Pirandello e la scrittura drammaturgica

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di Francesco Saverio Minervini

il teatro di Pirandello può declinarsi come il teatro della vita. I personaggi che vi agiscono appaiono continuamente angosciati da problemi interiori, da instabilità non solo psichiche; questa inesplorabile e sotterranea afflizione ha bisogno di una soluzione, e tale soluzione si dà nel ritrovamento del sé attraverso il superamento dei limiti della ragione.

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Pirandello e la scrittura drammaturgica
Primo Conti (1900-1988) – Ritratto di Luigi Pirandello -1928. Immagine dal Web.

Pirandello e la scrittura drammaturgica

da LA LUNA E LO SPECCHIO
La drammaturgia italiana del primo Novecento
a cura di Francesco Vulpio
Edizioni Sinestesie

da Academia.edu

Nella dimensione divulgativa di un progetto di educazione alla drammaturgia quale è quello che ospita questi incontri seminariali, si vuole proporre una revisione della consuetudine diffusa in certi contesti didattici di riferirsi alla drammaturgia e alla scrittura narrativa pirandelliane come a settori distinti e lontani della produzione letteraria, invitando a riflettere sull’idea stessa che il teatro è narrazione.

Nelle aule scolastiche, fra i banchi della formazione superiore e dell’Università, Pirandello è un classico; e il termine ‘classico’, è bene ricordarlo, deriva dal latino classis, ovvero il testo che di norma i ragazzi dell’epoca latina portavano nelle aule: una grammatica, un testo normativo, un volume o un autore paradigmatico, un Cicerone per la prosa, un Virgilio per la poesia, un Prisciano nella tarda latinità. Classico è un testo, come direbbe Calvino, che «ha sempre qualcosa da dire» [1]: e in questo senso il teatro di Pirandello è senza tema di smentita un classico. Ma la scrittura drammaturgica e la messa in scena di quelle istanze hanno rappresentato per l’intellettuale agrigentino insieme uno strumento e un metodo [2]; il teatro è il dispositivo culturale con cui egli intende rompere le regole, squarciare il velo di carta e spezzare il vincolo delle norme nell’orizzonte letterario primo-novecentesco, procedendo ad uno smantellamento dell’ordine costituito, ad una programmatica alterazione dei concetti di bello e di ben fatto [3], invocando immediatamente il supporto anche di alcuni tra i principali fondamenti ideali e ideologici che caratterizzavano le discussioni filosofiche contemporanee (in particolare quelle di argomento estetico).

[1] Cfr. F. Zangrilli, Pirandello e i classici: da Euripide a Verga, Cadmo, Firenze 1995.

[2] M.L. Altieri Biagi, Pirandello: dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica, in La lingua in scena, Zanichelli, Bologna 1980, pp. 162-221.

[3] Rinvio, anche per l’ampia e aggiornata cura bibliografica, ai due volumi delle Opere di Luigi Pirandello curati da S. Costa (vol. I) e P. Frassica (vol. II), Ricciardi, Milano-Napoli 2015; R. Alonge, Luigi Pirandello. Il teatro del XX secolo, Laterza, Roma-Bari 1997.

Che cosa è, dunque, il teatro per Pirandello? Una domanda assai complessa pur nella sua semplicità sintattica e sulla quale si è affannata un’ampia fetta della critica letteraria del secolo breve per rilevare i motivi che in essa si potevano di volta in volta evidenziare (politico, sociale, storico, critico-letterario, ideologico, filosofico) [4].

[4] E. Gioanola, Pirandellos story: la vita o si vive o si scrive, Jaca Book, Milano 2007.

Quella domanda trova una plausibile risposta in una lettera indirizzata alla sorella Lina (un nome altamente siciliano e profondamente significativo nelle dinamiche psicologiche del drammaturgo), scritta a Roma il 4 Dicembre 1887, dopo avere assistito ad una rappresentazione di Tommaso Salvini:

Oh il teatro drammatico! Io lo conquisterò, io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene, quell’aria pesante che vi si respira gravemente odorata di gas e di vernice mi ubriaca, e sempre a metà della rappresentazione mi sento preso dalla febbre e brucio, e la vecchia passione che mi trascina e non vi entro mai solo ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione non ancora fermato, uomini e donne da dramma o da commedia ma viventi nel mio cervello che vorrebbero subito saltare sul palco scenico, spesso mi accade di non vedere di non ascoltare, quello che veramente si rappresenta, ma vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente, e una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi [5].

[5] Pirandello, Lettere giovanili da Palermo e da Roma, 1886-1889, a cura di E. Providenti, Bulzoni, Roma 1993.

La passione sfrenata per l’istituzione drammaturgica si riverbera sulla dichiarazione della coincidenza tra il teatro di Pirandello e lo spirito più recondito dell’intellettuale, e trasforma il soffio vitale dell’uomo e del letterato in un unico inscindibile afflato. Questo straordinario concorso è il luogo metaforico in cui Italo Svevo riteneva si concertasse la teatralizzazione della casualità e della originalità insondabile ed irripetibile della vita. Da qui si originano in Pirandello, a parere dell’autore de La Coscienza di Zeno, i dialoghi serrati e le azioni sempre contrassegnate da un evento imprevisto, da un finale fortuito, da una trovata inaspettata che raffigura e riproduce sulla scena la imperscrutabilità del caso (e del Caos) e della stessa vita umana. Assunta questa prospettiva straniante, il teatro di Pirandello può declinarsi come il teatro della vita. I personaggi che vi agiscono appaiono continuamente angosciati da problemi interiori, da instabilità non solo psichiche; questa inesplorabile e sotterranea afflizione, che compare anche al di sotto di apparenti raffigurazioni felici, ha bisogno di una soluzione, e tale soluzione si dà nel ritrovamento del sé attraverso il superamento dei limiti della ragione. Nella dimensione ideativa di Pirandello, nell’atto stesso della prima intuizione e immaginazione drammaturgica si crea e si annida quell’angoscia cui solo alla ragione è dato trovare il passaggio, il varco delle occasioni per dirla con Montale.

Un primo passo per una corretta interpretazione della drammaturgia pirandelliana va posto nella definizione di una cronologia delle fasi del teatro, che seppur non innovativo come metodo critico-esegetico, garantisce, tuttavia, a quella successione di eventi un tono più realistico e veritiero in riferimento sia alla produzione sia alla poetica teatrale di Pirandello.

Si possono fissare le date dell’esordio nel 1892 con l’atto unico Lepilogo e nel 1897 con la novella La paura, sebbene le prime messe in scena di opere teatrali di Pirandello si ebbero nel 1910 al Teatro Minimo di Roma in risposta alle esortazioni dell’amico Nino Martoglio. In quell’anno furono portate sulle scene La Morsa  [6] (epilogo in un atto, risalente al novembre del 1892 e di cui nel 1918 venne allestita anche una versione in dialetto siciliano, ’A morsa), un triangolo abusato tra lui, lei, l’altro con il suicidio dell’antagonista e Lumie di Sicilia, opera ancora legata a certi schemi drammaturgici ottocenteschi e di cui nel 1915 fu allestita una versione dialettale per la compagnia teatrale di Angelo Musco [7].

[6] A. Bruni, Modelli e interferenze nell’esordio di Pirandello drammaturgo: «La morsa», «Cuadernos de Filología Italiana», 5 (1998), pp. 175-187.

[7] Per gli interventi di Peppino de Filippo sul testo pirandelliano si veda P. Sabbatino, Luigi Pirandello e Peppino De Filippo, «Quaderni d’italianistica», 36, 1 (2015), pp. 109-125.

Le due opere sono composte in italiano, ma nella loro scrittura e poi nella rappresentazione, Pirandello percepisce i limiti del teatro nella lingua nazionale, rimanendo forse attonito, basito come Andrea nel movimento finale de La Morsa («resta perplesso, smarrito, dietro l’uscio, con le mani sulla faccia»). La parentesi del dialetto [8] si attesta tra il 1915 e il 1920 e si configura come un plurilinguismo culturale prima che un fattore meramente linguistico; il ritorno all’italiano sarà di necessità richiesto anche dalla statura europea che egli nel frattempo era riuscito ad assumere, sin già a partire dalla fine della prima guerra mondiale, e grazie anche agli stimoli intellettuali che gli garantivano la drammaturgia di Ibsen, di Checov, di Strindberg, di Maeterlinck.

[8] La sensibilità verso le questioni della lingua e del dialetto provenivano da- gli studi universitari di Pirandello ed ebbero una prima chiara manifestazione nell’articolo del 1890, Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro don Gesualdo del Verga) pubblicato in Vita Nuova, 5 ottobre 1890, e ora in L. Pirandello, Saggi e Interventi, a cura di F. Taviani, Mondadori, Milano 2006, pp. 78-81; cfr. anche A. Camilleri, Pirandello: la lingua, il dialetto, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 4 (1999), 2, pp. 439-450.

Pirandello, dunque, si volge al dialetto, al vernacolo puro per ricreare nello strumento linguistico quel tentativo di recupero di una dimensione umana quasi mitica (non esente da certe suggestioni apparentemente veristiche come in Liolà, ricordando l’ammirazione per il narratore catanese che riteneva «il più antiletterario degli scrittori») [9] e sospesa nel tempo.

[9] Cfr. G. Giudice, Pirandello e Verga, «Galleria», 15 (1965), 1-2, pp. 19-32.

Quel dialetto, però, non è la lingua usata dalla borghesia, non di rado incline a certe uscite linguisticamente distoniche (‘umoristiche’) rispetto alla propria considerazione sociale, e per questo divertenti nel loro effetto di straniamento. È la parlata che poteva assicurare una rinnovata freschezza espressiva, una giusta esuberanza nel tessuto linguistico-lessicale; ma il dialetto rappresentava soprattutto un tramite di eloquenza che si poneva quale alternativa alle forme abusate della tradizione teatrale (e in ciò allontanando- si dalle posizioni del Verismo), simboleggiate ancora dal modello attoriale del veneziano Gustavo Modena (1803-1861) interprete al suo debutto sulle scene addirittura del Saul di Vittorio Alfieri. L’opzione dialettale permetteva, quindi, di operare surrettiziamente una precisa scelta di carattere intellettuale, spostando l’attenzione, la focalizzazione drammaturgica su uno strato sociale differente e più basso, e ricevendo una compiuta statura istituzionale di lingua, in tutto alternativa all’italiano. Come detto, si tratta del vernacolo puro, una lingua parlata appunto dalle classi non ‘contaminate’ dalla cultura e ignoranti nel senso originario di “persone che non sanno, che non conoscono”.

La parlata di Girgenti fa il suo esordio nella scrittura drammaturgica già nel 1916 all’altezza della composizione di Liolà (che verrà pubblicato l’anno seguente), un’opera nodale nella elaborazione del pensiero teatrale di Pirandello, esaltata anche da Antonio Gramsci come una felice rappresentazione di sentimenti genuini e primigeni:

c’è implicito in Liolà tutto il teatro di Pirandello, ma come sentimento più che come proposito, come teatralità episodica e comicità tenue più che come integra personalità ideale. […] Liolà è opera d’arte perché la purezza creativa deve essere serena, come un mondo che scaturisce tutto organicamente da un suo centro, e ha in sé la sua misura e il suo limite, non in un sterno criterio di verisimiglianza [10].

[10] P. Gobetti, Scritti di critica teatrale, a cura di G. Guazzotti, C. Gobetti, III, Einaudi, Torino 1974, pp. 459-460 la cui citazione si legge anche nel citato volu- me delle Opere di Pirandello, a cura di P. Frassica, p. 64.

L’apertura verso la lingua dialettale fu anche favorita dallo stretto legame che Pirandello ebbe con due figure centrali nella strutturazione della sua poetica teatrale, l’attore Angelo Musco (1871-1937) al quale affiderà la rappresentazione di una serie molto ampia di opere, e il poeta dialettale e giornalista Nino Martoglio (1870-1921). Il dialetto siciliano, quindi, è una piacevole evasione da una situazione di per sé tragica che è quella della malattia mentale della moglie e della prigionia del figlio Stefano durante il primo conflitto mondiale; questa parlata, e la tragedia che porta contestualmente, si riversa nelle forme teatrali ascrivibili esteriormente al genere istituzionale della commedia. Pensate direttamente in dialetto, Pensaci Giacuminu e Liolà vengono rappresentate dalla compagnia di Angelo Musco a Roma al Teatro Argentina a partire dal 4 Novembre del 1916. Leonardo Sciascia riteneva che Pensaci Giacomino fosse un’evasione e Liolà una commedia-vacanza, una villeggiatura che Pirandello ‘trascorse’ (è un eufemismo richiesto dalle metafore sciasciane) a Roma nel 1916. Il drammaturgo si chiude in un mondo perfetto (idealizzato ma non trasognato) in mezzo alla sciagura della moglie, del figlio, della guerra [11], in cui un ruolo non marginale andrà riconosciuto a quello sguardo non disincantato che Pirandello gettò verso l’estetica teatrale che in quegli anni coincideva con il dettato futuristico. Adriano Tilgher riteneva che «le esigenze del teatro sintetico futurista, hanno trovato la loro realizzazione più attraverso la scenografia ed i movimenti che dal 1916 in poi (grotteschi, Rosso, Bontempelli, Pirandello, ecc.) si sono succeduti sulle scene italiane che attraverso l’opera drammatica del fondatore del Futurismo» [12]. E nel Futurismo (così presente nelle pagine di questo volume ora manifestamente ora implicita- mente), pur nella sua rapida fenomenologia letteraria, artistica e, soprattutto, teatrale, si dovrà riconoscere «la chiave indispensabile per intendere nella sua logica progressione storica il periodo della letteratura drammatica italiana comprendente il secondo e il terzo decennio del Novecento» [13].

[11] Cfr. L. Sciascia, Pirandello e il pirandellismo, con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, S. Sciascia, Caltanissetta 1953.

[12] A. Tilgher, Non arte effettuale, ma esigenza di arte nuova, «Sipario», 260 (1967), p. 21.

[13] G. Calendoli, Dai Futuristi a Pirandello attraverso il «grottesco», «Sipario», 260 (1967), pp. 14-16, qui p. 15; cfr. inoltre F. Perrelli, Le origini del teatro moderno. Da Jarry a Brecht, Laterza, Bari 2016, in cui si afferma che «la breve stagione del teatro Grottesco fu inaugurata da Lugi Chiarelli con la rappresentazione nel 1916, della Maschera e il volto e trovò un consistente sviluppo nella drammaturgia di Rosso di San Secondo (Marionette che passione!, 1917). Alcune opere di Pirandello, peraltro tra i potenziali ispiratori della tendenza, come Così è (se vi pare) e Il giuoco delle parti (1918-19), potrebbero rientrare nel genere, che appare già esaurito attorno alla metà degli anni Venti».

Quindi si capisce come non esista realmente né il mondo di Liolà, né quello di Pensaci Giacomino; né esiste per Pirandello impegnato e assorto nella scrittura di quelle opere il mondo della realtà, della moglie, del figlio, della guerra: ecco allora finalmente l’incontro con l’alterità della realtà, l’alterità delle commedie.

Pirandello non ha mai sottomesso la propria intuizione intellettuale e la vena drammaturgica ai bisogni o alle richieste della politica, per quanto non di rado sia stato tirato per la giacchetta da alcune fazioni; in Liolà si coglie l’esigenza dello scrittore di creare un teatro nazional-popolare, definito da lui stesso in questa forma, che non fosse solo ad uso esclusivo della borghesia, ma che potesse estendere la propria fruibilità anche al proletariato. Un’ispirazione nella quale iniziano a germinare e a mescolarsi gli elementi della scrittura narrativa, del romanzo più noto, Il fu Mattia Pascal («si vede che – capitato in mezzo a così tanta brava gente – tutto il male lo avevo fatto io») e de La Mosca, epopea di una famiglia numerosa e dei suoi molti figli in cui bisognava «cantare e lavorare. Tutto a regola d’arte».

Risalgono al 1904 queste due opere con le quali si concretizza il superamento di ogni residuo contatto con il verismo verghiano. «Trafelati, ansanti, per far più presto, quando furono sotto il borgo, – sú, di qua, coraggio! – s’arrampicarono per la scabra ripa cretosa, ajutandosi anche con le mani – forza! forza! – poiché gli scarponi imbullettati – Dio sacrato! – scivolavano». L’incipit del- la novella non tradisce alcun indugio veristico. L’attraversamento della stagione verghiana si esplica in una prospettiva (un punto di vista) solo apparentemente prossima al verismo [14] – e non c’è neanche tanto naturalismo in altre opere che pure sono completamente siciliane, come La Giara del 1917 – ma senza le complicazioni filosofiche del naturalismo, del positivismo di Verga, e soprattutto senza quel distacco borghese e narrativo della focalizzazione al grado zero.

[14] Per i rapporti tra Pirandello e Verga cfr. A. Morace, «Un’altra via, in arte»: Pirandello e Verga (con un inedito epistolare), «La modernità letteraria», 9 (2016), pp. 121-130.

Nella commedia Liolà domina un mito solare, fatto di senti- menti genuini e di un’esuberante umanità felice; Simone vuole un erede per lasciare la sua roba (un tema senz’altro comune alla scrittura verghiana), ma, non consentendoglielo la sua sterilità, in- tende adottare il figlio di un’altra donna, prima di scoprire che sua moglie gli stia per dare l’agognato erede. L’identificazione fra terra e uomo, fra roba e uomo ricalca la prospettiva verghiana ma senza verismo, poiché cadono le implicazioni antropologiche e filosofiche del ciclo dei Vinti, della fiumana che investiva ogni umanità.

Gramsci riteneva che questa fosse una farsa scritta nei toni dei drammi satireschi della Grecia antica, collegata e generata cioè da una vita nei campi dominata dal furore. L’opera piacque anche a Pietro Gobetti che vedeva in quella drammaturgia la coincidenza di popolo e poesia, riconoscendo nel teatro il luogo in cui la freschezza popolare si opponeva vittoriosa al convenzionalismo borghese. Ne sia testimonianza il discorso tra Liolà e zio Simone la cui profondità supera il confine della scrittura e della stessa rappresentazione per concentrarsi nelle pieghe delle similitudini terra-grembo e proprietà-vita:

Liolà: […] Ringrazii Dio, zio Simone, che ancora non lo spos- sessano.

Zio Simone: Mi dovrebbero anche spossessare?

Liolà: E come no? Anche questa legge possono mettere domani. Scusi. Qua c’è un pezzo di terra. Se lei la sta a guardare senza farci nulla, che le produce la terra? Nulla. Come una donna. Non le fa figli. – Bene. Vengo io, in questo suo pezzo di terra: la zappo; la concimo; ci faccio un buco; vi butto il seme: spunta l’albero. A chi l’ha dato quest’albero la terra? – A me! – Viene lei, e dice di no, che è suo. – Perché suo? perché è sua la terra? – Ma la terra, caro zio Simone, sa forse a chi appartiene? Dà il frutto a chi la lavora. Lei se lo piglia perché ci tiene il piede sopra, e perché la legge le dà spalla. Ma la legge domani può cambiare; e allora lei sarà but- tato via con una manata; e resterà la terra, a cui getto il seme, e là: sfronza l’albero! (Liolà, atto primo).

Fra il febbraio del ’16 e il dicembre del ’17 Pirandello scrive tredici commedie; fra il dicembre del ’17 e il gennaio del ’18 tra- duce in italiano ’A patinti (La patente) pubblicata nel 1918 sulla «Rivista d’Italia»: una novella sceneggiata, un atto unico e insieme una novella che celebra il passaggio dai drammi siciliani ai drammi italiani. Discutendo con l’attore Angelo Musco sulla messinscena Pirandello adopera proprio il termine di novella sceneggiata, collocandosi a metà strada tra un testo narrativo ed uno teatrale.

La messinscena de La patente a Roma nel 1918 non riscosse un grande successo, e lasciò segni profondi nell’animo e nella rifl ne intellettuale di Pirandello che si affacciava per la prima volta sulla scena della capitale, in una dimensione ormai europea e comunque nuova. Il passaggio dalla terra siciliana alla nazione italiana serve a Pirandello per un cambio, uno scarto di carattere sociologico passando dal proletariato, come sottolineava Gobetti, della prima fase delle opere in dialetto al collocamento della riflessione della piccola borghesia romana, rompendo col verismo, col naturalismo, ma anche con D’Annunzio. La patente istituzionalizza la problematica dell’opinione pubblica, del pensiero della collettività, dell’esteriorità. Dice Chiàrchiaro davanti al giudice invocando le proprie ragioni:

Chiàrchiaro: Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo metterò come titolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco? La patente! Sarà la mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un povero padre di famiglia. Lavoravo onestamente. Mi hanno cacciato via e buttato in mezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglie paralitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei le vede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: belline tutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sa di che campiamo adesso tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fare ancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!

[…]

D’Andrea: Io? Ma vi pare?

Chiàrchiaro: Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci sarà bisogno di dir niente. […]

e chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioja, o a guardare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!

D’Andrea: La tassa dell’ignoranza!

Gli ignoranti coincidono con i ricchi; il denaro stesso è ignorante, esso non sa, non conosce e né porta alla conoscenza. Pertanto non sarà vero ciò che è vero, ma è vero solo ciò che ci viene fatto credere o è vero ciò che è i più credono, è vero ciò che dice la gente. La patente segna una svolta nella fase del relativismo gnoseologico e suggerirà a Bontempelli le seguenti considerazioni:

Il teatro di Pirandello è il tragico e altissimo documento e monumento della fatalità che parve, all’aprirsi del tempo nuovo, ruinare l’umana civiltà e tutte le sue conquiste di venticinque secoli, facendo dell’uomo uno scoiattolo che passa la vita a far girare vorticosa- mente la sua piccola prigione. La vita delle persone pirandelliane è grottesca e terribile: sono esse le vittime, non più come in Sofocle, della crudeltà d’Olimpo che le saetta dalle nubi; non più, come in Shakespeare, della indomabilità delle loro stesse passioni; non più, come in Ibsen, d’una legge morale ch’essi non sanno considerare se non come convenzione sociale: sono le vittime della torbida e lucida persuasione d’un immane nulla tutt’intorno all’uomo, centro e insieme circolo estremo d’un universo di raggio infinito, vittime della sostituzione di un ‘così è se vi pare’ all’apprendimento e all’accettazione vitale d’una costruzione di leggi. La sfasciata ed errabonda miseria di quegli eroi costituisce la precisa assillante moralità, attualità di questo che è uno dei pochi poeti del tempo tragico universale [15].

[15] M. Bontempelli, Pirandello o del candore, in Opere scelte, a cura di L. Baldac- ci, Mondadori, Milano 1978, pp. 825-826.

Nel tempo nuovo che si apriva al Novecento, un tempo pirandelliano, un tempo culturale e filosofico, Bontempelli celebra il rito gnoseologico del così è (se vi pare) come una nuova forma intellettuale e umana prima ancora che letteraria. Il teatro vive nell’umanità, non nella scena rappresentata dell’umanità. Così è (se vi pare) è la trasposizione della novella La signora Frola e il signor Ponza suo genero e fu rappresentata per la prima volta nel 1917, successiva- mente sottoposta a significative modificazioni nel 1925. Nel testo si descrive la contrapposizione tra l’umanità borghese ordinata e l’alterazione confusionaria del dolore e della pazzia, inquadrati nella dimensione della chiacchiera di paese, dell’opinione tutta esteriore della gente. Il signor Ponza e la signora Frola si rimpallano l’accusa di pazzia in riferimento alla figlia e moglie Lina nel contesto del terremoto della Marsica del 1915. Il relativismo della parola ripete lo schema gnoseologico de La patente, ma in questo caso Pirandello si riserva il diritto di intervenire in qualche modo nell’intreccio, assumendo le vesti, la maschera del personaggio dell’intellettuale Lamberto Laudisi:

Laudisi E allora non credete a nessuno dei due!

Sirelli Tu vuoi scherzare. Mancano le prove, i dati di fatto; ma la verità, perdio, sarà da una parte o dall’altra!

Laudisi I dati di fatto, già! Che vorresti desumerne?

Agazzi Ma scusa! L’atto di morte della figliuola, per esempio, se la signora Frola è lei la pazza (purtroppo non si trova più, perché non si trova più nulla), ma doveva esserci; si potrebbe trovare do- mani; e allora – trovato quest’atto – è chiaro che avrebbe ragione lui, il genero.

Sirelli Potresti negar l’evidenza, se domani quest’atto ti venisse presentato?

Laudisi Io? Ma non nego nulla io! Me ne guardo bene! Voi, non io, avete bisogno dei dati di fatto, dei documenti, per affermare o negare! Io non so che farmene, perché per me la realtà non consiste in essi, ma nell’animo di quei due, in cui non posso figurarmi d’entrare, se non per quel tanto che essi me ne dicono.

Sirelli Benissimo! E non dicono appunto che uno dei due è pazzo? O pazza lei, o pazzo lui: di qui non si scappa! Quale dei due? Agazzi È qui la questione!

Laudisi Prima di tutto, non è vero che lo dicano entrambi. Lo dice lui, il signor Ponza, di sua suocera. La signora Frola lo nega, non soltanto per sé, ma anche per lui. Se mai, lui – dice – fu un po’ alterato di mente per soverchio amore. Ma ora, sano, sanissimo. […]

Sirelli E allora – pazzo – nessuno dei due? Ma uno dev’essere, perdio!

Laudisi E chi dei due? Non potete dirlo voi, come non può dirlo nessuno. E non già perché codesti dati di fatto, che andate cer- cando, siano stati annullati – dispersi o distrutti – da un accidente qualsiasi – un incendio, un terremoto – no; ma perché li hanno annullati essi in sé, nell’animo loro, volete capirlo? creando lei a lui, o lui a lei, un fantasma che ha la stessa consistenza della realtà, dov’essi vivono ormai in perfetto accordo, pacificati. E non potrà essere distrutta, questa loro realtà, da nessun documento, poiché essi ci respirano dentro, la vedono, la sentono, la toccano! – Al più, per voi potrebbe servire il documento, per levarvi voi una sciocca curiosità. Vi manca, ed eccovi dannati al meraviglioso supplizio d’aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l’uno dall’altra! (Così è (se vi pare), atto II, scena I)

L’alterità gnoseologica si traduce dunque nella cecità, nella in- capacità di vedere e leggere la realtà per quella che è, o meglio per quella che appare; una visione della realtà che sta appunto nella metafisica, che travalica cioè il limite della stringente fisicità, e che distingue la fase del relativismo gnoseologico che arriva fino al 1922. Appartengono a questa fase Il piacere dell’onestà (1917), Il giuoco delle parti (1918), Ma non è una cosa seria (1918), e vi si può ascrivere anche l’Enrico IV del 1922 per la denuncia dei ruoli esistenziali, della tragedia che scaturisce dai panni che la vita assegna, e che per divenire degna di essere vissuta impone di scontare sulla propria pelle il dissidio tra pazzia e finzione. La comprensione del teatro di Pirandello come lui stesso ebbe modo di confessare alla sorella Lina, non andrà ricercata da nessun’altra parte se non all’interno di Pirandello stesso, non assistendo passivamente alla rappresentazione in teatro, ma guardando alacremente all’interno dei personaggi agiti sulla scena. L’Enrico IV viene rappresentato nel febbraio del 1922 a Milano, dopo una gestazione di sole due settimane ed espressamente destinato all’attore Ruggero Ruggeri in una epistola al quale il drammaturgo spiega la natura profonda di quest’opera. L’Enrico IV, suddivisa in tre atti, è per Pirandello una tragedia fatta di «cose veramente imprevedibili», di accidenti fortuiti in cui la realtà coincide con la simulazione filosofica della pazzia, «per ridersi dentro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace in quella carnevalesca rappresentazione»; almeno fino a quando il «finto pazzo tra spaventosi brividi, crede per un momento di es- sere pazzo davvero e sta per scoprire la sua finzione, quando in un momento riesce a riprendersi». La ferocia dell’alternanza da una finta pazzia a quel ruolo esistenziale in cui Enrico IV ha paura di essere divenuto realmente pazzo regola il dramma dell’esistenza: è proprio grazie al tramite della pazzia che quella tragedia si trasforma in un’occasione per intervenire nel cielo di carta, per percepire una verità più pura (che si cela proprio nella pazzia). Il relativismo gnoseologico, il relativismo della parola si evolvono e trasformano con l’Enrico IV, che appare l’anello di congiunzione con la successiva fase del metateatro.

Enrico IV Codesto vostro sgomento, perché ora, di nuovo, vi sto sembrando pazzo! – Eppure, perdio, lo sapete! Mi credete; lo avete creduto fino ad ora che sono pazzo! – È vero o no?

Li guarda un po’, li vede atterriti.

Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore, codesto sgomento, come per qualche cosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei! Perché trovarsi davanti a un pazzo, sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto, ave- te costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! – Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! Oggi così e domani chi sa come! – Voi vi tenete forte, ed essi non si tengono più. Volubili! Volubili! – Voi dite: «questo non può essere!» – e per loro può essere tutto. – Ma voi dite che non è vero. E perché? – Perché non par vero a te, a te, a te, indica tre di loro, a centomila altri. Eh, cari miei! Bisognerebbe vedere poi che cosa invece par vero a questi centomila altri che non sono detti pazzi, e che spettacolo danno dei loro accordi, fiori di logica! Io so che a me, bambino, appariva vera la luna nel pozzo. E quante cose mi parevano vere! E credevo a tutte quelle che mi dicevano gli altri, ed ero beato! Perché guai, guai se non vi tenete più forte a ciò che vi par vero oggi, a ciò che vi parrà vero domani, anche se sia l’opposto di ciò che vi pareva vero jeri! Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi – come io guardavo un giorno certi occhi – potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca…

Con alacrità filosofica, Pirandello smonta le costruzioni del bello e del ben fatto primo-novecentesche; all’altezza del 1922 (data di non poche suggestioni storiche e politiche per gli Italiani, seppure ancora al mese di febbraio), decreta la rottura dell’ordine costituito e reagisce alla vana esteriorità formale della borghesia che camminava imperialmente verso mete sciagurate, verso «quest’altra mascherata» fatta da «pagliacci involontari». Enrico IV si scuote l’abito che ha indosso, ne denuncia la maschera («la caricatura, evidente e volontaria») e accoglie, infine, come una liberazione la propria pazzia («preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia»):

quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere – l’abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come la loro stessa persona. Voltandosi di nuovo a Belcredi: Sai? Ci si assuefà facilmente. E si passeggia come niente, così, da tragico personaggio.

Questa appare anche una sofferta conquista in una vita che è «una fuga di illusioni» [16], per cui il personaggio si pone fuori dalla propria finzione, e assegna il ruolo di falsità a chi sta di fronte al sano: «sono guarito signori perché so perfettamente di fare il pazzo qua, e lo faccio quieto, il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia». Questo periodo drammaturgico si innerva nella trilogia dei Sei personaggi in cerca di autore («si limita in realtà a mimare una rivoluzione scenica») [17] del ’21, Ciascuno a suo modo del ’24 e Questa sera si recita a soggetto del ’30. E andrebbe forse aggiunta anche I giganti della montagna, opera incompiuta che Pirandello portò avanti sostanzialmente fino alla morte (1936).

[16] G. Colombo, Letteratura e cristianesimo nel primo Novecento, a cura di I. Biffi, Jaca Book, Milano 2008, p. 90.

[17] R. Alonge, Luigi Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 56.

Lo sfondo mimetico della trilogia metateatrale, i salotti della borghesia, le campagne, i cimiteri portano alla luce l’intrico di falsità su cui poggia la vita collettiva; ma in questo momento neanche la maschera è più in grado di celare tale nodoso e caotico viluppo. Le maschere però non cadono, ma si strappano dai volti e questo gesto violento si traduce nei finali tragici de Il giuoco delle parti, di Enrico IV, di Vestire gli ignudi.
Non si lacera solo la maschera, ma perfino la pelle reale del falso personaggio che si rappresenta: in siffatta brutalità si concentra la perfetta coincidenza tra vita e teatro. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente: il superamento di questo stadio darà avvio alla stagione dei miti. Non basta più un teatro che sia altro da sé (lo specchio del teatro, la luna e lo specchio): il mito trasferisce la storia, gli argo- menti e le ambientazioni in dimensioni e scenari favolosi, universali perché cade ogni contesto geografico, ogni limite temporale.

A un mito sospeso appartengono i pescatori de La nuova colonia (1928) i quali, rifugiatisi su un isola che è stata lasciata dai vecchi abitanti perché c’è il pericolo che possa sprofondare nel mare, accettano il rischio sperando nella fortuna; ma il mito non è più quello vagheggiato della buona sorte della impresa verghiana dei lupini, è il mito dell’amore inteso come innocente solidarietà umana. Il teatro si apre alla sua maggiore evoluzione: l’incompiutezza de I Giganti della montagna quasi si staglia a testimoniare che sta per arrivare la scintilla di eternità anche per la scrittura drammaturgica. In Lazzaro (1929) compare, infatti, un Dio-medico che resuscita Diego Spina, il quale a sua volta ha ucciso se stesso nel sacrificio fatto per la famiglia, (il figlio investito viene resuscitato con una iniezione miracolosa da parte di un medico); e ancora a un miracolo di fede è attribuita anche la resurrezione della piccola Lia paralitica.

Le tre sezioni dell’opera I giganti della montagna rappresentano tre differenti umanità: scalognati, attori e giganti. Gli scalognati vivono relegati in una villa dove la fantasia prende corpo; gli attori in quella villa vogliono rappresentare un’opera, la favola del figlio cambiato; e infine i giganti, rappresentanti teatrali della rozzezza, della bestialità, si vedono negata l’arte da parte del mago degli scalognati. Inutile sottolineare l’esplicito ritorno al presente di questa dimensione mitica: la brutalità e la cieca violenza dei giganti hanno tratti troppo somiglianti alla muscolarità di una certa umanità degli Trenta, la cui rozzezza li rendeva duri di mente.

La conclusione mitica della drammaturgia pirandelliana, l’evoluzione del grottesco, la scomposizione del personaggio-uomo scisso tra realtà e apparenza, tra salute e follia («che sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze) si confermano nella impossibilità di trovare una conclusione, di giungere ad una definizione finale («io sono vivo e non concludo. La vita non conclude»); e perciò per trovare il rinnovamento, per recuperare un varco non resta che vivere:

E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fer- marsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni (Uno, nessuno e centomila).

Francesco Saverio Minervini

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