Pari – Audio lettura 2

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Legge Gaetano Marino
«Pregiudizio il supporre che la donna, cooperando anch’essa col proprio guadagno al mantenimento della casa, non avrebbe più avuto per l’uomo quella devozione e quel rispetto, di cui tanto esso si compiace?»

Prime pubblicazioni: Rivista di Roma, 25 giugno 1907, poi in La vita nuda, Treves 1910.

Pari audiolibro
Renè Magritte, Gli amanti (Les Amants), 1928

Pari

Adattamento e messa in voce di Gaetano Marino
Da QuartaRadio.it (sito non più attivo)

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             Bartolo Barbi e Guido Pagliocco, entrati insieme per concorso al Ministero dei Lavori Pubblici da vice-segretarii, promossi poi a un tempo segretarii di terza e poi di seconda e poi di prima classe, erano divenuti, dopo tanti anni di vita comune, indivisibili amici.

             Abitavano insieme, in due camere ammobiliate al Babuino. Per grazia particolare della vecchia padrona di casa, che si lodava tanto di loro, avevano anche il salottino a disposizione, ove solevano passar le sere, quando – sempre d’accordo – stabilivano di non andare a teatro o a qualche caffè-concerto. Giocavano a dadi o a scacchi o a dama, intramezzando alle partite pacate e sennate conversazioncine o sui superiori o sui compagni d’ufficio o su le questioni politiche del momento o anche su le arti belle, di cui si reputavano con una certa soddisfazione estimatori non volgari. Ogni giorno, di fatti, passando e ripassando per via del Babuino, si indugiavano in lunghe contemplazioni o in accigliate meditazioni innanzi alle vetrine degli antiquarii e dei negozianti d’arte moderna; e Bartolo Barbi, ch’era molto perito in tutto ciò che si riferiva alle gerarchie, sia quella ecclesiastica, sia quella militare, sia quella burocratica, e a gli usi e ai costumi, si scialava a dar di bestia a certi pittori che, nei soliti quadretti di genere, osavano raffigurar cardinali con paramenti addirittura spropositati.

             Era molto caro ai due amici quel salottino raccolto, dai mobili d’antica foggia, consunti a furia di tenerli puliti. Il vecchio finto tappeto persiano era qua e là ragnato; le tende turche, all’uscio e alla finestra, erano un po’ scolorite come la carta da parato, come i fiori di pezza su la mensola e l’ombrellino giapponese, aperto e sospeso a un angolo. Qualche piccolo intaglio s’era scollato dai tanti porta-ritratti e porta-carte appesi alle pareti, eseguiti in casa, a traforo, dai due amici nei primi anni della loro convivenza.

             Fin su l’orlo di quell’ombrellino giapponese, intanto, all’insaputa dei due amici, veniva a quando a quando, zitto zitto, un grosso ragno nero; stava lì un pezzo come a spiare misteriosamente ciò che essi facevano, ciò che essi dicevano; poi si ritraeva.

             Dentro l’ombrellino giapponese era tessuta tutt’intorno al fusto un’ampia tela finissima e polverosa. Forse quel ragno misterioso ne aveva tratto la materia, a filo a filo, dalla vita de’ due amici, dai loro giorni sempre uguali, dai loro savii discorsi, tradotti pazientemente in quella sua sottilissima bava seguace.

             Né essi né la vecchia padrona di casa ne avevano il più lontano sospetto.

             Di tanto in tanto Barbi e Pagliocco pensavano con rammarico che fra qualche anno sarebbero stati costretti a lasciar quella casa, quel caro salottino. Aspettavano dal paese i loro due fratelli minori, che dovevano intraprendere a Roma sotto la loro vigilanza gli studii universitarii; e in quella casa non ci sarebbe stato posto per tutti e quattro. Avrebbero affittato allora un quartierino; lo avrebbero ammobiliato modestamente per conte loro e avrebbero preso una vecchia serva per la pulizia e la cucina. Vecchia la serva, perché i due giovanottini di primo pelo… eh, non si sa mai! prudenza ci voleva! Per loro due non ci sarebbe stato più pericolo.

             Ogni mattina erano in piedi, puntuali, alla stess’ora; uscivano insieme a prendere il caffè; entravano insieme al Ministero, dove lavoravano nella stessa stanza l’uno di fronte all’altro; a mezzogiorno andavano a desinare alla stessa trattoria; e insomma, come appajati sotto il medesimo giogo, conducevano una vita affatto uguale, dignitosa, metodica per forza, ma non priva di qualche onesto svago, segnatamente le domeniche.

             Quantunque si servissero dallo stesso sarto, pagato puntualmente a tanto al mese, non vestivano allo stesso modo. Spesso Bartolo Barbi sceglieva la stoffa per l’abito di Guido Pagliocco e viceversa; giudiziosamente; perché sapevano bene quale sarebbe stata più adatta all’uno, quale all’altro. Non erano già come due gocce d’acqua in tutto.

             Bartolo Barbi era alto di statura e magro, di scarso pelo rossiccio, pallido in volto e lentigginoso, lungo di braccia, un po’ dinoccolato: presentava da lontano nella faccia quattro fori e una caverna; gli occhi tondi, le nari aperte e una bocca enorme, dalle labbra aride e screpolate. Guido Pagliocco era invece robusto e sveglio, tozzo, bruno, bene azzampato, miope e ricciuto.

             Si erano però medesimati nell’anima, vagheggiando uno stesso tipo ideale, che s’ingegnavano di raggiungere e d’incarnare in due, ponendovi ciascuno dal canto suo quel tanto che mancava all’altro.

             E l’uno amava e ammirava le speciali facoltà e attitudini dell’altro, e lo lasciava fare, senza tentar mai d’invaderne il campo.

             Subito, a ogni minima evenienza, si assegnavano le parti; riconoscevano a volo se dovesse parlare o agire l’uno o l’altro; e di ciò che l’uno diceva o faceva l’altro rimaneva sempre contento e soddisfatto, come se meglio non si fosse potuto né dire né fare.

             Raggiunto il grado di segretarii di prima classe, proposti insieme per la croce di cavaliere, ottenuta questa onorificenza ben meritata, Barbi e Pagliocco furono invitati alle radunanze che il loro capo-divisione commendator Cargiuri-Crestari teneva ogni venerdì.

             I due amici presero a frequentar quelle radunanze con la stessa puntualità scrupolosa con cui adempivano ai doveri d’ufficio. Ma presto s’accorsero che la loro comunanza di vita fraterna correva un serio pericolo in casa del commendator Cargiuri-Crestari.

             II capo-divisione e la moglie, non avendo proprii figliuoli e figliuole da accasare, pareva si fossero preso il compito di sposar tutti i giovani e le giovani che si raccoglievano ogni venerdì nel loro salotto.

             La signora, invitando le vecchie amiche, lasciava intendere con mezzi sorrisi e mezze frasi che le loro figliuole avrebbero trovato presto marito; e molte mamme sollecitavano di continuo, ansiosamente, l’onore di essere ammesse in casa di lei.

             Ella però voleva essere lasciata libera nella scelta, voleva che si avesse piena fiducia in lei, nel suo tatto, nel suo intuito, nella sua esperienza.

             Guai se una fanciulla, non contenta del giovane ch’ella, nella sua saggezza, le aveva destinato, faceva invece l’occhiolino a qualche altro! Subito la signora Cargiuri-Crestari si dava attorno per dividere questi illeciti ravvicinamenti, di cui si aveva proprio per male, ecco, e lo lasciava intendere in tutti i modi. Ma sì, per male, perché Dio solo sapeva quanto e quale studio le costassero quelle sue combinazioni ideali. Prima di decidere, prima d’assegnare a quel tale giovine quella tal fanciulla, ella teneva l’uno e l’altra quattro o cinque mesi in esperimento; li interrogava su tutti i punti secondo un formulario prestabilito e segnava in un taccuino le risposte; e gusti, educazione, costumi, aspirazioni, tutto indagava, pesava tutto. E se qualche coppia, messa su da lei con tanto scrupolo, faceva alla fine una cattiva riuscita, non se ne sapeva proprio dar pace. Possibile? Ma se dovevano andar così bene d’accordo quei due! Ci doveva esser sotto certamente qualche malinteso fra loro! Ed ecco la signora Cargiuri-Crestari affannata, in continue spedizioni alle case delle tante coppie messe su da lei, per ristabilir l’accordo, che non poteva mancare, diamine! a chiarir quel malinteso che senza dubbio doveva esser sorto tra i due coniugi così bene appajati.

             Le vittime designate a quelle combinazioni ideali erano naturalmente gl’impiegati subalterni del marito. La promozione a segretario di prima classe, la croce di cavaliere, avevano per conseguenza inevitabile l’invito ai venerdì del commendatore e, in capo a un anno, il matrimonio. Il garbo del capo-divisione e della moglie era tanto e tale, che riusciva quasi impossibile ribellarsi; si temeva poi il malumore, l’astio e, chi sa, fors’anche la vendetta del superiore.

             Pei due amici Barbi e Pagliocco la signora Cargiuri-Crestari non ebbe bisogno né di studio né di esame. Suo marito li teneva d’occhio, li covava da un pezzo; glien’aveva tanto parlato, come di due paranzelle che presto sarebbero entrate placidamente in porto!

             Li aveva già belli e assegnati in precedenza la signora Cargiuri-Crestari e, come sempre, con intuito meraviglioso, a due fanciulle, amiche anch’esse tra loro, indivisibili: Gemma Gandini e Giulia Monta: quella bionda e questa bruna: la bionda a Pagliocco ch’era bruno, la bruna a Barbi che, se non era proprio biondo, ci pendeva.

             Erano belline tutt’e due, e – già s’intende – buone come la stessa bontà. Ah, niente lezii! niente bischenchi! il commendatore e la moglie non ammettevano in casa se non future mogli per bene, e dunque fanciulle sagge e modeste, econome e massaje. I giovani potevano fidarsene a occhi chiusi. Magari la signora Cargiuri-Crestari non badava tanto alle fattezze esteriori, perché – si sa – tutto non si può avere, e la bellezza non è dote che vada molto d’accordo con la modestia e con le altre virtù che a fare una perfetta moglie si ricercano.

             Appena scoperta l’insidia, i due amici s’arrestarono alquanto sconcertati.

             Avevano da un pezzo non solo chiuso la porta del cuore alla donna, ci avevano anche messo il catenaccio. Non ne aspettavano più, neanche in sogno. Che se talvolta qualche desiderio monello saltava dentro all’improvviso perla finestra degli occhi, subito la ragione arcigna lo cacciava via a pedate.

             Non perché avessero in odio il sesso femminile: discorrendo di donne e di pigliar moglie, riconoscevano anzi, in astratto, che lo stato coniugale (fondato – beninteso – nell’onestà e governato dalla pace e dall’amore) era preferibile alla vita da scapolo. Ma purtroppo il matrimonio, nelle presenti tristissime condizioni sociali, doveva esser considerato come un lusso, che pochi sola mente potevano concedersi, i quali poi non erano i più adatti a pregiarne i vantaggi.

             Nelle loro conversazioni serali, Barbi e Pagliocco avevano definito insieme il feminismo questione essenzialmente economica. Ma sì, perché le donne, poverine, avevano compreso bene la ragione per cui diventava loro di giorno in giorno più difficile trovar marito. Il veder frustrata la loro naturale aspirazione, il dover soffocale il loro smanioso bisogno istintivo, le aveva esasperate e le faceva un po’ farneticare. Ma tutta quella loro rivolta ideale contro i così detti pregiudizii sociali, tutte quelle loro prediche fervorose per la così detta emancipazione della donna, che altro erano in fondo se non una sdegnosa mascheratura del bisogno fisiologico, che urlava sotto? Le donne desiderano gli uomini e non lo possono dire; poverine. E volevano lavorare per trovar marito, ecco. Era un rimedio, questo, suggerito dal loro naturale buon senso. Ma, ahimè, il buon senso è nemico della poesia! E anche questo capivano le donne: capivano cioè che una donna, la quale lavori come un uomo, fra uomini, fuori di casa, non è più considerata dalla maggioranza degli uomini come l’ideale delle mogli, e si ribellavano contro a questo modo di considerare, che frustrava il loro rimedio, e lo chiamavano pregiudizio.

             Ecco il torto. Pregiudizio il supporre che la donna, praticando di continuo con gli uomini, si sarebbe alla fine immascolinata troppo? Pregiudizio il prevedere che la casa, senza più le cure assidue, intelligenti, amorose della donna, avrebbe perduto quella poesia intima e cara, che è la maggiore attrattiva del matrimonio per l’uomo? Pregiudizio il supporre che la donna, cooperando anch’essa col proprio guadagno al mantenimento della casa, non avrebbe più avuto per l’uomo quella devozione e quel rispetto, di cui tanto esso si compiace? Ingiusto, questo rispetto? Ma perché allora, dal canto suo, voleva esser tanto rispettata la donna? Via! via! Se l’uomo e la donna non erano stati fatti da natura allo stesso modo, segno era che una cosa deve far l’uomo e un’altra la donna, e che pari dunque non possono essere.

             Mai e poi mai Barbi e Pagliocco avrebbero sposato una donna emancipata, impiegata, padrona di sé. Non perché volessero schiava la moglie, ma perché tenevano alla loro dignità maschile e non avrebbero saputo tollerare che questa, di fronte ai guadagni della moglie, restasse anche minimamente diminuita. Metter su casa, d’altra parte, con lo scarso stipendio di segretario, sarebbe stata una vera e propria pazzia, e dunque niente: non ci pensavano nemmeno.

             Ben radicati in queste idee, i due amici deliberarono di resistere; ma, per timore d’offendere il loro capo, non osarono fuggire; seguitarono a frequentare i venerdì del commendator Cargiuri-Crestari.

             In capo a tre mesi, il ragno nero che si faceva di tratto in tratto fin su l’orlo dell’ombrellino giapponese a spiare i due amici, intisichì, diventò come una spoglia secca, morì d’inedia, là su la vedetta. I due amici non gli avevano dato più materia per quella sua bava seguace; s’erano anch’essi immalinconiti profondamente; giocavano a dama svogliati; non conversavano più tra loro.

             Pareva che l’uno volesse fare avvertire all’altro il vuoto di quella loro esistenza, non mai prima avvertito.

             Nessuno dei due però voleva muovere il discorso per il primo.

             Una sera, finalmente, si mossero a parlare insieme, e ciascuno ripeté le parole che l’altro aveva su la punta della lingua da un pezzo, perché all’uno e all’altro eran venute da una medesima fonte: dal commendator Cargiuri-Crestari, il quale aveva stimato opportuno far loro in segreto una paternale, così senza parere, parlando in generale dei giovani d’oggi che ragionano troppo e sentono poco, che lasciano languire la fiamma della vita, perché han paura di scottarsi (parlava bene, poeticamente, alle volte, il commendatore), e che ci voleva un po’ di coraggio, perdio: là, avanti, contro alle difficoltà dell’esistenza.

             Le signorine Gandini e Monta avevano, per altro, una discreta doticina; erano poi tra loro da tanti anni amiche inseparabili, e non avrebbero perciò né sciolto, né allentato d’un punto il legame che teneva anch’essi uniti; e dunque… E dunque, giudiziosamente, al solito, i due amici stabilirono di prendere a pigione due appartamenti contigui, per seguitare a vivere insieme, uniti e separati a un tempo.

             Le nozze furono fissate per lo stesso giorno. Ma una contrarietà piuttosto grave minacciò di rompere tiel bel meglio la perfetta identità di sorte de’ due amici. La fidanzata di Guido Pagliocco, Gemma Gandini, non poteva recare in dote più di dodici mila lire, mentre la Monta ne recava al Barbi venti.

             Guido Pagliocco piantò i piedi, risolutamente.

             Non tanto, veli, per il danno materiale che al suo contratto di nozze avrebbero arrecato quelle otto mila lire di meno, quanto per le conseguenze morali, che quella disparità avrebbe potuto cagionare, ponendo la propria sposa in una condizione alquanto inferiore a quella della Monta.

             Pari in tutto, anche le doti dovevano esser pari.

             La vedova Gandini, madre della sposa, riuscì per fortuna, con qualche sacrifizio, a metter la propria figliuola perfettamente in bilancia con la Monta; e così i due matrimoni furono celebrati nello stesso giorno, e le due coppie partirono per lo stesso viaggio di nozze a Napoli.

             Nessuna ragione d’invidia fra le due spose. Se Guido Pagliocco era di fattezze più bello del Barbi, questi era però più intelligente del Pagliocco. Del resto, poi, eran così uniti idealmente quei due uomini, che quasi formavano un uomo solo, da amare insieme, senz’alcuna invidia né da una parte né dall’altra per quel tanto che a ciascuna necessariamente ne toccava, chiudendo a sera le porte de’ due quartierini gemelli.

             Ma che Giulia Monta, moglie di Bartolo Barbi, avesse segretamente, in fondo all’anima, una punta d’invidia non confessata neppure a se stessa, per quel tanto che del tipo ideale Barbi-Pagliocco toccava a Gemma Gandini, si vide chiaramente allorquando vennero a Roma i due fratelli degli sposi, Attilio Pagliocco e Federico Barbi, a intraprendere gli studii universitarii.

             Le due amiche, che avrebbero provato orrore se anche fugacissimamente su lo specchio interiore della loro coscienza avesse fatto capolino, col viso spaventato del ladro, il desiderio d’un reciproco tradimento, sentirono subito e videro crescere in sé a un tratto e divampare una vivissima simpatia l’una per il cognato dell’altra, e non tardarono a dichiararsela apertamente, con gran sollievo dell’anima, come se ciascuna avesse acquistato di punto in bianco qualcosa che si sentiva mancare.

             I due giovani, in fatti, somigliavano moltissimo ai loro fratelli.

             Attilio Pagliocco era forse un po’ più ottuso di mente del fratello maggiore e fors’anche men bello, ma più tacchinotto e violento. Federico Barbi era più proporzionato e men dinoccolato di Bartolo, con gli occhi meno languidi e le labbra meno aride; era poi più intelligente del fratello, faceva finanche poesie.

             Giulia Barbi-Monta stimò come un pregio quel che di più animalesco aveva il giovine Pagliocco a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta intellettualità intorno a sé, nel suo quartierino, con l’arrivo del cognato poeta; e Gemma Pagliocco-Gandini pregiò maggiormente quel che di più aereo, di più poetico aveva il giovine Barbi a paragone del fratello, perché le parve come un compenso alla cresciuta bestialità intorno a sé, nel suo quartierino, con l’arrivo del giovine Attilio che le pareva un mulotto accappucciato.

             Naturalmente, né Bartolo Barbi né Guido Pagliocco s’accorsero punto della simpatia delle loro mogli pei loro fratelli. Se ne accorsero bene questi, però; e, se l’uno e l’altro da un canto ne furono lieti per sé, cominciarono dall’altro a guardarsi fra loro in cagnesco, volendo ciascuno custodir l’onore e la pace del proprio fratello.

             E il giovine Federico Barbi, un giorno, andò a rinzelarsi acerbamente con Guido Pagliocco, perché…

             – Zitto, per amor di Dio! – scongiurò questi, a mani giunte. – Non dica nulla al povero Bartolo, per carità! Lasci fare a me…

             E zitto, sì, si stette zitto il giovine Barbi, per prudenza; ma né lui seppe accontentarsi, né la moglie del Pagliocco volle che s’accontentasse senz’altro della fiera paternale, che Guido rivolse a quattr’occhi al fratello minore.

             Venne allora la volta di questo. Non volendo, per la pace del fratello, accusar la cognata, e d’altro canto, non potendo prendersi soddisfazione da sé, poiché si sentiva in colpa anche lui, andò a rinzelarsi non meno acerbamente con Bartolo Barbi. E:

             – Zitto, per amor di Dio! – scongiurò questi parimenti, a mani giunte. – Non dica nulla al povero Guido, per carità! Lasci fare a me…

             Pochi giorni dopo, i due amici si trovarono d’accordo – come sempre – nell’idea di allontanare da casa i fratelli, con la scusa che – giovanotti, si sa! – davano un po’ d’impaccio e di soggezione, limitando la libertà delle rispettive mogli.

             –    E vero, Giulia? – domandò Barbi alla sua, in presenza di Pagliocco. E Giulia, con gli occhi bassi, rispose di sì.

             –    È vero, Gemma? – domandò alla sua Pagliocco, in presenza di Barbi. E Gemma, con gli occhi bassi, rispose di sì.

             «Povero Pagliocco!» pensava intanto Barbi. «Povero Barbi!» pensava Pagliocco.

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