Pirandello e il grado della Coscienza

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Di Fabio Russo

Il personaggio della vita, che non trova la sua coscienza fin quando non si toglie la maschera, non smette di subire i frastornamenti dell’ambiente («il vario frastuono della vita»), non finisce di stare nella confusione. Questo sfuggire qualcosa di sé, questo non comprendere, questo non toccare il centro della vita, questo non concludere, punti chiave di un culmine investigativo, anche sul versante metafisico.

Indice Tematiche

Pirandello e il grado della CoscienzaPirandello e il grado della Coscienza.
La Responsabilità nelle relazioni sociali
e nel respiro ‘normativo’ della Natura (verso l’intimo nostro)

da Accademia Siciliana dei Mitici

all’amica Adriana Urna
appassionata sottile interprete di problemi pirandelliani
e del mondo greco antico

1.

Quel «nodo del Vero» che si è cercato di vedere in Saba [1] ha pure la sua dinamica già, per quanto diversa, in Pirandello.

[1] Fabio Russo, Saba e il nodo del Vero, estratto da «Rivista di Letteratura Italiana», Pisa–Roma, Fabrizio Serra Editore 2007. Senza dire già di Leopardi, poi di Manzoni, di quanti altri ancora.

E, con qualche attinenza al Vero, lo stesso pensiero della Coscienza vivo in Saba mostra a sua volta una tormentata fase di anteriore riflessione ancora in Pirandello.

Le diverse implicazioni nei due autori mettono sul tappeto un giro pur indiretto di confronti e riferimenti incrociati, diremmo di intercettazioni virtuali. Secondo quella misura di Onestà proclamata da Saba («la poesia onesta») e di Coscienza, quasi una umanistico-rinascimentale recti conscientia, così forte prima in Dante o poi in Leopardi, in Manzoni, quindi in Renato Serra, nei Vociani, nei Giuliani, come abito mentale, stile di vita da anteporsi alla stessa scrittura per la spinta di una rigorosa esigenza morale autobiografica.
Gasparo Gozzi, coinvolto alla fine nel nostro contributo sabiano sul Vero, traccia un quadro immaginoso solido della Coscienza (in «La Gazzetta Veneta», 1 marzo 1760), che nell’ottica invece di Pirandello si colora di dubbio, di obliqui ragionamenti, di sfumate consistenze, giacché questa Signora si presenta calpestata (Tecchi, in La terra abbandonata, «la coscienza uno la ha sotto le scarpe») e nascosta proprio come la Verità, «velata» in Così è (se vi pare), ma non per ciò mancante, anzi. Qui il problema: l’importanza di ciò che sfugge o non si vede, il dover fare i conti con quanto non comoda o non si sa e si vorrebbe ignorare, diventando ciò ancor più vivo impegnativo. E questo aggiunge uno spessore non abbastanza indagato al più noto rovello pirandelliano, alla scaltrezza ragionativa con le sue spinte acute, scandita in termini perentori (di certo sapore alfieriano) ridotti a un gioco essenziale. Pirandello non poteva certo dare un quadro della Coscienza come Gasparo Gozzi, le cui parole e frasi (così accoglibili invece da un Leopardi) si attagliano per una sorta di anamorfosi di tipo secentesco, comunque, al tormentato pensiero su quel relativismo pirandelliano che non esclude l’Assoluto, su quell’incerto incongruente che non toglie congruenza e fondatezza alle cose nel profondo del loro intimo, ove dietro emergono significati affidabili e valori appaganti. Certo per via di supposizioni, di esigenze a fortiori, di „necessità’ dunque, che proprio i percorsi aggrovigliati di lui fanno guardare all’ultimo Pirandello. E denotano una presa di posizione sua già in Il fu Mattia Pascal, di cui emblematico il passo «La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore!», e poi «non è un assoluto» interferendo su quella degli altri e «dunque non è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego?» (IX, Un po’ di nebbia). (Quella Coscienza, base dello stato e stadio riflessivo sin dal Saggio sull’Umorismo, per il quale merita richiamarci al concetto di Poesia sentimentale secondo Schiller).

La Coscienza (partiti dal coinvolgimento da parte nostra di Pirandello nel «nodo del Vero») implica la Responsabilità nell’agire e quindi una volontà libera (la vicenda che viene a galla, in Non si sa come). Perciò la libertà, oltre le maschere e gli stereotipi dell’ambiente sociale, per cui «In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter più essere altrimenti» (Uno, nessuno e centomila, Libro Terzo, VII, Parentesi necessaria, una per tutti), che, con tutto il quadro argomentativo compreso fra gli estremi «Tempo, spazio: necessità. Libertà. |…….…| Se domani conclude, è finita» (ivi), mostra un notevole sviluppo tematico in sintonia con il pensiero di Leopardi. Libertà, quale spazio di iniziativa verso l’autentico, verso il Vero, il nodo cruciale per Pirandello come per Saba (senza escludere altri autori in tale ambito). Il vero, non quello documentario preciso (che si vede, affidabile al senso, in un Leonardo per cui il LXVIII dei suoi Pensieri sulla scienza annuncia come titolo La testimonianza del senso è il criterio del vero, e il successivo addirittura Le vere scienze sono quelle che si fondano sulla testimonianza dei sensi, o il vero e il fatto che convertuntur, o il vero incontrovertibile dell’accertamento empiristico-illuministico-positivistico), bensì il Vero autentico, quello morale, dei costumi, della Coscienza appunto, e non meno quello ontologico, dell’Essere, dell’Assoluto. (Per nulla trascurabile il richiamo a Valéry, quando sostiene la necessità d’intendere il Vero fuori dai sensi, spogliato da ornamenti e malintesi, nei Quaderni, IV, nell’Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, nella figura di Teste de La serata con Monsieur Teste, il «mistico senza Dio», proprio la Coscienza portata all’estremo grado di assolutezza, in quanto sciolta da atteggiamenti emotivi e valutazioni fondate solo sui sensi, in questo come già l’esigenza forte per Giordano Bruno di impostare correttamente la conoscenza fuori dal fallace apporto delle sensazioni, prima della “sintesi a priori” di Kant, superante le posizioni razionalistica ed empiristica!).

E nell’ultimo Pirandello s’intensifica questa via della alla Coscienza, già tanto sperimentata lungo tutti quei casi da lui messi senza tregua in racconti, romanzi, scene di teatro, per non dire del giovanile saggio Arte e coscienza d’oggi (’93). Ora appunto, fatta più metafisica, Di sera, un geranio (’34), Non si sa come (’34), anche I giganti della montagna (incompiuti causa la morte, e preceduti in questa fase estrema di simbolicità del Mito da Lazzaro e da La nuova colonia, nell’insieme una sorta di trilogia). Ora proprio, su un percorso già attestatosi, più problematica (seppur meno cerebrale) e grave, Così è (se vi pare) (’16), Quaderni di Serafino Gubbio operatore (originato già da Silenzio, si gira, (’15) per le affermazioni sull’atto del vivere, e Il fu Mattia Pascal (’10, ma poi ristampato con aggiunta l’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, „21) quanto alla scrupolosa puntualizzazione nel romanzo da solo della Fantasia, unitamente a Sei personaggi in cerca d’autore (’21) per le considerazioni sulla linea della Fantasia operante attiva. Ora, Sogno (ma forse no) riguardo l’esser consapevole della realtà, Quando si è qualcuno (’30) con il suo sottile interferire tra vecchia personalità e giovane impulso dello scrittore nel vivere irrigidito, Trovarsi (’32) con in gioco il mutevole istinto ad assumere ruoli e fisionomie, privo però di una coscienza morale (interessante la dinamica del „trovarsi’, pur se in un quadro di altre esigenze, per Vasco Pratolini specie giovane). Soprattutto, l’annunciato Non si sa come (’34), lavoro problematico e drammatico che mostra il ruolo della volontà nelle azioni, senza il quale non è possibile essere responsabile, come sottolinea l’intervista di lui con Missiroli. Ed è dialogo di straodinari spiragli e aperture sul gioco dell’arte e il muoversi dell’uomo nella vita. Di finezza incomparabile che per le movenze a volte diafane come tenute sospese richiama Di sera, un geranio.

Anche dalle vicende che incontra o che per forza gli capitano, una nuova fase di esperienze e riflessioni dà corpo a una materia tesa estrema. Non tace il suo dolore nel confidare a Marta Abba [2]: «sono ancora sorpreso della rapidità con cui tutta questa nuova avventura della mia vita vagabonda s’è svolta» (lettera da Berlino del 7.V.1930), il rifiuto proprio dall’Europa e la partenza per l’America.

[2] Luigi Pirandello, Lettere a Marta Abba, a cura e con Introduzione di Benito Ortolani, [1995] II ed. Milano, Mondadori /”I Meridiani” 2001; da cui si cita (qui, p. 445).

«Mi sento come sbattuto in un mare percosso da tutti i venti, su una navicella senza più timone, con tutte le vele lacerate, che non pesa più d’un guscio di noce. Ho solo un’àncora. E sei Tu […]. Ma il porto, il porto dov’è?» (ivi). E non sono solo i malumori per il monopolio delle compagnie teatrali e l’atteggiamento del pubblico, ma preoccupazioni economiche, un senso di fallimento e inadeguatezza, il sentirsi incompreso con la divina ispiratrice. E quel riferimento di fondo, nel bene e nel male, è lei. Nel duplice ruolo di idoleggiata come una dea o una musa, ma di desiderata come una donna, quindi con un ruolo di ispiratrice come nella cultura antica greca, per il quale tutto l’impianto creativo, realizzativo rimane di Pirandello (così mi ricorda, fra altri motivi, in una ricorrente conversazione da Roma, ricca sempre di osservazioni e suggerimenti acuti, l’amica prof. Adriana Urna, nella sua esperienza di tematiche di teatro).

Poco prima a Marta aveva detto, riguardo le sue prove ottenute anche a fatica («il trionfo che per tempo – non in patria – ma Ti conquisterai nel mondo, te lo potrai godere, e ripagherai allora, col bene che avrai fatto al Tuo paese diffondendo da per tutto la gloria del Tuo nome, tutto il male che anche a Te il Tuo paese prodigò negli anni più difficili della prima conquista» (lettera da Berlino del 29.IV.1930), quale drammatica dichiarazione per sé, «Toccherà anche a me di lasciare un giorno o l’altro, chi sa dove, le ossa; e soltanto allora forse l’Italia rimpiangerà lo scrittore che avrà perduto, lo scrittore combattuto e amareggiato fino all’ultimo, a cui nulla fu mai concesso se non a denti stretti e con le pugne serrate dal dispetto». E poco dopo, «Per grazia di Dio, non ho alcun bisogno che la gloria, postuma o presente, mi venga dal mio paese. Della Gloria, con la g majuscola – consacrazione decorativa – io me n’infischio! Non l’ho mai cercata […]; ho camminato per le vie della vita, uomo tra gli uomini. Mi è bastata la ricchezza della mia anima, la potenza del mio cervello, e l’enorme facoltà di sentire del mio cuore. Questa è stata la vera mia gloria viva!» (ivi). Cui segue, beninteso, la precisazione «E l’aver trovato Te, per vederla vivere».

Sicché proprio questo riferimento essenziale di certezza gli si incrina, come il cardine psicologico-intellettivo della sua esistenza, al culmine lui della fama (Quando si è qualcuno ), ma quasi anonimo e sconsolato osservatore del corso delle vicende, nemmeno più tanto ironico. Di una lucidità offuscata, messa come oggetto di rappresentazione, di fronte alla problematica dell’azione dell’uomo, della presenza vitale della Natura, della verosimiglianza data dalla Fantasia.

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2.

Ma, qual è il rapporto della scrittura creativa con la vita? Il grande problema di fondo in lui si combina con il piano di quella fantasia paradossale, che rileva l’assurdo e lo mette nel conto della riflessione, la riflessione appunto dell’artista, dello scrittore a tu per tu con i casi dell’esistenza nella misura in cui li stravolge, li altera. Sono o non sono da soli abbastanza strani, incredibili? Questo è il problema. Lo strano della vita, lo strano dell’arte. E il loro inquieto (inquietante) rapporto. Perché strani? Sotto sotto, cioè, dove sta la Verità? Dal momento che i lettori e i critici drammatici in larga parte giudicheranno (giudicherebbero) assurdo («quel suicidio») e inverosimile («la commedia») lo stesso piano dello scrivere di punta, in quanto esagerato e non credibile, secondo l’estrema precisazione alla fine de Il fu Mattia Pascal: dall’ipotizzata sceneggiatura di un fatto di cronaca nera a Buffalo lo spunto per l’ Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, con tutto il problema dell’«incredibile» o «non-credibile», del precario affidarsi allo «strano» non razionale. Un notevole pensiero ribadito lucidamente in corsivo, aggiunto alla fine della riedizione della sua opera famosa, appena qui sopra nominata:

«Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità. Un caso della vita può essere assurdo; un’opera d’arte, se è opera d’arte, no».

Sicché l’arte non è mai assurda, anche quando ci presenta fatti a dir poco sorprendenti e innominabili [3], come vuole precisare Pirandello in questo nodo critico-tematico. Mai assurda l’arte (se autentica) rispetto al semplice/bizzarro o straordinario del quotidiano dunque, e quindi invece chiara, affidabile. Anzi, addirittura, il luogo della Coscienza, della Verità (disadorna, nuda).

[3] Come di Fulvio Tomizza Il fatto innominabile dell’abate Roys, o La finzione [di santità] di Maria [Janis].

Mentre per Gogol non è possibile che questi sussistano sul piano del racconto («Ecco che storia ebbe a capitare nella capitale nordica del nostro vasto stato! Adesso soltanto, prendendo in considerazione tutto, vediamo che in essa c’è molto di inverosimile. Per non dire poi che il soprannaturale distacco del naso e la sua apparizione in vari posti sotto le spoglie di consigliere di stato era per l’appunto una bizzarria: come aveva fatto Kovalëv a non capire che non era possibile chiedere informazioni su un naso con un’inserzione su un giornale? […] E, di nuovo, ancora: come fece il naso a trovarsi dentro a un panino […]… No, questo non lo posso proprio capire, decisamente non lo capisco!» [4],

[4] Nikolàj Gogol, Opere, a cura di Serena Prina, traduzione di Nadia Cicognini, Serena Prina, Igor Sibaldi, Milano, Meridiani/Mondadori, vol. I, pp. 672-3.

con l’immediato commento «Ma quel che è più strano, quel che è più incomprensibile di tutto è che gli autori possano scegliere simili soggetti [..]. E tuttavia, malgrado ciò, sebbene, naturalmente, si possa ammettere e l’una e l’altra cosa, e persino una terza… ma dov’è, infatti, che non ci sono delle incongruità? E in tutto, ad ogni modo, a ben pensarci, in tutto, è proprio vero, c’è davvero qualcosa. Chiunque può dire quello che vuole, ma simili avvenimenti accadono al mondo; raramente, ma accadono»; ivi), per Pirandello cadrebbe la inopportunità di trattarli sulla scena, in quanto fatti non obbedienti alla verosimiglianza contingente e quindi „liberi’ entro la diversa logica artistica. E se „verosimili’ ossia credibili in arte, che più eccezionalità c’è? Che però rimane, a livello di „accettabilità’. Accettabile allora l’assurdo, il paradosso, l’inaudito? E Manzoni, che tanto ha lavorato sul Vero e sul verosimile e su quell’inconsueto e ingiusto e malefico della storia, che è l’Interessante, su cui illuminanti le osservazioni di Mario Puppo su III. Leopardi, IV. Manzoni, V. Scrittori romantici minori: Scalvini, Tommaseo, Mazzini, in Le poetiche del romanticismo dal Foscolo al De Sanctis (M. P., Poetica e cultura del Romanticismo, Roma, Canesi 1963). Il Male, come il meritevole d’interesse da attrarre l’attenzione (più del Bene, di quel normale che di meno richiama l’attenzione, passa quasi inosservato). Diremo, il male della «maschera» che appunto copre la Verità, nasconde/confonde la Coscienza. Ma in più impedisce la libertà di volere, la volontà con la responsabilità quindi. Soggiogato il personaggio, l’uomo, da un cliché fisso.

Si ha colpa, allora? «Credimi, [Saba a] Noretta, nessuno ha colpa» [5].

[5] Umberto Saba, Lettere a un’amica [Nora Baldi], Torino Einaudi 1966.

Si invertono i ruoli, perlomeno si riducono, di quel personaggio che riflette da adulto sulla „colpa’ di un giovanile lontano omicidio, perché allora non era libero (il deliberato consenso, nella cultura religiosa cristiana?) e perciò non sufficientemente responsabile «Noi possiamo benissimo non ritrovarci in quello che facciamo; ma quello che facciamo, caro mio, è, resta fatto: fatto che ti circoscrive, che ti dà comunque una forma e t’imprigiona in essa: Vuoi ribellarti? Non puoi. Prima di tutto, non siamo liberi di fare quello che vorremmo: il tempo, il costume degli altri, la fortuna, le condizioni dell’esistenza, tant’altre ragioni fuori e dentro di noi, ci costringono spesso a fare quello che non vorremmo […]». Bel passo saggistico già dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (Quaderno Quarto, III 611). Sicché i fatti gli risultano slegati dall’iniziativa di chi li compie, stanno fuori da un rapporto di dipendenza, avvengono così, «non si sa come» e perché, in modo simile a «un geranio a sera», quello quando si accendono all’improvviso i suoi colori e «nessuno sa spiegarsene la ragione».

Dunque, Non si sa come, cadono i nessi fra le cose, i rapporti segreti nelle situazioni a volte impercettibili. Così, ancora Umberto Saba sul mistero del nostro conoscere a fondo, metafisico (e oggi Carlo Sgorlon con la sua convinta concezione sacrale dell’esistenza).

In tale dinamica di contrapposizioni l’intensa produzione di Pirandello prende la svolta che si sta dicendo, una dirittura d’arrivo (di pensiero) troncata dalla morte, ma già ben conformata dal ’30-’31 circa e manifesta dal ’34, senza che vengano trascurate le anche più lontane premesse giovanili (Marta Ajala poi con il titolo L’esclusa, pure Il turno, addirittura la prima opera andata perduta, Barbaro, di lui undicenne).

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3.

Ecco, il suo rovello nel gioco tra falso e autentico, così irriducibile nel suo appuntarsi al Vero, secondo una radicalità persino esasperata, a ben guardare si rivolge alla realtà tutta, piena e intera, non solo paradossale, e per questo guarda alle sensazioni («Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me […]», «Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita […]», «Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi, i propositi […]», all’inizio dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore), allo spessore dell’immaginazione (il piglio sempre pronto della fantasia, magari corposa e drammatica all’inizio già de I vecchi e i giovani, «e a ogni raffica […] pareva scorresse un brivido, dalla città, alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù, torbido e rabbuffato. Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia», oppure poi in Uno, nessuno e centomila, «che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio [nella piazzetta dell’Olivella], s’affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina», Libro Secondo, XI, Rientrando in città ), che mostra il bisogno di fiutare quasi per campionature il mondo intorno («E mi vedo, rasente ai muri, per via, che non so più come né dove guardare, con quella cagnolina dietro […]. Vado a nascondermi a pochi passi da casa […]. Seggo su una di queste pietre; guardo il muro […]; vedo Bibì che mi s’è acculata davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa» Libro Quinto, III, Parlo con Bibì), le emozioni che esso procura, le impressioni molteplici dai vari punti di vista, tridimensionali, anzi pluridimensionali, anzi interdimensionali (la ricorrente sequenza di serrate puntualizzazioni disquisitorie tra identità umana e natura di V, Fissazioni poi di XI, Rientrando in città, quindi di Libro Terzo, VII, Parentesi necessaria, una per tutti, o particolarmente di Libro Quinto, IV, La vista degli altri, «Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce; perché questa che crediamo la cosa più intima [sic] nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi ), su quella trama di relativo che non toglie l’Assoluto. Viceversa, lo fa vedere da più lati. E più profondo, anzi che impoverito o ridotto o fatto ballerino E’ il nostro modo di vedere che non si aggiusta abbastanza («Cadeva ogni orgoglio. Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano. Parlare per non intendersi. Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa. E nulla più era vero […]»; VIII, Aspettando ), peccando semmai di unidirezionale razionalità di fronte all’Irrazionale o al Noumeno, al Wesen. Nulla più era vero, perché «Ciascuno per suo conto l’assumeva come tale», e variava quindi il punto di vista, non la cosa in sé. Quell’intimo, tanto difficilmente accessibile

Così Pirandello guarda e vede. E ascolta, raccolto. «Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città che avevo già visitate; dall’una all’altra, indugiandomi in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più viva memoria» (Il fu Mattia Pascal, cap. IX, Un po’ di nebbia ). Come un “immaginifico” [6], a tratti, assetato di veristica realtà, certo problematica, nelle sensazioni (i suoni del Pascoli, il personaggio perdente di D’Annunzio), o magari un visionario sui generis (in una diversa dinamica il protagonista/Borges de L’Aleph „vede’).

[6] Lui, alla grande amica Marta «Non vivo più che d’immaginazione; e non sapere dove immaginarti […] è come se fossi cieco e mi mancasse l’aria da respirare» (Berlino, 24, VI, 1929).

La fantasia gli serve. Eccome, per sondare il terreno, per captare più che con le misure della logica! La „finzione’, allora [7], quella sottile mossa dall’intelletto, il leopardiano «fingere», come appunto Leopardi, nel „favoloso’ il Vero, o Biagio Marin, nel „meraviglioso” l’Autentico che dura!

[7] E si potrebbe parafrasare il ben noto «de la musique avant toute chose!» affiancando un «finzione, fingere con meraviglia prima di ogni cosa!». Senza dire del „meraviglioso’ così diversamente configurato in Ariosto e in Tasso.

E la vita sperimentata in proprio o per sé non gli basta («e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le nostre azioni, non concorrono anche i colori, la vista delle cose circostanti, il vario frastuono della vita […]», Il fu Mattia Pascal, XV, Io e l’ombra mia ): tutto egli vive „in fuori’ secondo una dimensione all’esterno intimo, metafisica rarefatta, spogliata di sé, che emerge a forza non lontana da quell’ „essenziale’, poi, di Di sera, un geranio. Dal pensiero inappariscente e centrale della morte («Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte», Il fu Mattia Pascal, IX, Un po’ di nebbia ). Dunque, il motivo del «Non conclude», della «vita [che] non conclude», dopo la scomposizione del soggetto. Ecco, restringendo il campo alle battute culminanti, «Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori» (Uno, nessuno, centomila, finale).

Un’espressione bene indicativa (l’espandersi in fuori) ravvisabile, guardando indietro, nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, quando interviene il ragionamento, a tratti perentorio circostanziale, sul piano narrativo. «Io studio. Séguito a studiare […]. Studio, dunque, senza passione, ma intentamente questa donna […]. Ella non sa di certo […] il male che può fare agli altri […]. Ha in sé qualcosa, questa donna, che gli altri non riescono a comprendere, perché bene non lo comprende neppure lei stessa […]»; e ancora, «Forse da anni e anni e anni, a traverso tutte le avventure misteriose della sua vita, ella va inseguendo questa ossessa che è in lei e che le sfugge […]. Nemici per lei diventano tutti gli uomini, a cui ella s’accosta, perché la ajutino ad arrestare ciò che di lei le sfugge: lei stessa, sì, ma quale vive e soffre, per così dire, di là da se stessa» (Quaderno Secondo, IV). Di là da sé, in fuori, un esterno a suo modo metafisico. Protagonista di tanto pensare, la misura conoscitiva, la Vita.

«Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita […]. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo» (Uno, nessuno e centomila , finale).

Forte accento di vita, anche se l’albero può avere un fremito di foglie prossime a cadere, e la morte può essere altrimenti il dies natalis e la soglia per la vita piena e meravigliosa («la vita meravegiosa», direbbe Biagio Marin nella sua parlata veneto-gradese arcaica). Piglio di freschezza volto all’autentico. E, l’importanza fondante, normativa del nome (i nomi e le cose!), senza il quale una cosa o una situazione perdono di consistenza, prive del concetto-guida.

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4.

Riprendendo il dilemma di fondo in questo intrecciarsi di motivi e situazioni, ben preminente è tutto il chiedersi sull’azione dell’uomo in rapporto alla coscienza e nel quadro della natura, nell’ordine naturale. Quando sono io consapevole? Come la fantasia specie dell’artista si relaziona al mondo oggettivo distinto dalla volontà dell’individuo? L’Uno, il Molteplice (non) hanno un elemento ordinatore, fluttuano (sembra) in un continuo mutare, per i punti di vista, effettiva sicura realtà (oggettiva appunto, con carattere quindi di universale). Ma se questa varia, come si sta dicendo, non vuol dire che l’elemento unitario fermo manchi (magari „distante’ o „lontano’, direbbe Leopardi). E che si debba fare i conti proprio con quell’intimo che può sfuggire anche al personaggio consapevole. Il personaggio della vita, che non trova la sua coscienza fin quando non si toglie la maschera, non smette di subire i frastornamenti dell’ambiente («il vario frastuono della vita»), non finisce di stare nella confusione. Questo sfuggire qualcosa di sé, questo non comprendere, questo non toccare il centro della vita, questo non concludere, punti chiave di un culmine investigativo, anche sul versante metafisico.

Qui allora i passi esaminati sentiamo completarsi con le travagliate considerazioni in Il fu Mattia Pascal su quella insistita disposizione già vista a fantasticare, «Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo…», che porta di seguito lui a riscontrare però luoghi e città a livello di esperienza, ossia di radicata consapevolezza, quando continua il suo lavorìo mentale in termini lucidi decisi. Continua, «e dicevo: “Ecco, io vi sono stato! Ora quanta vita mi sfugge, che séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure, in quanti luoghi ho detto: – Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei volentieri! -. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi, senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien sospeso l’animo di chi viaggia”» (IX, Un po’ di nebbia).

Il viaggio dovuto a insanabile precarietà del vivere, quindi come continuo vagabondare insoddisfatto e dimensione dell’esistenza (Rilke). Ed è ben notevole di fronte all’immagine che si dà dell’Autore. Anzi gli conferisce ciò un senso vitale inquieto che anima le emozioni proprie e persino le cose, in una severa ricognizione di sé, di un sé quasi captato da fuori (qui non proteso in fuori). «Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti che mi stavano intorno. Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch’esso evoca e aggruppa, per così dire, attorno a sé» (ivi). Che dire della facoltà evocatrice della poesia per i Romantici, o di determinati luoghi e termini per Pavese? Sottile, in un taglio narrativo saggistico, la disquisizione non affrettata di Pirandello, anzi estesa e dettagliata, non digressione isolata nell’economia complessiva del romanzo:

«Certo un oggetto può piacere anche per se stesso […]; ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo […], ma così, quasi animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini vi associano. Nell’oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo di noi […], l’anima che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai nostri ricordi. Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d’albergo? Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla?» (IX, Un po’ di nebbia ).

Si capisce appunto che un passo del genere fa il gioco del quadro tematico generale del Fu Mattia Pascal e sta o si tiene (il modo di dire tout se tien), legandosi e dando appiglio alle altre ragioni della vicenda.

Così, poco dopo, il puntiglio irriducibile e sin disperato di quel ripetuto chiedersi «C’è logica ?» a proposito di quanto differisce e come differisce la materia dall’anima, innestato sulla questione del «vero morire» per Meis/Pascal («la dottrina e la fede del signor Paleari […] erano in fondo confortanti»; X, Acquasantiera e portacenere), su quel mettere innanzi «di continuo l’ombra della morte» da parte di Domenico Paleari. Sicché in prima persona il nostro personaggio, riconoscendo che «un giorno o l’altro, io dovevo pur morire sul serio» (ivi) si sente porre incalzante l’interrogativo, ma è lui che se lo vive,

«C’è logica?» («mi domandò egli un giorno […]»). E ribadito tenace «C’è logica? Materia, sì, materia: ammettiamo che tutto sia materia. Ma c’è forma e forma, modo e modo, qualità e qualità: c’è il sasso e l’etere imponderabile, perdio! Nel mio stesso corpo, c’è l’unghia, il dente, il pelo, e c’è perbacco il finissimo tessuto oculare. Ora, sissignori, chi vi dice di no? Quella che chiamiamo anima sarà materia anch’essa; ma vorrete ammettermi che non sarà materia come l’unghia, come il dente, come il pelo: sarà materia come l’etere, o che so io. L’etere, sì, l’ammettete come ipotesi, e l’anima no?». Di nuovo, «C’è logica? Materia, sissignore. Segua il mio ragionamento […]» (ivi).

E ancora, tutto il motivo della natura. Intenso, quale pensiero di fondo che si fa sentire nei determinati aspetti delle circostanze. Questi aspetti incontra il lettore, e non episodicamente, retti da questa inquieta idea in sordina (anche certe notazioni, più tardi, fantastico-naturalistiche in Uno, nessuno e centomila, come il passo incontrato della «piazzetta dell’Olivella […], quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s’affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!»; XI, Rientrando in città). Sicché l’invito a seguire il ragionamento del nostro personaggio tocca questo punto ben rilevante:

«Veniamo alla Natura. Noi consideriamo adesso l’uomo come l’erede di una serie innumerevole di generazioni, è vero? Come il prodotto di una elaborazione ben lenta della Natura. […] sta bene, l’uomo rappresenta nella scala degli esseri un gradino non molto elevato; dal verme all’uomo […]. Ma, perdiana!, la Natura ha faticato migliaja, migliaja e migliaja di secoli per salire questi cinque gradini, dal verme all’uomo; s’è dovuta evolvere, è vero? Questa materia per raggiungere come forma e come sostanza questo quinto gradino […]; e tutt’a un tratto, pàffete, torna zero? C’è logica?» (X, Acquasantiera e portacenere ).

«C’è logica?». Preme battagliero l’interrogativo raziocinante, tutto lanciato teso. Non si dà per vinto nella considerazione «logica» incontrovertibile come una domanda retorica. «Ma diventerà verme il mio naso, il mio piede, non l’anima mia, per bacco! Materia anch’essa, sissignore, chi vi dice di no? Ma non come il mio naso o come il mio piede. C’è logica?».

Ed ecco l’interferenza, logica?, di Adriano Meis. «- Scusi, signor Paleari, – gli obiettai io, – un grand’uomo passeggia, cade, batte la testa, diventa scemo. Dov’è l’anima?». La controversia naturalmente si accentua e insieme s’impoverisce. Le ragioni dell’altro, potremmo dire, entrano in scena secondo un gioco delle parti, dei punti di vista. Per cui, di rimando, «- Ma, santo Dio, perché vuol cadere e batter la testa, caro signor Meis? – Per un’ipotesi… Ma nossignore: passeggi pure tranquillamente. Prendiamo i vecchi che, senza bisogno di cadere e batter la testa, possono naturalmente diventare scemi». Si allarga la questione su un altro versante, «Ma scusi! Immagini un po’ il caso contrario: di corpi estremamente estenuati in cui pur brilla potentissima la luce dell’anima: Giacomo Leopardi! E tanti vecchi, come per esempio Sua Santità Leone XIII! […]» (ivi). Sino ad altre congetture, «l’aspirazione a un’altra vita», «l’istinto della conservazione», «l’uomo singolo» e «l’umanità» per cui «L’individuo finisce, la specie continua la sua evoluzione». E immediato il commento nel giro del dialogo, «Bel modo di ragionare, codesto! […] Come se l’umanità non fossi io, non fosse lei e, a uno a uno, tutti». Commento intonato a una certa solennità nella sostanza:

«E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento, che sarebbe cioè la cosa più assurda e più atroce, se tutto dovesse consister qui, in questo miserabile soffio che è la nostra vita terrena: cinquanta, sessant’anni di noja, di miserie, di fatiche: perché? Per niente! Per l’umanità? Ma se l’umanità anch’essa un giorno dovrà finire?» (ivi).

E l’interlocutore giunge dunque a chiedersi: tutto questo, «Per niente? E il niente, il puro niente, dicono intanto che non esiste…». E poi, «dobbiamo anche morire! […] non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte! Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscir da questo labirinto, il lume insomma, signor Meis, il lume deve venirci di là, dalla morte» (ivi).

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5.

Non poco rilevante pensiero, non occorre dire. Ma bene sì per avvertirvi una sintonia con la coeva sensibilità della morte per Rilke (la Rosa, Mme la Mort) e prima con il punto di vista della morte per Leopardi (se non altro, il Coro di morti nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Pure altri grandi autori certo si son trovati di fronte a tale pensiero (I grandi di fronte alla morte, oppure Che cosa vuol dire morire: sei grandi filosofi di fronte all’ultima domanda , a cura di Daniela Monti, Torino, Einaudi, 2010), non solo a livello di trattazione tematica, ma di coinvolgimento emozionale riflessivo, dove venga fuori l’interrogarsi confidenziale «Verrai?» di Lina Galli verso la Soglia, verso Dio, o il fluire continuo, quel passare e cogliere proprio di ogni momento l’Eterno da parte di Biagio Marin. Venga fuori proprio l’assillo di un vivere segnato dall’incongruenza come dal disagio dell’autentico calpestato, e non da una condizione di Grazia, anche come la intende Umberto Saba pur nella sua ottica complessa non facile della vita.

Una tematica del genere sta insieme, per quanto fra personaggi diversi, in queste altre considerazioni notevoli sul segreto sentire delle anime. «Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali. Han bisogni lor proprii e loro proprie aspirazioni le anime, di cui il corpo non si dà per inteso […]. Allora, passata l’angoscia, le due anime sollevate si ricercano e tornano a sorridersi da lontano» (…Pascal , XI, Di sera, guardando il fiume ).

Una tal linea di pensieri, accanto e nei personaggi, corre sul problema di cosa porta «a determinare le nostre azioni» (Pascal , XV, Io e l’ombra mia ), come visto, e su quell’«Avvertenza» riguardo gli «scrupoli della fantasia», pure presi in esame per l’assurdo e il vero(simile) nell’opera d’arte. Ma ora va aggiunto il fatto che in queste pagine a taglio saggistico il problema Fantasia si combina con quello della Natura, incontrato non meno qui. Della storia naturale, in quanto comprendente un campo di studi costituito («popolato») dagli animali, dal mondo animato, dove lo zoologo non sa fare distinzione tra «l’uomo», che «non esiste», e «un uomo», specifico, e anche «gli uomini», «che invece esistono», «di cui nessuno è eguale all’altro» [in corsivo nel testo] (ivi, Avvertenza ). Per di più ci si chiede in che cosa differisce l’uomo dalle bestie, nel ragionamento senz’altro, ma in quel ragionare mai tanto appassionatamente «come quando soffre», l’uomo, e ciò «perché appunto delle sue sofferenze vuol veder la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele; mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo diritto?» (ivi).

Al che il regista stregone di tale messa in scena disquisitoria porta anche ironicamente l’argomento su ciò che è «normale», sulla «cosiddetta vita normale» (ivi). Donde la domanda

«”Ma cos’è questa se non un sistema di rapporti, che noi scegliamo nel caos degli eventi quotidiani e che arbitrariamente qualifichiamo normale?”» (ivi). E se, ogni realtà d’oggi scoprendosi illusione domani, per quanto «necessaria», risultasse che «purtroppo fuori di essa non c’è per noi altra realtà?» (ivi). Anzi, «Se consistesse appunto in questo, che un uomo o una donna, messi da altri o da se stessi in una penosa situazione, socialmente anormale, assurda per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la rappresentano davanti agli altri, finché non la vedono […]; perché appunto la vedono come a uno specchio che sia posto loro davanti […]; e allora la si rappresenta, soffrendone tutto il martirio, finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele necessità ci sia stata imposta». Fin tanto che non ci si ribelli e «”Allora, di colpo” dice il critico “un fiotto d’umanità invade questi personaggi, le marionette divengono improvvisamente creature di carne e di sangue, e parole che bruciano l’anima […]”» (ivi).

Il senso dell’autentico e del vero, così prepotente irriducibile in tutta questa vis disputandi sul fluttuare sempre diverso di forme e modi comportamentali, si estende in una casistica spesso tortuosa e convulsa non disabituata ad acrobazie logiche e verbali, e scende d’altra parte intenso più e più volte al cuore del problema, anche delle cose in una direzione persino metafisica (Di sera, un geranio, in Berecche e la guerra) Un tanto vale per intendere coscienza e responsabilità e volontà, la cui mancanza è il grande disagio per Pirandello forse maggiore di quello correntemente attribuitogli, di convulsa denuncia della maschera e dell’assurdo, se di assurdo si può parlare, l’assurdo che sarebbe pure verosimile e quindi non più tale nemmeno nell’arte e rientrerebbe in quella problematica necessaria per far venir fuori l’uomo, lo specifico e non il generico e generalizzato o livellato anonimo, grazie al nostro farsi consapevoli delle azioni, all’esigenza di volersi imporre sul frastuono della vita di fuori come sul mondo dei bruti (I Giganti della montagna). Inalienabile lo spazio dell’uomo e il respiro dell’anima, non chiuso alla presenza della Natura. Una responsabilità (e volontà) che è legata al senso naturale, oggettivo dell’esistere. Perciò l’autore guarda non meno oltre lo stesso assurdo e il relativo, oltre lo strano, verso quella interezza della vita, verso un concetto del vivere non di parte, non unilaterale (il realismo del Boccaccio). Per questo gli si configura il senso dell’Assoluto, anche dell’Eterno, per questo l’aprirsi alla dimensione del mito, proprio di ciò che non è solo relativo, non è solo abnorme o aberrante.

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6.

Non è fuori posto a questo punto ribadire come permane quel senso di attenzione naturalistica al luogo (non solo giovanile) anche in Uno, nessuno e centomila, in certe notazioni non isolate o suggestivamente giustapposte agli stati d’animo e invece nella logica intera dell’opera, dallo stesso breve attacco ambientale sul finire della complessa vicenda, appunto «Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai su alla Badìa. Quando si sia fatta l’abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lì presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un’angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo» (III, La rivoltella tra i fiori). Qui l’intervento del pensiero commentante dell’autore, e per via di ipotesi, mostra una volta di più, oltre al noto taglio intellettualistico-saggistico di lui quello spessore di studio costante dei fatti, su una base di osservazione attenta portata a vedere anche quanto non appare in superficie, o appare solo nelle convenzioni, bensì nel segreto, in quell’intimo trascurato e sommerso

Allora di seguito ha il suo posto questa storia nell’articolarsi del racconto, fra un continuo indulgere su particolari sensazioni affioranti dallo sguardo attento alle cose, a significati altrimenti impercettibili. «Quella Badìa, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall’altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonìa di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse più nulla di sé» (ivi). Esemplare pagina di disfacimento e perduta consapevolezza (un taglio verghiano fatto di decadimento e inettitudine), dove l’estenuazione corre sul venir meno della memoria, «Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una» (ivi). Finite così, «non si sa come». Spia il «non si sa quali» (come il modo dell’impreciso leopardiano, specie nelle Operette). [8]

[8] Emilio Bigi, Tecnica e tono nelle Operette morali, in ID., Dal Petrarca al Leopardi, Studi di stilistica storica, Milano- Napoli, Ricciardi 1954.

Appunto, negli anni finali, Non si sa come. O ancora, l’impercettibile nei passaggi logici, Di sera, un geranio, con il senso rarefatto del personaggio morente che non era più quel suo corpo e ora senza più il corpo, «è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa […]; la paura di nuovo […] del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza più lui […]. Lui è ora quelle cose; non più com’erano […]. E questo è morire» (in Berecche e la guerra)Anni di delusioni e di preoccupato assetto della vita, e di inascolto pur fra riconoscimenti di grido.

Ed ecco ora, richiamando il «Non vivo più che d’immaginazione; e non sapere dove immaginarti […] è come se fossi cieco e mi mancasse l’aria da respirare» (lett a Marta Abba da Berlino, 24, VI, 1929) [9], il suo grido spento, nel ’30 sempre da Berlino, «Ora che sono alla vigilia di una grande fortuna, ora che forse la porta della ricchezza mi è aperta, vedo tutta la mia miseria. Non ho nulla! Sono in una lontananza, in una solitudine, che fa spavento.

[9] Trepido e polemico afferma Pirandello nella lettera a Marta Abba (Berlino, 24, VI, 1929), fra personale e letterario. E nella prostrazione di sentirsi isolato, tradito dall’ambiente culturale tedesco, italiano, e convinto di essere respinto dall’Europa, mette una passione impetuosa e nuova nel prospettare, come in una svolta ricca d’interesse, il suo piano di lavoro. Questo aveva inteso rilevare in un contributo su tale tema, per lui che tutto infervorato sostiene (ora su convinzioni intorno alla propria arte) «”I Giganti della Montagna” sono il trionfo della fantasia! il trionfo della Poesia, ma insieme anche la tragedia della Poesia in mezzo a questo brutale mondo moderno. […] E’ il mio autentico capolavoro» (lett. a Marta Abba, Berlino, 30 maggio 1930), e ancora, «Il “Quando si è qualcuno” […] non avrà nulla da veder con gli altri miei precedenti lavori. Sarà tutto a quadri fantastici e imprevedibili, novissimo» (ivi). Su ciò il commento ben significativo di lui si allarga nell’accompagnare la „prima’ in terra tedesca di “Questa sera si recita a soggetto” (e già la traduzione di “Sei personaggi in cerca d’autore”) con l’emozione del capolavoro grandioso e solenne, i Giganti della montagna” (cfr. FABIO RUSSOLa certezza violata. Pirandello, l’Imprevedibile, il Vero, in «Il Banco di lettura», Trieste, 32/2006).

E se grido quello che sento, tutto lo spavento di questa lontananza e di questa solitudine, son “parole inutili!”. I-nu-ti-li: devo morire in questa lontananza e in questa solitudine. La Gloria? La Ricchezza? Tu, primo che passi per la via, le vuoi? Te le do, te le do per nulla, te le do in cambio della ventura che a te, pover’uomo, può toccare, ritornando a casa, di sentirti dire una “parola inutile”! […] ritornando a casa, mi son buttato, così vestito com’ero, in smocking, sul letto, a piangere come un dannato, a piangere tutte le lagrime di questa mia sorte disperata» (lett a Marta Abba da Berlino, l’8.V, 1930).

Pirandello flens, non solo ridens. Qui. Semmai sofferens (per così dire) o labōrans e comunque cogitans Che ha la forza di riformulare i suoi temi in nuovi indirizzi di cultura e d’arte.

«[…] non girare sempre sullo stesso pernio. Hai ragione, Marta mia, e vorrei che sentissi che cosa sto facendo nei “Giganti della montagna”! […] sono il trionfo della fantasia! Il trionfo della Poesia, ma insieme anche la tragedia della Poesia in mezzo a questo brutale mondo moderno. Vedrai! E’ il mio autentico capolavoro. Ma chi me lo potrà rappresentare in Italia? Il “Quando si è qualcuno”, se mai lo farò, non avrà nulla da veder con gli altri miei precedenti lavori. Sarà tutto a quadri fantastici e imprevedibili, novissimo», così nel ’30 da Berlino (lett a Marta Abba, il 30.V), come già abbiamo visto in parte all’inizio.

Un Pirandello dubbioso sull’effettivo intendersi fra gli uomini («Le sorprese che la vita ci riserva sono infinite. Parliamo con una persona, crediamo di avergli comunicato il nostro sentimento, le nostre intenzioni; ma chi sa poi come questo nostro sentimento e queste nostre intenzioni si sono tradotti in lui? Il senso e il valore che le nostre parole avranno acquistato nella traduzione mentale che egli, straniero fra l’altro, ne avrà fatto»; lettera Marta Abba da Berlino, il 22.VI, 1929), un Pirandello che riflette con nuovo spessore, nel rappresentare i casi della vita, e che li tratta (studia) come una scena drammatica (Umberto Eco su L’Umorismo). Le ricerche e lezioni confluite nel ben noto Saggio su l’Umorismo dell’08 si protraggono in quegli «scrupoli» o «Avvertenza» sulla Fantasia, fissati come saggio del ’21 e aggiunti alla fine della nuova edizione de Il fu Mattia Pascal del ’21 (e successive). Ed è tutto un pensiero spinto, protratto e teso dell’intelletto (come Giordano Bruno, come pure i Surrealisti).

E che si „esercita’ sul tema del venir meno, di quel dissolversi, di quello sparire incontrato nel breve racconto Di sera, un geranio, e ora ripreso qui. «Sparire. Sorpresa che si fa di mano in mano più grande, infinita: l’illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c’erano; suoni, colori, non c’erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com’era» (in Berecche e la guerra). Si direbbe «[ein Hauch] um nichts», come per Rilke (Sonetti a Orfeo. I, 3), seppur su una diversa logica, ma su una cadenza di frasi brevi/assorte, trasalite, forse sì. Il „prima’, com’era, e il „dopo’, il momento „presente’ come è. Ecco la dinamica delle azioni dell’uomo, il ruolo della Natura e della Fantasia simile a una dea Ragione, il problema della volontà e Responsabilità (non secondario qui già le giovanili serie di novelle intorno alla Morte, Beffe della morte e della vita, Firenze, Lumachi ’02 e ’03). Non è solo l’Umorismo, è la Fantasia nella vita e sul piano artistico, la forza del „fingere’ quando fa sì addirittura, magari mentendo, «di trovare nella finzione il vero»! Fantasia problematica, di chi fa sottilmente pensare su un impianto dialogico irriducibile, trasgressivo. Ah, questo pensare travagliato. Si accende così, nella tensione irriducibile, un pensiero.

La Responsabilità [10], la Coscienza! Motivo quanto mai coinvolgente, da non perdere per le sue implicazioni in questo giro di accostamenti.

[10] Ricordo ancora il tema sottilmente indagato da Adriana Urna sul “processo di trasformazione degli ideali da „astrazione’ in „funzione’ (di realtà) per Pirandello”, reso un po’ approssimativo dal titolo Il conflitto fra ideale e reale in Pirandello, Pesaro, Metauro 2007.

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7.

Eccolo ora, riportato dal „gazzettiere’ Gasparo Gozzi secondo il suo titolo indicativo, riprendendo a questo punto la singolare Allegoria, da lui redatto in La Gazzetta Veneta (Sabbato, addì primo Marzo 1760. – N.° VIII):[11]

«Narrasi che negli antichissimi tempi, aggirandosi Orfeo per le selve della Tracia, cercasse di chiamare a vita civile gli uomini rozzi o piuttosto bestiali di quel paese […] si rivolse con pio animo a Giove e lo pregò che gli mandasse qualche cosa in suo aiuto. Videsi dunque apparire davanti in un tratto una donzella, la cui somma bellezza […]. Il nome mio è Virtù; e quantunque ora a te sembri ch’io abbia corpo, non l’ho […]. Giove ha giurato oggi […] ch’egli sturerà gli orecchi di questi tuoi Traci e che le tue parole […] v’accenderanno [nel loro cuore] un lumicino di purissimo splendore, che in ciaschedun di loro sarà nominato coscienza […]; e allora il fiato del divino Orfeo articolato in parole, entrando per gli orecchi dei Traci, accese il beato lume della coscienza: allora fecero gli uomini un’amorevole comunanza, e nacquero le sante leggi e la civile educazione; tanto che la vita fra quei popoli cominciò ad essere una dolcezza e un amore. Ma una certa famigliuola bestiale di sorelle dette Perturbazioni che intorno al cuore dell’uomo avevano avuto già nascimento […] davano ad intendere […] che bisognava ad ogni modo spegnere il mal venuto lume. Per la qual cosa, non potendolo comportare, si diedero or l’una ed ora l’altra a soffiarvi dentro, ma senza pro; perché mai non cessava di splendere, seguendo la sua natura divina» (ed cit, p 42).

[11] Per la prima volta riprodotta nella sua letteraria integrità con proemio e note di Antonio Zardo, Biblioteca Scolastica di Classici Italiani già diretta da Giosuè Carducci, Firenze, Sansoni 1915, nuova presentazione di Fiorenzo Forti, ivi, 1957. Da cui si cita.

Vien da dire qui Leopardi, rileggendo noi Gasparo Gozzi, quanto poteva aver rimodulato da lui, dato che lo aveva ben che preso in considerazione, particolarmente nella Crestomazia della prosa , così da individuare un taglio di spunti di Gasparo Gozzi attivi in Leopardi. Insomma un capitolo si può aprire di riferimenti da giro cronistico-aneddotico non estraneo all’autore delle Operette e dello Zibaldone, intendendo quel suo gusto di narrare/evidenziare un episodio di particolare significato, tra il favoloso e il veritiero, da divenire questo emblematico (appunto il passo sulla coscienza). Un quadro dove poi s’intrecciano movenze di sapore ironico, che noi avvertiamo proprie del modo di procedere di Leopardi, su aneddoti-favola tipo l’acqua, il fiume, l’onore, dove si sente il suo taglio di narratore e cronista dal vivo (indicative anche le pp. 40 e 41 nell’ed cit).

E qui il seguito del motivo „citato’ da Gasparo Gozzi:

«vedendo le inique sorelle che non giovava punto la forza e conosciuto che il purissimo raggio si era già sparso universalmente per le sante leggi e per li nuovi costumi allargato; temendo castighi e morte se ostavano al dovere generalmente ricevuto, si diedero ad usare malizia; e soffiandovi dentro ora questa, ora quella, se non ammorzavano il lumicino, tanto crollavano la vivace punta della fiammolina e tanto l’abbassavano ora di qua e ora di là, che standosi in quella continua agitazione la non potea illuminare il cuore; ond’egli, rimanendo al buio, faceva di molti mali» (ivi, p. 42).

Il gustoso ragionamento continua a disquisire, parlando di «quel focherello vigoroso», dicendo che «Quella scottatura circuendogli e penetrandogli l’anima tutta, sì paurosa gliela rendea, che ad ogni alito di vento la facea tremare […]. E se mai nella società in cui vivevano, veniva scoperta tanta ignominia tentata contra al lume beato della coscienza, avrebbero voluto quegli uomini che si fosse spaccato il profondo ventre della terra ed essere da quella inghiottiti, per non comparire più all’aspetto del loro comune» (ivi, pp. 42-3). E per questo suo continuare a disquisire merita vederlo esteso dunque tale motivo ad altri simili riferimenti implicanti modi propri di Leopardi. Proprio Leopardi, se consideriamo in maniera organica su lui vari altri passi suoi caratteristici riguardo l’ Aretofilo e la Virtù («Bella Virtù»), il comportamento dell’uomo in società, le fasi della vita, la condizione dei giovani e dei vecchi [12].

[12] Su ciò rimando a Fabio Russo, Leopardi politico o della felicità impossibile, Roma, Bulzoni 1999, pp. 376-9 e 379-80.

E ricordiamo la prospettiva amara di un Pirandello ancora giovane in I vecchi e i giovani. A cui si può allargare il concetto di Antico e di Moderno o dei Vivi e dei Morti, richiamando le note contrapposizioni attive in età romantica, con l’ironico provocatorio ribaltamento di significato operato dal Berchet nella sua Lettera “semiseria”.

Un motivo dunque, guardando a Girgenti e ai luoghi caratteristici di lui (sino a quanto possono contare), si diceva sopra, di ben grande interesse, da non perdere in questo giro di accostamenti. In ciò intitolabile ulteriormente il motivo come Il coinvolgimento di Pirandello nel nodo del Vero, verso l’intimo della Coscienza e un grado di Responsabilità nel vivere sociale e nel respiro „normativo’ della Natura. Che è, di fronte al travagliato dilemma del vivere, lo smascheramento da Pirandello condotto con tenacia alla radice, prendendolo dai molteplici casi fenomenici, non senza l’apporto singolare della Fantasia, o della Finzione.

*Nota. Il presente lavoro, che prende spunto dal cit. Saba e il nodo del Vero (qui in nota n. 1) si sviluppa su un periodo che tiene conto dei temi trattati dal CISM, Centro Internazionale Studi sul Mito, in Recanati (MC), e dalla Delegazione Siciliana , in Palermo, particolarmente dei significati archetipici della Natura stessa ravvisabili nel rapporto „normativo’ di questa con l’uomo, verso l’intimo della Coscienza. L’itinerario di Pirandello coinvolge tematiche e figure di letterati non solo dopo di lui, pure prima, con radici all’indietro, fra ripetibilità di motivi e originalità di un impulso creativo specifico. Da cui, a modo di Postilla, la precisazione da estendere qui di seguito a un quadro sintetico del problema su tale linea. Il comportamento dell’uomo trova punti simbolici in Pirandello, nel suo guardare la gente per strada, nell’ombra inseguitrice, nell’incalzare della domanda «C’è logica?» (Il fu Mattia Pascal, cap. X, Acquasantiera e portacenere). E simbolica d’altra parte l’affermazione enigmatica «Non si sa come» (titolo omonimo). O vorremmo ancora tenere in vista il motivo, simbolico!, del morire, dell’inesplicabile, quel venir meno incorporeo, quell’accendersi la sera, così, un geranio? (Berecche e la guerra), quel cambiar forma e condizione impercettibile in un assente estremo «vagabondare» (Uno, nessuno e centomila, finale)? Punti di riflessione, che hanno una loro lontana ascendenza in certe inquietudini del Seicento, non come “parole” bensì come struttura di “langue” e di segno particolare caratteristico. Ecco spunti tematicamente o di significato semico presenti e pur „lontani’, su cui si condensa una carica espressiva coinvolgente scrittori diversi con loro diverse accezioni: la Virtù in Gasparo Gozzi e Leopardi (la disposizione al bene, l’antica άρετή), il canto di Orfeo nell’umanistica melodicità e moderno-contemporanea appassionata di un Biagio Marin, la Natura vista come suggestione poi forza misteriosa quindi equivalente a Dio (Leopardi), per non dire il Tempo quale enigma e dilemma, la Fantasia stessa non semplice divertimento invece spinta dinamica di Intellettualismo da mettere in gioco prospettive contrapposte, persino assurde. Non ultimo, l’incerto del vivere, su un itinerario bisognoso di saldezza, di un sicuro approdo, di un porto, «Ho solo un’àncora. E sei Tu […]. Ma il porto, il porto dov’è?» (lettera a Marta Abba da Berlino del 7.V.1930) e la «foce» del corso fluviale e il «porto» sicuro in Biagio Marin. Ma ancora quel fondo del Naturale o “ingenuo” da un lato e dall’altro del “sentimentale” o riflessivo, senza scomodare troppo l’”antico” e il “moderno”, le ben note nozioni contrapposte appartenenti al pensiero romantico ( Schiller, e a tacer d’altri qui accennati o suggeriti, lo Scalvini secondo la dettagliata analisi al cap. I. Poesia antica e poesia moderna, in Aspetti della critica di Giovita Scalvini, appartenente a uno degli studi ragguardevoli di Mario Puppo, quello già cit sopra).

Trieste – Agrigento 2008 (Palermo 2011)

Fabio Russo

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