072. Niente – Novella

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Prime pubblicazioni: Il Mondo, 16 aprile 1922, poi in La mosca, Bemporad, Firenze 1923.
«Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un’immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all’entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso.»

Novella dalla Raccolta “La mosca” (1923)

««« Introduzione alle novelle

Auf Deutsch – Nichts

Niente
Incisione del 1719 raffigurante Alceste (a sinistra), protagonista de Il misantropo di Moliere

Niente – Audio lettura 1 – Legge Gaetano Marino
Niente – Audio lettura 2 – Legge Giuseppe Tizza
Niente – Audio lettura 3 – Legge Valter Zanardi

12. Niente – 1922

             La botticella che corre fragorosa nella notte per la vasta piazza deserta, si ferma davanti al freddo chiarore d’una vetrata opaca di farmacia all’angolo di via San Lorenzo. Un signore impellicciato si lancia sulla maniglia di quella vetrata per aprirla. Piega di qua, piega di là – che diavolo? – non s’apre.

             –    Provi a sonare, – suggerisce il vetturino.

             –    Dove, come si suona?

             –    Guardi, c’è lì il pallino. Tiri. Quel signore tira con furia rabbiosa.

             –    Bell’assistenza notturna!

             E le parole, sotto il lume della lanterna rossa, vaporano nel gelo della notte, quasi andandosene in fumo.

             Si leva lamentoso dalla prossima stazione il fischio d’un treno in partenza. Il vetturino cava l’orologio; si china verso uno dei fanaletti; dice:

             – Eh, vicino le tre…

             Alla fine il giovine di farmacia, tutto irto di sonno, col bavero della giacca tirata fin sopra gli orecchi, viene ad aprire. E subito il signore:

             – C’è un medico?

             Ma quegli, avvertendo sulla faccia e sulle mani il gelo di fuori, dà indietro, alza le braccia, stringe le pugna e comincia a stropicciarsi gli occhi, sbadigliando:

             – A quest’ora?

             Poi, per interrompere le proteste dell’avventore, il quale – ma sì, Dio mio, sì – tutta quella furia, sì, con ragione: chi dice di no? – ma dovrebbe pure compatire chi a quell’ora ha anche ragione d’aver sonno – ecco, ecco, si toglie le mani dagli occhi e prima di tutto gli fa cenno d’aspettare; poi, di seguirlo dietro il banco, nel laboratorio della farmacia.

             Il vetturino intanto, rimasto fuori, smonta da cassetta e vuole prendersi la soddisfazione di sbottonarsi i calzoni per far lì apertamente, al cospetto della vasta piazza deserta tutta intersecata dai lucidi binarti delle tramvie, quel che di giorno non è lecito senza i debiti ripari.

             Perché è pure un piacere, mentre qualcuno si dibatte in preda a qualche briga per cui deve chiedere agli altri soccorso e assistenza, attendere tranquillamente, così, alla soddisfazione d’un piccolo bisogno naturale, e veder che tutto rimane al suo posto: là, quei lecci neri in fila che costeggiano la piazza, gli alti tubi di ghisa che sorreggono la trama dei fili tramviari, tutte quelle lune vane in cima ai lampioni, e qua gli uffici della dogana accanto alla stazione.

             Il laboratorio della farmacia, dal tetto basso, tutto scaffalato, è quasi al bujo e appestato dal tanfo dei medicinali. Un sudicio lumino a olio, acceso davanti a un’immagine sacra sulla cornice dello scaffale dirimpetto all’entrata, pare non abbia voglia di far lume neanche a se stesso. La tavola in mezzo, ingombra di bocce, vasetti, bilance, mortai e imbuti, impedisce di vedere in prima se sul logoro divanuccio di cuojo, là sotto a quello scaffale dirimpetto all’entrata, sia rimasto a dormire il medico di guardia.

             –    Eccolo, c’è – dice il giovine di farmacia, indicando un pezzo d’omone che dorme penosamente, tutto aggruppato e raffazzonato, con la faccia schiacciata contro la spalliera.

             –    E lo chiami, perdio!

             –    Eh, una parola! Capace di tirarmi un calcio, sa?

             –    Ma è medico?

             –    Medico, medico. Il dottor Mangoni.

             –    E tira calci?

             –    Capirà, svegliarlo a quest’ora…

             –    Lo chiamo io!

             E il signore, risolutamente, si china sul divanuccio e scuote il dormente.

             –   Dottore! dottore!

             Il dottor Mangoni muggisce dentro la barbaccia arruffata che gl’invade quasi fin sotto gli occhi le guance; poi stringe le pugna sul petto e alza i gomiti per stirarsi; in fine si pone a sedere, curvo, con gli occhi ancora chiusi sotto le sopracciglia spioventi. Uno dei calzoni gli è rimasto tirato sul grosso polpaccio della gamba e scopre le mutande di tela legate all’antica con una cordellina sulla rozza calza nera di cotone.

             –    Ecco, dottore… subito, la prego, – dice impaziente il signore. – Un caso d’asfissia…

             –    Col carbone? – domanda il dottore, volgendosi ma senza aprir gli occhi. Alza una mano a un gesto melodrammatico e, provandosi a tirar fuori la voce dalla gola ancora addormentata, accenna l’aria della «Gioconda»: Suicidio? In questi fìeeeriii momenti…

             Quel signore fa un atto di stupore e d’indignazione: Ma il dottor Mangoni, subito, arrovescia indietro il capo e incignando ad aprire un occhio solo:

             –    Scusi, – dice, – è un suo parente?

             –    Nossignore! Ma la prego, faccia presto! Le spiegherò strada facendo. Ho qui la vettura. Se ha da prendere qualche cosa…

             –    Sì, dammi… dammi… – comincia a dire il dottor Mangoni, tentando d’alzarsi, rivolto al giovine di farmacia.

             –    Penso io, penso io, signor dottore, – risponde quello, girando la chiavetta della luce elettrica e dandosi attorno tutt’a un tratto con una allegra fretta che impressiona l’avventore notturno.

             Il dottor Mangoni storce il capo come un bue che si disponga a cozzare, per difendersi gli occhi dalla subita luce.

             –   Sì, bravo figliuolo, – dice. – Ma mi hai accecato. Oh, e il mio elmo? dov’è?

             L’elmo è il cappello. Lo ha, sì. Per averlo, lo ha: positivo. Ricorda d’averlo posato, prima d’addormentarsi, su lo sgabello accanto al divanuccio, dov’è andato a finire?

             Si mette a cercarlo. Ci si mette anche l’avventore; poi anche il vetturino, entrato a riconfortarsi al caldo della farmacia E intanto il commesso farmacista ha tutto il tempo di preparare un bel paccone di rimedii urgenti.

             –    La siringa per le iniezioni, dottore, ce l’ha?

             –    Io? – si volta a rispondergli il dottor Mangoni con una maraviglia che provoca in quello uno scoppio di risa.

             –    Bene bene. Dunque, si dice, carte senapate. Otto, basteranno? Caffeina, stricnina. Una Pravaz. E l’ossigeno, dottore? Ci vorrà pure un sacco d’ossigeno, mi figuro.

             –    Il cappello ci vuole! il cappello! il cappello prima di tutto! – grida tra gli sbuffi il dottor Mangoni. E spiega che, tra l’altro, c’è affezionato lui a quel cappello, perché è un cappello storico: comperato circa undici anni addietro in occasione dei solenni funerali di Suor Maria dell’Udienza, superiora del ricovero notturno al vicolo del Falco, in Trastevere, dove si reca spesso a mangiare ottime ciotole di minestra economica, e a dormire, quando non è di guardia nelle farmacie.

             Finalmente il cappello è trovato, non lì nel laboratorio ma di là, sotto il banco della farmacia. Ci ha giocato il gattino.

             L’avventore freme d’impazienza. Ma un’altra lunga discussione ha luogo, perché il dottor Mangoni, con la tuba tutta ammaccata tra le mani, vuole dimostrare che il gattino, sì, senza dubbio, ci ha giocato, ma che anche lui, il giovine di farmacia, le ha dovuto dare col piede, per giunta, una buona acciaccata sotto il banco. Basta. Un gran pugno allungato dentro la tuba, che per miracolo non la sfonda, e il dottor Mangoni se la butta in capo su le ventitré.

             –    Ai suoi ordini, pregiatissimo signore!

             –    Un povero giovine, – prende a dir subito il signore rimontando sulla botticella e stendendo la coperta su le gambe del dottore e su le proprie.

             –    Ah, bravo! Grazie.

             –    Un povero giovine che m’era stato tanto raccomandato da un mio fratello, perché gli trovassi un collocamento. Eh già, capisce? come se fosse la cosa più facile del mondo: t-o-to, fatto. La solita storia. Pare che stiano all’altro mondo, quelli della provincia: credono che basti venire a Roma per trovare un impiego: t-o-to, fatto. Anche mio fratello, sissignore! m’ha fatto questo bel regalo. Uno dei soliti spostati, sa: figlio d’un fattore di campagna, morto da due anni al servìzio di questo mio fratello. Se ne viene a Roma, a far che? niente, il giornalista, dice. Mi presenta i titoli: la licenza liceale e uno zibaldone di versi. Dice: «Lei mi deve trovar posto in qualche giornale». Io? Roba da matti! Mi metto subito in giro per fargli ottenere il rimpatrio dalla questura. E intanto, potevo lasciarlo in mezzo alla strada, di notte? Quasi nudo, era; morto di freddo, con un abituccio di tela che gli sventolava addosso; e due o tre lire in tasca: non più di tanto. Gli do alloggio in una mia casetta, qua, a San Lorenzo, affittata a certa gente… lasciamo andare! Gentuccia che subaffitta due camerette mobiliate. Non mi pagano la pigione da quattro mesi. Me n’approfitto; lo ficco lì a dormire. E va bene! Passano cinque giorni; non c’è verso d’ottenere il foglio di rimpatrio dalla questura. La meticolosità di questi impiegati: come gli uccelli, sa? cacano da per tutto, scusi! Per rilasciare quel foglio debbono far prima non so che pratiche là, al paese; poi qua alla questura. Basta: questa sera ero a teatro, al Nazionale. Viene, tutto spaventato, il figlio della mia inquilina a chiamarmi a mezzanotte e un quarto, perché quel disgraziato s’era chiuso in camera, dice, con un braciere acceso. Dalle sette di sera, capisce?

             A questo punto il signore si china un poco a guardare nel fondo della vettura il dottore che, durante il racconto, non ha più dato segno di vita. Temendo che si sia riaddormentato, ripete più forte:

             –    Dalle sette di sera!

             –    Come trotta bene questo cavallino, – gli dice allora il dottor Mangoni, sdrajato voluttuosamente nella vettura.

             Quel signore resta, come se al bujo abbia ricevuto un pugno sul naso.

             –    Ma scusi, dottore, ha sentito?

             –    Sissignore.

             –    Dalle sette di sera. Dalle sette a mezzanotte, cinque ore.

             –    Precise.

             –    Respira però, sa! Appena appena. È tutto rattrappito, e…

             –    Che bellezza! Saranno… sì, aspetti, tre… no, che dico tre? cinque anni saranno almeno, che non vado in carrozza. Come ci si va bene!

             –    Ma scusi, io le sto parlando…

             –    Sissignore. Ma abbia pazienza, che vuole che m’importi la storia di questo disgraziato?

             –    Per dirle che sono cinque ore…

             –    E va bene! Adesso vedremo. Crede lei che gli stia rendendo un bel servizio?

             –    Come?

             –    Ma sì, scusi! Un ferimento in rissa, una tegola sul capo, una disgrazia qualsiasi… prestare ajuto, chiamare il medico, lo capisco. Ma un pover uomo, scusi, che zitto zitto si accuccia per morire?

             – Come! – ripete, vieppiù trasecolato, quel signore. E il dottor Mangoni, placidissimo:

             –    Abbia pazienza. Il più l’aveva fatto, quel poverino. Invece del pane, s’era comperato il carbone. Mi figuro che avrà sprangato l’uscio, no? otturato tutti i buchi; si sarà magari alloppiato prima; erano passate cinque ore; e lei va a disturbarlo sul più bello!

             –    Lei scherza! – grida il signore.

             –    No no; dico sul serio.

             –    Oh perdio! – scatta quello. – Ma sono stato disturbato io, mi sembra! Sono venuti a chiamarmi…

             –    Capisco, già, a teatro.

             –    Dovevo lasciarlo morire? E allora, altri impicci, è vero? come se fossero pochi quelli che m’ha dati. Queste cose non si fanno in casa d’altri, scusi!

             –    Ah, sì, sì; per questa parte, sì, ha ragione, – riconosce con un sospiro il dottor Mangoni. – Se ne poteva andare a morire fuori dai piedi, lei dice. Ha ragione. Ma il letto tenta, sa! Tenta, tenta. Morire per terra come un cane… Lo lasci dire a uno che non ne ha!

             –    Che cosa?

             –    Letto.

             –    Lei?

             Il dottor Mangoni tarda a rispondere. Poi, lentamente, col tono di chi ripete una cosa già tant’altre volte detta:

             – Dormo dove posso. Mangio quando posso. Vesto come posso. E subito aggiunge:

             – Ma non creda oh, che ne sia afflitto. Tutt’altro. Sono un grand’uomo, io, sa? Ma dimissionario.

             Il signore s’incuriosisce di quel bel tipo di medico in cui gli è avvenuto così per caso d’imbattersi; e ride, domandando:

             –    Dimissionario? Come sarebbe a dire dimissionario?

             –    Che capii a tempo, caro signore, che non metteva conto di nulla. E che anzi, quanto più ci s’affanna a divenir grandi, e più si diventa piccoli. Per forza. Ha moglie lei, scusi?

             –    Io? Sissignore.

             –    Mi pare che abbia sospirato dicendo sissignore.

             –    Ma no, non ho sospirato affatto.

             –    E allora, basta. Se non ha sospirato, non ne parliamo più.

             E il dottor Mangoni torna a rannicchiarsi nel fondo della vettura, dando a vedere così che non gli pare più il caso di seguitare la conversazione. Il signore ci resta male.

             – Ma come c’entra mia moglie, scusi?

             Il vetturino a questo punto, si volta da cassetta e domanda:

             –    Insomma, dov’è? A momenti siamo a Campoverano!

             –    Uh, già! – esclama il signore. – Volta! volta! La casa è passata da un pezzo.

             –    Peccato tornare indietro, – dice il dottor Mangoni, – quando s’è quasi arrivati alla meta.

             Il vetturino volta, bestemmiando.

             Una scaletta buja, che pare un antro dirupato: tetra umida fetida.

             –    Ahi! Maledizione. Diòòòdiodio!

             –    Che cos’è? s’è fatto male?

             –    Il piede. Ahiahi. Ma non ci avrebbe un fiammifero, scusi?

             –    Mannaggia! Cerco la scatola. Non la trovo!

             Alla fine, un barlume che viene da una porta aperta sul pianerottolo della terza branca.

             La sventura, quando entra in una casa, ha questo di particolare: che lascia la porta aperta, così che ogni estraneo possa introdursi a curiosare.

             Il dottor Mangoni segue zoppicando il signore che attraversa una squallida saletta con un lumino bianco a petrolio per terra presso l’entrata; poi, senza chieder permesso a nessuno, un corridojo bujo, con tre usci: due chiusi, l’altro, in fondo, aperto e debolmente illuminato. Nello spasimo di quella storta al piede, trovandosi col sacco dell’ossigeno in mano, gli viene la tentazione di scaraventarlo alle spalle di quel signore; ma lo posa per terra, si ferma, s’appoggia con una mano al muro, e con l’altra, tirato su il piede, se lo stringe forte alla noce, provandosi a muoverlo in qua e in là, col volto tutto strizzato.

             Intanto, nella stanza in fondo al corridojo, è scoppiata, chi sa perché, una lite tra quel signore e gl’inquilini. Il dottor Mangoni lascia il piede e fa per muoversi, volendo sapere che cosa è accaduto, quando si vede venire addosso come una bufera quel signore che grida:

             – Sì, sì, da stupidi! da stupidi! da stupidi!

             Fa appena a tempo a scansarlo; si volta, lo vede inciampare nel sacco d’ossigeno:

             – Piano! piano, per carità!

             Ma che piano! Quello allunga un calcio al sacco; se lo ritrova tra i piedi; è di nuovo per cadere e, bestemmiando, scappa via, mentre sulla soglia della stanza in fondo al corridojo appare un tozzo e goffo vecchio in pantofole e papalina, con una grossa sciarpa di lana verde al collo, da cui emerge un faccione tutto enfiato e paonazzo, illuminato dalla candela stearica, sorretta in una mano.

             – Ma scusi… dico, o che era meglio allora, che lo lasciavamo morire qua, aspettando il medico?

             Il dottor Mangoni crede che si rivolga a lui e gli risponde:

             – Eccomi qua, sono io.

             Ma quello alza e protende la mano con la stearica; lo osserva, e come imbalordito gli domanda:

             –    Lei? chi?

             –    Non diceva il medico?

             –    Ma che medico! ma che medico! – insorge, strillando, nella camera di là, una voce di donna.

             E si precipita nel corridojo la moglie di quel degno vecchio in pantofole e papalina, tutta sussultante, con una nuvola di capelli grigi e ricci per aria, gli occhi affumicati ammaccati e piangenti, la bocca tagliata di traverso, oscenamente dipinta, che le freme convulsa. Sollevando il capo da un lato, per guardare, soggiunge imperiosa:

             – Se ne può andare! se ne può andare! Non c’è più bisogno di lei! L’abbiamo fatto trasportare al Policlinico, perché moriva!

             E cozzando in un braccio il marito violentemente:

             – Fallo andar via!

             Ma il marito dà uno strillo e un balzo perché, così cozzato nel braccio, ha avuto sulle dita la sgocciolatura calda della candela:

             – Eh, piano, santo Dio!

             Il dottor Mangoni protesta, ma senza troppo sdegno, che non è un ladro né un assassino da esser mandato via a quel modo; che se è venuto, è perché sono andati a chiamarlo in farmacia; che per ora ci ha guadagnato soltanto una storta al piede, per cui chiede che lo lascino sedere almeno per un momento.

             –    Ma si figuri, qua, venga, s’accomodi, s’accomodi, signor dottore, – s’affretta a dirgli il vecchio, conducendolo nella stanza in fondo al corridojo; mentre la moglie, sempre col capo sollevato da un lato per guardare come una gallina stizzita, lo spia impressionata da tutta quella feroce barba fin sotto gli occhi.

             –    Bada, oh, se per aver fatto il bene, – dice ora, ammansata, a mo’ di scusa, – ci si deve anche prendere i rimproveri!

             –    Già, i rimproveri, – soggiunge il vecchio, cacciando la candela accesa nel bocciuolo della bugia sul tavolino da notte accanto al lettino vuoto, disfatto, i cui guanciali serbano ancora l’impronta della testa del giovinetto suicida. Quietamente si toglie poi dalle dita le gocce rapprese, e seguita: – Perché dice che nossignori, non si doveva portare all’ospedale, non si doveva.

             –    Tutto annerito era! – grida, scattando, la moglie. – Ah, quel visino. Pareva succhiato. E che occhi! E quelle labbra, nere, che scoprivan qua, qua, i denti, appena appena. Senza più fiato…

             E si copre il volto con le mani.

             –    Si doveva lasciarlo morire senza ajuto? – ridomanda placido il vecchio. – Ma sa perché s’è arrabbiato? Perché sospetta, dice, che quel povero ragazzo sia un figlio bastardo di suo fratello.

             –    E ce l’aveva buttato qua, – riprende la moglie balzando in piedi di nuovo, non si sa se per rabbia o per commozione. – Qua, per far nascere in casa mia questa tragedia, che non finirà per ora, perché la mia figliuola, la maggiore, se n’è innamorata, capisce? Come una pazza, vedendolo morire – ah, che spettacolo! – se l’è caricato in collo, io non so com’ha fatto! se l’è portato via, con l’ajuto del fratello, giù per le scale, sperando di trovare una carrozza per istrada. Forse l’hanno trovata. E mi guardi, mi guardi là quell’altra figliuola, come piange.

             Il dottor Mangoni, entrando, ha già intraveduto nell’attigua saletta da pranzo una figliolona bionda scarmigliata intenta a leggere, coi gomiti sulla tavola e la testa tra le mani. Legge e piange, sì; ma col corpetto sbottonato e le rosee esuberanti rotondità del seno quasi tutte scoperte sotto il lume giallo della lampada a sospensione.

             Il vecchio padre, a cui il dottor Mangoni ora si volta come intronato, fa con le mani gesti di grande ammirazione. Sul seno della figliuola? No. Su ciò che la figliuola sta leggendo di là fra tante lagrime. Le poesie del giovinetto.

             – Un poeta! – esclama. – Un poeta, che se lei sentisse… Oh, cose! cose! Me ne intendo, perché professore di belle lettere a riposo. Cose grandi, cose grandi.

             E si reca di là per prendere alcune di quelle poesie, ma la figliuola con rabbia se le difende, per paura che la sorella maggiore, ritornando col fratello dall’ospedale, non gliele lascerà più leggere, perché vorrà tenersele per sé gelosamente, come un tesoro di cui lei sola dev’esser l’erede.

             – Almeno qualcuna di queste che hai già lette, – insiste timidamente il padre. Ma quella, curva con tutto il seno su le carte, pesta un piede e grida: – No! –

             Poi le raccoglie dalla tavola, se le ripreme con le mani sul seno scoperto e se le porta via in un’altra stanza di là.

             Il dottor Mangoni si volta allora a guardar di nuovo quella tristezza di lettino vuoto, che rende vana la sua visita; poi guarda la finestra che, non ostante il gelo della notte, è rimasta aperta in quella lugubre stanza per farne svaporare il puzzo del carbone.

             La luna rischiara il vano di quella finestra. Nella notte alta, la luna. Il dottor Mangoni se la immagina, come tante volte, errando per vie remote, l’ha veduta, quando gli uomini dormono e non la vedono più, inabissata e come smarrita nella sommità dei cieli.

             Lo squallore di quella stanza, di tutta quella casa, che è una delle tante case degli uomini, dove ballonchiano tentatrici, a perpetuare l’inconcludente miseria della vita, due mammelle di donna come quelle ch’egli ha or ora intravedute sotto il lume della lampada a sospensione nella stanza di là, gl’infonde un così frigido scoraggiamento e insieme una così acre irritazione, che non gli è più possibile rimanere seduto.

             Si alza, sbuffando, per andarsene. Infine, via, è uno dei tanti casi che gli sogliono capitare, stando di guardia nelle farmacie notturne. Forse un po’ più triste degli altri, a pensare che probabilmente, chi sa! era un poeta davvero quel povero ragazzo. Ma, in questo caso, meglio così: che sia morto.

             –   Senta, – dice al vecchio che s’è alzato anche lui per riprendere in mano la farmacia, dev’essere veramente un imbecille. Aspetti: mi lasci dire. Non già perché li ha rimproverati, ma perché gli ho domandato se aveva moglie, e mi ha risposto di sì; ma senza sospirare. Ha capito?

             Il vecchio lo guarda a bocca aperta. Evidentemente non capisce. Capisce la moglie, che salta su a domandargli: E il dottor Mangoni, pronto:

             – Come m’immagino che sospira lei, cara signora, se qualcuno le domanda se ha marito.

             E glielo addita. Poi riprende:

             – Scusi, a quel giovinetto, se non si fosse ucciso, lei avrebbe dato in moglie la sua figliuola?

             Quella lo guarda un pezzo, di traverso, e poi, come a sfida, gli risponde:

             –    E perché no?

             –    E se lo sarebbero preso qua con loro in questa casa? – torna a domandare il dottor Mangoni.

             E quella, di nuovo:

             –    E perché no?

             –    E lei, – domanda ancora il dottor Mangoni, rivolto al vecchio marito, – lei che se n’intende, professore di belle lettere a riposo, gli avrebbe anche consigliato di stampare quelle sue poesie?

             Per non esser da meno della moglie, il vecchio risponde anche lui:

             –    E perché no?

             –    E allora, – conclude il dottor Mangoni, – me ne dispiace, ma debbo dir loro, che sono per lo meno due volle più imbecilli di quel signore.

             E volta le spalle per andarsene.

             –   Si può sapere perché? – gli grida dietro la donna inviperita. Il dottor Mangoni si ferma e le risponde pacatamente:

             –   Abbia pazienza. Mi ammetterà che quel povero ragazzo sognava forse la gloria, se faceva poesie. Ora pensi un po’ che cosa gli sarebbe diventata la gloria, facendo stampare quelle sue poesie. Un povero, inutile volumetto di versi. E l’amore? L’amore che è la cosa più viva e più santa che ci sia dato provare sulla terra? Che cosa gli sarebbe diventato? L’amore: una donna. Anzi, peggio, una moglie: la sua figliuola.

             –    Oh! oh! – minaccia quella, venendogli quasi con le mani in faccia. – Badi come parla della mia figliuola!

             –    Non dico niente, – s’affretta a protestare il dottor Mangoni. – Me l’immagino anzi bellissima e adorna di tutte le virtù. Ma sempre una donna, cara signora mia: che dopo un po’, santo Dio, lo sappiamo bene, con la miseria e i figliuoli, come si sarebbe ridotta. E il mondo, dica un po’? Il mondo, dove io adesso con questo piede che mi fa tanto male mi vado a perdere; il mondo veda lei, veda lei, signora cara, che cosa gli sarebbe diventato! Una casa. Questa casa. Ha capito?

             E facendo scattar le mani in curiosi gesti di nausea e di sdegno, se ne va, zoppicando e borbottando:

             – Che libri! Che donne! Che casa! Niente… niente… niente… Dimissionario! dimissionario! Niente.

Auf Deutsch – Nichts

Raccolta La mosca
01 – La mosca – 1904
02 – L’eresia catara – 1905
03 – Le sorprese della scienza – 1905
04 – Le medaglie – 1904
05 – La Madonnina – 1913
06 – La berretta di Padova – 1902
07 – Lo scaldino – 1905
08 – Lontano – 1902
09 – La fede – 1922
10 – Con altri occhi – 1901
11 – Tra due ombre – 1907
12 – Niente – 1922
13 – Mondo di carta – 1909
14 – Il sonno del vecchio – 1906
15 – La distruzione dell’uomo – 1921

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