Pirandello vs d’Annunzio

Di Paolo Puppa

L’idiosincrasia per lo «spregevole (sempre per lui fu spregevole) uomo d’Annunzio»,[…] si accentua man mano che il siciliano si lancia nell’impresa teatrale, sino ad assumere rischiose responsabilità finanziarie, stressato dall’assillante ricerca di finanziamenti e contributi statali, specie negli anni del Teatro d’Arte.

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Pirandello vs d’Annunzio
Gabriele D’Annunzio – Immagine dal Web

Pirandello vs d’Annunzio

da Edizioni Ca’ Foscari

Pirandello, si sa, non tollera d’Annunzio. Le ragioni sono tante. Dall’esposizione di sé alle tematiche scelte e alla scrittura, tutto determina nell’autore siciliano un’autentica allergia. E vi si aggiunge alla metà degli anni ’20 una sofferta gelosia almeno per due oggetti in qualche modo contesi, da un lato la figura del Duce, oscillante e ambigua per quanto concerne il rapporto con i «dioscuri del regime», [1] dall’altro la pulsione d’amore in tarda età, e necessariamente proibito, Marta Abba, quale doppio fantasmatico di Eleonora Duse, leggendaria amante viceversa del Vate.

[1] Definizione con cui si intitola uno dei capitoli dedicati al loro confronto in Andreoli 1996, 38-44. Del resto, non si dimentichi che almeno nei primi tempi Pirandello tende a distinguere, anche nei carteggi privati, Mussolini dal regime, il primo in quanto costruttore di realtà, dunque inserito a pieno titolo nello «stile di cose», in Milone 2017, 216.

Eurialo De Michelis ha operato a suo tempo (De Michelis 1976, 197-245) una sistematica mappatura degli strali astiosi dello scrittore siciliano contro il poeta pescarese, di fatto per lo più ignorati con disdegnosa eleganza dal medesimo. Un percorso scandito da ben diciassette occorrenze, a contare solo gli attacchi diretti. Una continuità lungo il tempo, dove sembra esaltarsi lo sguardo crudele [2] dell’autore dei Sei personaggi, in apparenza smorzato gli ultimi anni nelle occasioni pubbliche, non negli epistolari privati.

[2] Barbina 1998, Lo studioso cita l’articolo di Vitaliano Brancati «Pirandello diabolico?» uscito in Il Tempo l’8 marzo del 1948.

Procediamo con ordine. L’idiosincrasia per lo «spregevole (sempre per lui fu spregevole) uomo d’Annunzio», [3] per chi sarebbe «gonfiato dalla mostruosa macchina del giornalismo», per «la scimmia, fatta idolo […] a sua volta contraffatta da altre e innumerevoli scimmie, e guaj a chi non si prova ad imitarle» (Onofri 1993, 111), già trasparente agli inizi della carriera di letterato, si accentua man mano che il siciliano si lancia nell’impresa teatrale, sino ad assumere rischiose responsabilità finanziarie, stressato dall’assillante ricerca di finanziamenti e contributi statali, specie negli anni del Teatro d’Arte. [4]  

[3] Giudizio riferito dal figlio Stefano e riportato in Giudice 1963, 267 (corsivo nell’originale).

[4] Tanto più che mentre lui aspetta con ansia contributi centellinati per il Teatro d’Arte in cambio al Vittoriale arrivano milioni, in Andreoli 1996, 78.

Ragione per cui il Divo d’Annunzio, personaggio dall’enorme visibilità pubblica, bene accolto altresì in territorio francese, e tanto disinvolto nel confondere vita e arte, al punto da sfiorare la leadership nazionale, prima di rinchiudersi nel Vittoriale, gli suscita di continuo una devastante invidia. [5]

[5] In particolare, il Vittoriale può considerarsi una sorta di «fabbrica di San Pietro collettrice di largizioni milionarie, superiori a quelle con le quali si sarebbe potuto finanziare il Teatro di Stato», in Milone 2017, 269.

Così, nella lettera inviata il 10 aprile del 1914 ad Ugo Ojetti si lamenta per il rifiuto del romanzo Si gira ne La Lettura, sbottando con sarcasmo per il motivo che «a questo pubblico han pure inflitto La Pisanella o la morte profumata del d’Annunzio e stanno ora infliggendo Il piombo dello stesso» (in Zappulla Muscarà 1980, 79). Odio anche triangolare, in quanto il Poeta, per il suo culto dell’orpello e il vaniloquio retorico, viene dal siciliano considerato tra i più responsabili dell’emarginazione di Verga. E dietro Verga, ovviamente è di sé che parla, non appena si chiede con impazienza «se è giusto che il d’Annunzio debba continuare a goder la fama che gode, prepotente e invadente così, da vietare ogni altra manifestazione letteraria, condannando al silenzio ogni altra voce da noi». [6]

[6] «L’idolo» in Onofri, 1993, 109. L’articolo pirandelliano, fondato chiaramente sulle accuse di plagio lanciate contro il poeta da Emilio Thovez nel 1895 sulla Gazzetta letteraria, esce ne La Critica del 31 gennaio 1896.

In particolare, si configura la contrapposizione tra «costruttori e riadattatori», tra «gli spiriti necessarii e gli esseri di lusso», tra «stile di cose» e «stile di parole», [7] come emerge nel discorso commemorativo sull’autore dei Malavoglia, tenuto il 3 dicembre del 1931 alla Reale Accademia d’Italia, che recupera con varianti non irrilevanti il precedente epinicio del 2 settembre del 1920 al Teatro Bellini di Catania.

[7] «Discorso su Verga alla Reale Accademia d’Italia» in Pirandello 2006, 1417.

Specie la seconda orazione, nel mutato clima storico, colla netta presa di distanza rispetto a d’Annunzio, provoca sconcerto e indignazione nei devoti del Comandante, nella misura in cui il fulcro dell’apologia verghiana rimbalza nella demonizzazione proprio dell’estetismo dannunziano. [8] 

[8] Cf. la nota riferita al testimone Corrado Alvaro, riportata in Pirandello 2006, 1594.

Da qui, le ridondanti contrapposizioni a ogni forma espressiva impaludata, ovvero contro le derive letterarie nel vocabolario per la scena, a partire dallo stile decorativo dannunziano. È sufficiente rifarsi all’ambizione dispiegata nell’intervento teorico L’azione parlata del 1899, là dove il futuro commediografo difende la battuta che nasca radicata nell’entelechia individuale del personaggio, ipotizzando una drammaturgia decentrata, in cui ogni creatura possa parlare una sua lingua personale, quasi scritta da un autore diverso per ogni character. Il tutto si incanala in una vera aggressione, che non risparmia alcun genere dello scrittore abruzzese (Onofri 1993, 13), dalla poesia al dramma al romanzo, come balza in primo piano a partire dall’incipit fintamente timido «È permessa la discussione?» che apre la stroncatura de Le vergini delle rocce. [9]

[9] «Su Le Vergini delle rocce di Gabriele D’Annunzio», in Pirandello 2006, 98. Uscita su La Critica, l’8 novembre del 1895, a nemmeno un mese dall’uscita del romanzo dannunziano, la recensione tanto dirompente denuncia l’assenza di «persone distinte» rispetto alla lingua dell’autore, «con fisionomia e caratteri propri» (Pirandello 2006, 98). E tre anni dopo, su Ariel del 13 febbraio, non esita a dileggiare La città morta definendola «farsa fatta per ridere» (263). Qui, ribadisce la «sproporzione tra il suo valore reale e la fama che gli si è in questi ultimi tempi costituita» (262), aggiungendo che «l’autore avrebbe una personalità di forma: sensuale, tumida, monotona, fascinosamente artificiosa» (262), tant’è vero che «nessuno oggi, per fortuna, parla come i personaggi di questa tragedia» (262).

Non basta, perché l’utopia delle voci centrifugate spinge Pirandello a vagheggiare, nel 1908, l’epifania del personaggio dalla pagina sbarazzandosi della mediazione attorale. [10]

[10] Cf. «Illustratori, attori e traduttori» in Pirandello 2006, 635-58. Il saggio appare entro la raccolta Arte e scienza, sempre del 1908. Sulla celebre immagine pirandelliana del quadro e dell’emersione della creatura da esso, cf. Angelini 1990, 104 ss.

Va sottolineato d’altra parte che simili posizioni nascono lontano dai condizionamenti del palcoscenico, firmate da un professore-narratore-critico, certo tutto dalla parte della lingua italiana, intesa secondo gli auspici di Graziadio Isaia Ascoli, e non di coloro che la virano in lingua letteraria, di quanti cioè «si veston con gli abiti di festa» (corsivo nell’originale). [11]

[11] Si veda «Come si parla in Italia?», articolo uscito ne La Critica, 12 agosto 1895, ora in Pirandello 2006, 97.

Ma si tratta nondimeno di un autore non ancora compromesso colla ribalta, solo in un secondo tempo disposto a riscoprire l’autonomia dell’interprete. Quest’ultimo, grazie pure alla parentesi stressante ma esaltante nelle vesti di direttore del Teatro d’arte, viene da lui investito da compiti creativi, non più meramente devozionali a favore del personaggio stesso, come dimostra nella significativa «Introduzione» alla Storia del teatro italiano di Silvio D’Amico del ’36, coll’elogio della commedia dell’arte. Qui, rapportandosi alle opere degli attori-autori, «subito più teatrali perché  non composte nella solitudine d’uno scrittoio di letterato, ma già quasi davanti al fiato caldo del pubblico», [12] professa un’autentica palinodia rispetto alla poetica degli  esordi.

[12] Pirandello 2006, 1530. Sulle aporie del pensiero e della pratica pirandelliana, rimando a Vicentini 1993, in particolare 153-204.

L’ostilità può manifestarsi a sua volta con intenti parodici. Ad esempio, l’ambientazione passatista scelta per il suo Enrico IV, nel 1922, nonché l’intera macchina del plot, rimandano a un preciso contesto dannunziano (oltre che benelliano), coi finti valletti medievali che parlano un indubbio romanesco, abbassando immediatamente il sermo elatus della scena: «Per favore, ci avrebbe un fiammifero | Ohi! A pipa no, qua dentro!». [13]

[13] Enrico IV, in Pirandello 1993, 782.

Una scelta sconsacrante, irrituale, di memoria dadaista. E, d’altra parte, allorché il protagonista detta la cronaca dei fatti antichi a Giovanni, il monacello incaricato di scrivere sotto la sua dettatura, la lingua drammaturgica si differenzia ancora, con decise sterzate verso le agiografie medievali, grazie ad un registro medio alto, con lessemi di forte impronta toscaneggiante. Nel contesto specifico, questo ipercorrettismo aulico funziona un po’ come la mobilia d’epoca dannunziana, autentica nella furia antiquaria di Gabriele, trasferita ironicamente nella scenografia posticcia del re folle pirandelliano.

Ma la lacerante frustrazione per la fama incontrastata sconfina financo nel livore davanti alla sessualità goduta ed esibita dall’altro. Non si sottovaluti, a questo punto e come già anticipato, il trasporto amoroso che lo sospinge accanto a Marta Abba, nell’affiorare continuo di reiterati e velleitari empiti possessivi, nelle smanie per una convivenza reale, allusa indirettamente nella coppia irregolare (siamo nel 1931), costituita dall’amico Bontempelli e da Paola Masino, lei poco più che ventenne e lui di 52 anni, dunque con una differenza d’età simile alla loro. Non si può negare che la relazione eccentrica e singolare colla sua Musa ispiratrice costituisce allo stesso tempo una risposta oggettivamente contrastiva rispetto a quella turbolenta tra la Duse e d’Annunzio, prototipo per eccellenza di uno sfrenato cultore dei sensi. Per cui nel luglio del 1928 si accanisce contro una pièce di Bernstein, Melo, «d’una lubricità volgarissima, spaventevole» (Pirandello 1995, 39), nella scena tra i due amanti nel secondo atto, «d’una rivoltante brutalità» (40), che gli ha suscitato «orrore fisico» (40). Poco dopo, sulla spiaggia di Nettuno dove si trova, resta disgustato dal vedere sulla «rena sporca, pasticciata. Certe scene! Certe esposizioni!» che l’hanno «stomacato» (42).

Ebbene, è nella corrispondenza colla sua attrice, diario di un eros mal sublimato, dove è richiesta e insieme sofferta la lontananza, che si ricavano ulteriori tracce dell’intolleranza fisica e intellettuale ai danni del poeta, stante la franchezza in confidenza colla donna. D’Annunzio qui si erge a doppio oppositivo e ossessione polemica. Non si trascuri il fatto che nella sua carriera all’improvviso di autore di successo, dopo inizi tanto controversi, l’essersi annesso Ruggero Ruggeri, performer dissociato tra repertori alla francese, da brillante boulevardier, e la drammaturgia liricheggiante del Vate, rappresenta uno scorno perpetrato contro il pescarese stesso, spingendo l’attore in dinamiche tortuose, in affettività nevrotizzanti e ingorghi sillogistici, lontano da eroicità superomistiche o da turgori onirici. Nel copiosissimo e compulsivo epistolario, oltre 550 missive a Marta, non manca in verità qualche accenno di mitezza, di neutralità, come per la mancata nomina all’Accademia del Vate, a fronte di altri mediocri (Pirandello 1995, 85), o ipotesi di alleanza ancora sancibili. Per non parlare poi nel ’34 della realizzazione de La figlia di Jorio, al Convegno Volta romano, occasione di un inevitabile riavvicinamento tra i due scrittori, colla supervisione di Pirandello aiutato da Guido Salvini, dove necessariamente Marta e Ruggeri dovevano unirsi nel comune intento. [14]

[14] Pirandello 1995, 1105. Ma non mancano ragioni di attrito interno, nella misura in cui d’Annunzio non lesina omaggi e doni, chiamandola Martha, Andreoli 1996, 36.

Dappertutto fuoriescono comunque furibonde assicurazioni di rifiuto comunicativo (499), disprezzo per la sua scrittura, tipica di un «sapientissimo costruttore di cattedrali verbali» (537) alla pari di Claudel sconsigliato e da lasciar perdere, meglio in caso la Figlia di Jorio, dove ci sarebbe «più sangue e più carne. E meno barba!» (530); attestazioni ostentate di disinteresse specie per la sua storia colla Duse, a meno di non intenderla come «morbosa curiosità e dal punto di vista ‘cassetta’», per la loro «pretesa tragedia amorosa» (595). O, ancora, rifiuto sistematico di interpreti a lui intonati, vedi Ruggeri o la Rubinstein, «donna ridicola», un’arcimilionaria che «spende per l’arte come una pazza», ottimamente sfruttata dal poeta (1164); universalizzazione dell’antipatia, confermata in Inghilterra ad esempio (1149), oltre a stigmatizzare i suoi imitatori nei registri tragici, vedi Pastonchi, dal «gesto imperiale», ossia copioni da cui la sua amata pupilla dovrebbe ben guardarsi (1211). E intanto circolano rumours sull’oggettiva rivalità tra i due per l’assegnazione del Nobel, col Duce intervenuto per dirottare nel ’26 il premio alla Deledda, appunto per non «suscitare gelosie pericolose in Italia» (318). Il climax di tanta sorda ostilità viene raggiunto forse il 7 luglio del ’32, allorché stronca il Giovanni Episcopo:

uno dei più sfacciati plagi del D’Annunzio, già denunciati con tanto scandalo da Dostojewski, così nello spirito come nella lettera. Ed ebbe il coraggio di premettervi una prefazione nella quale dichiarava ‘O rinnovarsi o morire’. E il ‘rinnovarsi’ per lui significava sostituire ai modelli francesi, finora copiati, i modelli russi. (1001)

L’inibizione all’eros, tradotta nella vocazione apatica e presupposto per la deriva verso la scrittura, viene proiettata dallo scrittore agrigentino nei protagonisti della trilogia del romanzo in prima persona, dal nome angelicante, nei vari Mattia Pascal nel 1904, Serafino Gubbio nel 1915 e Vitangelo Moscarda nel 1926. Specie il secondo suggella un po’ la caustica reazione alla retorica dannunziana della libido, condensata in termini misogini entro la figura della Nestoroff, l’attrice russa e femme fatale che porta ovunque lutti e follia. I suoi Quaderni, usciti a puntate nel primo anno della Grande Guerra, si iscrivono alla lettera nella fuga dal sensualismo demoniaco, inopportuno tra i tanti morti al fronte (Puppa 2015, 49-59).

Eppure, confrontando i testi dell’uno e dell’altro non mancano singolari prelievi nel primo rispetto al collega più affermato. [15]

[15] Sugli scambi culturologici tra i due autori, cf. anche Gibellini 1995, 159-68, in particolare nella rilettura del pirandelliano Informazioni sopra il mio involontario soggiorno sulla Terra quale controcanto polemico e abbassamento rispetto alle dannunziane Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire.

Lo si evince nel momento in cui Pirandello costruisce in grande, e mobilita apparati scenici e assembla masse. Si pensi allo spettacolo che nel 1925 inaugura alla presenza di Benito Mussolini il suo Teatro d’arte con la Sagra del Signore della nave. Qui, infatti, la sagoma di una chiesetta di campagna sullo sfondo incombe, argine rispetto alla festa dello scannamento dei maiali in primo piano e in onore di San Nicola. Così, preceduto dal ruglio disperato delle bestie presaghe della loro imminente fine, sul davanti si scatena un «frenetico trescone», mentre ebbri uomini infoiati danzano con donne «scarmigliate» sotto una luce «di fiamma». Dal portale della chiesa però esce a un certo punto un prete altissimo e «spettrale», reggendo colle braccia levate in alto un «grande macabro Crocefisso insanguinato», nel riverbero violaceo delle fonti luminose. In tal modo, il caos precedente, che ha visto sfilare tutte le classi prima del loro convulso assemblaggio, viene ricomponendosi, e un ordine depressivo di novelli flagellanti stravolti da sensi di colpa si snoda attraverso una processione lamentosa, «in un bestiale affanno di pianto, in una mugolante ànsima di contrizione» [16] rivolti alla platea per chiudere lo spettacolo e congedare gli spettatori.

[16] «Sagra del Signore della Nave», in Pirandello 2004, 446.

Viene in mente allora il finale del secondo atto de La Parisina, dramma di cui Joyce si affretta ad acquistare il testo, e circolante nell’immaginario cosmopolita europeo dopo la prima alla Scala milanese il 15 dicembre del 1913. Ora, nella detta sequenza, da un lato si invoca la madre di Dio intonando litanie lauretane e dall’altro la protagonista si accoppia col figliastro Ugo D’Este in uno scatenato amplesso. Più indietro preme pure la memoria de La figlia di Jorio nel 1904. L’archetipo di partenza, però, risale sino a Ibsen che nel 1873 porta a termine un’opera storica, dittico monumentale, dimenticato negli allestimenti novecenteschi, Keiser og Galilœer, autentica pièce a thèse dedicata alla apostasia di Giuliano nella prima parte e a Giuliano imperatore nella seconda. Il lungo dramma, concepito più per un lettore che per uno spettatore almeno secondo i canoni del tempo, debutta in tedesco nel 1896 a Lipsia e viene tradotto e portato sulla scena italiana al Teatro Verdi a Milano nel 1902, ad opera di un attore che acquisterà risonanza nel cinema muto, Achille Vitti, interprete pure pirandelliano (nel ’13 con Lucio D’Ambra darà vita al Teatro per tutti a Roma; cf. Puppa 2010, 181-90). Si pensi ancora al finale del romanzo Uno, nessuno e centomila, là dove Vitangelo dichiara enfaticamente di morire e di rinascere ogni giorno, divenendo natura. Indiretto omaggio, attraverso un lessico schellinghiano, al dannunziano Meriggio alcyoneo, edito nel 1903, alle sue ardenti accensioni, indubbio sotto-testo di questi slanci epifanici:

Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa, se un nome è in noi il concetto […] non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. […] Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo […] muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricorsi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori. (Pirandello 1973, 901-2)

Ovviamente, il tutto si mescola a prestiti dalla tradizione primonoventesca europea, basti citare l’avventura linguistica ed esistenziale al centro di Ein Brief di Hugo von Hofmannsthal del 1901, in cui analogamente anche l’oggetto più insignificante esige un atteggiamento immedesimativo e apologetico da parte dell’Io. Da parte sua la Spera ne La nuova colonia, «donnaccia da trivio dagli occhi loschi e disperati che le lampeggiano da un volto così imbellettato che sembra una maschera», mentre un manto scuro la fascia da cui però si scopre a «qualche passante notturno», non cela qualche ammicco alla Mila dannunziana. [17]

[17] La nuova colonia, in Pirandello 1993, 779. Il mito debutta a Roma il 24 marzo del ’28.

Tutto il ciclo del teatro dei miti si colloca per certi aspetti nel territorio antropologico da cui era sprigionata la tradizione etnica «meridionalistica e mediterranea» [18] de La figlia di Iorio, [19] ed è la mediazione della Attrice liturgica, Marta Abba quale fantasmatica reincarnazione giovanile di Eleonora Duse, a riposizionare tale nuovo collocamento. E non si dimentichino alcuni drammi monitorati su di lei, dalla modella in Diana e la Tuda del 1926, che rimanda a La Gioconda del 1899, alla metamorfica Donata di Trovarsi del 1932 che riutilizza tratti di multanime dal Tullio Hermil (De Michelis 1976, 220) dell’Innocente del 1892. Al punto che l’epifonema in Quando si è qualcuno del 1933 arieggia il d’Annunzio notturno, [20] ovvero la battuta finale che si scandisce nell’aria.

[18] Gibellini 1995, 160. Riferendosi a questa fase finale della loro produzione, De Michelis si spinge persino a definirli «spiriti affini» (1976, 218).

[19] Del resto, nel telegramma del 9 ottobre 1934 il poeta si lancia nell’apprezzamento del suo regista: «Sono certo che la nuova interpretazione per merito di Luigi Pirandello rivelerà forse per la prima volta la bellezza vera di quella dialogata canzone», Andreoli 1996, 38.

[20] De Michelis 1976, 21 Quasi un ritorno all’apprendistato poetico di Mal giocondo del 1889, che metabolizza, nonostante le ribadite avversioni, proprio suggestioni liriche dannunziane, cf. De Michelis 1976, 199-202.

Nel 1934, al tempo del Congresso Volta, Pirandello, nominatovi presidente per ricevere i contributi da parte della Corporazione dello spettacolo, deve inscenare il capolavoro dannunziano, quasi un atto dovuto di espiazione nel tentativo di cancellare i precedenti insulti (Milone 2017, 255). In cambio, i Giganti della montagna, che chiudono non solo la trilogia meta-teatrale ma anche il repertorio meta-mitico, dopo La nuova colonia del ’28 e Lazzaro del ’29, presentano una diseroicizzazione e una desublimazione dell’antico per costringerlo a fare i conti col contemporaneo. In tal senso, questo filone pirandelliano si colloca in mezzo tra la improvvisa accettazione del modello dannunziano (e i progetti monumentali del regime fascista) e il gesto blasfemo e corrosivo delle avanguardie.

Paolo Puppa

Bibliografia 

    • Andreoli, Annamaria (1996). «Alla scoperta di una biblioteca». I libri in maschera. Luigi Pirandello e le biblioteche. Roma: Edizioni De Luca, 11-80.
    • Angelini, Franca (1990). Serafino e la tigre. Pirandello tra scrittura, teatro e cinema. Venezia: Marsilio.
    • Barbina, Alfredo (1998). L’ombra e lo specchio. Pirandello e l’arte del tradurre. Roma: Bulzoni Editore.
    • De Michelis, Eurialo (1976). «D’Annunzio e Pirandello». Roma senza lupa.
    • Nuovi studi su D’Annunzio. Roma: Bonacci editore, 197-245.
    • Gibellini, Pietro (1995). D’Annunzio dal gesto al testo. Milano: Mursia. Giudice, Gaspare (1963). Luigi Pirandello. Torino: UTET.
    • Milone, Pietro (2017). Pirandello Accademico d’Italia e il ‘volontario esilio’. Fascismo, vinti, giganti. Pesaro: Metauro.
    • Onofri, Massimo (a cura di) (1993). L. Pirandello. Verga e D’Annunzio, Salerno: Roma.
    • Pirandello, Luigi (1973). Tutti i romanzi, vol. 2. A cura di Giovanni Macchia, coll. di Mario Costanzo. Milano: Mondadori.
    • Pirandello, Luigi (1993). Maschere nude, vol. 2. A cura di Alessandro D’Amico. Milano: Mondadori.
    • Pirandello, Luigi (1995). Lettere a Marta Abba (1925-1936). A cura di Benito Ortolani. Milano: Mondadori.
    • Pirandello, Luigi (2004) Maschere nude, vol. 3. A cura di Alessandro D’Amico, coll. di Alessandro Tinterri. Milano: Mondadori.
    • Pirandello, Luigi (2006). Saggi e interventi. A cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello.  Milano:  Mondadori.
    • Puppa, Paolo (2010). «Carnevale e Quaresima nel teatro dannunziano». Santoli, Carlo; De Capua, Silvana (a cura di), Gabriele D’Annunzio, on Bakst e i Balletti russi di Sergej Djaghilev. Roma: Quaderni della Biblioteca Centrale Nazionale di Roma, 181-90.
    • Puppa, Paolo (2015). «Serafino Gubbio e le bestie». Puppa, Paolo, La parola alta. Sul teatro di Pirandello e D’Annunzio. Imola: Cue Press, 49-59. Vicentini, Claudio (1993). Pirandello. Il disagio del teatro. Venezia: Marsilio.
    • Zappulla Muscarà, Sarah (a cura di) (1980). L. Pirandello. Carteggi inediti. Con Ojetti-Albertini-Orvieto-Novaro-De Gubernatis-De Filippo. Roma: Bulzoni Editore.

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