Quaderni di Serafino Gubbio operatore – Quaderno Secondo

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Quaderni di Serafino Gubbio - Quaderno Secondo

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Quaderno Secondo

 I.  

            Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose, ma quasi intime parti di coloro che v’abitavano, perché in essi toccavano e sentivano la realtà cara, tranquilla, sicura della loro esistenza.

            Covava davvero in quelle stanze un alito particolare, che a me pare di sentire ancora, mentre scrivo: alito d’antica vita, che aveva dato un odore a tutte le cose che vi erano custodite.

            Rivedo la sala, un po’ tetra veramente, dalle pareti stuccate, a riquadri che volevan sembrare di marmo antico: uno rosso, uno verde; e ogni riquadro aveva la sua brava cornice, anch’essa di stucco, a fogliami; se non che, col tempo, quei finti marmi antichi s’erano stancati della loro ingenua finzione, s’erano un po’ gonfiati qua e là, e si vedeva qualche piccola crepacchiatura. La quale mi diceva benignamente:

            – Tu sei povero; hai l’abito sdrucito; ma vedi bene che pure nelle case dei signori…

            Eh sì! Bastava mi voltassi a guardare quelle mensole curiose, che pareva avessero schifo di toccare la terra con le loro zampe dorate, di ragno… Il piano di marmo era un po’ ingiallito, e nello specchio inclinato si rivedevano precisi nell’immobilità i due cestelli posati sul piano: cestelli di frutta, anch’esse di marmo, colorate: fichi, pesche, cedri, a riscontro, di qua e di là, proprio precise, nel riflesso, come se fossero quattro e non due.

            In quella immobilità di lucido riflesso era tutta la calma limpida, che regnava in quella casa. Pareva che nulla vi potesse accadere. E lo diceva anche l’orologetto di bronzo, tra i due cestelli, di cui nello specchio si vedeva il dietro soltanto. Figurava una fontanella, e aveva un cristallo di rocca a spirale, che girava e girava col moto della macchina. Quant’acqua aveva versato quella fontanella? Ma la conchetta non s’era riempita mai.

            Ed ecco la sala, da cui si scende nel giardino. (Da una stanza all’altra si passa a traverso uscioli bassi, che pajon compresi del loro ufficio, e ciascuno sappia le cose che ha in custodia nella stanza.) Questa, da cui si scende nel giardino, è la preferita, in tutte le stagioni. Ha il pavimento di mattoni larghi, quadrati, di terracotta, un po’ logorati dall’uso. La carta da parato, a roselline, è un po’ sbiadita, come le tende di velo, pure a roselline, della finestra e della porta a vetri, da cui si scorge il pianerottolo della breve scala di legno, a collo, e la ringhierina verde e il pergolato del giardinetto incantato di luce e di silenzio.

            La luce filtra verde e fervida a traverso le stecche della piccola persiana della finestra, e non si soffonde nella stanza, che rimane in una fresca, deliziosa penombra, imbalsamata dalle fragranze del giardino.

            Che felicità, che bagno di purezza per l’anima, a stare un po’ distesi su quel divano antico, dalle testate alte, coi rulli di stoffa verde, anch’essa un po’ scolorita.

            – Giorgio! Giorgio!

            Chi chiama dal giardino? È nonna Rosa, che non arriva a cogliere neppure con l’ajuto della sua cannuccia i gelsomini di bella notte, or che la pianta, crescendo, s’è rampicata alta sù sù per il muretto.

            Piacciono tanto a nonna Rosa quei gelsomini di bella notte! Ha sù, nell’armadio a muro, una cassettina piena di spighe a ombrello di rizòmolo, seccate; ne prende una ogni mattina, prima di scendere in giardino; e quando ha raccolto i gelsomini con la sua cannuccia, siede all’ombra del pergolato, inforca gli occhiali e infilza a uno a uno quei gelsomini negli esili gambi di quella spiga a ombrello, finché non ne forma una bella rosa bianca, piena, dal profumo intenso e soave, che va a deporre religiosamente in un vasetto sul piano del cassettone nella sua camera, innanzi all’immagine del suo unico figliuolo, morto da tant’anni.

            È così intima e raccolta, quella casetta, e paga della vita che racchiude in sé, e senz’alcun desiderio di quella che si svolge rumorosa fuori, lontano! Sta lì, come rannicchiata dietro il poggio verde, e non ha voluto neanche la vista del mare e del golfo meraviglioso. Voleva rimanere appartata, ignorata da tutti, quasi nascosta lì in quel cantuccio verde e solitario, fuori e lontana dalle vicende del mondo.

            C’era una volta sul pilastrino del cancello una targhetta di marmo, che recava il nome del proprietario: Carlo Mirelli. Nonno Carlo pensò di levarla, quando la morte trovò la via, la prima volta, per entrare in quella schiva casetta perduta in campagna, e si portò via il figliuolo di appena trent’anni, già padre a sua volta di due piccini.

            Credette forse nonno Carlo che, tolta dal pilastrino la targhetta, la morte non avrebbe trovato più la via per ritornare?

            Nonno Carlo era di quei vecchi, che portavano la papalina di velluto col fiocco di seta, ma sapevano leggere Orazio. Sapeva dunque che la morte, aequo pede, picchia a tutte le porte, abbiano o non abbiano il nome inciso su la targhetta.

            Se non che, ciascuno, accecato da quelle che stima ingiustizie della sorte, prova il bisogno irragionevole di rovesciar le furie del proprio cordoglio su qualcuno o su qualche cosa. Le furie di nonno Carlo, quella volta, s’abbatterono su l’innocente targhetta del pilastrino.

            Se la morte si lasciasse afferrare, io la avrei afferrata per un braccio e condotta davanti a quello specchio, ove con tanta limpida precisione si riflettevano nell’immobilità i due cestelli di frutta e il dietro dell’orologetto di bronzo, e le avrei detto:

            – Vedi? Vàttene ora! Qua deve restar tutto così com’è! Ma la morte non si lascia afferrare.

            Abbattendo quella targhetta, forse nonno Carlo volle significare che – morto il figliuolo – lì, di vivi, non restava più nessuno!

            La morte ritornò poco dopo.

            C’era una viva, che perdutamente ogni notte la invocava: la nuora vedova, che, appena morto il marito, si sentì come staccata dalla famiglia, straniera nella casa.

            Così, i due piccini orfani: Lidia, la maggiore di appena cinque anni, e Giorgetto di tre, restarono del tutto affidati ai due nonni non ancora tanto vecchi.

            Riprendere daccapo la vita, quando già comincia a mancare, e ritrovare in sé le prime maraviglie dell’infanzia; ricomporre attorno a due rosei bimbi gli affetti più ingenui, i sogni più adatti, e ricacciare come importuna e fastidiosa l’esperienza, che di tratto in tratto sporge il viso di vecchia appassita per dire, ammiccando dietro gli occhiali: avverrà questo, avverrà quest’altro, quando ancora non è avvenuto niente, ed è così bello che non sia avvenuto niente; e fare e pensare e dire, come se veramente non si sapesse altro, fuor di quello che per ora sanno i due piccini che non sanno nulla: fare come se le cose non fossero riviste in un ritorno, ma con gli occhi di chi va innanzi per la prima volta e per la prima volta vede e sente: questo miracolo operarono nonno Carlo e nonna Rosa; fecero cioè per i due piccini assai più di quel che avrebbero fatto il padre e la madre, i quali, se fossero vissuti, giovani com’erano entrambi, avrebbero pur voluto godersi la vita ancora un po’ per sé. Né il non averne più da godere per loro rese più facile il compito ai due vecchi, perché ai vecchi si sa che è grave il peso d’ogni cosa, che non abbia più né senso né valore per essi.

            I due nonni accettarono quel senso e quel valore, che i due nipotini a mano a mano, crescendo, cominciarono a dare alle còse, e tutto il mondo si ricolorì di giovinezza per loro e la vita riebbe candore e freschezza d’ingenuità. Ma che potevano sapere del mondo tanto grande, della vita tanto diversa, che s’agitava fuori, lontano, quei due giovinetti nati e cresciuti nella casa di campagna? Vecchi, quel mondo e quella vita, li avevano dimenticati, tutto per essi era ridiventato nuovo, il cielo, la campagna, il canto degli uccelli, il sàpor delle vivande. Di là dal cancello, non c’era più vita. La vita partiva di qua e nuova s’irraggiava tutt’intorno; e niente s’immaginavano i vecchi che potesse venirne da fuori; e anche la morte, anche la morte avevano quasi dimenticata, che pure già due volte era venuta.

            Ebbene, pazienza, la morte, a cui nessuna casa, per quanto lontana e nascosta, può restare ignota! Ma come mai, partita da mille e mille miglia lontano, sospinta, o trascinata, sbattuta qua e là dal turbine di tante vicende misteriose, potè trovar la via di quella casetta schiva, lì rannicchiata dietro il poggio verde, una donna, a cui la pace e gli affetti, che quivi regnavano, dovevano essere, nonché incomprensibili, ma neppur concepibili?

            Io non ho le tracce, né forse le ha nessuno, del cammino seguito da questa donna per arrivare alla dolce casetta di campagna, presso Sorrento.

            Lì, proprio lì, davanti al pilastrino del cancello, da cui nonno Carlo da gran tempo aveva fatto strappare la targhetta, ella non arrivò da sé, veramente; non alzò lei la mano, la prima volta, a sonare la campanella per farsi aprire il cancello. Ma non molto lontano di lì ella si fermò ad aspettare, che un giovanetto, fin allora custodito con l’anima e col fiato da due vecchi nonni, bello, ingenuo, fervido, con l’anima tutta alata di sogni, da quel cancello uscisse fiducioso verso la vita.

            O nonna Rosa, e voi lo chiamate ancora dal giardinetto, perché egli vi ajuti a cogliere con la cannuccia i vostri gelsomini di bella notte?

            – Giorgio! Giorgio!

            Ho ancora negli orecchi, nonna Rosa, la vostra voce. E provo una dolcezza accorata, che non so dire, nell’immaginarvi ancora lì, nella vostra casetta, che rivedo come se vi fossi tuttora e tuttora ne respirassi l’alito che vi cova, d’antica vita; nell’immaginarvi ignara di quanto è accaduto, com’eravate prima, quand’io, nelle vacanze estive, venivo da Sorrento ogni mattina a preparare per gli esami d’ottobre il vostro nipote Giorgio, che non voleva sapere né di latino né di greco, e imbrattava invece tutti i pezzi di carta che gli capitavano sotto mano, i margini dei libri, il piano del tavolino da studio, di schizzi a penna e a matita, di caricature. Ci dev’essere anche la mia, ancora, sul piano di quel tavolino tutto scombiccherato.

            – Eh, signor Serafino, – sospirate voi, nonna Rosa, porgendomi in una tazza antica il solito caffè con l’essenza di cannella, come quello che offrono le zie monache nelle badìe, – eh, signor Serafino, Giorgio ha comprato i colori; ci vuol lasciare; vuol farsi pittore…

            E dietro le vostre spalle sgrana i dolci, limpidi occhi cilestri e si fa rossa rossa Lidiuccia, la vostra nipote; Duccella, come voi la chiamate. Perché?

            Ah, perché… È venuto già tre volte da Napoli un signorino, un bel signorino tutto profumato, col panciotto di velluto, i guanti canarini scamosciati, la caramella all’occhio destro e lo stemma baronale nel fazzoletto e nel portafogli. L’ha mandato il nonno, barone Nuti, amico di nonno Carlo, amico da fratello, prima che nonno Carlo, stanco del mondo, si ritirasse da Napoli, qua, nella villetta sorrentina. Voi lo sapete, nonna Rosa. Ma non sapete che il signorino di Napoli incoraggia fervorosamente Giorgio a darsi all’arte e ad andarsene a Napoli con lui. Lo sa Duccella, perché il signorino Aldo Nuti (che stranezza!), parlando con tanto fervore dell’arte, non guarda mica Giorgio, guarda lei, negli occhi, come se dovesse incoraggiare lei e non Giorgio; sì, sì, lei, a venirsene a Napoli per star sempre sempre accanto a lui.

            Ecco perché Duccella si fa rossa rossa, dietro le vostre spalle, nonna Rosa, appena vi sente dire che Giorgio vuol fare il pittore.

            Anche lui, il signorino di Napoli, se il nonno permettesse… No, pittare no… Vorrebbe darsi al teatro, lui, far l’attore. Quanto gli piacerebbe! Ma il nonno non vuole…

            Scommettiamo, nonna Rosa, che non vuole neanche Duccella?

 II.

            I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d’idillio, circa quattr’anni dopo, io li conosco sommariamente.

            Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch’io studente, un povero studente invecchiato nell’attesa di proseguir gli studii, e a cui i sacrifizii durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una suggezione che tuttavia non si stancava, benché quell’attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni.

            Ma forse non fu tempo perduto. Studiai da me e meditai, in quell’attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici, a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all’Università.

            Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza. M’affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata, modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all’Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar lì nel cassetto, ove da tant’anni dormiva, il diploma di licenza dall’istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere.

            Prevalsero i consigli dei parenti, e partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall’uomo per la sua felicità.

            Ne ho cavato, come si vede, un gran profitto. Mi sono allontanato con orrore istintivo dalla realtà, quale gli altri la vedono e la toccano, senza tuttavia poterne affermare una mia, dentro e attorno a me, poiché i miei sentimenti distratti e fuorviati non riescono a dare né valore né senso a questa mia vita incerta e senz’amore. Guardo ormai tutto, e anche me stesso, come da lontano; e da nessuna cosa mai mi viene un cenno amoroso ad accostarmi con fiducia o con speranza d’averne qualche conforto. Cenni, sì, pietosi, mi sembra di scorgere negli occhi di tanta gente, negli aspetti di tanti luoghi che mi spingono non a ricevere né a dare conforto, ché non può darne chi non può riceverne; ma pietà. Eh, pietà, sì… Ma so che la pietà, a dare e a ricevere, è così difficile.

            Per parecchi anni, ritornato a Napoli, non trovai da far nulla; feci vita da scapigliato con giovani artisti, finché durarono gli ultimi resti di quella piccola eredità. Devo al caso, com’ho detto, e all’amicizia d’un mio antico compagno di studii il posto che occupo. Lo tengo – diciamolo, sì – con onore, e del mio lavoro sono ben remunerato. Oh, mi stimano tutti, qua, un ottimo operatore: vigile, preciso e d’una perfetta impassibilità. Se debbo esser grato al Polacco, anche Polacco dev’esser grato a me della benÈmerenza che s’è acquistata presso il commendator Borgalli, direttore generale e consigliere delegato della Kosmograph, per l’acquisto che la Casa ha fatto d’un operatore come me. Il signor Gubbio non è addetto propriamente a nessuna delle quattro compagnie del reparto artistico, ma è chiamato or qua or là da tutte, per la confezione dei films di più lungo metraggio e più difficili. Il signor Gubbio lavora molto di più degli altri cinque operatori della Casa; ma per ogni film ben riuscito ha un ricco dono e frequenti gratificazioni. Dovrei esser lieto e soddisfatto. Rimpiango invece il tempo della magrezza e delle follie a Napoli tra i giovani artisti.

            Appena ritornato da Liegi, rividi Giorgio Mirelli, già colà da due anni. Aveva di recente esposto in una mostra d’arte due strani quadri, che avevano suscitato nella critica e nel pubblico lunghe e violente discussioni. Conservava l’ingenuità e il fervore dei sedici anni; non aveva occhi per vedere la trascuratezza del suo vestire, i suoi capelli arruffati, i primi peli radi che gli s’arricciavano lunghi sul mento e su le gote magre, come a un malato: e malato era d’una divina malattia; in preda a un’ansia continua, che non gli faceva né scorgere né toccare quella che per gli altri era la realtà della vita; sempre sul punto di lanciarsi con impeto a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva.

            Gli domandai de’ suoi. Mi disse che nonno Carlo era morto da poco. Lo guardai meravigliato del modo con cui mi dava quella notizia; pareva non avesse provato alcuna pena di quella morte. Ma, richiamato da quel mio sguardo al suo dolore, disse: – Povero nonno… – con tanto rimpianto e con un tal sorriso, che subito mi ricredetti e compresi ch’egli, nel tumulto di tanta vita che gli ferveva dentro, non aveva né modo né tempo di pensare a’ suoi dolori.

            E nonna Rosa? Nonna Rosa stava bene… sì, benino… come poteva, povera vecchietta, dopo quella morte. Due spighe di rizòmolo, adesso, da riempir di gelsomini, ogni mattina, una per il morto recente, l’altra per il morto lontano.

            E Duccella, Duccella?

            Ah come risero gli occhi del fratello alla mia domanda!

            – Vermiglia! vermiglia!

            E mi disse che già da un anno era fidanzata al baronello Aldo Nuti. Le nozze si sarebbero dovute celebrare tra poco; erano state rimandate per la morte di nonno Carlo.

            Ma non si mostrò lieto di quelle nozze; mi disse anzi che Aldo Nuti non gli pareva un compagno adatto per Duccella; e, agitando in aria le dita delle due mani, uscì in quell’esclamazione di nausea, che soleva usare quand’io m’affannavo a fargli capire le regole e le partizioni della seconda declinazione greca:

            – Complicato! complicato! complicato!

            Non era più possibile tenerlo fermo, dopo questa esclamazione. E come scappava allora dal tavolino da studio, mi scappò davanti quella volta. Lo perdetti di vista per più d’un anno. Seppi da’ suoi compagni d’arte, che se n’era andato a Capri, a dipingere.

            Trovò lì Varia Nestoroff.

 III.

            Conosco bene adesso questa donna, o almeno quanto è possibile conoscerla, e mi spiego tante cose rimaste lungo tempo per me incomprensibili. Se non che, la spiegazione ch’io ora me ne faccio, rischierà forse di parere incomprensibile agli altri. Ma io me la faccio per me e non per gli altri; e non intendo minimamente di scusare con essa la Nestoroff.

            Scusarla davanti a chi?

            Io mi guardo dalla gente di professione perbene, come dalla peste.

            Sembra impossibile che non debba godere della propria malvagità chi per calcolo e con freddezza la eserciti. Ma se questa infelicità (e dev’esser tremenda) esiste, dico di non poter godere della propria malvagità, lo sprezzo per questi malvagi, come per tanti altri infelici, forse può esser vinto, o almeno attenuato, da una certa pietà. Parlo, per non offendere, quasi come una persona discretamente perbene.

            Ma dovremmo, buon Dio, riconoscere questo: che siamo tutti – chi più, chi meno – malvagi; ma che non ne godiamo, e siamo infelici.

            È possibile?

            Tutti riconosciamo volentieri la nostra infelicità; nessuno, la propria malvagità; e quella vogliamo vedere senz’alcuna ragione o colpa nostra; mentre cento ragioni, cento scuse e giustificazioni ci affanniamo a trovare per ogni piccolo atto malvagio da noi compiuto, che ci sia messo innanzi dagli altri o dalla nostra stessa coscienza.

            Volete vedere come subito ci ribelliamo e neghiamo sdegnati un atto di malvagità, pure innegabile, e del quale pure innegabilmente abbiamo goduto?

            Sono avvenuti questi due fatti. (Non divago, perché la Nestoroff è stata paragonata da qualcuno alla bella tigre comperata, qualche giorno fa, dalla Kosmograph.) Sono avvenuti, dunque, questi due fatti.

            Uno stormo d’uccelli di passo – beccacce e beccaccini – sono calati per riposarsi un po’ dal lungo volo e rifocillarsi, su la campagna romana. Hanno scelto male il posto. Un beccaccino, più ardito degli altri, dice ai compagni:

            – Voi state qua, riparati in questa fratta. Io andrò a esplorare intorno e, se trovo di meglio, vi chiamerò.

            Un vostro amico ingegnere, d’animo avventuroso, membro della Società Geografica, ha accettato l’incarico di recarsi in Africa, non so bene (perché bene non lo sapete neppur voi) per quale esplorazione scientifica. Egli è ancora lontano dalla mèta; avete ricevuto da lui qualche notizia; l’ultima v’ha lasciato in una certa costernazione, perché il vostro amico v’esponeva i rischi, a cui sarebbe andato incontro, accingendosi a traversare non so che remote plaghe selvagge e deserte.

            Oggi è domenica. Voi vi alzate presto per andare a caccia. Avete fatto i preparativi jeri sera, ripromettendovi un gran piacere. Scendete dal treno, àlacre e lieto; vi allontanate per la campagna fresca, verde, un po’ nebbiosa, in cerca d’un buon posto per gli uccelli di passo. State all’aspetto mezz’ora, un’ora; cominciate a stancarvi e togliete di tasca il giornale comperato prima di partire, alla stazione. A un certo punto, avvertite come un frullo d’ali fra l’intrico dei rami nella macchia; lasciate il giornale; vi avvicinate cheto e chinato; prendete la mira; sparate. Oh gioja! Un beccaccino!

            Sì, proprio un beccaccino. Proprio quel beccaccino esploratore, che aveva lasciato i compagni nella fratta.

            So che voi non mangiate la caccia: la regalate agli amici: per voi tutto è qui, nel piacere d’uccidere quella che chiamate selvaggina.

            La giornata non promette bene. Ma voi, come tutti i cacciatori, siete un po’ superstizioso: credete che la lettura del giornale vi abbia portato fortuna, e ritornate a leggere il giornale al posto di prima. Nella seconda pagina trovate la notizia, che il vostro amico ingegnere, andato in Africa per conto della Società Geografica, attraversando quelle tali plaghe selvagge e deserte, è morto sciaguratamente: assaltato, sbranato e divorato da una belva.

            Leggendo con raccapriccio la narrazione del giornale, non vi passa neanche lontanamente per il capo di porre il paragone tra la belva, che ha ucciso il vostro amico, e voi, che avete ucciso il beccaccino, esploratore come lui.

            Eppure, starebbe perfettamente nei termini, e temo anzi con qualche vantaggio per la belva, perché voi avete ucciso per piacere e senz’ alcun rischio per voi d’essere ucciso; mentre la belva, per fame, cioè per bisogno, e col rischio d’essere uccisa dal vostro amico, che certamente era armato.

            Retorica, è vero? Eh sì, caro; non vi sdegnate troppo; lo riconosco anch’io: retorica, perché noi, per grazia di Dio, siamo uomini e non beccaccini.

            Il beccaccino, lui, senza timore di far della retorica, potrebbe sì porre il paragone e chiedere che almeno gli uomini che vanno per piacere a caccia, non chiamino feroci le bestie.

            Noi, no. Noi non possiamo ammettere il paragone, perché qua abbiamo un uomo che ha ucciso una bestia, e là una bestia che ha ucciso un uomo.

            Tutt’al più, caro beccaccino, per farti qualche concessione, possiamo dire, che tu eri una povera bestiolina innocua, ecco! Ti basta? Ma tu da questo non inferire, che la nostra malvagità sia perciò appunto maggiore; e, sopra tutto, non dire che, chiamandoti bestiolina innocua e uccidendoti, non abbiamo piùil diritto di chiamar feroce la bestia che ha ucciso per fame e non per piacere un uomo.

            Ma quando poi un uomo, tu dici, si riduce peggio d’una bestia?

            Ecco, sì; bisogna stare attenti, veramente, alle conseguenze della logica. Tante volte si sdrucciola, e non si sa più dove si vada a parare.

 IV.

            Il caso di vedere gli uomini ridursi peggio d’una bestia, è dovuto accadere molto di frequente a Varia Nestoroff.

            Eppure ella non li ha uccisi. Cacciatrice, come voi siete cacciatore. Il beccaccino voi lo avete ucciso. Ella non ne ha ucciso nessuno. Uno solo, per lei, si è ucciso, con le sue mani: Giorgio Mirelli; ma non per lei solamente.

            La belva, intanto, che fa male per un bisogno della sua natura, non è – che si sappia – infelice.

            La Nestoroff, come per tanti segni si può argomentare, è infelicissima. Non gode della sua malvagità, pure con tanto calcolo e con tanta freddezza esercitata.

            Se dicessi apertamente questo ch’io penso di lei a’ miei compagni operatori, agli attori, alle attrici della Casa, tutti sospetterebbero subito che mi sia anch’io innamorato della Nestoroff.

            Non mi curo di questo sospetto.

            La Nestoroff ha per me, come tutti i suoi compagni d’arte, un’avversione quasi istintiva. Non la ricambio affatto perché con lei io non vivo, se non quando sono a servizio della mia macchinetta, e allora, girando la manovella, io sono quale debbo essere, cioè perfettamente impassibile. Non posso né odiare né amare la Nestoroff, come non posso odiare né amare nessuno. Sono una mano che gira la manovella. Quando poi, alla fine, sono reintegrato, cioè quando per me il supplizio d’esser soltanto una mano finisce, e posso riacquistare tutto il mio corpo, e meravigliarmi d’avere ancora su le spalle una testa, e riabbandonarmi a quello sciagurato superfluo che è pure in me e di cui per quasi tutto il giorno la mia professione mi condanna a esser privo; allora… eh, allora gli affetti, i ricordi che mi si ridestano dentro, non sono tali certo, che possano persuadermi ad amare questa donna. Fui amico di Giorgio Mirelli e tra le più care rimembranze della mia vita è la dolce casa di campagna presso Sorrento, ove ancor vivono e soffrono nonna Rosa e la povera Duccella.

            Io studio. Séguito a studiare, perché questa è forse la mia più forte passione: nutrì nella miseria e sostenne i miei sogni, ed è il solo conforto che io mi abbia, ora che essi sono finiti così miseramente.

            Studio, dunque, senza passione, ma intentamente questa donna, che se pur mostra di capire quello che fa e il perché lo fa, non ha però in sé affatto quella «sistemazione» tranquilla di concetti, d’affetti, di diritti e di doveri, d’opinioni e d’abitudini ch’io odio negli altri.

            Ella non sa di certo, che il male che può fare agli altri; e lo fa, ripeto, per calcolo e con freddezza.

            Questo, nella stima degli altri, di tutti i «sistemati», la esclude da ogni scusa. Ma credo che non sappia darsene alcuna, ella medesima, del male che pur sa d’aver fatto.

            Ha in sé qualche cosa, questa donna, che gli altri non riescono a comprendere, perché bene non lo comprende neppure lei stessa. Si indovina però dalle violente espressioni che assume, senza volerlo, senza saperlo, nelle parti che le sono assegnate.

            Ella sola le prende sul serio, e tanto più quanto più sono illogiche e strampalate, grottescamente eroiche e contraddittorie. E non c’è verso di tenerla in freno, di farle attenuare la violenza di quelle espressioni. Manda a monte ella sola più pellicole, che non tutti gli altri attori delle quattro compagnie presi insieme. Già esce dal campo ogni volta; quando per caso non ne esce, è così scomposta la sua azione, così stranamente alterata e contraffatta la sua figura, che nella sala di prova quasi tutte le scene a cui ella ha preso parte, resultano inaccettabili e da rifare.

            Qualunque altra attrice, che non avesse goduto e non godesse come lei la benevolenza del magnanimo commendator Borgalli, sarebbe stata già da un pezzo licenziata.

            – Là là là… – esclama invece il magnanimo commendatore, senza inquietarsi, vedendo sfilar su lo schermo della sala di prova quelle immagini da ossessa, – là là là… ma via… ma no… ma com’è possibile?… oh Dio, che orrore… via via via…

            E se la piglia con Polacco e, in generale, con tutti i direttori di scena, i quali si tengono per sé gli scenarii, contentandosi di suggerire volta per volta agli attori l’azione da svolgere in ogni singola scena, spesso saltuariamente, perché non tutte le scene possono eseguirsi con ordine, una dopo l’altra, in un teatro di posa. Ne viene, che quelli spesso non sanno neppure che parte stieno a rappresentare nell’insieme, e che si senta qualche attore domandare a un certo punto:

            – Ma scusi, Polacco, io sono il marito o l’amante?

            Invano Polacco protesta d’avere spiegato bene alla Nestoroff tutta intera la parte. Il commendator Borgalli sa che la colpa non è del Polacco; tant’è vero, che gli ha dato un’altra prima attrice, la Sgrelli, per non fargli andare a monte tutti i films affidati alla sua compagnia. Ma la Nestoroff protesta dal canto suo, se Polacco si serve soltanto della Sgrelli o più della Sgrelli che di lei, vera prima attrice della compagnia. I maligni dicono che lo fa per rovinare il Polacco, e il Polacco stesso crede così e lo va dicendo. Non è vero: non c’è altra rovina, qua, che di pellicole; e la Nestoroff è veramente disperata di ciò che le avviene; ripeto, senza volerlo e senza saperlo. Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita delle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla.

            Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge, per trattenerla, per domandarle che cosa voglia, perché soffra, che cosa ella dovrebbe fare per ammansarla, per placarla, per darle pace.

            Nessuno, che non abbia gli occhi velati da una passione contraria e l’abbia vista uscire dalla sala di prova dopo l’apparizione di quelle sue immagini, può aver più dubbii su ciò. Ella è veramente tragica: spaventata e rapita, con negli occhi quello stupor tenebroso che si scorge negli agonizzanti, e a stento riesce a frenare il fremito convulso di tutta la persona.

            So la risposta che mi si darebbe, se lo facessi notare a qualcuno:

            «Ma è la rabbia! freme di rabbia!».

            È la rabbia, sì; ma non quella che tutti suppongono, cioè per un film andato a male. Una rabbia fredda, più fredda d’una lama, è veramente l’arma di questa donna contro tutti i suoi nemici. Ora, Cocò Polacco non è per lei un nemico. Se fosse, ella non fremerebbe così: freddissimamente si vendicherebbe di lui.

            Nemici per lei diventano tutti gli uomini, a cui ella s’accosta, perché la ajutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da se stessa.

            Ebbene, nessuno si è mai curato di questo, che a lei più di tutto preme; tutti, invece, rimangono abbagliati dal suo corpo elegantissimo, e non vogliono aver altro, né saper altro di lei. E allora ella li punisce con fredda rabbia, là dove s’appuntano le loro brame; ed esaspera prima queste brame con la più perfida arte, perché più grande sia poi la sua vendetta. Si vendica, facendo getto, improvvisamente e freddamente, del suo corpo a chi meno essi si aspetterebbero: così, là, per mostrar loro in quanto dispregio tenga ciò che essi sopra tutto pregiano di lei.

            Non credo che possano spiegarsi in altro modo certi subitanei cangiamenti nelle sue relazioni amorose, che appajono a tutti, a prima giunta, inesplicabili, perché nessuno può negare ch’ella con essi non abbia fatto il suo danno.

            Se non che gli altri, ripensandoci e considerando da una parte la qualità di coloro con cui ella prima s’era messa, e dall’altra quella di coloro a cui d’improvviso s’è gettata, dicono che questo dipende perché ella coi primi non poteva stare, non poteva respirare; mentre a questi altri si sentiva attratta da un’affinità «canagliesca»; e quel getto di sé improvviso e inopinato lo spiegano come lo sbalzo di chi, a lungo soffocato, voglia prendere alfine, dove può, una boccata d’aria.

            E se fosse proprio il contrario? Se per respirare, per aver quell’ajuto ch’io ho detto più sù, ella si fosse accostata ai primi, e invece d’averne quel respiro, quell’ajuto che sperava, nessun respiro e nessun ajuto avesse avuto da loro, ma anzi un dispetto e una nausea più forti, perché accresciuti ed esacerbati dal disinganno, e anche da quel certo sprezzo che sente per i bisogni dell’anima altrui chi non vede e non cura se non la propria ANIMA, così, tutta in lettere majuscole? Nessuno lo sa; ma di queste «canagliate» possono essere ben capaci coloro che più si stimano da sé e son dagli altri stimati superiori. E allora… allora meglio la canaglia che si dà per tale, che se ti attrista, non ti delude; e che può avere, come spesso ha, qualche lato buono e, di tratto in tratto, certe ingenuità, che tanto più ti rallegrano e ti rinfrescano, quanto meno in loro te le aspetti.

            Il fatto è, che da più d’un anno la Nestoroff è con l’attore siciliano Carlo Ferro, anch’esso qui scritturato alla Kosmograph: ne è dominata e innamoratissima. Sa quello che da un tale uomo ella si può aspettare, e non gli chiede altro. Ma pare che abbia da lui assai più di quanto gli altri possano figurarsi.

            Ragion per cui, da qualche tempo in qua, mi sono messo a studiare con molto interesse anche lui, Carlo Ferro.

 V. 

            Problema per me assai più difficile da risolvere è questo: come mai Giorgio Mirelli, che rifuggiva con tanta insofferenza da ogni complicazione, si sia perduto appresso a questa donna, fino al punto da lasciarci la vita.

            Mi mancano quasi tutti i dati per risolvere questo problema, e ho già detto che del dramma ho appena una notizia sommaria.

            So da varie fonti che la Nestoroff, a Capri, quando Giorgio Mirelli la vide per la prima volta, era assai malvista e trattata con molta diffidenza dalla piccola colonia russa, che da parecchi anni ha preso stanza in quell’isola.

            Finanche c’era chi la sospettava spia, forse perché ella, poco accortamente, s’era presentata come vedova d’un vecchio cospiratore, morto alcuni anni prima del suo arrivo a Capri, fuggiasco a Berlino. Pare che qualcuno abbia domandato notizie tanto a Berlino, quanto a Pietroburgo sul conto di lei e di questo vecchio cospiratore sconosciuto, e che si sia venuti a sapere, che un certo Nicola Nestoroff veramente era stato per alcuni anni spatriato a Berlino, e vi era morto, ma senza che a nessuno mai avesse dato a conoscersi come spatriato per compromissioni politiche. Pare anche si sia saputo, che questo Nicola Nestoroff avesse tolto costei, ragazza, dalla strada, in uno dei quartieri più popolari e malfamati di Pietroburgo e, fattala educare, l’avesse sposata; poi, ridotto per i suoi vizii quasi alla miseria, sfruttata, mandandola a cantare in caffè-concerti d’infimo ordine, finché, ricercato dalla polizia, non era scappato via, solo, in Germania. Ma la Nestoroff, per quello che io ne so, nega sdegnosamente tutto questo. Che si sia lagnata con qualcuno in segreto dei maltrattamenti anzi delle sevizie patite fin da ragazza da quel vecchio, è possibile; ma non dice che egli l’abbia sfruttata; dice anzi che lei, spontaneamente, per seguire la sua passione e un po’ anche per sopperire ai bisogni della vita, vincendo l’opposizione di lui, s’era data a recitare in provincia, re-ci-ta-re, in teatri di prosa; e che poi, fuggito dalla Russia il marito per compromissioni politiche e riparato a Berlino, ella, sapendolo infermo e bisognoso di cure, impietosita, lo aveva raggiunto colà e assistito fino alla morte. Che cosa poi abbia fatto a Berlino, da vedova, e quindi a Parigi e a Vienna, di cui spesso parla, dimostrando di conoscerne a fondo la vita e i costumi, né ella dice, né alcuno certo s’arrischia a domandarle.

            Per certuni, vorrei dire per moltissimi che non sanno vedere se non se stessi, amare l’umanità, spesso, anzi quasi sempre, non significa altro, che esser contenti di sé.

            Molto contento di sé, della sua arte, de’ suoi studii di paese, dovette essere in quei giorni a Capri, senza dubbio, Giorgio Mirelli.

            Veramente – e già mi pare d’averlo detto – il suo stato d’animo abituale era il rapimento e la meraviglia. Dato un tale stato d’animo, è facile immaginare che questa donna egli non vide qual’era, coi bisogni che aveva, offesa, fustigata, invelenita dalla diffidenza e dalle dicerie maligne attorno a lei; ma nella figurazione fantastica, ch’egli subito se ne fece, e illuminata dalla luce che le diede. Per lui i sentimenti dovevano esser colori, e forse, preso tutto dalla sua arte, non aveva più altro sentimento, che dei colori. Tutte le impressioni che ebbe di lei, forse derivarono solamente da quella luce di cui la illuminava: impressioni, dunque, solamente per lui. Ella non dovette – perché non poteva – parteciparne. Ora, nulla irrita più, che il restare esclusi da una gioja, viva e presente davanti a noi, attorno a noi, di cui non si scopra né s’indovini la ragione. Ma se pur Giorgio Mirelli gliel’avesse dichiarata, non avrebbe potuto comunicargliela. Era una gioja soltanto per lui e dimostrava che anch’egli, in fondo, non pregiava e non voleva altro di lei, che il corpo; non come gli altri, è vero, per un basso intento; ma questo anzi, a lungo andare – se ben si consideri – non poteva che irritare di più quella donna. Perché, se il non vedersi ajutata nelle smaniose incertezze dello spirito da quanti non vedevano e non volevano altro di lei che il corpo, per saziar su esso la fame bruta del senso, le faceva dispetto e nausea; il dispetto per uno, che voleva anch’esso il corpo e nient’altro; il corpo, ma solo per trarne una gioja ideale e assolutamente per sé, doveva esser tanto più forte, in quanto mancava appunto ogni motivo di nausea, e più difficile, anzi vana addirittura rendeva quella vendetta, ch’ella almeno soleva prendersi contro gli altri. Un angelo per una donna è sempre più irritante d’una bestia.

            So da tutti i compagni d’arte di Giorgio Mirelli a Napoli, ch’egli era castissimo, non perché non sapesse farsi valere su le donne, ché timido non era affatto, ma perché istintivamente rifuggiva da ogni distrazione volgare.

            Per spiegarci il suo suicidio, senz’alcun dubbio dipeso in gran parte dalla Nestoroff, dobbiamo supporre ch’ella, non curata, non ajutata e irritatissima, per potersi vendicare, dovette con le arti più fini e più accorte far sì che il suo corpo a mano a mano davanti a lui cominciasse a vivere, non per la delizia degli occhi soltanto; e che, quando lo vide come tant’altri vinto e schiavo, gli vietò, per meglio assaporare la vendetta, che da lei prendesse altra gioja, che non fosse quella di cui finora s’era contentato, come unica ambita, perché unica degna di lui.

            Dico dobbiamo supporre questo, ma a volere esser maligni. La Nestoroff potrebbe dire, e forse dice, ch’ella non fece nulla per alterare quella relazione di pura amicizia, che s’era stabilita tra lei e il Mirelli: tanto vero che, quand’egli, non più pago di quella pura amicizia, più che mai corrivo per le severe repulse da lei opposte, pur d’ottenere l’intento, le si profferse marito, ella lottò a lungo – e questo è vero; io l’ho saputo – per dissuaderlo, e volle partire da Capri, sparire; e alla fine non si arrese, se non per la violenta disperazione di lui.

            Ma è vero che, a volere esser maligni, si può anche pensare, che tanto le repulse, quanto la lotta e la minaccia e il tentativo di partire, di sparire, forse furono tante arti ben meditate e attuate per ridurre alla disperazione quel giovine, dopo averlo sedotto, e ottenerne tante e tante cose, ch’egli altrimenti forse non le avrebbe mai accordate. Prima fra queste, che fosse presentata come promessa sposa nella villetta di Sorrento a quella cara nonna, a quella dolce sorellina, di cui egli le aveva parlato, e al fidanzato di lei.

            Pare che questi, Aldo Nuti, più che le due donne, si sia opposto fieramente a tale pretesa. Autorità e potere da contrastargli e impedirgli quelle nozze non aveva, giacché Giorgio era ormai padrone di sé, delle sue azioni e credeva di non doverne più dar conto a nessuno; ma che conducesse lì quella donna e la ponesse a contatto con la sorella e obbligasse questa ad accoglierla e a trattarla da sorella, a questo sì, perdio, poteva e doveva opporsi e s’opponeva con tutte le forze. Ma sapevano esse, nonna Rosa e Duccella, che razza di donna fosse quella che Giorgio voleva condurre lì e sposare? Un’avventuriera russa, un’attrice, se non qualcosa di peggio! Come permetterlo, come non opporsi con tutte le forze?

            Ancora con tutte le forze… Eh sì, chi sa quanto dovettero combattere nonna Rosa e Duccella per vincere a poco a poco, con dolce e mesta persuasione, tutte quelle forze di Aldo Nuti. Se avessero potuto immaginare, che cosa dovevano diventare queste forze al cospetto di Varia Nestoroff, appena entrata, timida, aerea e sorridente nella cara villetta di Sorrento!

            Forse Giorgio, per scusare l’indugio che nonna Rosa e Duccella mettevano a rispondere, avrà detto alla Nestoroff, che quell’indugio dipendeva dall’opposizione con tutte le forze del fidanzato della sorella; dimodoché la Nestoroff si sentì tentata a misurarsi con queste forze, subito, appena entrata nella villetta. Non so nulla! So che Aldo Nuti fu attratto come in un gorgo e subito travolto come un fuscellino di paglia nella passione per questa donna.

            Io non lo conosco. Lo vidi da ragazzo una volta sola, quando facevo da ripetitore a Giorgio; e mi parve fatuo. Tale mia impressione non s’accorda con ciò che mi disse di lui, al mio ritorno da Liegi, il Mirelli, ch’egli fosse cioè complicato. Ma anche ciò che da altri ho saputo sul suo conto non risponde ffatto a quella mia prima impressione, la quale pure irresistibilmente m’ha tratto a parlar di lui, secondo l’idea che per essa me ne sono fatta. Dev’essere, realmente, sbagliata. Duccella potè amarlo! E questo, per me, prova più che altro il mio errore. Ma alle impressioni non si comanda. Sarà, come mi dicono, un giovane serio, per quanto di temperamento ardentissimo; per me, finché non lo rivedo, rimane quel ragazzo fatuo, con lo stemma baronale nei fazzoletti e nel portafogli, il signorino a cui sarebbe tanto piaciuto di far l’attore drammatico.

            Lo fece, e non per finta, con la Nestoroff, a spese di Giorgio Mirelli. Il dramma si svolse a Napoli, poco dopo la presentazione e il breve soggiorno della Nestoroff là a Sorrento. Pare che il Nuti se ne fosse tornato a Napoli coi due fidanzati, dopo quel breve soggiorno, per ajutar Giorgio inesperto e lei non ancor pratica della città, a metter sù casa, prima delle nozze.

            Forse il dramma non sarebbe avvenuto o avrebbe avuto una catastrofe diversa, se non ci fosse stata la complicazione del fidanzamento, o meglio, dell’amore di Duccella per il Nuti. Per questo Giorgio Mirelli dovette ritorcere contro se stesso la violenza dell’orrore insostenibile, che gli s’avventò addosso dall’improvvisa scoperta del tradimento.

            Aldo Nuti scappò da Napoli come un forsennato, prima che da Sorrento sopravvenissero alla notizia del suicidio di Giorgio nonna Rosa e Duccella.

            Povera Duccella, povera nonna Rosa! La donna, che da mille e mille miglia lontano venne a portare lo scompiglio e la morte nella vostra casetta, ove insieme con quei gelsomini di bella notte sbocciava il più ingenuo degli idillii, io la ho qua, adesso, sotto la mia macchinetta, ogni giorno; e, se sono vere le notizie datemi dal Polacco, avrò tra poco anche lui, qua, Aldo Nuti, il quale pare abbia saputo che la Nestoroff è prima attrice alla Kosmograph.

            Non so perché, mi dice il cuore che, girando la manovella di questa macchinetta di presa, io sono destinato a fare anche la vostra vendetta e del vostro povero Giorgio, cara Duccella, cara nonna Rosa!

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