Pirandello pittore e critico d’arte

(Con una lettera inedita di Pirandello al figlio Fausto)

Di Antonio Alessio

La pittura, per Pirandello, non costituiva un mezzo per sottrarsi alle tribolazioni della vita quotidiana, né si riduceva ad un semplice passatempo. Ovunque andava, soprattutto d’estate, si portava dietro la scatola dei colori e fermava sulle tavolette di cui era sempre fornito le impressioni che la natura gli destava.

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Pirandello pittore
Luigi Pirandello, Ritratto della moglie Antonietta, 1910, olio su tavola 15×22 cm. Immagine dal Web.

Pirandello pittore e critico d’arte

da jps.library.utoronto.ca

Per quel gioco imprevedibile e capriccioso del caso che spesso interviene nelle azioni umane per interromperne e modificarne il corso, Pirandello doveva abbandonare le occupazioni e gli interessi artistici preferiti per dedicarsi totalmente a quel genere a cui – in apparenza almeno – si riteneva inizialmente negato: il teatro. E doveva essere questo a procacciargli una inattesa celebrità. A Lucio D’Ambra che – rovistando in un cassettone pieno di confusione alla ricerca di un quadretto pirandelliano – scopriva il manoscritto di Se non così, diventato poi La ragione degli altri, e subito lo proponeva a Marco Praga che entusiasta l’accettava per la rappresentazione a Milano, Pirandello diceva incredulo:
Praga darebbe la mia commedia? Ma no! Va là. Io non sono nato commediografo. Il teatro non m’interessa. E quei tre atti li voglio bruciare.
Se in quel baule a Viterbo Lucio D’Ambra non avesse insomma messo le mani, “tutt’un destino di grande scrittore sarebbe forse cambiato.” [1]
Pirandello non nascose mai, invece, il suo primario interesse, oltre che alla poesia, alla pittura, e ad esse diceva di voler ritornare non appena avesse potuto smettere di scrivere e si fosse ritirato a vita privata. Pochi sanno che un buon numero delle sue tavolette venne esposto in una delle Mostre sindacali romane ai mercati di Traiano [2] e che pure la sorella Lina dipingeva, autrice tra l’alto di una veduta della casa natale del Caos spesso erroneamente attribuita allo stesso Luigi. [3]
Mentre alla poesia pirandelliana si è vieppiù venuta interessando in questi ultimi tempi la critica, praticamente ignorato è rimasto il Pirandello pittore e critico d’arte. [4]

[1] Lucio D’Ambra, “Ricordi personali del vicino di casa e di cuore,” in Retroscena, Palermo, n. 2 (febbraio 1937).

[2] Virgilio Guzzi, “Pirandello” (Fausto), Editalia (Roma, 1976), p. 6

[3] Devo l’informazione all’amico Dr. Elio Providenti, a cui sono molto grato per avermi segnalato, tra l’altro, anche l’esistenza dell’autoritratto giovanile del Pirandello.

[4] Ne fa, tuttavia, alcuni riferimenti l’Andersson. Vedi G. Andersson, Arte e teoria, Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello (Stoccolma, 1966), pp. 103-4.

Luigi Pirandello, Autoritratto giovanile, olio su cartoncino, cm 15 – 27

Eppure questi due aspetti non ci sembrano affatto trascurabili, sia perché testimoniano la presenza del professionista e non del comune dilettante, sia perché, trovandosi oltretutto in un costante, sintonico rapporto, permettono di scoprire un’altra faccia del grande prisma pirandelliano. Avemmo già modo recentemente di analizzare come la pittura avesse una diretta influenza sulla tecnica narrativa di parecchie novelle. [5]

[5] Vedi Antonio Alessio, “Tra pittura e narrativa nella novella pirandelliana,” in Atti del 6° Convegno internazionale di studi pirandelliani (Agrigento, 1980). Tale relazione non era tuttavia sfuggita ad Emilio Cecchi che, in una breve nota commemorativa alla quale siamo pervenuti dopo il nostro articolo, diceva: “Seduto davanti al vero, egli analizzava col pennello, per non trovarsi poi a mescolare inconsciamente, quando scriveva, i due processi: della pittura e della letteratura. Forse si trattava, principalmente, d’un metodo d’integrità letteraria. I dipinti di Luigi Pirandello rivelano un altro dei tanti aspetti nei quali egli cercò di sorprendere e sviscerare il senso della vita. Dovrà tenerne conto chi si accinga a riprendere, come è necessario, lo studio di questo spirito instancabile e coraggioso.” Vedi Emilio Cecchi, “Luigi Pirandello, Pittore,” in Almanacco letterario Bompiani, (1938), p. 92.

La pittura, per Pirandello, non costituiva un mezzo per sottrarsi alle tribolazioni della vita quotidiana, né si riduceva ad un semplice passatempo. Ovunque andava, soprattutto d’estate, si portava dietro la scatola dei colori e fermava sulle tavolette di cui era sempre fornito le impressioni che la natura gli destava, apprezzandone la bellezza ma ancor più cercando di penetrarne il significato e il mistero. L’osservazione della natura lo induceva piuttosto a meditare che a sviarlo. Un giorno, dopo aver osservato un declivio folto d’alberi ed aver definito, contrariamente al solito, stupida la natura, a chi gli chiedeva perché mai allora la dipingesse rispondeva: “E già … è proprio questo . . .” subito riprendendo a dipingere con intensità. [6]
Che di ricerca minuta, di studio severo e non superficiale o impressionistico si trattasse, lo può testimoniare la misura delle tavolette su cui generalmente preferiva lavorare: quadretti di quindici centimetri di larghezza e dieci di altezza ai quali si impegnava anche per tre mesi con passione e amore. Al ritorno dalla villeggiatura a Roma, la prima cosa che mostrava a Lucio D’Ambra non era il manoscritto di qualche commedia, ma il quadro a cui aveva intesamente lavorato. [7]

[6] Rosso di San Secondo, “Pirandello tra i castagni,” in Almanacco letterario Bompiani (1938), p. 96.

[7] C.L., “Luigi Pirandello pittore,” in Noi e il mondo, supplemento mensile de La Tribuna (1 maggio 1924).

Se le circostanze gli stimolavano l’estro poteva completare l’opera anche in tempo brevissimo. Un pomeriggio del luglio 1919 a Viareggio, appena il figlio Fausto (alle sue prime prove di pittore) ebbe cancellato con un colpo di spatola un grosso ritratto ad olio della signora Frateili che aveva fatto e del quale era scontento, Pirandello intervenne dicendo:

Hai scomodato tanti giorni la signora per niente? Dammi i colori e una tavoletta: farò io il ritratto.

Esso fu completato nel giro di due ore con grande soddisfazione del Nostro. [8]

[8] A.F., “Un ritratto a olio dipinto dal Maestro,” in Almanacco letterario Bompiani (1938), p. 80.

La domenica Pirandello la trascorreva spesso in accese gare di pittura con l’amico e scrittore siciliano Ugo Fleres (più tardi diventato Direttore della Galleria nazionale d’arte moderna) sotto gli occhi giudicatori e severi di Giustino Ferri e G.A. Cesareo. Per chi ha familiarità con l’opera drammaturgica del Pirandello potrà non poco sorprendere il soggetto dei suoi quadri. Nulla di torturato, di drammatico, di grottesco, di espressionistico. I temi e le formule a cui la fama di Pirandello è comunemente (e sbrigativamente) limitata non sono minimamente riscontrabili nelle opere pittoriche. Tranne qualche rara eccezione, come in un piccolo autoritratto giovanile diabolico o nel ritratto alla moglie già alle prese col suo male, nulla nei quadri che possa indicare anche lontanamente il futuro drammaturgo.
Il genere di questa pittura, fatta essenzialmente di dolci paesaggi, non dovrebbe, tuttavia, costruire una grossa sorpresa qualora si considerasse che accanto al Pirandello tragico-ironico, comico-grottesco delle novelle esiste un Pirandello di squisita sensibilità poetica e umana, con una profonda vena malinconica, dolorosa, spoglia di ogni residuo cerebrale. Nulla di contradditorio in tutto questo, quanto piuttosto la testimonianza di un’anima non certamente chiusa, ma pronta a riflettere le più vaste esperienze della vita, sensibilissima tanto alle laboriose ed intricate operazioni della mente come a quelle semplici del cuore. Anche quei pochi paesaggi apparsi eccezionalmente in stampa, [9] pur nella difettosa riproduzione che ostacola l’analisi e la valutazione dei colori e della tonalità, testimoniano più che a sufficienza la presenza dell’uomo di mestiere.
La sicurezza anche prospettica del disegno, come nel quadro del “Campanile,” la spigliatezza del “Paesaggio” con gli alberi (di pretto stampo macchiaiolo), o il quadro “Cipressi” di Soriano al Cimino, suggestivo col cielo luminoso e la massa scura dei cipressi in controluce: delicati contrasti di luci e di ombre; in complesso vedute serene che ovviamente lo conquistavano e l’ispiravano e che Pirandello ritraeva con amore e soprattutto tanta umiltà.
L’onestà dell’uomo, la serietà del professionista che lo portavano a dire: “Non ho ancora la mano…. ma quando avrò sessantanni e potrò lavorare . . .” [10] le troviamo confermate nelle sue recensioni d’arte.

[9] C.L., op. cit., 316-8.

[10] C.L, op. cit., 316.

Questa particolare attività critica del Pirandello è circoscritta agli anni 1895-96 e non supera la decina di articoli, sette dei quali apparvero in occasione dell’Esposizione delle Belle Arti a Roma. Dopo tale data questa attività di Pirandello cessa, segno che gli impegni letterari dovevano da quel momento definitivamente assorbirlo.
Parecchi critici pirandelliani avranno una grossa sorpresa nello scoprire un Pirandello tenace oppositore di un’arte basata esclusivamente sulla riflessione. Chi ancora si ostinasse a negare alla drammaturgia pirandelliana la forte ed essenziale componente umana limitandola ad un’operazione o ad un gioco puramente cerebrale, troverà qui una clamorosa smentita. Nulla è più contrario a Pirandello di un’arte in cui la riflessione prevalga sull’ispirazione e sul sentimento, la volontà sull’estro. È Pirandello stesso a denunciare tale pericolo:

L’opera d’arte oggi non nasce più, per così dire, ma vien fatta; è insomma spesso più artificio che arte, artificio più o meno armonico e integrato con l’idea preconcetta e che può anche contentare e piacere, secondo una estimativa fatta a base di teorie più che di sentimento. … Lo spirito moderno è compenetrato tutto e signoreggiato dalla critica. . . . L’artificio ben meditato e ben condotto finisce col prevalere sull’arte semplice e pura. Quante volte, per esempio, di questi giorni, non abbiamo sentito giudicar questa volgare, perché spontanea e chiara; e nobile quello perché raffinato e non comprensibile a prima vista? [11]

[11] Luigi Pirandello, “Da uno studio all’altro,” in La Critica, anno 3, n. 7, (1896), 203

Questa illuminante, e per certi aspetti sorprendente, rivelazione, dovrebbe definitivamente portare alla rettificazione di alcuni errori di prospettiva tuttora accarezzati, a temperare certe interpretazioni razionali troppo esclusivistiche.
Circa l’Esposizione delle Belle Arti a Roma, Pirandello non si limita al consueto, breve servizio giornalistico-informativo, ma dà una critica particolareggiata che egli articola in ben sette parti distribuite in un arco di tempo di quattro mesi. Egli non manca di analizzare e commentare delle opere nelle varie sale e in rapporto alla luce, sulla scelta dei pittori alcuni dei quali, secondo lui, sarebbero decisamente inferiori alla fama; allo stesso modo lamenta la mancanza, pur tra le grosse presenze, di alcuni tra i più celebrati nomi. Questa attenzione anche al lato organizzativo lo porterà, in un altro servizio, a denunciare apertamente il carattere e gli scopi puramente commerciali e non artistici di una galleria. [12]

[12] Luigi Pirandello, “La galleria Saporetti,” in Natura ed Arte, Milano, anno VI, n. 17 (1 agosto 1896)

I quadri vengono giudicati, innanzitutto, in rapporto all’ambiente, alla relazione che essi sanno stabilire col visitatore. Dei pittori, salvo i nuovi, egli dimostra di possedere già una salda conoscenza che gli permette di stabilire immediati confronti con opere precedenti. Scarsi ma sicuri anche i riferimenti alle scuole straniere:

Il Coleman ha voluto imitar servilmente una certa pittura inglese di fisionomia quattrocentesca, guardando la campagna romana con gli occhi del Leighton. [13]

[13] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (14 novembre, 1895)

Entrando nel merito specifico del quadro, Pirandello non nasconde mai i criteri che lo portano al giudizio. Partendo dalla definizione, invero un po’ generalizzante, che ogni opera d’arte dovrebbe entrare nei confini dell’arte e del discutibile, incomincia con l’escludere quei temi che non abbiano pertinenza con l’esperienza diretta, con la vita. Ne segue che la pittura non deve ridursi ad una copia pura e semplice della realtà, per quanto minuta e precisa essa possa essere. Dell’opera di Raimondo Turquets pur apprezzando, al pari di tutto il pubblico, l’accuratezza e la finitezza dei minuti accessori, non può fare a meno di commentare:

Questo quadretto si direbbe quasi una sfida alla macchina fotografica. Ma, e poi? La rappresentazione del Turquets è così comune e vuota d’ogni concetto. … Le insignificanti e fastidiose minuziosità vanno a scapito dell’impressione della realtà . . . come un ottimo disegno vestito scrupolosamente di color diremmo quasi domenicali. [14]

Per la stessa ragione non lo interessano le opere che abbiano una funzione puramente decorativa, come le nature morte:

Troppi studi di fiori e di frutta, margherite gialle e malvoni e gigli e crisantemi, uva e mele e cocomeri e melloni: c’è da morire d’asfissia e d’indigestione. [15]

Né dovrebbe aver posto, nel regno dell’arte, l’improvvisazione:

Essa può tutt’al più dimostrare una felice attitudine . . . ma vera arte non è. [16]

[14] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (3 ottobre 1895).

[15] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (25 settembre 1895).

[16] L.P., “La galleria Saporetti,” op. cit.

Allo stesso modo non devono trovare posto i cosiddetti “studi,” le opere non compiute:

Al pittore che li presenta la commissione dovrebbe rispondere così: Avete studiato? Benissimo. Ora fate il quadro, e poi ne riparleremo. [17]

Pur considerando Camillo Innocenti un pittore “tra i più straordinariamente dotati,” lo trova incapace di finire il quadro. Il suggello dell’arte sta, invece, proprio:

nel saper finire, nel saper rendere cioè fino all’ultimo l’immagine concepita, senza toglierle con lo studio, con la meditazione, con la minuta cura quella freschezza di vita e quella forza, con cui essa prima si è presentata alla mente o davanti agli occhi. [18]

L’arte, per Pirandello, sembrerebbe insomma articolarsi nel felice e armonioso connubio di ispirazione, meditazione, sentimento e compiutezza. Con la sincerità, al pittore si richiede originalità. Egli non deve lasciarsi condizionare dalle mode passeggere, né permettere che le sue facoltà artistiche subiscano l’influenza d’alcuno:

poiché anche quella dei grandi è sempre nociva e conduce ad annullare nei seguaci ogni personalità. [19]

[17] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (17 settembre 1895)

[18] L.P., “La galleria Saporetti,” op. cit.,

[19] Ibid

Noi domandiamo: Mostra davvero d’intender gli antichi chi servilmente gli imita fin nelle patine? … E non furon nuovi gli antichi nel tempo in cui vissero? Da quando in qua rinnovar l’arte significa invecchiarla? Non farebbe ridere lo scrittore che si mettesse oggi a imitare nella sua prosa lo stile e il nesso sintattico e tutti gli arcaismi degli antichi autori, come se per secoli la favella non si fosse man mano sviluppata con gli usi mutevoli, e i bisogni nuovi e lo spirito dei tempi? [20]

Come l’arte deve continuamente rinnovarsi, l’artista deve ingegnarsi

come meglio sa e può, di trovar vie nuove all’arte, evitando le solite opere anche ben riuscite che nulla cercano e, spesso, nulla vogliono. Nulla nuoce tanto all’arte, quanto il ripetere continuamente gli stessi motivi. [21]

[20] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (7 dicembre 1895).

[21] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (23 ottobre 1895).

La coerenza a questi chiari principi può essere esemplificata dall’analisi che Pirandello fa delle opere del Pellizza e del Morbelli. Del divisionismo Pirandello non nasconde, a rigor di logica, certe iniziali riserve:

Questo nuovo artificio, per quanto minutamente eseguito, non sarà mai nascosto dalla distanza con cui bisogna guardare il quadro punteggiato; la distanza, se permette all’occhio di cogliere l’effetto luminoso, gli impedisce poi di saziarsi del dipinto; né l’effetto stesso riesce mai a compensarsi dell’aridità a forza derivante dall’evitato impasto e dallo stento manifesto nella modellatura delle figure

dove il risultato artistico perderebbe il necessario impatto per la tecnica rallentatrice che la scuola divisionista necessariamente impone. Nonostante ciò, la sensibilità dell’artista e l’onestà dell’uomo non lasciano sfuggire a Pirandello la serietà e la funzione dell’esperimento:

Ad ogni modo, tentare è bene; e la critica, notando i difetti e le pecche dei nuovi tentativi, anziché scoraggiare, dovrebbe spronar l’artista a superarli per maggior gloria di se stesso e dell’arte. [22]

[22]Ibid

Al Pellizza il Pirandello preferisce l’altro allessandrino, il Morbelli, perchè questi non applicherebbe la teoria del divisionismo col rigore dell’altro:

L’aridità del Morbelli … è compensata da un coefficiente importantissimo trascurato dagli altri quasi sempre in tentativi di simile genere, vogliamo dire, dal sentimento…

Il Morbelli saprebbe raffigurare l’immagine del sentimento

indipendentemente … da ogni tecnica, e se scegli quella dei divisionisti del colore è solo perchè la crede più efficace e meglio adatta ai fini dell’arte sua, e perchè complimentarista convinto. [23]

[23] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (14 novembre 1895).

Per Pirandello la tecnica non deve mai sopravanzare, in breve, il sentimento e l’ispirazione. Se all’artista si richiede di

essere uno, di esser lui, di raggiungere ad ogni costo un’espressione così personale e forte, che possa resistere al violento urto del tempo, egli dev’essere anche vario, perché lo stesso danno che occorre a chi si metta a seguir l’orme di un altro, occorre a chi si adagia in una forma a lui solita e non sa veder più nulla, più nulla tentare per rinnovarsi. Effetti inevitabili di questa ripetizione sono la sazietà nel pubblico e l’esaurimento dell’artista. [24]

Dove manca insomma la libertà, la spontaneità o si impongono modelli, il processo creativo viene necessariamente a soffrirne. Sarebbe questa la cagione dell’insuccesso del concorso di pittura e scultura del pensionato artistico governativo. [25]

[24] L.P., “Da uno studio all’altro,” op. cit. p. 207.

[25] L.P., “Pittura e scultura,” in Rassegna settimanale universale (Roma, 3 maggio 1896), 5.

In difesa delle sue opinioni Pirandello non esita a schierarsi contro la critica più qualificata o il gusto corrente del pubblico. Alle lodi del quadro “Tramonto” di Angelo dell’Oca Bianca da parte di un critico (“una donna!”, precisa Pirandello) il quale facendo suo il giudizio di parecchi esperti lo considera il più bel quadro dell’Esposizione, Pirandello, specificandone i difetti, risponde:

Oh, no davvero, signora, no davvero! Non creda a certi artisti. “Tramonto” non è forse neanche un bel quadro, tanto meno poi il più bello dell’Esposizione. [26]

Di una tela Pirandello discute la qualità del tessuto, l’impasto dei colori, sensibilissimo agli effetti della luce. Del quadro “Vespro” del Ferraguti in cui compaiono delle figure in piedi col capo chino e piegato, come recitando una preghiera, Pirandello nota che se si analizza la luce:

sorge spontanea l’osservazione che la campana della chiesa invisibile ha avuto troppa fretta di sonar l’Ave. [27]

Di fronte a un quadro di Gustavo Simoni esprime repulsione e disgusto:

Un’orgia volgarissima di rosso e di gialloni. [28]

Dello Shuster-Woldan nota una Madonna che, se perfetta nel disegno,

ha tanta forza di rilievo sul cielo inverosimile, azzurro carico, senz’aria, innanzi al quale il critico si domanda che mai il pittore abbia voluto significare. [29]

[26] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (3 ottobre 1895).

[27] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (25 settembre 1895).

[28] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (3 ottobre 1895).

[29] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (25 settembre 1895).

Di Francesco Lojacono, che pure è annoverato tra i primi paesisti d’Italia, Pirandello non nasconde la delusione per la tela “D’estate in villa.” Ne riconosce, è vero, meraviglioso il disegno e superbo il colore del banano rappresentato, ma infelicissime e povere le figure. Trova soprattutto difettosa la luce:

Fortissima, anzi violenta, è vero, è la luce in estate; ma è luce e non lucentezza, come in questa tela. Rammentiamo d’avere in qualche altro suo quadro notato il difetto medesimo: la luce del sole par veduta dal pittore come attraverso a una lente intensissima. [30]

[30] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (1 dicembre 1895).

Talvolta il sentimento drammatico di una scena è reso con tanta sincerità, ma non sempre la fattura risponde “alla forza della concezione,” come nel quadro di Natale Attanaso, “L’Ospedale,” ammiratissimo dal pubblico, in cui però, per Pirandello, il colore “troppo debole e piano” contrasta con “la rappresentazione dell’ambiente.”
Per alcuni quadri non può evitare l’ironia, né nascondere l’imbarazzo:

Ed ora, per carità di prossimo, facciamo le viste di non accorgerci di due tele antipaticissime di Fausto Zonaro … un prato verde tutto d’una tinta. . . . Andiamo via con gli occhi bassi da questa sala, in cui dei trentotto lavori esposti, la Commissione avrebbe potuto benissimo eliminar quasi la metà. [31]

Non sfuggono a Pirandello le disarmonie e gli squilibrii. Del quadro “Cardo selvatico” del Vizzotti-Alberti, se ammira la “simpaticissima macchia del colore” ne rileva la “pochissima cura del disegno.” Da una parte apprezza “la grazia e la genialità nel sentimento e nella concezione,” dall’altra nota che una gamba della contadina raffigurata appare quasi rotta nel ginocchio. [32]

[31] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (25 settembre 1895).

[32] L.P., “Esposizione di belle Arti in Roma,” in Il giornale di Sicilia (3 ottobre 1895).

Dove, però, le opere rispondono al suo modello artistico e al suo gusto, Pirandello non risparmia l’elogio e la più viva ammirazione. Si tratta quasi sempre di lavori non di grande impegno ma che rivelano, con una squisita sensibilità, consonanza di elementi e precisione di disegno. Così alle opere di Aristide Sartorio riconosce:

una fisionomia tutta propria, col carattere personale d’una prodigiosa finezza, d’una gentilezza incantevole e insuperabile nel colore. Non cercate in lui la forza; egli può darvi invece l’armonia di questa sua fantastica “Sirena” e il pastorale idillio di “Ninfa.” “Ninfa,” “Val Crescenza,” “A ponte Salario,” son pastelli e rappresentano scene pastorali. Il Sartorio non fu mai più fino, più morbido, più intenso e sincero di cosf! In “Val Crescenza” si respira proprio la pace rurale e la fragranza del verde pascolo; in “Ninfa” par sentire brivido che arriccia l’acqua azzurra dello stagno e piega le canne, mentre l’armento pasce prono sulla riva e il pastore trae il molle e malinconico accordo nasale della cornamusa. [33]

[33]Ibid

Riaffiora anche qui l’amore per la dolcezza del paesaggio che Pirandello rifletteva nelle sue tele e in alcune delle più belle pagine delle sue novelle, distinguendo sempre, tuttavia, la freschezza della concezione dal sentimentalismo e dall’oleografia. In genere è il quadretto in apparenza meno pretenzioso a rivelare le maggiori qualità artistiche. Questi giudizi pirandelliani sull’arte rimarranno inalterati.
Nella lettera al figlio Fausto che seguirà il presente articolo e scritta trentanni dopo la stesura delle recensioni, Pirandello ribadisce e sintetizza quanto mai vigorosamente questo suo pensiero estetico.
Oltre ad un discorso critico costante, chiaro ed articolato che i punti esposti permetterebbero di fissare (sia che se ne condivida o no la formula), emerge inequivocabilmente da questi scritti – pur nella limitatezza del numero – una insospettata competenza professionale e lo scrupoloso senso morale del critico.
Ne deriva la scoperta di un uomo che alla critica – come all’opera creatrice – si accostava con una solida preparazione e quel rigore che egli esigeva e riteneva essenziale per tutti coloro che si ponevano o volevano porsi al servizio dell’arte.
Dalla lettera al figlio Fausto soprattutto, traspare la coscienza di uno spirito libero, disinteressato, desideroso solo di tutelare e avvivare la spontaneità e la libertà del processo creativo, con quella passione e quella tenacia che la grande quanto candida fede nella missione alla quale si sentiva chiamato continuamente alimentava.
Per Pirandello porsi al servizio dell’arte costituiva una ragione d’esistenza.
Sembrerebbe infine legittimo suggerire che una tale attitudine ed un tale metodo non vengano circoscritti semplicemente alle aree dell’argomento specifico, ma possano e debbano estendersi all’intera opera artistica pirandelliana la quale, alla verifica, ne uscirebbe certamente più illuminata ed approfondita.

Antonio Alessio – McMaster University

Lettera di Luigi Pirandello al figlio Fausto

Pordenone 10 VI 1928

Mio caro Fausto,
finalmente Stefano mi comunica il tuo indirizzo e posso rispondere alla tua ultima lettera, che, come puoi bene immaginarti, mi ha afflitto moltissimo.
È curioso come tu, che sai vedere ed esprimere così bene ciò che avviene in te, non trovi poi la via per uscire da codeste opprimenti condizioni di spirito. Perché, quando ti metti a dipingere, guardi con gli occhi degli altri, tu che hai così buoni occhi per guardare in te? Bisogna che tu ti liberi da ogni preoccupazione di modernità e finisca di dipingere come tutti oggi dipingono, cioè brutto. Ho visto a Venezia i Novecentisti: orrori, da un canto, e insulsissima accademia dall’altro; e tutti uguali. È veramente una sconcia e spaventevole aberrazione, di cui non si vede la fine. Per ritornare ingenui scarabocchiano come ragazzini, per dimostrarsi saputi copiano freddamente e stupidamente. Nessuna sincerità. Sforzi inani. Aborrimento d’ogni naturalezza, d’ogni spontaneo abbandono. E nessuno pensa che l’unico pittore moderno che sia riuscito a fare qualche cosa, a esser lui, è stato lo Spadini per quest’unica e semplicissima ragione: che a un certo punto non volle sapere più nulla e s’abbandonò alla gioja di dipingere come vedeva e quel che vedeva. Non c’è altra via, non c’è altra salute che questa. Se la tua sincerità è pensare in un tuo modo particolare, che riesci a esprimere così singolarmente nelle tue lettere, ebbene dipingi questi tuoi pensieri, sarai sincero e ti esprimerai: esprimerai qualche cosa. La sorveglianza critica uccide l’arte. La critica d’arte moderna è micidiale. L’avete tutti nel sangue. Bisogna liberarsene.
Non so che cosa tu voglia fare quest’estate. Sarebbe bene, forse, che tu ritornassi in Italia fino a ottobre o novembre, per poi ritornare a Parigi, se ti piacerà. Ti lascio liberissimo di fare come più ti piace, insomma. Vorrei che fossi tu a prendere le tue decisioni, secondo le tue convenienze e i tuoi umori, senza dipendere dagli altri. Mi va così e faccio così. Sappi approfittare di questa libertà che t’ho donata, d’arte e di vita: è l’unico modo di compensarmi. Vederti così incerto, cosi malcontento è per me una grande afflizione, come se tu ti dimostrassi ingrato. Se hai bisogno di danaro per partire, non hai che da avvertirlo in tempo e ti sarà mandato.
Crémieux non m’ha più scritto, e non so dirti perciò che cosa realmente pensa di te. Gli ho mandato “La nuova colonia,” ho risposto con due lettere ad alcune informazioni che mi chiedeva per la sua tesj di laurea, gli ho parlato dei due libri che mi mandò. Silenzio di tomba. Digli che mi scriva, indirizzando la lettera a Roma, perché per tutto questo mese di giugno fino al 2 di luglio sono in “debutti” di uno e due giorni per il Veneto e la Romagna. Avrà certamente da dirmi tante cose. E vorrei che mi parlasse di te sinceramente.
Il 2 luglio io sarò a Rimini fino al 15. Dal 15 al 31 a Genova al “Giardino d’Italia”; dal primo agosto al 15 a Viareggio. E lì finirà la Compagnia. Non ho ancora deciso che cosa farò poi. Se vedi Megal o Ferreira df loro che aspetto con impazienza che mi sappiano dire che cosa hanno concluso per il film, dipendendo dalla loro risposta altre decisioni che dovrei prendere. È vero che, per la risposta, essi hanno preso tempo fino a tutto giugno, ma forse qualche cosa sono in grado di dirmi fin d’adesso. Faresti bene ad andarli a cercare: il Megale abita a 121 Rue Lafayette e il Ferreira a 99 Rue de Rome.
Aspetto le tue decisioni, e intanto raccomandandoti di star lieto e col cuore leggero e la mente serena, ti bacio forte forte.

Papà.

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