Pirandello e il progresso scientifico

Di Rosa Giulio.

Una componente essenziale dell’universo pirandelliano è il caso che presiede alle vicende umane, la cui arbitrarietà è certamente opposta alla regolarità delle leggi fisico-matematiche, sulla cui ‘logica’ poggiano le certezze scientifiche. Episodi imprevisti, casuali, ma anche assurdi e inverosimili, sono in diverse opere pirandelliane. 

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Pirandello e il progresso scientifico
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Pirandello e il progresso scientifico:
un’immagine ‘dissonante’

da Italianisti.it

Fin dalle prime opere saggistiche, Pirandello si formò una sua particolare immagine delle grandi trasformazioni prodotte dalle scoperte della scienza e dalle applicazioni della tecnologia nella civiltà moderna. La comunicazione metterà in evidenza che questa immagine, collocandosi organicamente all’interno della sua visione del mondo e di una crisi epistemologica epocale, appare, fin dall’inizio, ispirata al principio della ‘dissonanza’, che attraversa buona parte della sua produzione letteraria. In un saggio scritto nel 1896, Rinunzia, ad esempio, il ventottenne Pirandello se, da un lato, esalta come titolo di benemerenza verso l’umanità la scoperta dei Raggi X, dall’altro, con implicazioni tipicamente schopenhaueriane, ritiene falsa e astratta la conoscenza scientifica, priva di vita e incapace di cogliere l’intima essenza della realtà. Attraversando quindi le opere fondamentali dello scrittore siciliano, se ne discuteranno le riflessioni più significative tra negazione relativistica dell’antropocentrismo e sorprendenti suggestioni panico- esoteriche e teosofico-spiritiche, stimoli peraltro della geniale creazione dei personaggi in cerca d’autore. 

Se uno strumento o una macchina riuscissero a compiere la loro funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo, i padroni non avrebbero più bisogno di schiavi.

Quando Aristotele formulava questa osservazione non immaginava certo che la sua previsione si sarebbe davvero realizzata con conseguenze complesse e spesso indecifrabili, come risulta confermato dal recente libro di Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, [1] in cui l’argomento svolto, di pregnante attualità, potrebbe avere un punto di partenza proprio in Pirandello.

[1] Cfr. Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Bologna, il Mulino, 2019.

In sintesi, e andando oltre la ricchezza delle analisi, vi si mette in evidenza che l’avvento di macchine sempre più sofisticate rischia di sostituire l’intelligenza umana con quella artificiale: insomma, una specie di ambivalente pharmakon, medicina e veleno, libera gli schiavi, ma sottomette i padroni. Non è difficile comprendere l’enorme importanza delle implicazioni antropologiche, politiche, etiche di tale trasformazione, da cui è nata la civiltà industriale moderna che, almeno per quanto riguarda l’Italia, si trovava agli albori nelle pagine dedicatele da Pirandello tra Otto e Novecento. Se ci si interroga, infatti, su ciò che le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche sono o dovrebbero essere per Pirandello e, quindi, sulla loro natura, sulle funzioni e sui fini nella vita del singolo, della società e della storia, la risposta più semplice e immediata è che appare evidente il valore da lui riconosciuto al moderno progresso della scienza e della tecnologia, ma risulta altrettanto chiaro che non ne condivide la tendenza a cristallizzare in formule astratte il flusso ininterrotto della vita.

L’esempio più emblematico (anche perché si colloca proprio all’inizio della sua riflessione teorica e in un certo senso finirà per condizionare la produzione letteraria successiva) è dato da un articolo uscito in «La Critica» di Gino Monaldi l’8 febbraio 1896 , Rinunzia, dove il giovane Pirandello se, da un lato, esalta come titolo di benemerenza verso l’umanità la scoperta dei Raggi X, «che tanto lume porterà in noi medesimi», perché «la scienza trae quotidianamente a nuovi e meravigliosi scopi le forze e i mezzi della natura», dall’altro, con implicazioni tipicamente schopenhaueriane, ritiene falsa e astratta la conoscenza scientifica, priva di vita e incapace di cogliere l’intima essenza della realtà: «La scienza e la filosofia moderna implicano una rinunzia di fronte al mistero della vita. Spiegano l’universo come formazione naturale, come evoluzione; lo considerano come una vivente macchina, di cui s’ingegnano di precisar la conoscenza, quasi pezzo per pezzo». E si chiede: «Abbiamo veramente una dottrina infallibile della conoscenza e una nozione precisa dell’universo? Chi potrebbe darcela?». E si dà una risposta, ma è insoddisfacente: «La scienza. Ma questa si basa soltanto su fenomeni e rapporti; conosce la faccia, non il dentro delle cose; spiega sì, ma riconducendo le cose a rapporti nello spazio e nel tempo, in riallacciamenti di leggi astratte, in meccanismi, che son poi soltanto, più o meno, teoremi di geometria. E insomma astrae la vita e quasi la distrugge per poterla anatomizzare». Questa constatazione lo induce a una prima affermazione: «Noi non abbiamo e forse non potremo aver mai una nozione precisa della vita; bensì un sentimento, e quindi mutabile e vario. […] E da qui l’impossibilità d’abbracciar tutto l’essere, come è impossibile abbracciare un poliedro a un tempo in tutte le sue facce. […] Così noi siamo rimasti nel mistero e senza Dio, voglio dir, senza guida». Di fronte a questa dicotomia, sicurezza / non-sicurezza della scienza, egli stesso si accorge che esiste un’insormontabile ‘dissonanza’, un’opposta e incomponibile polarità: «Se io interrogo la mia coscienza, mi par di sentirvi un’aspra, continua discordia di voci; mi par che tutto in lei tremi e tentenni», per cui la sua ultima, angosciata interrogazione rimane senza risposta: «Come dunque operare, se la scienza ci manca e l’essere ci sfugge?». [2]

[2] Luigi Pirandello, Rinunzia, in ID., Saggi e interventi, a cura di Ferdinando Taviani, Milano, Mondadori, 2006, 126-129.

Questo giovanile scritto di Pirandello è di importanza decisiva per comprendere alcuni successivi sviluppi teorici e artistici. Il radicamento della sua ambivalente posizione, più estesamente espressa nell’articolo del 1896, è verificabile anche in uno scritto di tre anni prima, pubblicato in «La Nazione Letteraria» del settembre 1893, Arte e coscienza d’oggi, dove è già presente il concetto che della vita noi possiamo avere solo il sentimento: «Nessuna conoscenza, nessuna nozione precisa possiamo aver noi della vita; ma un sentimento soltanto e quindi mutabile e vario». Concetto, ancora una volta, accostato alla sua idea di scienza; infatti, aggiunge: «Ma che sentimento! Nella poesia, il sentimento – non nella scienza. – Interrogate la cosmogonia di Laplace, la morfologia di Darwin, la biologia dello Spencer, la sintesi chimica del Berthelot. Che cosa è la natura?». Ed ecco la risposta complessiva: «Un simbolo di gruppi meccanici, i quali, spostando continuamente le loro relazioni, ascendono a forme più vaste del moto, portando la propria legge in sé». [3]

[3] Ivi: Arte e coscienza d’oggi, 185-203: 192.

Questa visione della natura, che conserva in sé le sue leggi e su cui l’ascendenza dell’uomo è inesistente, dà la possibilità a Pirandello di dedurre un’altra componente assiale della sua arte, ispirata a un netto rifiuto della presunzione antropocentrica, di chiaro stampo leopardiano: «Se voi investigate meglio questa legge e l’eterna necessità che governa il reale, non fareste più certe stolte domande frutto dell’orgoglio umano che vuol farsi centro dell’universo». [4] Interessante notare che in questo stesso scritto si trova un’altra idea chiave pirandelliana, quella del relativismo gnoseologico; poco dopo, infatti, afferma: «È naturale che il concetto di relatività d’ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l’estimativa. Il campo è libero ad ogni supposizione». [5]

[4] Ivi, 192-103. [5] Ivi, 196. 

Un’idea, anche questa, di chiara matrice leopardiana, assolutamente non accostabile alla teoria della relatività formulata da Albert Einstein; non a caso, all’altezza del 1922, in piena maturità, nel corso di un’intervista sul teatro moderno concessa a Diego Manganella su «L’Epoca», affermerà esplicitamente: «Solo dopo, quando i miei primi lavori teatrali apparvero, mi fu detto che quelli erano i problemi del tempo, che altri, come me, in quello stesso periodo si consumavano su di essi. E oggi ancora io non conosco Einstein!». [6]

[6] Ivi: Il teatro moderno, Tilgher, Bracco, un nuovo romanzo, l’America, 1149-1153: 1150-1151.

La posizione pirandelliana, ‘dissonante’ e ambivalente, la sua «discordia di voci», viene ribadita anche nel saggio più argomentato e complesso dal titolo significativo di Arte e Scienza, il primo di un volume dallo stesso titolo, pubblicato nel 1908, l’anno in cui esce anche L’umorismo: l’uno e l’altro accomunati anche dalla polemica contro l’Estetica di Benedetto Croce, che, secondo Pirandello, tende in maniera arbitraria a staccare nettamente «l’arte dalla scienza, non però la scienza dall’arte; relega l’arte in un primo gradino, la scienza in un secondo, che presuppone il primo», mentre non si possono staccare «le varie attività e funzioni dello spirito, che sono in intimo inscindibile legame e in continua azione reciproca». [7]

[7] Ivi: Arte e scienza, 587-774: 591-592.

Attratto dai «meravigliosi esperimenti psico-fisiologici», esposti da Alfred Binet nel suo noto trattato, Les altérations de la personalité, in cui si «argomenta che la presunta unità del nostro io non è altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile di vari stati di coscienza più o meno chiari», Pirandello, condannando alcuni eccessi di Spencer e di Taine tendenti ad annullare le differenze tra mondo fisico e mondo morale, ritiene di dovere senz’altro consentire proprio con il metodo sperimentale dello scienziato francese, che potrebbe apportare notevoli contributi alla critica estetica e alla creazione artistica, diversamente dalle teorie crociane. [8]

[8] Ivi, 587; cfr. anche p. 590. Ma cfr. anche Alfred Binet, Les altérations de la personalité, Paris, Alcan, 1892. Su questi aspetti si veda anche Gösta Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Luigi Pirandello, Stockholm, Almqvist and Wiksell, 1966, testo particolarmente importante per lo studio degli influssi sulla concezione estetica pirandelliana del libro di Binet e dell’Essai sur le génie dans l’art di Gabriel Séailles, Paris, Baillière, 1883; Claudio Vicentini , L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia, 1970 e 1985; Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1981.

Senza addentrarci in tutta la sua ampia polemica con l’Estetica del filosofo abruzzese, peraltro da lui definita «intellettualistica senza intelletto», e riprendendo il tema principale della critica alle macchine prodotte dalla tecnologia moderna, un aspetto emerge con chiarezza (pur non essendo stato finora sottolineato abbastanza): essere questa critica perfettamente omologa all’accusa maggiore rivolta da Pirandello alla teoria crociana che è quella di essere viziata da ‘meccanicismo’. In un passaggio cruciale della sua serrata requisitoria, infatti, scrive: «E come tutto il mondo fisico forma un meccanismo rigido, nel quale si possono prevedere con sicurezza gli effetti che da certe determinate cause derivano, così il mondo estetico del Croce forma un meccanismo altrettanto rigido. Né potrebbe essere altrimenti, dato il suo modo di concepir l’Estetica». [9] E a confermare la nostra ipotesi, poco più avanti, coattivamente ripete: «Meccanismo, dunque, fissità, necessità, differenza quantitativa: tutti i caratteri del fatto fisico, ch’egli trasporta al fatto spirituale, teorico, cioè astratto». [10]

[9] Ivi, 594. [10] Ivi, 599. 

Questa inattesa (e forse involontaria) equiparazione di due poli, tra loro differenti e distanti, quali il crocianesimo e la tecnologia, in cui gli strali critici quasi sempre riservati al secondo vengono inaspettatamente estesi al primo, proprio per la sua evidente e perfino inappropriata forzatura, diventa un’interessante spia delle sottese ragioni che li collocano agli antipodi della visione del mondo di Pirandello. Ne consegue che alcune delle sue fondamentali componenti, ampiamente presenti nelle sue opere, segnano, infatti, una netta distanza sia da un’immagine di scienza intesa come ricerca razionale delle leggi fisico-matematiche e chimico-biologiche prevalenti nel mondo fenomenico, sia dalle applicazioni tecnologiche dell’industria moderna. Basta pensare a una sua concezione assiale, quella dell’Oltre, inconciliabile con un’idea di scienza controllata da una ratio geometrica, attraverso il metodo sperimentale implicante procedimenti di tipo induttivo e deduttivo nelle operazioni di laboratorio, e vicino, invece, a un atto più propriamente intuitivo e visionario. «C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo»: si trova quasi in incipit dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore; un oltre, che non si riesce o non si sa vedere, perché il più delle volte si tenta di rimuovere nella profondità interiore o subliminale. Infatti, quando coloro che si accorgono di essere osservati hanno l’impressione che questo oltre baleni negli «occhi intenti e silenziosi» di un voyeur «impassibile», ma che sa analiticamente scomporre e demistificare il reale, come Serafino Gubbio, si smarriscono, si sentono irritati e soprattutto turbati (I I). [11]

[11] Il romanzo, con il suo primo titolo, Si gira…, uscì per la prima volta sulla «Nuova Antologia» tra il primo giugno e il 16 agosto1915; poi, in volume l’anno successivo a Milano presso Treves. Con il titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore verrà pubblicato nel 1925 a Firenze da Bemporad: le varie parti non sono più intitolate Fascicolo primo, secondo …, ma Quaderno primo, secondo… Inizialmente, l’autore avrebbe voluto intitolarlo Filàuri, poi La tigre: cfr. Giovanni Cappello, Quando Pirandello cambia titolo: occasionalità o strategia?, Milano, Mursia, 1986, 122-45. Per agevolarne eventuali consultazioni e raffronti senza vincolarle a una sola edizione, essendo molte e diverse quelle correnti dei Quaderni, i riferimenti bibliografici saranno citati come segue: i dati numerici tra parentesi indicano, rispettivamente, il Quaderno e il Capitolo del romanzo; anche se l’edizione di riferimento resta sempre: Luigi Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, 2 voll., Milano, Mondadori, 1973.

L’oltre, in questo caso, agisce come un messaggio indecifrabile dell’inconscio, della sua parte nascosta, un occulto di là da sé stesso, uno sfuggente significante che inquieta, proprio perché non se ne afferra il senso. Pirandello in un passo significativo dell’Umorismo chiarisce la potenza quasi numinosa di una «realtà diversa» che improvvisamente balena alla nostra mente, «orrida» e «misteriosa», «a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o di impazzire»; ma, quando se ne ritrae sgomento per tornare all’apparentemente stabile «coscienza normale» delle cose percepite, sa ormai, mentre gli rimane ancora un’impressione di «vertigine», che «c’è qualcos’altro» al di là, «sotto» di questa, tanto da dover essere smascherata come ingannevole e inaffidabile, perché ci induce ad assuefarci alla «fantasmagoria meccanica» della vita (II V). [12]

[12] Per le stesse ragioni espresse nella nota precedente, dell’Umorismo saranno indicate solo i numeri della parte e del rispettivo capitolo, avendo come riferimento Pirandello, Saggi e interventi…. Questa «realtà diversa» è percepibile «in certi momenti di silenzio interiore, in cui la nostra anima si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti […] Lucidissimamente allora la compagine dell’esistenza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di quel nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo» (L’umorismo, II, V).

La ‘fantasmagoria’ esistenziale, non a caso, definita ‘meccanica’, induce Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila, a chiedere ai lettori del romanzo di uscire con lui dal mondo costruito e di evadere nell’aperta campagna per immergersi nello scenario naturale, in cui si possono verificare improvvise illuminazioni, epifanie impossibili nella realtà urbana dominata dalle macchine, proprio perché non vi «si vive più così per vivere, senza saper di vivere». Si augura, pertanto, e qui è Pirandello che gli fa scandire il suo messaggio: «Ci vorrebbe un po’ più d’intesa tra l’uomo e la natura», stando però attenti, noi, esseri umani, che «troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti…» (II, 8, 9) [13], in cui è l’eco della visione apocalittica del Leopardi della Ginestra con il suo «sterminator Vesevo». E nell’immaginazione di Vitangelo ritorna il leopardiano dolce ‘naufragare’ dell’Infinito, anche se l’accensione lirica è concentrata sullo smemorato abbandonarsi alla natura.

[13] Anche (cfr. nota 11) per Uno, nessuno e centomila, uscito a puntate nella «Fiera Letteraria», tra il dicembre 1925 e il giugno 1926, poi, sempre nel 1926, presso Bemporad a Firenze, il numero del Capitolo sarà preceduto da quello del Libro.

Inoltre, il momento magico della divinazione delle leggi cosmiche e naturali non sembra essere esclusivo privilegio degli scienziati; ma, in un contesto in cui la natura viene esaltata, l’intuizione dell’essenza del reale è prerogativa dei fanciulli, come si evince da una riflessione di Serafino Gubbio (ma è sempre Pirandello a parlare), ancora una volta, di chiaro influsso leopardiano: «Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa» (Quaderni, II,1; III,3).

Quasi con le stesse parole, alla fine del secondo e terzo atto dei Giganti della Montagna, il «mago» Cotrone esalta «la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi», tanto da esortare l’attor giovane della compagnia della ‘contessa’ Ilse: «Impari dai bambini, le ho detto, che fanno il gioco e poi ci credono e lo vivono come vero!», perché egli stesso e anche i suoi compagni, essendo tutti ‘poeti’ come i fanciulli, creano «immagini», «fantasmi», «sogni». [14]

[14] Sempre in base a quanto scritto nella nota 11, delle opere teatrali si citeranno direttamente nel testo solo atto e scena; edizione di riferimento Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro d’Amico (con la collaborazione di Alessandro Tinterri, 4 voll., Milano, Mondadori, 1986, 1993, 2004, 2007.

Ricordando ancora il Leopardi dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri e dello Zibaldone, l’ultimo Pirandello, attraverso questo suo singolare personaggio, il «mago», afferma che gli «Scalognati», suoi sodali, allontanatisi dal consorzio sociale, sono «padroni di niente e di tutto»; certo, non hanno «niente» e, tuttavia, il «tutto» scaturisce dalla loro immaginazione. Per Leopardi, gli adulti, che adoperano solo il freddo raziocinio e non la fervida immaginazione, di cui sono spesso privi, trasformano il «tutto» in «nulla»; analogamente e con opposta specularità, gli «Scalognati» creati da Pirandello, attenendosi alle prescrizioni di Cotrone, posseggono l’arte magica di attuare, come in un prodigio alchemico, la metamorfosi della ragione in fantasia. Pertanto, se prevale la logica stringente della ragione con un comportamento che il «mago» giudica vile, si riuscirà solo a cogliere il «nulla» nel «tutto»; se, invece, non si ragiona troppo, si assisterà all’incantesimo metamorfico del «tutto» nel «nulla».

Altra componente essenziale dell’universo pirandelliano è il caso che presiede alle vicende umane, la cui arbitrarietà è certamente opposta alla regolarità delle leggi fisico-matematiche, sulla cui ‘logica’ poggiano le certezze scientifiche. Episodi imprevisti, casuali, ma anche assurdi e inverosimili, sono in diverse opere pirandelliane. Si pensi al moltiplicarsi di vicende fortuite in Il fu mattia Pascal, a cominciare dalla fortunata vincita al Casinò di Montecarlo, dove lo strabico e strambo protagonista era capitato «per caso» e, osservando i giocatori di professione che studiano «il così detto equilibrio delle probabilità» e vogliono «estrarre la logica del caso», spinto da «una forza quasi diabolica», ottiene un’insperata somma di danaro «per caso, senza saper come» (VI. «Tic tac tac…»). [15]

[15] Diversamente dall’avvertimento della nota 11, per Il fu Mattia Pascal, uscito per la prima volta sulla «Nuova Antologia» tra il 16 aprile e il 16 giugno 1904, edito in estratto, nello stesso anno, per la «Biblioteca della Nuova Antologia», con dedica ad Alberto Cantoni, «maestro d’umorismo», pubblicato definitivamente nel 1921 presso Bemporand a Firenze, sono citati per esteso numero e titolo del capitolo, restando sempre l’edizione di riferimento Luigi Pirandello, Tutti i romanzi….

Non essendo, dunque, possibile ‘estrarre la logica dal caso’, per definizione ‘alogico’ o ‘illogico’, la casualità assoluta, inesorabilmente antideterministica e antimeccanicistica, del Fu Mattia Pascal è omogenea a quella dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, proprio perché la trama romanzesca non imita più la naturalezza e la necessità della vita. Del resto, ha osservato Romano Luperini, tutto è casuale in un mondo dominato dall’insignificanza e ridotto a rappresentazione, a gioco astratto e artificiale di forme e di maschere. [16]

[16] Cfr. Romano Luperini, La smaterializzazione allegorica dell’incontro, in ID., L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Bari-Roma, Laterza, 2007 e 2017, 262-77: 275.

Impossibile, quindi, per Pirandello, spiegare razionalmente la vita, inarrestabile fluire di istinti, passioni e sentimenti, perché significherebbe cristallizzarla, imprimerle una battuta d’arresto, farla sentire, se pure per un solo istante, vicina alla morte. Serafino Gubbio, all’altezza della composizione dei Quaderni, esprime la sfiducia nelle capacità logico-razionali che si manifestano soprattutto nell’atto del discorrere e lo stesso Pirandello aveva riflettuto nell’Umorismo intorno al rapporto oppositivo ragione / passione, logica / sentimento, riprendendo l’assioma giovanile già analizzato: «L’uomo non ha della vita un’idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per sé stesso» (II, 5). Serafino, inoltre, con un procedimento logico paradossale, assolutizza il Nulla, un «di là» ontologicamente interscambiabile con il Tutto; la vita, infatti, che è leopardianamente già di per sé «il vero male di tutti», finisce, proprio nell’epoca della meccanizzazione, per essere «divorata» dalle macchine (Quaderni, V IV; VII III, IV). L’ossimoro in forma chiastica, Tutto è Nulla o Niente è Tutto, diventa un Leitmotiv che ritorna spesso con espressioni dense e incisive, spesso anche problematiche, come nella novella, Rimedio: la Geografia (1922, in Scialle nero), in cui la voce narrante, dopo avere lucidamente ragionato sulla piccolezza della terra e la sua lontananza dalle stelle, citando Blaise Pascal, ammette «sì, piccola la terra, ma non piccola intanto l’anima nostra se può concepire l’infinita grandezza dell’universo», ma chiede poi ai suoi fittizi interlocutori: «E non varrà meglio […] guardare in su e pensare che dalle stelle la terra, signori mei, ma neanche si suppone che ci sia, e che alla fin fine tutto è dunque come niente?». [17]

[17] Le novelle si indicano direttamente nel testo, sempre per le stesse ragioni della nota 11, solo con titolo, data di composizione e raccolta in cui sono inserite, fermo restando l’edizione di riferimento: Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, 3 voll., 6 tomi, 1986, 1987, 1990.

Il «tutto», per il Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila, altro non è che il fluire stesso della vita, quando alla fine della sua vana quête nella realtà sociale rifiuta di trovarsi imprigionato in una forma. Scopre allora che la verità, se ne esiste una, non può trovarsi in mezzo agli uomini, sempre ‘mascherati’, e cerca l’immersione panteistica nel materno grembo della terra, quale esperienza esistenziale estrema, in cui la sua identità personale giunge a una completa disintegrazione nel Tutto-Nulla, essendo ormai in crisi la fede del suo autore, come già nell’amatissimo Leopardi, nel finalismo antropocentrico.

Quando poi si passa da questa quasi ossessione pirandelliana per Tutto-Nulla, per il fluire eracliteo e il bergsoniano élan vital, alla descrizione della società tecnologica moderna, creata dal progresso scientifico, e di cui espressione paradigmatica è l’industria cinematografica, le cose cambiano. Cosi, nella romana Kosmograph, lo stabilimento produttore di film, dove lavora Serafino Gubbio, da una parte, scenette stupidissime vengono riprese, in maniera alienante, da una ‘macchina’ che ingoia la vita, azionata da un operatore impassibile e muto, Serafino, dall’altra, nel ‘reparto del negativo’, dove si preparano le pellicole somiglianti a «vermi solitari», nelle sue oscure «stanze sotterranee, stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d’una lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle» – sulle quali il Gubbio narratore non ha visto altro che «mani» affaccendate, «cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un’apparenza spettrale» –, si svolge, come in un grande «ventre», «una mostruosa gestazione meccanica» (Quaderni, III III VI). L’aspetto tetro, spettrale e sinistro dei sotterranei e delle ‘mani’, che appaiono come staccate dal corpo e non governate dalla mente, la «macchinetta stridula» che, come un «grosso ragno», «succhia» la realtà viva degli attori per renderla sullo schermo «parvenza evanescente», tutta questa fabbrica di menzogne, è, dunque, un orribile vampiro, un mondo cadaverico. All’altezza del 1915, proprio quando esce la prima edizione del romanzo con il titolo Si gira…, poi riproposto nel 1925 con il titolo di Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Pirandello, in un articolo pubblicato il primo aprile 1915 su «Noi e il mondo», La guerra: il pasto delle macchine impazzite, ribadisce questa sua avversione a una meccanizzazione pericolosamente totalizzante, proprio in quel periodo, inizio della Grande Guerra (ritenuta dalla redazione del periodico «la massima catastrofe sinora inflitta all’umanità»), dominato dall’industria nazionale produttrice di micidiali ordigni bellici: «Non basta fabbricarle, le macchine: perché agiscano e si muovano debbono per forza ingoiarsi la nostra anima, divorarsi la nostra vita. Ed ecco, non più soltanto idealmente, ma ora anche materialmente, se la divorano. Sette uomini – dicono – al minuto: per il trionfo dei prodotti industriali d’una nazione diventata, non pur nei cantieri, anche negli animi e negli ordini, metallica, un immenso macchinario». [18]

[18] Pirandello, La guerra: il pasto delle macchine impazzite, in ID., Saggi e interventi…, 1112.

La Kosmograph è descritta non naturalisticamente e, quindi, non in maniera più o meno fedele alla percezione normale delle cose, ma attraverso un’ottica straniata, che ne esprime con maggiore, incisivo realismo il significato profondo. Questa casa di produzione cinematografica, infatti, altro non è che una pregnante sineddoche della Roma allucinata come viene vista da Serafino, la parte più appariscente di un tutto che la comprende, ossia la civiltà tecnologica moderna, con le sue contraddizioni, che proprio all’interno della nuova industria del film si manifestano soprattutto nell’irrazionale e disumanizzante organizzazione del lavoro. Dalla specola straniata del protagonista dei Quaderni nel mondo delle macchine moderne l’uomo è diventato un ingranaggio, il ‘servo e schiavo’ di un meccanismo che non controlla, correndo un rischio che i futuristi avevano corso e correvano volentieri nel loro culto della ‘macchina’ proprio in quegli anni, adeguandosi alle nuove leggi della meccanizzazione: la velocità, il rumore, la violenza. Il romanzo è, quindi, la vibrante denuncia del pauroso vuoto morale in cui rischia di precipitare la civiltà moderna, che nella vorace massificazione della civiltà industriale riduce a margini sempre più esigui i valori etici e umani; è, quindi, il romanzo della piena coscienza storica del moderno progresso scientifico e tecnologico e, contemporaneamente, della non conciliazione con esso. Pirandello, come ha osservato Nino Borsellino, era «incline a scorgere nella tecnica il tecnicismo, nella macchina il macchinismo, gli strumenti insomma di un’inautenticità ripetitiva i quali irrigidiscono il flusso vitale che ancora, nonostante le sue distorsioni, la parola poteva trasmettere». [19]

[19] Nino Borsellino, «Si gira…», una maschera dell’impassibilità, in ID., Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Roma- Bari 1991, 2000, 212-20: 214, vol. anticipato da ID., Immagini di Pirandello, Lerici, Cosenza 1979 e Ritratto di Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1983.

Una polemica, questa di Pirandello, che trova il primo sbocco significativo sul piano dell’arte fin dal Fu Mattia Pascal. Proprio in un «tram elettrico» di Milano, prodigio della tecnologia, Mattia s’imbatte in uno sprovveduto viaggiatore, che esalta la bellezza dell’«invenzione» del comodo, veloce ed economico mezzo per viaggiare (IX. «Un po’ di nebbia»). A Vitangelo Moscarda protagonista di Uno, nessuno e centomila l’autore affiderà poi il compito di contrapporre «nuvole e vento» del plein air al nuovo prodigio tecnologico, all’aeroplano, al «goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino!», mentre le ali del volo meccanico sono finte: tutto è «riduzione e costruzione: un altro mondo nel mondo: mondo manifatturato, combinato, congegnato; mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità» (II X XI). Parte, a questo punto, l’affondo vibrante, se pure in maniera indiretta, contro l’apologia dannunziana della macchina e dell’aereo, l’esaltazione, nel romanzo del 1910, Forse che sì forse che no, del folle volo, decollato dall’aerodromo di Montichiari di fronte a una folla inebriata dal pericolo e dalla morte.

Va osservato che questa polemica o meglio questa presa di distanza dalla produzione tecnologica si accentua con il passare del tempo, fino a toccare il suo apice nell’ultima stagione teatrale e novellistica pirandelliana, caratterizzata a livello formale da periodi nominali per creare dimensioni atemporali, connotazioni enigmatiche e spesso indecifrabili. Questo spiega il perché la novella Un’idea (1934, in Berecche e la guerra) si presta a divergenti interpretazioni, fra chi propende per l’idea, ancora non precisa e non realizzata, di suicidio, e chi sostiene trattarsi di una situazione per eccellenza fantastica: quella di un uomo che, dopo il suicidio, camminando senza far rumore, sentendosi ombra tra le ombre, continua a vagare per i luoghi nei quali ha vissuto e che gli sono stati cari, senza riuscire a prendere completa consapevolezza della propria morte (è questa l’idea che non riesce ancora ad accettare). [20]

[20] Cfr. Gabriele Pedullà, Pirandello, o la tentazione del fantastico, in Pirandello, Racconti fantastici, a cura di Id., Torino, Einaudi, 2010, V-XXXII: VII-VIII.

La realtà deformata è, dunque, il sigillo del fantastico pirandelliano, che ha confini labili, non circoscrivibili, non immediatamente percepibili, né è praticato come un genere a sé stante, dello stesso tipo di quello canonizzato dai modelli stranieri. Neppure è tributario dell’intervento del soprannaturale, che si presenta nel solo aspetto metaletterario: il ‘fantasma’ dei racconti fantastici è l’antevita creaturale del personaggio, un accadimento metanarrativo. Fondamentali furono per Pirandello i suggerimenti di Luigi Capuana: sull’affinità tra creazione artistica e allucinazione spiritica, al centro delle teorie esoterico-teosofiche fin de siècle; sul pensiero che diventa visibile e tangibile; sulle produzioni poetiche dell’intelletto immaginativo che finiscono per vivere fuori dell’autore. Il fantastico pirandelliano, quindi, come metafora della creazione letteraria, diventa anche sodale dell’umorismo, espediente stilistico per scardinare le certezze del positivismo e del naturalismo: come l’umorismo, tra comicità e compassione, scompone l’identità dell’io, così il fantastico mette in crisi l’oggettività e la stabilità del reale, avvalorato dalla scienza. Se l’assurdo scollega il rapporto di causa ed effetto, il fantastico, tra riso e paura, rivela che la certezza e la sicurezza nei fenomeni naturali del reale, da noi conosciuti attraverso la cultura scientifica, potrebbero non essere veramente tali, perché il fantastico le sorprende e le capovolge. [21]

[21] Per questi problemi cfr. Luigi Capuana, Nuovi ideali di arte e critica, Catania, Giannotta, 1899; Antonio Illiano, Metapsichica e letteratura in Pirandello, Firenze, Vallecchi, 1982; Angelo Raffaele Pupino, Maschere e fantasmi, Roma, Salerno Editrice, 2000; Graziella Corsinovi, Il brivido dell’oltre: paranormale, metapsichica e teosofia nell’opera di Pirandello, in C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Dialogo tra i saperi intorno all’opera di Pirandello, Atti del Seminario Interdipartimentale, Campus di Fisciano Università di Salerno, 29-30 marzo 2017, a cura di Milena Montanile , Avellino, Edizioni Sinestesie, 2018, 69-85; Rosalba Campra, Territori della finzione. Il fantastico in letteratura, Roma, Carocci, 2000; Remo Ceserani, Ancora sul fantastico. A proposito di Pirandello, in Linee d’ombra. Letture del fantastico in onore di Romolo Runcini, a cura di Carlo Bordoni, Cosenza, Pellegrini, 2004, 59-66; ID., Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996 (in particolare l’analisi della novella Soffio, a 78).

Pertanto, come il paradossale, l’assurdo, il grottesco e l’umoristico, anche il fantastico fa parte delle strategie narrative dello straniamento pirandelliano, tali da indurre il lettore, comunicandogli una sensazione di sconcerto, a vedere il mondo con occhi diversi, come se lo vedesse per la prima volta. Nell’ultimo periodo della narrativa pirandelliana, a partire dagli anni Trenta, il fantastico diventa meditazione sul ‘Dopo’, attrazione verso il grande Nulla, il Tutto, fuga dalla forma e immersione nel flusso vitale.

A questo punto, potremmo chiederci per quale via è possibile penetrare non tanto nei segreti dell’universo, ma almeno in alcuni aspetti indecifrabili del mondo umano, andando oltre le formule e le definizioni astratte delle scienze psicologiche moderne? A coglierne l’essenza polimorfa, cangiante e sfuggente non è allora per Pirandello la ricerca scientifica, che si limita a spiegare i fenomeni naturali e a trovarne le leggi, ma l’occhio profondo di un personaggio d’eccezione, che risale alla fondazione stessa del romanzo moderno con Cervantes, il cosiddetto personaggio ‘strambo’ o ‘personaggio- filosofo’, in grado di addentrarsi con le sue illuminazioni mentali nelle strutture profonde dell’essere umano. Esemplare è il primo ‘strambo’, in cui si imbatte Serafino Gubbio appena giunto a Roma, Simone Pau, convinto, come il leopardiano pastore errante del Canto notturno, che «la terra non è fatta tanto per gli uomini, quanto per le bestie», avendo dalla natura quanto a loro basta, mentre gli esseri umani «hanno in sé un superfluo, che di continuo inutilmente li tormenta», senza poterne scorgere «né il fine né la ragione» (Quaderni, I III). È proprio Simone a definirsi ‘strambo’ («Sono il professore, per loro: un po’ strambo, ma professore!»), quando espone alcuni punti importanti della sua concezione esistenziale, divenendo portavoce delle idee di Pirandello. Lo strambo è, dunque, un umorista, la cui tendenza alla riflessione e alla scomposizione lo porta a scoprire i meccanismi psicologici sottesi alle azioni degli altri personaggi, ai loro mascheramenti nei rapporti sociali: in tal senso, lo strambo, umorista e filosofo, è essenzialmente un personaggio-coscienza.

Anche l’«ozioso» Serafino è, a suo modo, uno strambo, che incontrerà il suo ‘doppio’ nell’«uomo del violino», epifania premonitrice della sua sorte afasica, allegoria dell’emarginazione dell’artista nella civiltà tecnologica moderna, discendente, con il suo «naso rosso e carnuto» (I, 5), da un grande strambo letterario, il Tristram Shandy di Sterne, anch’egli con un problema di «naso», a causa del forcipe che, alla nascita, gli aveva causato la rottura dell’osso nasale, precursore di quella famiglia di strambi, di cui farà parte Vitangelo Moscarda con il suo naso pendente a destra, all’origine di tutte le sue speculari scissioni identitarie. Ancor prima di Serafino Gubbio e di Vitangelo Moscarda, personaggio strambo è già Mattia Pascal, che è anche ‘strabico’ da un occhio; è affetto, quindi, da ‘strabismo’, evidente metafora della sua visione del mondo diversa da quella comune, tanto da accentuare il suo ‘strambismo’ («un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove»: «III. La casa e la talpa»), consistente nel gusto per «i bisticci della vita», analogo a quello dell’aio Pinzone per i «bisticci poetici». [22]

[22] Giacomo Debenedetti, «Quaderni del 1962-1963», in ID., Il romanzo del Novecento, Milano Garzanti, 1970, 303- 414: 313.

Se Serafino si definisce «ozioso», Mattia dichiara di essere «inetto a tutto», come è del resto caratteristica dei personaggi moderni, e, come Serafino, sulla base dell’idea chiave pirandelliana che «la vita o si vive o si scrive», anche Mattia si sente «spettatore estraneo» («VIII. Adriano Meis»). A sua volta, Vitangelo, che riconosce nel suo «ozio feroce» (III II) la ‘radice’ delle sue divagazioni meditative, come Mattia e Serafino, è uno ‘strambo’, prototipo di tutti i personaggi-filosofi pirandelliani, capace di sprofondare «in abissi di riflessioni e considerazioni», che lo scavano e bucano internamente «come una tana di talpa» (I I).

In alcune novelle, lo strambo è sempre personaggio-filosofo, singolare portatore di shandismo e in grado di attingere la visione dell’uomo interiore, [23] di cui è eccezionale figura è il Perazzetti di Non è una cosa seria (1910, in La giara), il quale, dotato di «una fantasia mobilissima e quanto mai capricciosa», pronta a destargli le più bizzarre e «stravaganti immagini», sapeva bene, «per propria esperienza, quanto in ogni uomo il fondo dell’essere sia diverso dalle fittizie interpretazioni che ciascuno se ne dà spontaneamente, o per inconscia finzione»: ripresa, quasi alla lettera, di un passo dell’Umorismo, dove l’autore accenna a un’«interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi», che ci fa credere in buona fede quali vorremmo essere e «diversi da quel che sostanzialmente siamo» (II V).

[23] Si ricordi che l’omaggio di Pirandello al romanzo di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, era già nel titolo originario di Uno, nessuno e centomila, quando, prima dell’edizione in volume del 1926, fu pubblicato nella «Fiera letteraria»: Considerazioni di Vitangelo Moscarda, generali sulla vita degli uomini e particolari sulla propria, in otto libri.

Uno «strambo modo di vivere» aveva anche «il magro giudice D’Andrea» di La patente (1911, in La rallegrata), che, «sbilenco, con una spalla più alta dell’altra, andava per via di traverso, come i cani», ma, puntando sempre gli occhi alle stelle durante le notti insonni, prendeva «tra i peli delle ciglia la luce di una di quelle stelle, e tra l’occhio e la stella stabiliva il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l’anima a passeggiare come un ragnetto smarrito»: efficace e lirica descrizione delle abitudini dello strambo giudice, per alludere alla sua inclinazione a ridimensionare le piccole e spesso squallide vicende umane dinanzi alla grandezza dell’universo, comportamento tipico dei personaggi-filosofi pirandelliani. Non diversamente si comportano il lampionaio Quaquèo di Certi obblighi (1912, in Dal naso al cielo) che, come un ligneo burattino, aggrappato all’alto dei lampioni, avendo il compito di «far la luce dove ci sono le tenebre», da vero personaggio-filosofo vede illuminarsi gli accadimenti terreni e la signora Léuca di Pena di vivere così (1920, in In silenzio), la sola a detenere il privilegio, proprio dell’autore umorista, di scomposizione del reale e la capacità di comprendere, con la sua sensibilità di personaggio-coscienza, le azioni degli altri personaggi nei loro moventi più riposti.

Dal pensiero di Aristotele e dalle considerazioni iniziali è opportuno ora dedurre una conclusione epocale contestualizzata nel tempo presente. Solo se si considera, infatti, che oggi le macchine, dotate di prodigiosa intelligenza artificiale, non si limitano ad agevolare, ma tendono a sostituire, determinare e indirizzare le scelte umane, spingendo ragione, volontà e immaginazione fuori di noi, si possono comprendere fino in fondo le preoccupazioni espresse, oltre un secolo fa, da Pirandello, che già presagiva, proprio al culmine del processo civile, l’incubo di un’incipiente ‘decivilizzazione’, intesa come caduta delle facoltà razionali e della libertà di giudizio. Vale la pena di ricordare che la macchina, prima ancora di essere un elaborato prodotto scientifico e tecnologico, veniva inizialmente usata come un trucco per destare meraviglia, come strumento capace di ingannare la natura, risparmiando energie umane, perché con ogni probabilità questa fu l’immediata impressione di Pirandello, da quanto risulta fin dagli scritti giovanili; in seguito, non smentita, né superata. Si tenga presente che il termine greco mechané significa proprio espediente, astuzia; non a caso, Omero definiva polyméchanos l’ingegnoso Odisseo. E non è da escludere che dietro le riserve pirandelliane sulle macchine non emanasse un’inconscia suggestione la loro significativa, mediterranea, origine linguistica.

Rosa Giulio
Settembre 2019

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