… non ci sarebbe da tentare… di fargli buttare all’aria questa sua baracca di editore e questo suo Dèlago…

        GIOVANNA: Sì, e come?

        GIAFFREDI: Ma… penso… non potrebbe essere, per esempio, un partito conve­niente per la nostra Valentina?

        GIOVANNA: No, Dio liberi, che dite, amico mio! È venuto dall’America in compagnia di due giovani bandite russe, ripescate laggiù…

        GIAFFREDI: Questo non vorrebbe dire… se si potesse…

        GIOVANNA: Come non vorrebbe dire? N’ha sposata una!

        GIAFFREDI: Ah, n’ha sposata una…

        GIOVANNA: E poi con questo che ha fatto; ma vi par poco? Viene qua espres­samente dall’America – eh, Tito?

        TITO (appressandosi): Eh, mammà?

        GIOVANNA: Sua Eccellenza diceva di Pietro, (piano:) per Valentina…

        TITO: Se è sposato!

        GIAFFREDI: Non lo sapevo. Quantunque, peuh, i matrimoni, in America…

        TITO: Un divorzio? Che! innamoratissimo! Si sono uniti… C’è anche la sorel­lina… Tre pazzi…

        GIOVANNA: E poi, io gli dicevo, con questo che ha fatto…

        TITO: …già – viene espressamente per conoscere papà – e spunta come un fungo, editore dei giovani – strombazzatura all’americana – pimi paini – Dè­lago, Dèlago! – Contro papà.

        GIAFFREDI: Ma chi è poi questo Dèlago?

        TITO: Uno di laggiù – suo amico! E il bello è questo, Eccellenza: lo mettono contro papà, e io posso provare – provare – che è uno che ha letto papà! che copia papà! Scende Pietro allegramente dalla scala.

        PIETRO: Ah, ecco qua Tito col suo «copia papà»!

        TITO: Lo copia! sì, lo copia! e t’ho detto che posso provarlo, e indicare dove, e quante volte, punto per punto!

        VALENTINA: Tito ha avuto la forza di leggerlo tutto – spassionatamente.

        GIOVANNA (come se Tito avesse fatto una cosa incredibile): Ah sì, tu? Dav­vero?

        TITO: Sì, io, io, e ho trovato i plagi! più di cinque!

        GIOVANNA (a Giaffredi): Ecco! Sentite? E ora si dovrebbe vedere una tale enormità!

        PIETRO: Già! un bel caso! Ho saputo su! Che è lui, invece, lui a imitare Dèlago, adesso, nel suo nuovo libro! Modoni è inconsolabile! Un trionfo! Un vero trionfo per Dèlago e per me!

        GIOVANNA: Ah, no, caro! aspettate a dire trionfo! Ci siamo qua noi, e siamo venuti appunto per questo. Questo suo nuovo libro non si pubblicherà!

        PIETRO: Ma se non lo pubblica Modoni, lo pubblico io! lo pubblico io!

        GIAFFREDI (imponendosi con tutta la sua autorità, reciso): Lei se ne guarderà bene! Lei non pubblica niente!

        PIETRO: Chi è lei, scusi, in casa mia?

        GIAFFREDI: Non ci pensi nemmeno, non ci pensi nemmeno!

        GIOVANNA: È Sua Eccellenza Luciano Giaffredi, Ministro di Stato!

        PIETRO: Onoratissimo. Ma io, sa, sono nato in America.

        GIAFFREDI: Ah si vede, in America.

        PIETRO: Ma cresciuto italiano fino al punto che ho obbligato mia moglie e mia cognata, straniere, a imparare e parlare la lingua nostra. E la parlano meglio di me.

        GIAFFREDI: Russe, eh?

        PIETRO: Russe, sissignore. Ma niente politica, e tutto in regola. E io le ho detto che son nato in America, perché intenda che per me esser Ministro di Stato…

        GIAFFREDI: Lei ignora che io non ho bisogno di prendere autorità dal mio titolo, per farmi custode oggi qua, con la famiglia e col Paese, d’una fama consa­crata da tutta una generazione, e a cui non è lecito recare offesa, nemmeno a lui stesso, (indica lassù), proprio nel momento che la Nazione, su mia propo­sta, si prepara a onorarlo, festeggiando solennemente il cinquantenario della sua nascita.

        PIETRO: Ne sono lieto e orgoglioso come nipote; ma non sarà lecito neppure a nessuno proibirgli per questo di pubblicare, se vuole, il suo nuovo libro.

        GIAFFREDI: Sissignore, glielo proibiamo noi, e lecitamente, per il rispetto che abbiamo di lui e del suo nome.

        PIETRO: Ah senti! Bel rispetto!

        GIAFFREDI: Perché Egli non può perdere la testa nel momento stesso che sta per essere incoronata.

        PIETRO: Incoronata? Come incoronata? Ah, l’incoronano…?

        GIAFFREDI: Oh sa, non d’una retorica corona d’alloro, come si danno in provin­cia ai cantanti, o s’appendono ancora ai monumenti. No: d’una vera corona nobiliare, che il Paese gli offrirà in riconoscimento della sua gloria nazionale. Corona di conte.

        GIOVANNA: Trasmissibile!

        PIETRO (freddo): …ah… (Guarda Tito.) Così, poi, il Conte sarai tu…

        TITO: E t’assicuro che io saprò rispettare…

        PIETRO: Lo credo bene! Lo credo bene! E lei, Contessa, (e s’inchina a Gio­vanna) e tu, la Contessina (e s’inchina a Valentina) a patto che egli s’arrenda a non pubblicare quel suo nuovo libro. (Accenna con la mano su, per fare in­tendere che si tratta del manoscritto recato su dall’editore.) Ho capito.

        GIAFFREDI: Quel suo nuovo libro – perché lei lo sappia – è stato letto, vagliato, esaminato parola per parola da tutti i suoi amici e ammiratori più fedeli e af­fezionati, che sono una schiera – e tutti l’hanno giudicato –

        PIETRO: – infetto, contagiato dalla nuova ispirazione giovanile di Dèlago – e allora défendu – benissimo oké okéì ollràitl (Piroetta.)

        GIAFFREDI: Egli non deve più vaneggiare in tentativi incoerenti, alla sua età!

        GIOVANNA: …e dar questo spettacolo, d’abbassarsi a raccogliere…

        TITO: …la voce del nemico, e a farsene eco – lui!

        GIAFFREDI: Deve rientrare in sé! Composto nella sua fama già stabilita e tutta ben delineata. Se ancora qualcosa vorrà dire dopo quello che ha detto, dev’esser lapidario – lapidario.

        Spunta in capo alla scala Veroccia, tutta accesa di sdegno, e chiama ag­grappata al parapetto.

        VEROCCIA: Pietro! Pietro! Vieni su!

        GIOVANNA (voltandosi a guardare): Ma che cos’è? Dove siamo?

        VEROCCIA:  È una sopraffazione! Vieni su! Vieni su!

        PIETRO: Eccomi! Eccomi! (E si spicca per salire a sbalzi la scala da cui scende placida e seria Natascia.)

        GIOVANNA: Ah, ma vado su anch’io, allora! Questa è una congiura bella e buona!

        GIAFFREDI: No, lasciate! Lasciate andar me, Giovanna! Vado io!

        GIOVANNA: L’hanno imprigionato! Non vedete? È levato di cervello!

        GIAFFREDI: State tranquilla, state tranquilla, che lo farò io rientrare in sé! (S’av­via.)

        GIOVANNA: Ma fatelo anche venir giù, vi prego; che si vada via subito tutti! Io non posso più vedermi qua! (E come Giaffredi, salita la scala, scompare, vol­tandosi ai figli:) La meraviglia è di lui, che viene a consegnarsi qua, in una casa di pazzi e di nemici!

        NATASCIA (senza scomporsi): Grazie, zia, per l’ospitalità e le cure che gli ab­biamo date. Egli è molto malato, se volete saperlo.

        GIOVANNA (scrollando le spalle): Malato… malato… Questa è stata la scusa per venirsi a imbecillire qua!

        NATASCIA: Non scusa. È malato davvero.

        GIOVANNA (senza dare alcuna importanza al male): Sì, soffre un po’ di cuore…

        TITO (preoccupato): Non si sarà mica sentito male, su, adesso…?

        NATASCIA: Oh, no. Di cuore, no. D’un male – terribile – quando ripiglia a una certa età.

        VALENTINA (urtata): Ma che male?

        NATASCIA (placida): La giovinezza, cugina!

        VALENTINA: Glielo avrete attaccato voi, questo male!

        NATASCIA (c.s,): Ah, può anche darsi, noi.

        GIOVANNA (stupita, guardandola): Come lo dice!

        NATASCIA: Ma doveva anche averlo in sé, lui. Io lo dico, come si dice la verità. E dico anche che voi tutti – che credete noi suoi nemici – siete voi invece, i suoi nemici.

        GIOVANNA: Ah noi? E avete la sfrontatezza di affermarlo davanti a me?

        NATASCIA: Non la sfrontatezza, il coraggio, perché è la verità. Voi commettete un delitto in questo momento; vivete sopra di lui, tutti, e lo soffocate.

        GIOVANNA: Basta! Basta!

        TITO: È inaudito!

        VALENTINA: Bisogna andar via!

        GIOVANNA (a Tito). Va’ subito su: digli che qua mi si insulta e che, se non scende subito, io vado via! Tito va su anche lui.

        NATASCIA (sempre placida): Impossibile che scenda subito. Bisogna dargli il tempo di rivestirsi da vecchio. Si stava rivestendo – ma è salito il signor Montoni… Valentina, al «Montoni», scoppia a ridere dì rabbia.

        GIOVANNA: Modoni! Modoni! È il suo editore, e, per vostra norma, il primo editore d’Italia!

        NATASCIA: Sarà lecito a me, straniera, ignorare queste cose.

        GIOVANNA: E a noi allora cacciarvi, se volete immischiarvi – stranieri – nelle cose nostre!

        Scendono dalla scala, vociando, infuriatissimi, Modoni, Pietro, seguiti da Giaffredi e da Tito.

        MODONI: Ah, no! Ah, no! Questo non sarà mai! E quand’è così, ecco, me lo ri­piglio ! (e strappa di mano a Pietro il manoscritto. )

        PIETRO (afferrandolo): Di prepotenza? Ah perdio, no! Lei me lo rida!

        MODONI: Non glielo rido! Non glielo rido, se osa negarmi…

        PIETRO: Lei me lo rida, perché me l’ha consegnato lui stesso!

        GIAFFREDI: Ma sì, Modoni, ridateglielo! Tanto, non potrà far nulla di questo manoscritto!

        TITO: Non può mica pubblicarlo!

        PIETRO: Non posso, certo! Se lui non vuole…

        MODONI: No! Lei non può, perché io ho un contratto d’esclusività – ha capito? – per tutte le sue opere passate, presenti e future!

        PIETRO: Anche col diritto di proibirgli di pubblicare da un altro editore un libro che lei gli rifiuta? Ah no questo diritto, caro signore, lei non può averlo!

        MODONI: Ma io non glielo rifiuto per me, che mi va contando? Io glielo rifiuto per lui! Per il suo stesso interesse! Il mio sarebbe di pubblicarlo! Sono loro, i suoi amici qua, Sua Eccellenza, la famiglia, tutti, a impormi di non pubbli­carlo, per non suscitare uno scandalo che per me sarebbe, al contrario, quel che Dio può mandare; e lei, americano, lo sa! Perdio, sono una vittima e mi si fa apparire un soperchiatore? Ecco qua a lei il manoscritto, se lo prenda! (E lo butta sdegnato in mano a Pietro.)

        GIOVANNA: Ma che cos’è? Che cos’è avvenuto?

        GIAFFREDI: Niente, Giovanna; ora vi dirò!

        TITO (piano, alla madre per rassicurarla): Stai tranquilla! Ottenuto.

        GIAFFREDI (a Modoni con tono di riprensione): Siete stato voi stesso, scusate, Modoni, a dare per primo a noi tutti l’allarme…

        MODONI: Ma sì, non lo nego, perché ho provato io stesso sgomento, leggendo – lo confesso – e rispettoso come sono del mio massimo autore, il mio dovere era d’avvertirne la famiglia, gli amici… Ma tutto questo, perdio, contro il mio interesse! Ora capirete che non potrei tollerare che un altro se ne debba pro­fittare!

        GIOVANNA: Ah, siamo ancora dunque…?

        GIAFFREDI: No!

        TITO (contemporaneamente): No!

        GIAFFREDI: Nessuno si profitterà, state sicuro, Modoni! Lui stesso si è arreso – basta! Non solo per noi, ma anche per soddisfazione di tutto il Paese che gli vuol bene e che saprà mostrarglielo!

        GIOVANNA: Ma allora… questo manoscritto?

        PIETRO (fieramente): Resta qua, a me! Affidato a me!

        GIOVANNA (con sorpresa): Ma no! Perché?

        GIAFFREDI: Lasciate! Ha voluto così, che qua lo leggano… Non gli si può im­pedire. La cosa non ha importanza. Non possono far nulla…

        GIOVANNA: Ma possono provare il gusto di mostrare a tutti i proseliti – nuovo autore, quanto lui s’era avvilito…

        NATASCIA: Non abbia questa paura, signora, perché per noi, lui non s’è per nulla avvilito…

        PIETRO: Brava Natascia!

        GIAFFREDI: Per noi, invece, questo libro è il sintomo d’una deplorevole irrequi­etezza., causata certo da un momentaneo smarrimento. Soffre, non si può ne­gare. È indebolito. Come gli ho posato le mani sulle spalle per ringraziarlo, alla fine, d’essersi arreso, ho sentito proprio – vi giuro – le sue ossa quasi la­sciarsi andar giù tutt’insieme. (Bisogna, amica mia, sorvegliargli il cuore.)

        TITO: Eccolo che scende!

        *** appare sulla scala, non più come s’è visto in principio, ma quale è natu­rale che tutti s’aspettino ch’egli sia divenuto, dopo quanto s’è udito sulla scena dall’arrivo dei parenti e dell’editore e dell’amico. Apparirà cioè come rientrato nella sua immagine immutabile, a tutti universalmente nota, quella che il pubblico ha già vista nel ritratto ingrandito dello studio. È naturale apparrà anche, che gli siano davvero ricresciuti i capelli. L’attore si sarà messo infatti nel frattempo una nuova parrucca; ma sarà bene che da princi­pio, mentre scende la scala, le ciocche lunghe, che gli si ripiegano informa di ali cadenti, dietro gli orecchi, siano nascoste dentro il suo famoso cap­pello a larghe tese; e questo, per la ragione che si vedrà appresso. Tutti si moveranno verso il fondo, in silenzio e come sospesi, mentre egli lentamente scenderà la scala, pallido e come insordito in una rigidezza di pietra. Quand’egli avrà disceso tutta la scala, apparirà in cima Veroccia, con gli occhi gonfi e rossi di pianto, e s’aggrapperà alla ringhiera come per trattenersi e resistere a quello che prova. L’uscita della villa s’immagina, come s’è detto, verso il proscenio.

        GIOVANNA (facendosi avanti): Tu sei un po’ sofferente?

        GIAFFREDI: Ma no, ma no! adesso è passato, non è più niente. Andiamo.

        GIOVANNA: Aspettate. Dio, che hai fatto dei tuoi capelli, caro? Gli leva il cappello e gli passa la mano sui capelli, prima da un lato e poi dall’altro e allora le ciocche ad ali cadenti pare che ricrescano sotto le mani di lei. Ella lo guarda e tutti lo guardano. Ecco: così è la tua testa.

        E allora, lui avanti, e tutti gli altri dietro, si muovono con la solennità di un mortorio verso il proscenio. Se non che, dall’alto della scala, scoppia, come a tradimento, il grido frenetico di Ve roccia.

        VEROCCIA: Viva Dèlago! Viva Dèlago!

        Egli s’arresta un attimo, come colpito alla schiena, e apre con strazio atroce, appena appena, le labbra pallide e rigide a un sorriso di spasimo e di gioia.

        GIOVANNA: Questa è un’improntitudine!

        GIAFFREDI: Una tracotanza!

        VEROCCIA (c.s.): Viva Dèlago! Viva Dèlago!

        GIAFFREDI (a Pietro, che ride, felice): Ma la faccia tacere!

        GIOVANNA: Andiamo! Andiamo! Tu non metterai più piede in questa casa! Egli seguita ad andare verso il proscenio senza affrettarsi, con tutti dietro, e mentre Veroccia seguita a gridare come in una convulsione, sempre più fre­netica: «Viva Dèlago! Viva Dèlago!»aggrappata, contorta sulla ringhiera della scala, cala lentamente la

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1933 – Quando si è qualcuno – Rappresentazione in tre atti
Premessa, analisi, note di regia
Personaggi, Atto Primo
Atto Secondo
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