Nomi e anonimi di Pirandello, qualche esempio

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Di Angelo Raffaele Pupino

A chi poi guardi l’opera narrativa e drammaturgica di Pirandello, non sfugge che nomi, cognomi e soprannomi dei personaggi sono, come nel caso di Clarissa, Justine, ecc. segni in genere motivati, pur se talvolta in modo criptico.

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Nomi e anonimi di Pirandello
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Nomi e anonimi di Pirandello, qualche esempio

da il Nome nel testo

Nomi

Quando in uno studio su Racine Leo Spitzer osservava che il nome «rappresenta l’imperativo categorico del personaggio» [1] non formulava in verità che un enunciato condivisibile e condiviso.

[1] Cfr. Leo Spitzer, Die klassiche Dämpfung in Racines Stil [1931], in Romanische Stilund Literaturstudien, trad. it. in ID., Saggi di critica stilistica. Maria di Francia Racine Saint-Simon, Prologo ed epilogo di Gianfranco Contini, Firenze, Sansoni 1985, pp. 116-7.

È peraltro notoria la funzione di specchio dell’idea che il nome, contrariamente a quanto insegna la linguistica, ha in letteratura. Si pensi, per non menzionare che esempi proverbiali, alla limpida Clarissa e alla onesta Justine, le ambigue eroine eponime dei romanzi di Richardson e di Sade; o ancora alla mariana Lucia Mondella, il personaggio manzoniano di luce e purezza e purificazione (ne sapeva qualcosa l’Innominato); [2]

[2] Si rammentino i versi del Manzoni sulla Madonna: «Egli è umil non men che mondo / Questo giglio delle valli» ([Versi improvvisati sopra il nome di Maria], in Poesie e tragedie, a cura di Fausto Ghisalberti, Milano, Mondadori 1957, p. 242).

o infine alla chiara Albine, la fanciulla apparentemente virginale della Faute de l’abbé Mouret, ecc. Tanto più esposta sembra poi la funzione se assolve a responsabilità epigrafiche. Si pensi a Clarissa, a Justine (sintomatico il sottotitolo di Malheurs de la vertu), al Fermo e Lucia; ma si pensi anche a un titolo tratto dal bestiario come quello di Madame Bovary, o all’altro dei Malavoglia, con cui fu maledetta la velleità di ribellione e promozione sociale della famiglia di pescatori siciliani, ecc. [3]

[3] Philippe Hamon, Un discours contraint [1973], trad. it. in ID., Semiologia, lessico e leggibilità del testo narrativo, Parma, Pratiche 1977, pp. 108 sgg. Ivi vedi anche Per uno statuto semiologico del personaggio [1972].

Posto che la convenzione onomastica sia abbastanza vincolante, anche Pirandello si ragguaglia ad essa quando, recensendo nel ’95 Le Vergini delle Rocce, attira l’attenzione su «quanta importanza abbia per l’artista il nome che deve personificare il tipo da lui creato e innanzi agli occhi suoi esistente come persona viva». [4]

[4] S, pp. 945-9. [S = Saggi, poesie, scritti varii a c. di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori 1973; per gli altri testi di Pirandello (l’edizione dei «Meridiani» è diretta da Giovanni Macchia) uso in ordine alfabetico le seguenti abbreviazioni: L = Lettere a Marta Abba a c. di Benito Ortolani, Milano, Mondadori 1995; LF = Lettere della formazione. 1891-1898. Con appendice di lettere sparse 1899-1919 a c. di Elio Providenti, Roma, Bulzoni 1996; MN = Maschere nude a cura di Alessandro d’Amico, Premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, I 1994, II 1993, III 1990; N = Novelle per un anno a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, I 1993, II 1987, III 1990; R = Tutti i romanzi a c. di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, Introduzione di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, I 1994, II 1993; T = Maschere nude, Milano, Mondadori, 1986; TS = Taccuino segreto a c. di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori 1997. Avverto che al fine di contenere le note a piè di pagina, per le novelle e per tutti gli scritti brevi (i cui titoli figurano sempre in corsivo) fornisco un’indicazione sommaria solo alla prima o anche unica occasione di citazione. Le spazieggiature differenziate sono mie. La data indicata per le opere di Pirandello è quella della prima stampa, anche quando questa sia stata ampiamente revisionata. A proposito dell’onomastica dannunziana aggiungo che d’altra parte il recensore aveva pur letto quel che Claudio Cantelmo, l’eroe delle Vergini delle Rocce, pensava dei nomi di Massimilla, Anatolia, Violante: «nomi» riferiva l’eroe «in cui parevami fosse qualche cosa di vagamente visibile come un ritratto pallido a traverso un vetro offuscato, nomi espressivi come volti pieni d’ombre e di lumi, in cui già parevami scoprire un infinito di grazia, di passione e di dolore» (Prose di romanzi, Milano, Mondadori 1978, p. 434).

E sempre la stessa convenzione esprime uno dei narratori di Pirandello se al sopraggiungere del dottor Leandro Scoto gli dice: «Stabiliamo, prima di tutto, il nome. Come si vuole chiamare lei? […] E di cognome ?» È poi significativo che, enunciando il sopravvenuto le sue generalità, il narratore pretenda di verificarne subito la congruenza: «Vediamo un po’: si metta più in là…» replica: «così, basta… ora si giri… sì, mi pare che il nome le quadri». [5]

[5] N, III p. 1474-8.

Stretta e imprescindibile è allora l’interdipendenza tra il corpo e il nome, e addirittura iconico questo, se, commutando la propria identità in quella di Adriano Meis, Mattia Pascal deve procedere anche alla «necessaria e radicale alterazione dei connotati». [6]

[6] R, II, p. 406. Ricordo che Mattia Pascal si lascia dapprima tagliare la barba (e già pensa: «Ah, quest’occhio»: ibid.); quindi cambia il nome e infine si sottopone all’intervento chirurgico che corregge il suo strabismo.

A chi poi guardi l’opera narrativa e drammaturgica di Pirandello, non sfugge che nomi, cognomi e soprannomi dei personaggi sono, come nel caso di Clarissa, Justine, ecc. segni in genere motivati, pur se talvolta in modo criptico. [7]

[7] Sull’onomastica pirandelliana, che ha acceso anche un’ingegnosa enigmistica, mi limito a ricordare Luigi Sedita, La maschera del nome. Tre saggi di onomastica pirandelliana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana 1988. Numerose e suggestive, in un quadro molto articolato, anche le osservazioni di Umberto Artioli, L’officina segreta di Pirandello, Bari, Laterza 1989.

Si pensi, a cominciare dai soprannomi, a Rondone e Rondinella, chiamati così perché ogni estate tornavano al «vecchio nido» e «svolavano irrequieti dalla mattina alla sera»;[8] si pensi al Cavalena, detto Suicida perché, «abituato a vedere il mondo come una galera», non riesce «a comporre una trama di film senza che a un certo punto non ci scappi un suicidio». [9]

[8] Rondone e Rondinella [1913], in N, II pp. 668-74.
[9] R, II pp. 602-3.

E per limitarsi all’onomastica più trasparente, ecco Amina: quasi priva di «corpo», nutre l’«anima» di cui il suo nome è anagramma di ricordi senza «materialità»; [10] ecco Moscarda riflettere: «Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo aspro fastidio ronzante»; [11] ecco ancora la figura altamente paradigmatica di una anziana donna abitante in una villa solitaria ove la luce «pare provenga da una lontanissima vita»: [12] tutta bianca e come allucinata, avrà negli occhi una luce e sulle labbra una voce così “sue” che la faranno quasi religiosamente sola tra gli altri e le cose che la circondano. Sola e nuova. E questa sua “solitudine” e questa sua “novità” turberanno tanto più, in quanto si esprimeranno in una quasi divina semplicità, pur parlando ella come in un delirio lucido che sarà quasi l’alito tremulo del fuoco interiore che la divora e che si consuma così. [13]

[10] Piuma [1917], in N, III, pp. 491-502: «La grossolanità goffa dei corpi […] era ormai ai suoi occhi, a tutti i suoi sensi acutissimi, d’una gravezza insopportabile, e cagione di ribrezzo e qualche volta anche di terrore». (Vedi in merito U. ARTIOLI, L’officina segreta di Pirandello, cit., pp. 108-9).
[11] R, II p. 786.
[12] T, I p. 450.
[13] Ivi, p. 457.

È la Madre della Vita che ti diedi. Se si chiama donna Anna Luna è perché, contrapposta a una lucente Lucia, è creatura appunto selenica. E la luna, insegna una “romanza” più volte menzionata da Pirandello, ha la facoltà medianica di destare le «fantasime». [14]

[14] Vedi Illustratori, attori e traduttori, in S, pp. 209-24. È la «romanza di Arrigo Heine su Jaufré Rudel e Melisenda». Secondo Providenti (vedi LF, pp. 44-5), nel riferire la leggenda di Heine, Pirandello si sarebbe avvalso delle suggestioni sugli «spiriti ritornanti» di cui parlava una conferenza di Carducci su Jaufré Rudel, della quale possedeva l’opuscolo (vedi Alfredo Barbina, La biblioteca di Pirandello, Roma, Bulzoni 1980, p. 49). Della conferenza, tenuta a Roma nel 1888 alla presenza della regina Margherita, parlarono ampiamente le cronache, tra cui spicca un lungo articolo di d’Annunzio apparso sulla «Tribuna» del 9 aprile col titolo di Giaufrè Rudel (ora in Le cronache de la «Tribuna», II, Bologna, Boni 1993, pp. 446-56).

Ebbene, nella apparenza «bianca» e «allucinata» di donna Luna, nel suo «delirio lucido», nella sua estasi «divina» si coglie l’aliena che evoca appunto il fantasma. Su di una scena «vuota e buja», rischiarata da «un solo riverbero spettrale», si celebra una liturgia spiritica che favorisca la materializzazione del figlio defunto. [15]

[15] T, II, p. 479.

Non si tralasci infine Mattia Pascal. Il senso del nome lo rende del tutto esplicito il fratello quando esclama: «Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia, matto… Matto! matto! matto! » [16] E quanto al cognome, esso è identico a quello di Théophile Pascal, uno degli autori teosofici del signor Paleari, l’affittacamere del romanzo. [17] Un’altra suggestione veicola però Mattia Pascal se pensa: «Chi ero io? Nessuno!». [18] È ancora l’effetto traumatico della destituzione del cogito? [19]

[16] R, I, p. 557. Mattia ha del resto la stessa radice di Matteo, un nome che oltre che al professor Falcone, un personaggio clinicamente «matto» dell’Esclusa (ivi, p. 173), appartiene anche a Sinagra, il protagonista di Da , che dissimulato sotto il discorso indiretto libero si domanda: «Chi era lui?» e si risponde «Un altro» (N, III, pp. 471-8). Variata è la celebre sentenza con cui Rimbaud confessava che «JE EST UN AUTRE» (cfr. Arthur Rimbaud, Œuvres complètes, Texte établi et annoté par André Rolland de Renéville et Jules Mouquet, Paris, Gallimard 1963, p. 270); «espressione tipica» osservava in proposito un glottologo «di ciò che è veramente l’“alienazione” mentale, dove l’io è privato della sua identità costituiva» (Émile Benveniste, Problèmes de linguistique générale [1966], trad. it. Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore 1971, p. 275).

[17] Per l’accostamento del nome del bibliotecario a quello di Théophile Pascal vedi Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori 1981, p. 46.

[18] R, I, p. 518. A corroborare quanto detto sopra si osservi che il dilemma di Mattia Pascal è lo stesso di Matteo Sinagra («Chi era più lui? Nessuno») e di Vitangelo Moscarda («Chi era? Niente era. Nessuno. […] Chi era colui? Nessuno»: R, II, pp. 755-7).

[19] Vedi in proposito Jacques Derrida, L’écriture et la différence [1967], trad. it. La scrittura e ladifferenza, Torino, Einaudi 1971 («Cogito e storia della follia» [1963]).

Sono trascorsi oltre vent’anni da quando, a «certezze immediate» come «io penso», Nietzsche aveva eccepito: «Che cosa mi dà il diritto di parlare d’un io e perfino d’un io come causa, e infine ancora come causa dei pensieri?» [20]

[20] Jenseits von Gut und Böse, trad. it. Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi 199916, pp. 20-1.

Alla conclusione ergo sum Mattia Pascal sostituisce a sua volta una domanda angosciosa («Chi ero io?»); alla inconfutabilità del soggetto promossa dal dubbio metodico subentra come risposta alla domanda la dispersione dell’Io («Nessuno») e l’annullamento dell’identità – ciò che sul versante della psicologia sperimentale confermava anche, con la sua scoperta delle personalità alternanti, il compulsatisimo Binet. [21]

[21] Les altérations de la personnalité, Paris, Alcan 1892: è notoriamente opera spesso citata da Pirandello, nella quale si sostiene che lo stesso individuo può articolarsi in varie personalità successive o coesistenti, ciò che vanificherebbe l’identità.

Non a caso nell’Umorismo, dedicato alla «buonanima» di Mattia Pascal, si legge allora – ecco l’altra suggestione onomastica – un pensiero sintomatico di Blaise Pascal, un post-cartesiano critico: «Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da se stesso nella successione del tempo». [22]

[22] S, p. 150. (Il frammento proviene da Giovanni Marchesini, Le finzioni dell’anima, Bari,Laterza 1905, p. 60). Un accostamento tra Blaise Pascal e Mattia Pascal è in Leonardo Sciascia, Pirandello dall’A alla Z, Supplemento al n. 26 dell’«Espresso» del 6 luglio 1986, p. 26. Un esplicito accenno onomastico è in Antimo Negri, Interminati spazi ed eterno ritorno. Nietzsche e Leopardi, Firenze, Le Lettere 1994, p. 156.

Ed è un frammento che ben sintetizza la vicenda di un personaggio che, fingendosi morto, che cambiando nome connotati vita, intende differire appunto nel tempo da se stesso, intende congedarsi dal proprio passato e proiettarsi in un futuro diverso. Solo che, se è vero che il nome proprio ha «natura ontologica», e che implica una «identificazione precisa […] della parola col denotato», [23] se ciò è vero, il cambiamento del nome si risolve ipso facto in rimozione di identità.

[23] Jurij Michajlovič Lotman & Boris Andreevič Uspenskij, Semiotica e cultura, a cura di Donatella Ferrari-Bravo, Milano-Napoli, Ricciardi 1975, pp. 104-6 (ma vedi tutto il capitolo «Mito Nome Cultura» [1973]).

Non per nulla in un luogo altamente privilegiato come l’incipit Mattia Pascal confessa:

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:

– Io mi chiamo Mattia
– Grazie, Questo lo so.
– E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire non sapere neppure questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza:
– Io mi chiamo Mattia [24]

[24] R, I, p. 319.

Perché il narratore dice di non poter più rispondere «Io mi chiamo Mattia Pascal»?

Avendo rinunziato al nome e fatto – così racconta – «il morto», egli non può più recuperare la sua identità anagrafica: all’anagrafe risulta defunto insieme col nome, sicché deve chiudere il circolo romanzesco constatando, in un luogo anch’esso privilegiato come l’explicit, «Io sono il fu Mattia Pascal»: individualità perenta, nome per così dire preterito. Il «transito» nel regno delle ombre si era rivelato «irreversibile». [25]

[25] Su tale “transito” vedi una efficace osservazione: «il trauma del denudamento e dell’autoanalisi liberatoria sono in molti a patirlo ma pochi a sopportarlo. Questa, del resto, è la ragione per cui il personaggio è, certo, una maschera nuda (anzi la maschera nuda per eccellenza), ma le maschere nude sono incomparabilmente più numerose dei personaggi. E c’è di più: il transito, se anche fulmineo, è però irreversibile come irreversibile è la mutazione che induce in chi la compie. […] Difficile è scendere nell’Averno del personaggio, ma impossibile e impensabile è risalirne verso il mondo dei vivi» (Lucio Lugnani, L’infanzia felice e altri studi su Pirandello, Napoli, Guida 1986, p. 188).

«L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…» rifletteva il bibliotecario soggiungendo:

Ma sì! così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra. Ecco quel che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra. [26]

[26] R, I, 523-4.

Tornando allora «dall’altro mondo» alla sua Miragno, egli non poteva più reintegrarsi nella condizione anteriore: «né nella legge», né nella comunità, né nel nome. [27] Inciso sulla lapide che ricopriva il corpo di uno sconosciuto, il nome restava vincolato a una tomba: apparteneva a un morto, il «vecchio “io”» infirmato da Nietzsche, [28] l’«anima» ontologica. «Una volta», aveva osservato non senza sarcasmo in Jenseits von Gut und Böse, una volta «si credeva all’anima come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale». [29] E Pirandello oppugna da parte sua nell’Umorismo che le tendenze plurali di una personalità «fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale». [30]

[27] Ivi, pp. 576-7.

[28] Cfr. Jenseits von Gut und Böse, cit., pp. 21-2: «è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto io è la condizione del predicato “penso”. Esso pensa: ma che questo “esso” sia proprio quel famoso vecchio “io” è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è una “certezza immediata”. E infine, già con questo “esso pensa” si è fatto anche troppo: già questo esso contiene una interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso».

[29] Ivi, p. 60.

[30] S, p. 158 (il corsivo è nel testo).

Anche un altro elemento sembra suscitare l’anonimia del suicida redivivo. Ridotto a «ombra» da una «illusione di vita oltre la morte», [31] egli ha raccontato la sua storia.

[31] R, I, p. 546.

E raccontandola ha addizionato e fuso con la sua proprietà di «ombra» quella che le risulterà strettamente complementare e anzi coessenziale di personaggio: è l’uno perché è l’altra; e viceversa. Ed è forse anche per questo – ne parlerò subito – che non ha più nome. O meglio: il suo nome si può sì enunciare, ma come preterito, dicevo: esso è ormai cauzione di assenza di identità, non di presenza; appartiene alla persona che fu, non al personaggio e all’ombra che è: non all’ombra che non può più abbandonare lo status di «uomo inventato» (la formula corrisponde a quella di «Homo Fictus» forgiata da Forster per il personaggio), [32] non all’ombra che è rimasta imprigionata nella «vita senza nome e senza passato sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal». [33]

[32] Edward Morgan Forster, Aspects of the Novel [1927], trad. it. Aspetti del romanzo, Milano, Il Saggiatore 1968, p. 79. Per la formula del Fu Mattia Pascal cfr. R, I, p. 424.

[33] R, I, p. 456.

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Anonimi 

Mattia Pascal rappresenta, almeno all’inizio, una persona reale. Il caso clamoroso dei famigerati Sei informa però il lettore che i personaggi di Pirandello, pur modellati sempre sulle persone reali (si pensi al ritratto strettamente naturalistico del Padre), [34] possono rappresentare non queste ultime ma se stessi, possono essere cioè autoreferenziali. E se il caso dei Sei è universalmente noto, non è però l’unico. Lo precedono Personaggi nel 1906, La tragedia d’un personaggio, nel 1911 e Colloquii coi personaggi nel 1915, tre novelle di «ombre», di una folla di ombre che accorrono dal «limbo», la località astrale di cui parla la teosofia. [35] Anche loro, anche queste «ombre» sono personaggi autoreferenziali.

[34] MN, II, pp. 678-9 («sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancora fresca, aperta spesso a un sorriso incerto e vago. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri»).

[35] Il narratore della Tragedia d’un personaggio dice infatti alle «ombre» che fanno ressa nel suo studio: «via nel limbo» (N, I, pp. 816-24). Quanto al limbo o kama loka vedi Helena Petróvna Blavatsky, La Clef de la Théosophie, Paris, Publications de la Societé Théosophique 1895, pp. 201-2: «ce n’èst une localité que dans un sens relatif; car ce n’est défini ni par l’étendue ni par les limites, mais cela existe dans l’espace subjectif, c’est-à-dire au delà des perceptions de nos sens». (Il corsivo è nel testo, che cito, del pari che le altre opere teosofiche, nelle traduzioni francesi menzionate nel Fu Mattia Pascal, R, I, p. 435). Va aggiunto altresì che il dottor Scoto aveva tradotto il seguente brano di un autore teosofico: «Abbiamo detto che l’essenza elementale che ne circonda da ogni parte è singolarmente soggetta, in tutte le sue varietà, all’azione del pensiero umano. Abbiamo descritto ciò che produce su essa il passaggio del minimo pensiero errante, cioè a dire la formazione subitanea d’una nubecola diafana, dalle forme di continuo mobili e cangianti. Ora diremo ciò che avviene allorché lo spirito umano esprime positivamente un pensiero o un desiderio ben netto. Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modella istantaneamente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso; e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria, la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti». (È traduzione da Charles Webster Leadbeater, Le Plan Astral. Premier degré du Monde invisible, d’après la Théosophie, Paris, Publications Théosofiques 1899, pp. 101-3). Il dottor Scoto, giovandosi del sapere teosofico, identificava esplicitamente i personaggi con i cosiddetti Elementali. I quali – chiariva il Leadbeater – hanno appunto dimora in un limbo astrale. (Il discorso sulle suggestioni esercitate dalla cultura teosofica su Pirandello si deve soprattutto a Giovanni macchia, Pirandello o la stanza della tortura, cit. Vedi quindi Antonio Illiano, Metapsichica e letteratura in Pirandello, Vallecchi, Firenze 1982).

Ebbene, i principali delle prime due novelle hanno un nome: sono rispettivamente il dottor Scoto e il dottor Fileno. Ma quest’ultimo, cronologicamente intermedio, recalcitra, non sembra invero felice di chiamarsi come si chiama; e parlando dell’autore del romanzo donde era fuggito, protesta con il narratore a cui chiede di essere accolto:

Ma guardi… Fileno… m’ha messo nome Fileno… Le pare sul serio che io mi possa chiamar Fileno? Imbecille, imbecille! Neppure il nome ha saputo darmi! Io, Fileno.

Perché il dottor Fileno è insofferente della sua «etichetta»? [36]

[36] Sul nome come «etichetta» vedi Benvenuto Terracini, Le «Novelle per un anno» di Luigi Pirandello, in Analisi stilistica. Teoria, storia, problemi, Milano, Feltrinelli 1966, p. 341

Eppure, stando all’etimologia di filos ed enos, ossia di amico del passato, l’«etichetta» appare conforme a chi, avendo come lui scritto una Filosofia del lontano, si pone idealmente nell’avvenire per guardare al presente come se fosse passato. Sarà allora, come si è opinato, perché fileno è anche un insetto volgarmente detto sputacchina? [37]

[37] Vedi Luigi Sedita, La maschera del nome, cit., p. 36.

O non sarà magari perché, in quanto personaggio autoreferenziale, tende ad eludere il nome? Certo è che i protagonisti dei successivi Colloquii sono anonimi; e che anonimi sono i loro più celebri colleghi, i Sei. Solo che sono numerosissimi anche gli anonimi che rappresentano persone reali: ad esempio gli stessi Comici di Sei personaggi, il cui nome è però surrogato dalla indicazione delle mansioni professionali in funzione paraonomastica; [38] ad esempio i protagonisti delle novelle La vittoria delle formiche, Mentre il cuore soffriva, Un’idea, La casa dell’agonia, Di sera, un geranio, Soffio, Una giornata, ecc.

[38] Accade peraltro che la Prima attrice chiami «per nome» (non si sa quale) il Direttore di scena (MN, II, p. 674), senza che tale circostanza sia finalizzata ad intento diverso dalla apostrofazione.

La gamma delle opzioni possibili è insomma estesa e mai strettamente vincolante. Non però che non si possa trarre dal suo ambito qualche indizio utile al lavoro ermeneutico. E valga a tal fine una digressione.

Premesso che non è personaggio autoreferenziale, si veda, per cominciare, il suddiacono di Canta l’Epistola, una novella dell’11. Nome e cognome, Tommasino Unzio – il cognome ben trasparente (unto) – li ha; salvo che desidera cancellarli: «stanco dell’inutile vita», tutti gli assilli umani «gli apparivano vani e t r a n s i t o r i i di fronte al sentimento che spirava dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili». «Non aver più coscienza d’essere», pensava, «come una pietra, come una pianta; non ricordarsi più neanche del proprio nome»:

vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri; senza più nulla che desse senso e valore alla propria vita. Ecco: sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti, gonfie di sole; udire il vento che faceva nei castagni del bosco come un fragor di mare, e nella voce di quel vento e in quel fragore sentire, come da un’infinita lontananza, la vanità d’ogni cosa e il tedio angoscioso della vita. [39]

[39] N, I, pp. 482-90.

Se Tommasino Unzio cadrà come cadrà, vittima volontaria di un duello suicida, non sarà perché attratto dalla morte. A ben guardare la morte è sì metafora di dimissioni dall’umanità, ma per disperdersi nella «infinita lontananza» di un’altra vita, la vita che fluisce nell’oceano dell’universo e nella quale si smarrisce la coscienza di sé, della propria identità e del suo segno: il nome. Quando poi il protagonista di Uno, nessuno e centomila riprenderà i pensieri del suddiacono, sarà subito manifesto a cosa aneli: «nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri, del nome d’oggi, domani»:

Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento […]. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. […] Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. […] Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori. [40]

[40] R, II, pp. 901-2.

Anche la rinunzia assoluta di Vitangelo Moscarda si configura sì come fuga volontaria dal consorzio umano, ma verso il divenire incessante di una vita all’unisono con l’universo e i suoi cicli, verso un ‘eterno ritorno’ scandito sui loro ritmi, verso una rinascita perpetua senza ricordi, senza identità, senza corpo, senza nome. Per nessuno dei due dimissionari si tratta allora, come pure si è presunto, di una «regressione» che prelude alla «morte»; [41] tanto meno si tratta di morte propriamente detta. L’immedesimazione dello spirito con il tutto accende al contrario la congettura di un panismo di Pirandello che, ben lungi dal costituirsi in annuncio funebre, esprimerebbe tensioni vitalistiche, tant’è che si è evocato l’Inno A Pan di d’Annunzio. [42] E non a torto.

[41] Marco Manotta, Luigi Pirandello, Milano, Mondadori 1998, p. 152.

[42] Vedi Annamaria Andreoli, Nel laboratorio di Pirandello, in TS, p. 159. Il testo a cui si riferisce la Andreoli è in verità Quand’ero matto [1902], che contiene però concetti concordanti con quelli dei lacerti trascritti sopra.

Solo che di d’Annunzio andrebbe anche o piuttosto deferito, nel caso, anche, il Meriggio di Alcyone. E infatti «Non ho più nome», esclama il suo soggetto subito proseguendo:

E sento che il mio vólto s’indora nell’oro meridiano
e che la mia bionda barba riluce
come la paglia marina; sento che il lido rigato con sì delicato
lavoro dall’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come il cavo della mia mano ove il tatto s’affina.

E la mia forza supina si stampa nell’arena, diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è il mio pube,
la nube è il mio sudore.

E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca
del ginepro: io sono nel fuco, nella paglia marina,
in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane.

Ardo, riluco.
E non ho più nome. [        ]
Non ho più nome né sorte
tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte.

E la mia vita è divina. [43]

Al soggetto che si dissolve destrutturato nel cosmo, al soggetto che nell’Ode a Nietzsche canta i

silenzii eterni
ove si celano le norme
del ritorno e del divenire, [44]

a questo soggetto è inibito il nome, segno di un Io ormai rimosso e sublimato in un tutto

ove tutte le forme
dell’essere s’aprono in misteri ineffabili e la morte è vita
e la vita è morte. [45]

[43] Versi d’amore e di gloria, II, Laudi del Cielo del Mare della Terra e degli Eroi, Milano, Mondadori 198011, pp. 642-3.
[44] Per la morte di un distruttore, in Elettra, ivi, p. 476.
[45] Ibid.

A maggior ragione l’ipotesi panica appare poi fondata, se il panismo (si è detto anche panteismo) [46] non esclude un affluente culturale, diverso ma non incompatibile: la dottrina teosofica, di cui Pirandello fu amateur non inerte.

[46] Vedi in merito Claudio Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano, Mursia 1970, pp. 49 sgg.

Alludo precisamente al rovesciamento che si è del resto appena colto in flagrante anche nell’Ode a Nietzsche: il rovesciamento del concetto di morte in concetto di vita – vita autentica e piena. Se ne trova una esposizione in La Mort e l’Au-delà. Premesso che «pendant la brève periode de temps à laquelle nous donnons le nome de “Vie”» spira nell’organismo umano il «Souffle de Vie universel» l’autrice, Annie Besant, conclude che questo Soffio ritorna poi al «grand réservoir de la vie universelle»: «lorsqu’il a perdu les corps qui formaient son enveloppe extérieure», spiega il testo, il soffio «se mêle de nouveau à la vie universelle». [47]

[47] Cfr. Annie Besant, La Mort et l’Au-delà, Paris, Publications de la Societé Théosophique 1896, pp. 18 e 50. Pirandello parla spessissimo di «soffio», intitolando anzi ad esso la novella già menzionata. Egli intende però di massima il soffio che spegne la vita o la brevità della vita. Raramente parla in modo non inconciliabile con il testo teosofico, come quando il «soffio» appare quello con cui Dio imprime la vita (I vecchi e i giovani, in R, II, p. 456).

Se Pirandello conosceva certamente La Mort et l’Au-delà (ne fa menzione Mattia Pascal) non sorprende che in Scienza e critica estetica trascrivesse e sottoscrivesse una testimonianza di Gaetano Negri. (E aggiungo incidentalmente, a documentare una cultura relativamente diffusa, che l’articolo era uscito sul «Marzocco» nel 1900, l’anno successivo a un intervento col quale il Conti, sullo stesso «Marzocco», aveva illustrato la mediazione del panteismo induista proposta da Paul Deussen, amico di gioventù di Nietzsche). [48]

[48] La filosofia delle Upanishad, in «Il Marzocco» del 29 ottobre 1899. L’articolo di Conti sul Deussen, con il quale egli ebbe cordiale intrinsichezza, si poneva al margine di un convegno di orientalisti (Firenze 1899) che suscitò ampio interesse negli ambienti culturali.

Del pari che la letteratura teosofica, Negri si ragguagliava, menzionando il Gange e l’Indo, al pensiero e alle religioni orientali per suggerire che «forse, non esiste che una infinita coscienza universale , donde siamo venuti e a cui ritorneremo». [49]

[49] L’articolo Scienza e critica estetica è recuperato in Gosta Andersson, Arte e teoria. Studi sulla poetica del giovane Pirandello, Stockholm, Almqvist & Wilksell 1966, pp. 225-9. Il breve frammento del Negri è in Segni dei tempi. Profili e bozzetti, Milano, Hoepli 1893, p. 299. Vedi in merito Giuseppe Nava, Arte e scienza nella saggistica di Pirandello, nel volume collettaneo Pirandello saggista, a cura di Paola Daniela Giovanelli, Palermo, Palumbo 1982, pp. 190-1 (il quale giustamente rileva la contraddizione tra la concezione della frammentarietà dell’Io e il ricorso alla unità della coscienza universale). Si osservi che come la cultura teosofica, nel suo sincretismo, accoglie cospicue suggestioni del pensiero e delle religioni orientali, il Negri (non a caso il Croce individuò in lui un certo «panteismo»: La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza 19646, p. 289) aveva da parte sua premesso che «sin dagli albori della sapienza umana, quei vetusti pensatori che sulle rive del Gance e dell’Indo, si sprofondavano nella contemplazione dell’universo, avevano intuito il concetto dell’essenziale solidarietà di tutte le manifestazioni vitali. Essi sentivano» aggiungeva il Negri «che l’individuo, apparendo, non si distaccava, non si isolava, direi così, dal fondo di sostanza vitale da cui era emerso, ma vi restava radicato, come parte di un tutto» (pp. 285-6). E sono concetti tutti compatibili con quelli teosofici, peraltro, come attestano le autorità deferite, ben presenti nella cultura del tempo.

Più tardi il Fu Mattia Pascal avrebbe contestato a sua volta, rettificando appena il Negri, che la nostra vita resti “come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento di esilio che ci angoscia”. [50] E sono sì parole di un «ascritto alla scuola teosofica» come il signor Paleari, lettore confesso della Besant; [51] ma che nell’Umorismo l’Autore ripeterà alla lettera assumendosene la responsabilità in prima persona. [52]

[50] R, I, p. 487.  [51] Ivi, p. 435. [52] S, p. 155.

Ebbene: come Tommasino Unzio, smarrendosi tra cielo nuvole sole vento, aspirava alla propria reintegrazione nella vita universale, dimensione di cose «impassibili» agli aspetti «vani e transitori» della esistenza, così Vitangelo Moscarda vagheggiava di smemorarsi nell’universo tra alberi fili d’erba nuvole vento. E in una tale «lontananza», affrancati entrambi da ricordi e identità, entrambi dissolti nel «flusso continuo» e «indistinto» cui aspirava tra numerosi altri il protagonista della Trappola [1912], [53] avrebbero entrambi recuperato, insieme con l’originaria nudità, una condizione priva di maschere anagrafiche, di generalità, di nomi.

[53] N, I, pp. 775-83. «Tutto ciò che si toglie allo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte./ Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai». Si rammenti anche un brano dell’Umorismo:
«La vita è un flusso continuo che noi cerchiamo d’arrestare, di fissare in forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi già siamo forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento, già a poco a poco rallentato, non cessi» (S, p. 153).

Si capisce allora perché siano tutti anonimi i protagonisti delle novelle menzionate sopra, dico La vittoria delle formiche, Mentre il cuore soffriva, Un’idea, La casa dell’agonia, Di sera, un geranio, Soffio, Una giornata. Essi sono colti in prossimità o nel corso dell’evasione dal carcere del corpo e del nome. Appena fuori da tal carcere, secondo la dottrina teosofica, attorno alla persona defunta volteggia il suo doppio astrale: si disgregherà rapidamente per trasformarsi in un fantasma che si consuma più o meno lentamente nel limbo teosofico di cui riferiva Mattia Pascal, [54] il kama loka, donde trapasserà poi alla «lontananza» della «vita universale» illustrata dalla Besant e dal Negri, e agognata da Tommasino Unzio e Vitangelo Moscarda, oltre che da loro omologhi e colleghi.

[54] R, I, p. 439: «Mi trovavo ora coi libri d’Anselmo Paleari tra le mani, e questi m’insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione, nei “gusci” del Kâmaloka, specialmente i suicidi, che il signor Leadbeater, autore del Plan Astral (premier degré du monde invisible, d’après la théosophie), raffigura come eccitati da ogni sorta d’appetiti umani, a cui non possono soddisfare, sprovvisti come sono del corpo carnale, ch’essi però ignorano d’aver perduto».

Non a caso, allora, nell’atto unico All’uscita, apparso poco dopo i Colloquii, sono in scena fantasmi, che nei pressi dei propri corpi tumulati, indugiano in attesa di dileguarsi nel «flusso continuo» della «vita universale». Ed è degno di nota che si tratti di «Apparenze» tutte senza nome, [55] tanto più che una autorità diversissima, ma nata come Pirandello negli anni Sessanta, il Croce, avrebbe presto detto che la «nostra individualità» è solo una «parvenza fissata da un nome», talché, se la vita non è che un «correre alla morte», o meglio alla «morte dell’individualità», [56] insieme con l’individualità si estinguerà anche il nome. Si tralasci se si tratti di convergenze sintomatiche mosse dal cosiddetto Zeitgeist o magari di altro. Resta che alle «Apparenze» senza nome Pirandello adibiva il celebre ossimoro di «maschere nude». E se questa è l’epigrafe sotto cui si rifugia il suo teatro, la formula appartiene di diritto (come attesta l’Avvertenza del Fu Mattia Pascal) [57] ad ogni personaggio che deponga la maschera: non solo drammaturgico, ma anche narrativo.

[55] Sono in verità privi di nome (per contagio?) anche i cosiddetti «Aspetti della vita».
[56] Frammenti di etica, Bari, Laterza 1922, p. 24.
[57] L’Autore confessa che i «personaggi» scoprono il loro «nudo volto individuale» sotto la «maschera» e che, cadute le finzioni, la «maschera» si scopre «nuda» (R, I, pp. 583-4).

Tant’è che la Madre, «ombra» senza nome accorsa «da lontano lontano», Madre e basta, è appena morta, si è appena convertita in maschera nuda, e già è assunta a interlocutrice del narratore dei Colloquii, che se sono coi personaggi, Personaggi in quanto tali, la promuovono eo ipso al rango degli stessi:

E m’è avvenuto, accostandomi per la prima volta all’angolo della stanza ove già le ombre cominciavano a vivere, di trovarvene una che non m’aspettavo, ombra solo da jeri.

– Ma come, Mamma? Tu qui? [58]

[58] N, III, pp. 1138-53.

E detto ciò, non sorprende che anche l’altro personaggio dei Colloquii, un ometto petulante, resti infine, come sappiamo, anonimo: anche lui è una maschera nuda. Vero è che non si avvia, come nemmeno la Madre, verso la «lontananza» della «vita universale». Come la Madre proviene però da un mondo – si rammenti che è un «limbo» astrale anch’esso – similmente alieno e riluttante alla anagrafe e ai nomi, similmente «fuori delle transitorie contingenze del tempo». Lo sappiamo: del pari che il dottor Scoto e il dottor Fileno, anche l’ometto è, come la Madre, Personaggio autoreferenziale. Solo che ora Pirandello, sciogliendo in senso negativo le perplessità del dottor Fileno innanzi al nome proprio, ha maturato l’intuizione che a tale classe di creature fittive possa pertenere l’anonimia. Si ricorda d’altra parte il sentenzioso Perazzetti? «Ma, signori miei, che cosa è un nome? Non è una cosa seria» diceva. [59]

[59] Ivi, pp. 123-31.

Laddove se stiamo a Bontempelli il Personaggio è invece «l’inconfondibile, l’immodificabile, l’indistruttibile, l’eterno»: [60] puro spirito che in quanto tale si vedrà subito che non ammette nome.

[60] «La persona umana» osservò Bontempelli «ogni volta che, nella smania d’una certezza di sé, cerca di comunicarsi alle altre persone, si sente riprecipitare nell’informe, perché percepisce che ognuno di quelli ricrea lei a sua propria immagine; e la ripetizione infinita equivale a solitudine assoluta. Amleto dubita che sia vuoto l’aldilà; l’uomo di Pirandello (una volta che col suo peso mortale ha trascinato le ultime conseguenze dell’idealismo a scivolare dal piano teoretico giù nel piano empirico) l’uomo di Pirandello si fa certo che è vuoto l’aldiquà. Allora la persona, per riempire in modo sicuro la scena del mondo, ha inventato il personaggio. […] Col personaggio l’umanità ha ritrovato l’inconfondibile, l’immodificabile, l’indistruttibile, l’eterno» (Pirandello o del candore [1937], in Opere scelte, a cura di Luigi Baldacci, Milano, Mondadori 1978, pp. 822-3.

*******

Il caso dei Sei Personaggi

È però con i Sei che l’intuizione suddetta raggiungerà lo zenit. Nelle didascalie e nella Prefazione seriore, scritta in collaborazione con il figlio Stefano, Pirandello parla infatti dei Sei senza mai indicare alcun nome. [61]

[61] MN, II, pp. 653-67.

«Creature» dello «spirito», sono essi stessi spirito, realtà spirituali. Una circostanza che a contatto con un brano di Uno, nessuno e centomila assume valore di indizio. Vero è che il suo soggetto fittivo ha un nome conforme alla vita da angelo nella quale si sublimerà concludendo come puro «spirito»; ma egli non tollera nemmeno questo nome, lo considera un vincolo eccessivo per uno spirito. Tant’è vero che, quando la sua individualità sarà ormai «non distinta e non definita», risolta appunto in «spirito», egli non sarà più «cosa» suscettibile di «nome».

Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. [62]

[62] R, II, p. 901.

Questo è il pensiero del narratore del romanzo. Il suo lungo soliloquio incominciava del resto con la riflessione:

Non aveva mica un nome per sé il mio s p i r i t o , né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. [63]

[63] Ivi, pp. 786-7. Sul “soliloquio” di Moscarda resta fondamentale Marziano Guglielminetti, Il soliloquio di Pirandello, in Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo novecento [1964], Milano, Silva 1967.

Posto che lo «spirito» in quanto tale sia incline alla anonimia, la Madre fa però eccezione. Quando il Capocomico accenna alla necessità di «trovarle un nome», fin dal ’21 ne compare uno che nell’immaginario di Pirandello era parso più volte congruo alla funzione materna:

«Amalia, signore» si affretta a proporre il Padre. È dunque lui, non l’Autore, che prende in carico la responsabilità della nominazione. Che si spiega alla luce del dialogo seguente:

IL CAPOCOMICO Ma questo è il nome della sua signora. Non vorremo mica chiamarla col suo vero nome!

IL PADRE. E perché no, scusi? Se si chiama così… Ma già se dev’essere la signora… (Accennerà appena con la mano alla Seconda Donna)

               Io vedo questa (accennerà alla Madre) come Amalia, signore. Ma faccia lei…

               Si smarrirà sempre più.

               Non so più che dirle… Comincio già… che so, a sentir come false, con un altro suono, le mie stesse parole. [64]

[64] MN, II, pp. 711-2. Nell’Onda [1894], nel Dovere del medico [1902], in Chi fu?, in Così è (se vi pare) [1918] il nome di Amalia è sempre attribuito a una madre. Soltanto in Quand’ero matto appartiene alla Sanni. Che però, informa il narratore, è «la sorella maggiore e vorrei dire la madre di Mirina» (N, II, pp. 781-801).

Nella strategia del testo la nominazione della Madre sembra allora essere meramente strumentale, volta cioè a marcare un divario: il divario tra la finzione della scena, ove le «parole» risuonano «false», e la verità dell’arte detenuta dai Personaggi (della giuntura «vero nome» è l’attributo che importa, non il sostantivo). Nessuno più farà poi quel nome, men che meno l’Autore, che tanto nelle didascalie quanto tra le dramatis personae, indica la Madre sempre e soltanto come tale: «Madre» e basta. Certo, la Prefazione dichiara:

la sua parte di Madre non comporta per sé stessa, nella sua “naturalità”, movimenti spirituali; ed ella non vive come spirito; vive in una continuità di sentimento che non ha mai soluzione, e perciò non può acquistare coscienza della sua vita, che è quanto dire del suo esser personaggio. […] È, insomma, natura. Una natura fissata in una figura di madre.

Non si esclude che il frammento possa suggerire, se non nelle intenzioni in fatto, un rapporto di causalità tra presenza del nome e assenza dello «spirito». Ma intanto si tratta di una sovrapposizione a-posteriori e peraltro apocrifa, della quale è perciò lecito diffidare; in secondo luogo (e soprattutto) non sarebbe troppo compatibile con il suo contesto. A parte la menzionata affermazione di suo padre («Creature del mio spirito»), Stefano Pirandello aggiunge infatti della Madre fittiva che appare sì «priva di spirito», ma solo perché «incosciente d’essere quello che è»; e che comunque «il fatto d’ignorare d’esser personaggio non le toglie già d’esserlo», di essere cioè realtà spirituale. L’ipotesi non farebbe allora aggio sulla predetta pista interpretativa offerta dal Padre, a maggior ragione se questa è corroborata dalle modalità di un’altra eccezione contenuta fin dallo stesso testo del ’21: quella relativa alla Bambina, alla quale ancora un Personaggio, la Figliastra, e solo lei, si rivolge apostrofandola per nome:

Siamo su un palcoscenico, cara! Che cos’è un palcoscenico? Mah, vedi? Un luogo dove si giuoca a far sul serio. Ci si fa la commedia. E noi faremo ora la commedia. Sul serio, sai! Anche tu… […] Oh amorino mio, amorino mio, che brutta commedia farai tu! che cosa orribile è stata pensata per te! Il giardino, la vasca… Eh, finta, si sa! Il guajo è questo, carina: che tutto è f i n t o , qua! Ah, ma già forse a te, bambina, piace più una vasca finta che una vera; per poterci giocare, eh? Ma no, sarà per gli altri un gioco; non per te, purtroppo, che sei vera, amorino, e che giochi per davvero in una vasca vera, bella, grande, verde, con tanti bambù che vi fanno l’ombra, specchiandovisi, e tante anatrelle che vi nuotano sopra, rompendo quest’ombra. Tu la vuoi acchiappare, una di queste anatrelle… […] no, Rosetta mia, no! [65]

[65] MN, II, p. 751. Rosetta è anche una bambina di Pena di vivere così, novella apparsa la prima volta nel 1920, lo stesso periodo della elaborazione di Sei personaggi. Se ha quasi cinque anni («deve ancora compirli») e per lei, in alternativa a quello nero, si propone un vestitino «Bianco, con un bel fascione di seta nera in mezzo» (N, II, p. 244), l’altra di Sei personaggi «ha circa quattro anni» ed è «vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita» in segno di lutto (MN, p. 679).

L’apostrofazione sorprende lo spettatore o lettore una sola volta, per di più come se alla Figliastra sfuggisse. E per quel che si è detto, è sintomatico che sfugga subito dopo la proclamazione della verità del Personaggio («sei vera») rispetto alla finzione della scena («è tutto finto, qua»). L’Autore, invece, il nome della Bambina non lo farà mai, né tra le dramatis personae né nelle didascalie: come i suoi familiari, anche lei è “spirito”, talché resterà anche lei senza nome.

E Madama Pace allora? Al contrario dei Sei ha un nome. Ma va subito aggiunto che lei è decisamente diversa dagli altri. E poco interessa, se non perché marca già una differenza, se la sua è una espressione alloglottica (italo-ispanica come quella di due ambigui figuri del Fu Mattia Pascal: Antonio Pantogada e sua figlia Pepita). È invece degno di nota, intanto che ella non rientri nel novero dei Sei, che a differenza di lei cercano un autore («Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore»); in secondo luogo che, non deponendo mai la maschera, non detenga lo status suscettibile della suddetta epigrafe di Mschere nude; [66] infine (e soprattutto) che non sia Personaggio autoreferenziale. Ed è questo che rende plausibile che a lei l’Autore abbia dato, e con tanta evidenza, un nome.

[66] Posto che personaggi siano esclusivamente le «maschere nude», è ipotesi pertinente che Madama Pace sia «una maschera che non si denuderà mai, e perciò non diverrà mai personaggio» (Nino Borsellino, Madama Pace e altre maschere del demoniaco, nel volume collettaneo Pirandello e l’oltre, a cura di Enzo Lauretta, Milano, Mursia 1991, p. 90).

I Sei non rappresentano invece – il pubblico lo sa bene – le persone reali che agli occhi del pubblico stesso dovrebbero essere i personaggi di un mondo possibile. Il pubblico sa bene che essi sono finzioni confesse, fantasmi dell’immaginario privi di nome, «maschere nude» per antonomasia. [67]

[67] Sul concetto di «mondo possibile» e sulla sua storia vedi Lubomír Dolezel, Heterocosmica. Fiction and Possible Worlds [1998], trad it. Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, Milano, Bompiani 1999.

Fin da quando entrano in sala palesano essi stessi, tra l’incredulità dei Comici, di essere Personaggi («personaggi che s’annunziano per tali» premetteva la Prefazione). Se il mondo possibile è invalidato da finzioni che non dissimulano, ma ostentano la propria natura, se l’oltranza «antillusionistica» che segna così il lavoro ne annulla la referenzialità, [68] è a questo medesimo effetto che cospira l’«assenza di nome», poiché se è vero ciò che ebbe a dire Roland Barthes, essa provoca a sua volta «una deflazione capitale della illusione realistica». [69]

[68] Cesare Segre, La comunicazione teatrale in Pirandello [1986], in Intrecci di voci, Torino, Einaudi 1991, p. 45. Un Foglietto condannava peraltro duramente il realismo. «I realisti» osservava parafrasando un estetologo compulsatissimo (Gabriel Séailles, Essai sur le génie dans l’art, Paris, Baillière et C.ie 1883, p. 161) «limitano l’arte all’imitazione pura e semplice della natura: non pretendono di dir nulla: vogliono rappresentare tal quale la natura. Ne segue che il capolavoro dei capolavori sarà l’immagine ridata da uno specchio» (S. p. 1261).

[69] Roland Barthes, S/Z [1970], trad. it. S/Z, Torino, Einaudi 1973, p. 90. (L’espressione si riferisce al narratore proustiano).

Ecco la traccia profonda che imprimono queste anonimie sul lavoro: uno svuotamento dall’interno della rappresentazione realistica, l’avvertimento previo che la finzione a cui il pubblico assiste a teatro non è che «l’illusione d’una realtà» – come dice il Capocomico. [70] Un’«illusione» – aggiunge il Padre – che è “l’unica nostra realtà” di Personaggi. [71] «Meno reali, forse; ma più veri!» [72]

[70] MN, II, p. 739.  [71] Ivi, p. 740.  [72] Ivi, p. 681.

E alludeva alla verità ideale dei Personaggi del testo, non dei Personaggi tradotti e traditi da attori sulla scena. [73]

[73] Sugli attori come traduttori (e traditori) del testo vedi Illustratori, attori e traduttori, cit. alla nota 14.

Angelo Raffaele Pupino
Febbraio 2000

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