“Fiamma del diavolo che non consuma”. Marta Abba attrice “frigida”

Di Gigi Livio.

Marta Abba, poi, era antipatica un po’ a tutti i critici del tempo sia per il suo modo di recitare, sia per quel diffuso moralismo tendente a attribuire alla donna giovane che  fa delirare d’amore un uomo vecchio il ruolo di distruttrice di famiglie e di istigatrice alla perdizione.

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Marta Abba
Marta Abba

“Fiamma del diavolo che non consuma”.
Marta Abba attrice “frigida”

Dalla rivista “L’Asino di B.” 2006 – Undicesimo numero

da L’Asino Vola

       La Duse verso il novecento potrebbe essere il titolo di uno studio che, riecheggiandone un altro pasoliniano, dovrebbe proporsi di dar conto della necessità di partire da lì e cioè da chi, nella propria grandezza artistica, rappresenta il punto di partenza, se non di tutto, di molto, certo, di ciò che venne dopo, nel bene come nel male: non si può indagare, e pensare di comprendere, la storia dell’attore italiano del novecento ignorando il momento dell’origine delle sue problematiche artistiche (1) magistralmente incarnate proprio da quella che venne definita l’attrice divina.

 (1) Releghiamo qui, in nota, un problema metodologico che meriterebbe ben più ampia trattazione. Ma, dunque, solamente per impostare il discorso e per dare ragione del nostro procedere: qualsiasi fenomeno artistico (ma anche storico, sociale, eccetera) per essere analizzato pretende che si vada all’origine del fenomeno stesso. Questa verità, talmente evidente che l’evidenziarla sfiora la banalità, è però tanto più vera per ciò che riguarda l’arte dell’attore dal momento che questa, come è noto, procede per trasmissione di modelli recitativi che permangono nel tempo non necessariamente sotto forma di citazione ma proprio come fonte primaria di un certo modo di procedere. Non stiamo affatto parlando degli stanchi imitatori, di coloro che, non dotati del talento e dell’intelligenza necessari, si rifanno a un modello senza capacità di innovare o, comunque, di trasformarlo filtrandolo attraverso la propria personalità. “La tradizione è una bellezza che noi conserviamo, e non una serie di catene che ci leghino” scrive Pound nel 1913; e se noi a “bellezza” –termine che rimanda all’estetismo poundiano di quel periodo storico in cui l’estetismo si fondeva con la moralità– aggiungiamo “valore” capiamo meglio ciò che il poeta vuole dire: l’imitatore è chi vive la tradizione come “una serie di catene” che lo legano mentre il vero artista è chi intende la tradizione come un valore, quando si tratta di autentico valore di tradizione e non di qualcosa che i vincitori della storia ci tramandano come tale (e anche in questo, nel saper individuare la vera tradizione e il suo valore correlato, sta la grandezza di un artista). L’attore deve sapersi districare in un labirinto non facile visto che il successo di pubblico è spesso considerato come decisivo per la fama di un attore; ma il successo di pubblico non è certo l’unico elemento che chi vuole rifarsi nel modo giusto alla tradizione deve prendere in considerazione dal momento che molti altri fattori entrano in gioco per stabilire l’altezza di un atto artistico: e non si tratta soltanto di aver ‘buona critica’, visto che quasi sempre i critici sono a rimorchio dei gusti del pubblico, ma di tenere nel giusto conto i giudizi dei colleghi e cioè di chi veramente è in grado di capire se un attore sa lavorare e ha lavorato in una certa direzione e degli intendenti, come li definiva Leopardi, in genere. È allora, e solo allora, e cioè quando vengono riconosciute la forza, il valore e la bellezza di questa tradizione che scatta nell’attore la volontà e la capacità di innovare e cioè di registrare il suo modo di porsi in palcoscenico e la sua azione nei confronti del contesto: ed è qui che si vede fino a che punto egli sappia questo contesto assecondare o contrastare con la sua arte; ed è qui e solo qui che lo storico-critico può inserirsi con la sua esegesi per capire e, capendo, spiegare.

       Nel primo periodo della sua carriera, quello della giovinezza, la Duse – tra le tante ricche e molteplici tematiche che la sua arte offre allo studioso – affrontò, forse non del tutto cosciente ma per forza di talento e di intuizione, i primi sintomi, già molto virulenti, della disfatta dell’attore.

Di contro ai suoi due colleghi, quasi coetanei, che formarono con lei quella che fu definita, non senza superficialità e per gusto di simmetria trinitaria, la triade mattatorica, che reagivano a quei sintomi accentuando l’enfasi, ella, anche sulla scorta di qualcosa cui avevano già accennato  Emanuel e la Pezzana, iniziò a lavorare di sottrazione quando sottrarre voleva dire innovare, quando per sottrazione non si intendeva semplicemente alleggerire un certo tipo di recitazione al fine di renderla più naturale, ma procedere in quella direzione per stimolare l’immaginazione dello spettatore e favorire la sua presa di coscienza critica e quindi, di fatto, percorrere una strada che non è azzardato definire d’avanguardia prima delle avanguardie. Attraverso la sottrazione l’attrice mirabile, e non ancora divina, mandava in sottofondo l’enfasi che così conteneva e imbrigliava: di qui, quasi a contrasto, i famosi scoppi improvvisi, le occhiate di un  certo tipo – così bene testimoniate da certe fotografie che traggono in inganno chi crede di leggervi proprio l’enfasi mattatorica –, le posture del corpo, i gesti ampi e larghi: è il controcanto del grande attore morente che non vuole tenere gli spasimi della sua agonia per sé solo, ma che li vuole esibire con strazio perché lo spettatore, in parte complice con chi ne vuole la morte, soffra con lui.

       È un’operazione che prevede, come conseguenza ineluttabile, l’elisione del tragico e del sublime (e del sublime tragico). Ecco come un critico del tempo, Giovanni Pozza, con insolito acume, coglie il cuore del problema in una recensione del 1884 (la Duse ha 26 anni!) alla Fedora di Sardou:

       Quegli effetti che avevano fatto la fortuna della parte, erano spariti; la sincerità della nuova rappresentazione li aveva ripudiati. Quel famoso Uccidili! che era stato fino a ieri il punto più culminante della scena del terzo atto, il sublime tragico, chi l’ha udito ieri sera ? (2)

 (2) Gp [Giovanni Pozza], La Duse nella Fedora, in “L’Italia”, 5-6 maggio 1884.

Dalla Duse, da questa prima Duse (3) si dipartono due linee: la prima in ordine di tempo è quella che fa capo a Ruggeri.

 (3) Il discorso sulle varie fasi della carriera artistica dusiana non riguardano ora il nostro discorso e ci ripromettiamo eventualmente di riprendere, se riprendere sarà possibile, il filo del nostro ragionamento in altro luogo. Un accenno a questa problematica, ma solo un accenno data la sede, è in G. Livio, Il teatro del grande attore e del mattatore, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a c. di R. Alonge e G. Davico Bonino, vol. II, Torino, Einaudi, 2000, pp.669-675.

Ma, per comprendere meglio, bisogna anteporre una considerazione: la Duse non è moderata come rivelatrice di un modo nuovo di fare teatro dal momento che porta avanti un’operazione artistica di stampo estremistico e, fino a un certo punto, rivoluzionario. Nella giovinezza non si afferma senza contrasti dovuti alla sua furia innovatrice. Possiamo pensare agli spettatori dell’ultimo quarto dell’ottocento per nulla contenti di vedere “messe in piazza” le loro miserie sentimentali tirate su dal pozzo profondo dell’inconscio in cui pesca lo straordinario intuito dell’attrice. Il suo estremismo è tale anche quando cambia strada: da una forma di negazione di qualsiasi tipo di sublime che mostra senza pietà, anche se non del tutto, ciò che vi è di turpe nel teatro e nell’uomo del suo tempo, arriva a darsi tutta, quasi in opposizione a se stessa, al tentativo tragico dannunziano. Di nuovo il pubblico, che si stava abituando alla messa in mostra della propria vergogna, protesta, mentre intellettuali che si pretendono raffinati esaltano l’attrice e il suo vate fin sopra le stelle.

       Questo estremismo preoccupa una personalità razionale e sentimentalmente media come quella di Ruggeri: ecco, dunque, lo sbocco neoclassico. Proprio come, in musica, Alfredo Casella, campione del neoclassicismo, rappresenta, se pure con la sfasatura di un decennio, il temperamento delle pulsioni rivoluzionarie dell’avanguardia musicale andando incontro a un’innovazione senza scosse e ricca di piacevolezza per orecchi adusi alla melodia (4), Ruggeri significa, in  quegli anni, la stessa cosa: la calma serena dell’artista lieve e paziente che contempla gli spasimi dell’agonia di un mondo che sta andando a rotoli con distacco e superiorità, in modo armonico, appunto, attraverso l’estetizzazione della forma recitativa (il famoso “canto” ruggeriano) (5).

 (4) Ecco come Luigi Pestalozza interpreta l’operazione neoclassica di Casella: “[…] l’astratto europeismo di Casella […] dimostra tanto meglio che cosa in concreto lo divideva dall’avanguardia europea, per quanto gli stimoli potessero venire da essa: al limite, la vana pretesa di rovesciare la avanguardia della crisi in crisi dell’avanguardia mediante il linguaggio che cristallizza il nuovo nel vecchio e nemmeno viceversa, per cui si può dire che non è la vecchia forma a essere usata dalla nuova armonia bensì questa da quella. Ossia a essere stilizzata è, poniamo, la nuova armonia, in virtù della vecchia forma che l’edulcora facendone il mezzo del linguaggio che non nega il presente perdendosi nel passato perché anzi afferma il passato ristabilendolo nel presente: ossia, ancora, qui sta lo stesso scambio di significati che ha luogo nel preteso neoclassicismo strawinskiano di Casella, in quanto la neoclassica destorificazione del linguaggio si svuota, alla fin fine, della sua carica di assurdo esistenziale, per diventare il linguaggio della destorificazione neoclassica appagata dalla sua assurda indifferenza esistenziale”; Luigi Pestalozza, Introduzione all’antologia della “Rassegna Musicale”, Milano, Feltrinelli, 1966, p.LXXXIV.

 (5) Su Ruggeri: G. Livio, Mito e realtà dell’attore primonovecentesco. Alcune ipotesi sull’arte recitativa di Ruggero Ruggeri, in “Ariel”, maggio-dicembre 2004, pp. 213-241.

Alla linea di poetica teatrale perseguita da Ruggeri si contrappone quella di Benassi (6) che potremmo definire, in opposizione a quella del primo, scomposta, stridente, impertinente, ribalda, o frigida o troppo calda e dissonante.

 (6) È chiaro che, a questo punto, s’imporrebbe di parlare di Petrolini, probabilmente il più grande di tutti per la sua poetica d’attore e per la coscienza critica che ne aveva. Ma questo pretenderebbe un discorso assai approfondito a proposito dei legami, ma anche delle differenze, che ci sono tra la poetica petroliniana e quella di Benassi. Noi qui ora ci occupiamo di Marta Abba e del suo retroterra in cui non entra quasi per nulla, purtroppo per lei evidentemente, il grande Petrolini; che non ha seguaci  nel novecento italiano almeno fino a che il teatro della contraddizione degli anni sessanta e oltre non lo recupera in modo critico e propulsivo proprio lavorando sulla tradizione nel senso descritto nella nota 1, recuperandolo al di là e al di sopra della ghettizzazione che i ‘colti’ avevano fatto della sua arte straordinaria confinandola nel territorio, dal punto di vista del genere, del varietà e, dal punto di vista della scansione, del comico ancora considerati in quegli anni l’uno e l’altro come sudditarie comunque inferiori, dal punto di vista del valore artistico e culturale, ai lavori ‘seri’, drammatici o falsamente tragici che siano.

Benassi incontra la Duse che ha trent’anni, dopo esser stato con Novelli, e dopo aver avuto molte esperienze che rimarranno poi nel suo linguaggio della scena nei momenti di slancio, di euforia, di divino gigionismo che erano specificamente suoi. Egli ha un fraseggio recitativo che certamente- prende qualcosa dalla capocomica, ma in modo particolare (tutto ciò che riguarda Benassi risulta particolare): infatti era entrato nella compagnia Duse nel 1921 e benché lavori con la divina nell’ultima parte della carriera artistica dell’attrice si ricollega alla prima fase della sua attività anche se dal ’21 al ’24 è abbastanza difficile vedere la prima Duse che, comunque, permane e ritorna; e Benassi, con la sua sensibilità straordinaria, va a pescare lì e non si lega, come  attore, all’ultimo momento della grande attrice ma al primo, quello della giovinezza: ecco, dunque, che risulta allievo della Duse, dal  punto di vista tecnico, nella bravura nel frenare l’impeto, che era suo tipico, decelerare improvvisamente dopo esplosioni di accelerazione, di alternare un fraseggio recitativo estremamente calmo, determinato, con accelerazioni improvvise; e, da quello più profondo, per la capacità nel portare avanti il grande tema della morte dell’attore e del teatro.

       Queste due linee, ovviamente, prevedono delle posizioni intermedie, di cui diremo qui solamente in forma sintetica per segnalare la questione: l’esempio eccellente è quello costituito dalla poetica recitativa di Tòfano che potremmo definire, per brevità, quella del grottesco raggelato, e cioè di uno stile recitativo che ha tutte le caratteristiche del grottesco sublimate in una forma volutamente attenta al classicismo, come un vulcano ricomposto in un bel quadro idillico.

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       Per venire ora a Marta Abba sarà il caso di partire dal titolo di questo scritto, Fiamma del diavolo che non consuma, che è estrapolato da un articolo di Eugenio Bertuetti, un critico molto dimenticato anche se, probabilmente, è il più bravo di tutti perché è l’unico che riesce a capire ciò che gli altri, come Simoni o d’Amico, trattano in modo superficiale. Completiamo dunque la citazione:

       l’arte di Marta Abba, nonostante abbia scelto per incarnarsi una creatura dorata e armoniosa e vivida, soffre di un male diabolico, che a guarirlo non so che ci vorrebbe. Salvo alcuni casi felici, le serate trionfali, in cui l’oro fulvo dei suoi capelli e la ricchezza costretta di tutta la persona divampano nel parossismo oppure si placano e si stemperano in una specie diestasi, la sua recitazione ha le qualità del vetro: trasparenze gelide. Spicco di particolari, architetture precise, sinuosità iridescenti e scivolose, culmini taglienti, spigolature crudeli, e dentro ci deve essere una fiamma –lo vedi, lo senti–, ma il calore non c’è. Fiamma del diavolo che non consuma, mentre il pubblico al teatro non chiede che di bruciare, d’ incenerirsi (7).

 (7) E. Bertuetti, Ritratti quasi veri. Marta Abba, in “Il dramma”, 15 febbraio 1935, p.26.

       Questo bellissimo ‘ritratto’ è del 1935 quando ormai Marta Abba sta per abbandonare il teatro italiano e, dopo una breve parentesi americana, il teatro tout-court, e dà conto di tutta una temperie critica che vede, forse con parziale ragione, l’attrice come immobilizzata in uno stile di recitazione che avrebbe costituito la base del suo trionfo, il primo vero, in Nostra Dea di Massimo Bontempelli. “Nostra Dea fu lo spettacolo più replicato della stagione romana del Teatro d’Arte (16 volte) e fu l’unico titolo –repertorio di Pirandello a parte– che rimase in cartellone durante l’intero triennio, a riprova del favore che vi riscuoteva generalmente la protagonista […]”. (8).

 (8) A. d’Amico – A. Tinterri, Pirandello capocomico. La Compagnia del Teatro d’Arte di Roma. 1925-1928, Palermo, Sellerio, 1987, p.98.

Bontempelli definisce la Abba “attrice modernissima” (9), e la sua commedia è presentata nel volantino di sala come “Commedia moderna”: c’è dunque un preciso rapporto tra l’attrice e il testo, come bene intuisce l’autore per ciò che riguarda il rapporto del suo personaggio con la pratica attorica della Abba.

 (9)  “Lei, ne son certo, sarà la interprete ideale per questa parte; questa parte, spero, sarà la più adatta per rivelare tutte insieme le sue qualità di attrice modernissima”; lettera di Bontempelli alla Abba in data 7 febbraio 1925 riportata in L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, Milano, Mondadori, 1995, p.3.

       Infatti quello di Dea è un personaggio astratto e algido, come, per altro è nelle corde dello scrittore. Marta Abba fu veramente l’attrice ideale per quel ruolo; ma –di qui le critiche che le vennero spesso rivolte dai cronisti– sembrerebbe essersi fissata in quella parte e aver poi piegato i vari personaggi recitati nella propria – breve– carriera a questa impostazione (10).

 (10) Un esempio per tutti. Ecco Alberto Cecchi nel 1931: “Purtroppo Marta Abba di quella interpretazione [Dea, appunto] non s’è mai più dimenticata: ne ha sofferto e ne soffre come di un contagio che non è riuscita da allora a cacciarsi di dosso. In ciascuna delle creature che ha dipoi impersonato ella non ha saputo cercare istintivamente e ritrovare che i caratteri in una parola isterici di Nostra Dea […]. Marta Abba è sempre lì radicata, immobile”; A. Cecchi,Quartetto d’attrici, in “Rassegna italiana letteraria e artistica”, settembre 1931, p.771.

Come bene è evidenziato dal brano citato di Bertuetti: “trasparenze gelide”, “spigolature crudeli”, “fiamma del diavolo che non consuma”, appunto. Un’attrice, dunque, fredda, algida, distaccata.

       Ma, a questo punto, risulta necessaria una breve digressione metodologica.

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       L’algidità della Abba ha certamente un riscontro nella sua vita, riscontro che è possibile oggi conoscere dalle lettere che Pirandello le scrisse per un decennio e che costituiscono uncorpus importantissimo per indagare lo scambio artistico tra lo scrittore e l’attrice ma anche il loro rapporto di vita, la loro particolarissima e perversa storia d’amore. Insomma, la Abba era frigida; quelle lettere, con tutte le lamentazioni per questo algido distacco dell’innamoratissimo Maestro, ce lo dicono chiaramente.
       Ma che importanza può avere per il critico sapere che la Abba era frigida? Per dare risposta a questo interrogativo è necessaria una premessa: il rapporto tra la vita, il carattere, il modo di essere dell’attore con la propria arte è diverso da quello degli altri artisti che fanno opera d’arte attraverso un qualcosa totalmente al di fuori di sé: il quadro e la scultura per l’artista figurativo, lo spartito per il musicista, il libro per il letterato. Prendiamo quest’ultimo caso. Il letterato mette in campo, in un romanzo per esempio, diversi personaggi. Ora se è chiaro che nessuno può ignorare se stesso, nemmeno volendolo, è altrettanto chiaro che uno scrittore può costruire una serie di personaggi che pur non prescindendo del tutto dal suo modo di essere possono rappresentare cose molto diverse nei confronti del suo essere profondo. La posizione positivistica per cui sarebbe importante conoscere la vita di uno scrittore per giudicare le sue opere, quella impostazione di metodo che tendeva a risolvere l’opera nella vita è da molto tempo superata a favore dell’autonomia, se pure relativa, dell’opera. E cioè del fatto che il mondo spirituale di uno scrittore è tanto più importante quanto più lo scrittore riesce a staccarsi da se stesso e a immergersi nella società, nel proprio tempo e, per ciò che riguarda l’opera, nel suo contesto. Staccarsi da se stesso, però, fino a un certo punto o, meglio, fino al punto di oggettivizzare anche se stesso nell’io epico e cioè in quel personaggio che ogni scrittore della modernità, ciascuno in modo di verso ovviamente, inserisce nel proprio discorso narrativo o drammatico per portare le sue idee all’interno dei personaggi diversi da sé e da lui creati e far confliggere questo personaggio con gli altri e le loro idee: tipico, in questo senso e per la letteratura drammatica, il Laudisi del Così è (se vi pare) di Pirandello.

Per l’attore le cose stanno in altro modo. Ecco Gian Maria Volonté a proposito dell’“entrare” nel personaggio:

       Non entro e non esco. Mi metto lì con tanti materiali e tante cose. Calarsi o non calarsi sono luoghi comuni, non esiste secondo me una tecnica unica, precisa. Si può interpretare un personaggio in totale immersione, ma anche al contrario. Diderot sostiene che l’attore mentre comunica allo spettatore una grande emozione, esplorando i territori inquietanti della tragedia, magari pensa alla trattoria dove andrà a mangiare dopo lo spettacolo. Questo è un paradosso, io so bene quali percorsi faccio, però ho sempre un fondo di scetticismo nel parlarne […] (11).

 (11) Citato in F. Deriu, Gian Maria Volonté. Il lavoro dell’attore, Roma, Bulzoni, 1997, p. III.

       Partendo allora dal presupposto che la teoria dello straniamento, da Diderot a Brecht, è una teoria paradossale, come la definisce Volonté, e certamente astratta che intende impostare un problema in opposizione a quello da Brecht definito il teatro aristotelico e cioè il teatro del naturalismo, bisogna rendersi conto che lo stesso Brecht nel momento in cui divenne regista al Berliner, dovette istituire un rapporto dialettico, lui lo scrittore dialettico per eccellenza, tra la sua teoria paradossale e astratta e la pratica del rapporto dell’attore col personaggio. Infatti il lavoro dell’attore col personaggio è condizionato dal fatto che l’attore non può prescindere da se stesso: pertanto lo straniamento, risulta assai più decisamente e, fino a un certo punto, facilmente praticabile in quelle arti che hanno come sbocco qualcosa che non è costituito dalla realtà materiale, corpo e mente, dell’artista. È quindi proprio perché l’attore deve fare opera d’arte della propria persona che viene decisamente condizionato da ciò che è. Al Pacino, in una recente intervista a proposito del Mercante di Venezia, dichiara di recitare soltanto i personaggi con cui sente un’affinità e dice che non potrebbe mai fare la parte del traditore Iago (12), mentre Shakespeare, diciamo noi, ha potuto tranquillamente, si fa per dire, inventare sia il ‘puro’ Otello che il perfido Iago; e Desdemona e tutto il resto, ovviamente.

 (12) “Il venerdì di Repubblica”, 28 gennaio 2005, p.63.

Ecco qui il condizionamento personale dell’attore. E questo sia detto a prescindere da un’osservazione che potrebbe essere banale o apparire tale sul physique du rôle. È chiaro che uno scrittore può immaginare personaggi che prescindano totalmente dal proprio fisico; l’attore non può farlo, se non entro certi limiti. Ma lasciando stare la questione del physique du rôle, che è banale in quanto troppo evidente, più importante e più determinante è ciò che è un attore per quanto riguarda il calarsi o non calarsi nel personaggio: da questo punto di vista per lo storico dell’attore teatrale e cinematografico è fondamentale conoscere i tratti salienti della biografia di un attore che possano far risalire ai tratti fondamentali del suo carattere.

       Ma, a questo punto del discorso, ci si scontra con un’obiezione che può essere così formulata: non è questa un’impostazione del problema che fa capo a Stanislavskij e a Strasberg? E qui si tratta di mettere in campo ancora una volta una posizione dialettica. In effetti quando Stanislavskij dice che l’attore, per recitare un determinato personaggio, è necessario abbia provato nella vita ciò che quel personaggio deve esprimere sulla scena o Strasberg, lievemente inclinando il pensiero del maestro russo, sostiene che un attore deve saper provare sentimenti analoghi a quelli che poi porterà sulla scena teatrale o sul set cinematografico, intendono porre l’accento in modo particolare sul lato psicologico del personaggio. Questo è molto evidente, anche perché ci rimangono le prove testuali, almeno per ciò che riguarda Strasberg, e cioè i film degli attori che provenivano o avevano partecipato all’Actors Studio. Qui risulta chiaro il fatto che questo tipo di impostazione del problema –non riferito tanto a ciò che è un attore ma a ciò che deve trasporre nel personaggio di ciò che lui è– rivela un’impostazione dichiaratamente psicologistica. Quello che interessa al Sistema e al Metodo è che in scena o sul set l’attore restituisca dal punto di vista psicologico il personaggio in modo che questo possa apparire perfettamente vero e assolutamente naturale e cioè, appunto, ‘naturalistico’ dal momento che lo psicologismo, lo si sa non da oggi, costituisce la base fondante del naturalismo. Non di questo qui si tratta. L’impostazione di metodo da noi proposta è qualcosa di diverso e consta nell’indagare l’attore non per gli sforzi che fa di trasportare la propria psicologia e le proprie sensazioni nella psicologia e nelle sensazioni del personaggio, il che vorrebbe dire ‘calarsi nella parte’, ma, invece, di riuscire a capire come mai attori particolari riescano a interpretare in modo peculiare un determinato momento della storia delteatro, e non solo del teatro, attraverso, o forse grazie, a una inclinazione propria, specifica e particolare della loro personalità e del loro modo di essere.

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       E, dunque, venendo all’oggetto del nostro discorso, la freddezza della Abba è senz’altro un sintomo della sua frigidità di donna. Ciò che ora sappiamo dalle lettere di Pirandello all’amata (e che, in parte, risultava già dalla scelta che questa aveva fatto delle sue al Maestro) (13) ci permette di capire il nucleo profondo della sua poetica recitativa, veramente “modernissima” proprio in quanto fredda e distaccata.

 (13) M. Abba, Caro Maestro… Lettere a Luigi Pirandello (1926-1936), Milano, Mursia, 1994.

La frigidità, infatti, ha in sé qualcosa della morte –e torniamo così al discorso della disfatta dell’attore– nel momento in cui indica anche durezza, rigidità, e qualcosa di solitario, cupo e disadorno. Emilio Cecchi, in una sua pagina, parla di “frigidità funerea” (14) e Helene Deutsch scrive che le personalità frigide “[…] sono nature fredde, incapaci di simpatia per gli altri, ‘fuggendo nella realtà’ dalle loro fantasie temute, ma ad una realtà morta, esanime” (15): è, spostandosi dal piano psicologico e individuale a quello universale e sociale, qui descritto quel sentimento allegorico della fine e della desolazione tipico del moderno, di cui ci parlano, in modo solo apparentemente diverso, Benjamin e Beckett (16).

 (14)  E. Cecchi, I piaceri della pittura, Venezia, Neri Pozza,1960, p.176.

 (15) Citato in O. Fenichel, Trattato di psicoanalisi, Roma, Astrolabio, 1951, p.536.

 (16)  “Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo. La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato, si configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto”; W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1971, p.174. “HAMM: Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per mano e lo tiravo davanti alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là. Guarda! Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza! (Pausa). Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri”; S. Beckett, Finale di partita, in Id., Teatro completo, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p.110.

       Anche Benassi è frigido: si fingeva omosessuale non essendolo, non aveva rapporti sessuali (17).

 (17) G. Livio, L’attore moderno: frantumazione e alienazione del soggetto. Benassi e Pirandello, in AA.VV., La passione teatrale. Studi per Alessandro d’Amico, Roma, Bulzoni, 1997, pp.186-187.

Nelle lettere di Marta Abba al Maestro si parla anche di Benassi. Pirandello aveva scritto all’amata una lettera, quando Benassi e la Abba avevano formato compagnia, in cui il drammaturgo esprime sul primo un giudizio di grande interesse là dove scrive che “senza dubbio, ha temperamento, ma  guastato dall’ineducazione e artificiosissimo”; e conclude dicendo che l’attore ha “forse, più temperamento del Ruggeri” (18).

 (18) L. Pirandello, Lettere a Marta Abba, cit., p.1279; la lettera è datata 14 gennaio 1936.

È noto: Pirandello aveva un’altissima considerazione di Ruggeri e, dunque, queste osservazioni su Benassi risultano di grande interesse: artificiosissimo, certo, in quanto non naturalistico, ma ricco di temperamento,più di Ruggeri, anche se di un temperamento “artificioso”: è questa, probabilmente, la più bella lode che sia stata fatta della poetica d’attore di Benassi e del suo antinaturalismo bizzarro, folle e molto – a volte eccessivamente – fantasioso.

       La lettera di Pirandello citata è una risposta a una della Abba di quattro giorni prima in cui l’attrice-capocomica si era lamentata di Benassi col Maestro: “Purtroppo soffro qualche volta dell’ottusità degli attori che… non capiscono. Anche il Benassi, che ha indubbiamente un temperamento, manca di sincerità,e se io gli dico una cosa, lui molto attento la segue, ma… ne fa un’altra” (19).

 (19)  M. Abba, Caro Maestro…, cit., p.334; la lettera è datata 10 gennaio 1936.

La Abba torna a parlare di Benassi in una lettera del 9 marzo e dopo aver detto che l’attore non si è presentato alle prove perché “accusava un raffreddore”, scrive: “Mi ci sono proprio arrabbiata, ma come al solito ho torto io. Mi accorgo che dò [sic] ancora un’eccessiva importanza al teatro, che fatto come siamo costretti a farlo, non la merita” (20).

 (20)  Ivi, p.340; lettera datata 9 marzo 1936.

   Non si tratta solamente dello sfogo di una capocomica irritata e preoccupata, c’è dell’altro. E ciò è a dire che la Abba, a suo modo (che è, già lo sappiamo, il modo dell’intuizione e non del ragionamento compiuto) si rende conto che Benassi, con il suo stile di recitazione, ma anche con il suo comportamento nella vita, è più avanti di lei nell’indagare la morte dell’attore nel mondo contemporaneo, nell’esprimere sul palcoscenico gli spasimi della sua agonia. E il suo comportamento bizzoso e bizzarro, in quanto persona che partecipa a un’intrapresa commerciale, il suo disprezzo non tanto per le convenzioni sociali, che vorrebbe dire poco, ma proprio per il teatro-commercio, per il teatro-industria in cui è coinvolto, mostrano proprio il suo ribellismo anarcoide nei confronti di quella struttura industriale che sta ormai causando la morte dell’attore. La Abba dà ancora “un’eccessiva importanza al teatro” che, nelle condizioni attuali, “non la merita”; Benassi questa importanza non la sente più, è ormai tutto immerso, sul palcoscenico, come alle prove, come nella vita, nel recitare questo ‘non meritarla’, al limite estremo della finzione che trascolora nella realtà.

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       Pirandello, dunque, lo sappiamo molto bene grazie all’epistolario, era innamorato di Marta Abba. Ma Pirandello è Pirandello e l’essere innamorato non obnubila il suo giudizio sul valore artistico dell’amata. La loro storia d’amore –una storia complessa, che è già stata variamente indagata, tra un uomo vecchio e una giovane, una vicenda segnata dalla perversione di lui che trova riscontro in una personalità assai particolare, dal punto di vista sessuale e sentimentale, come è quella di lei– dura dal ’25 al ’36, undici anni, segnati, per lo scrittore, da un’attività frenetica: il capocomicato, poi i viaggi continui, i progetti cinematografici, lo scontro con i responsabili governativi nel tentativo di costituire un teatro nazionale, eccetera. In questo lungo periodo di tempo Pirandello avrebbe tutti i modi di rendersi conto che la sua attrice d’elezione, quella per cui scrive alcuni testi di grande importanza, non è brava. Si tratta, dunque, di seguire un’altra strada esegetica: e, allora, la chiave per capire il loro strettissimo rapporto artistico è probabilmente molto semplice e sta tutta, al di là delle questioni d’amore, nel non naturalismo istintivo della Abba. Quasi del tutto istintivo, appunto, perché non filtrato da una profonda cultura; capita, infatti, agli attori di questo periodo (sia teatrali che cinematografici, sia detto tra parentesi) di arrivare a determinati esiti più per istinto che per coscienza critica; e questo istinto, ben lo si vede, è dettato da disposizioni caratteriali forti di cui s’è già detto: la Abba è distaccata, non naturalistica, in quanto, come donna, è frigida. Ma, a differenza di Benassi, lei trova il suo mentore in Pirandello. Il problema è che anche lo scrittore non è però del tutto cosciente dei termini teorici e metodologici in cui si articola la questione dell’opposizione tra naturalismo e antinaturalismo e tutta la vita oscilla tra i due poli anche se la sua grandezza è certamente data dalle opere in cui il secondo prevale. Nelle lettere dello scrittore all’attrice si può vedere come, al di là dell’amore o, meglio, strettamente congiunto all’amore, si svolga il compito pedagogico del ‘Maestro’ che si sforza in ogni modo di rendere cosciente l’amata del valore della sua arte ‘istintiva’: e questa funzione ha certamente riscontro nella concretezza della recitazione della Abba.
       L’esordio, a 24 anni nel Gabbiano di Čechov in compagnia Talli, già mostra segni evidenti di una certa tendenza. Pes, scrive sull’“Arte Drammatica”:

       La Marta Abba è una bella promessa, giovedì à vinto una difficile prova: può fare molto, ma à ancora molti, molti difetti e principale quello di un eccessivo manierismo che la porta ad essere poco sincera, poco naturale e quindi più che a dire a recitare solamente (21).

 (21) Pes., La Talli al Manzoni, in “L’arte drammatica”, 12 aprile 1924, p.2.

      Abbiamo messo in corsivo ciò che ci interessava sottolineare: dunque la giovane attrice è già “poco sincera, poco naturale” e recita piuttosto che “dire”. Pes, si sa, è piuttosto autorevole quando parla di attori cui, a differenza degli altri cronisti del tempo, dedica molta attenzione e un’attenzione sapiente; fin dall’esordio, dunque, si accorge che la Abba ha un particolare modo di recitare; che lui lo ascriva a difetto della giovane attrice è cosa che qui non ci interessa. Ci interessa, invece, rilevare il fatto che Marco Praga non è dello stesso parere:

       C’è una tempra di attrice in questa giovane e, aggiungo, di primattrice. La sua bella figura scenica, la sua maschera, la sua voce ch’è di timbro dolcissimo e insieme delle più calde, l’intelligenza di cui ha dato prova in questa parte protagonistica del dramma cecofiano, la sua sicurezza e la sua disinvoltura, la dimostrano nata per la scena, e subitamente matura per affrontare il gran ruolo. E però l’addito ai capocomici e ai direttori –se ce ne sono– in cerca di primattrici da formare, vergini di lenocinii e di convenzionalismi scenici, pure di tradizionalismi barocchi o sguaiati (22).

(22) Emmepì [M. Praga], L’avventura terrestre. Il gabbiano. Straccinaria, in “L’illustrazione italiana”, 13 aprile 1924; ora  in M. Praga, Cronache teatrali 1924, Milano, Treves, 1925, p.103.

       Ancora una volta abbiamo sottolineato ciò che ci interessa maggiormente. È evidente che i due giudizi si scontrano tra loro, e in modo anche deciso. Ma forse la questione non risulta poi così intricata se si pone mente al fatto che Pes e Praga non hanno visto due attrici diverse ma la stessa con occhi diversi: attento il primo a cogliere gli stridori della sua recitazione e il secondo, al contrario, alle armonie che, in questo momento della sua carriera artistica, dovevano certamente coesistere se è vera la nostra ipotesi che si trattasse di un’attrice fortemente istintiva e non del tutto cosciente –anzi, probabilmente, nel ’24, quasi per nulla cosciente– della propria poetica recitativa.
Le cose stanno, per ciò che riguarda questo argomento, in modo ben diverso nel 1931. C’è un’intervista, pubblicata sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino, in cui la Abba afferma: “Chi ha detto che un’attrice debba ‘fare esperienza’ per creare il personaggio sulla scena? L’arte è frutto di intuizione. Ed a me è bastato sempre intuire. L’esperienza non è mai altro che la prova di un’intuizione.” (23)

(23) M. Abba, Un’attrice allo specchio. Come sono nella vita e come vivo nell’arte, in “Gazzetta del popolo”, 16 gennaio 1931.

 Sono le posizioni critiche di Salò in Trovarsi che è del 1933. Si tratta di una poetica da Silvio d’Amico definita “ultraidealistica”; e questo dal punto di vista filosofico è certamente vero; ma poiché qui si tratta di una poetica attorica dovremo porre l’accento su altro. Riprendiamo, dunque, la citazione. Ecco, in apertura: “Chi ha detto che un’attrice debba ‘fare esperienza’ er creare il personaggio sulla  scena?” Quelle virgolette –“fare esperienza”– sono piuttosto eloquenti. Siamo, infatti nel periodo in cui in Italia trionfa la Pavlova, ha un buon ascolto Sharoff, in cui vaghe teorie di uno stanislavskismo dimidiato e volgarizzato tendono a diffondersi; in cui il grande attore dell’ottocento è ancora vivo nelle sue estreme propaggini e, Zacconi, sempre in attività, viene lodato per il suo ‘naturalismo’ che lo aveva portato a frequentare gli ospedali psichiatrici per dar vita all’Osvaldo di Spettri sulla scena. Marta Abba dice che questo non serve a nulla, che l’esperienza, propria della vita, è inutile e, implicitamente, che l’arte dell’attore è sempre finzione.
       A questo punto, si pone un problema e cioè se queste parole siano dell’attrice o di Pirandello. Ma è un falso problema dal momento che se un’artista del livello e del valore della Abba le ha fatte sue vuol dire che le ha capite e che intende trasporle nelle sue arte e proseguire su quella linea.
       Nella stessa intervista, il concetto viene, in altro modo, ribadito e ancora meglio messo a fuoco:

       Le belle attrici di altri tempi, aiutate e favorite da tutta una letterature falsa e corrotta, hanno abituato il pubblico a vedere in noi null’altro che armonia fisica e svenevole grazia spirituale. Sono esse che hanno reso, oggi, ingrato e difficile il terribile mestiere dell’attrice. Esse che scambiano la ribalta con la vita e la finzione dei personaggi che interpretavano con la realtà della vita, hannoconfuso ciò che è transitorio nel nostro soffrire artistico  con ciò che è schietto sano e solido nella nostra intima esistenza. Stupefacenti per improntitudine con la quale recitavano nella vita e vivevano nella finzione, le belle attrici della leggenda letteraria hanno lasciato a noi un modello dell’attrice, falso, volgare e disgustoso (24).

 (24) M. Abba, Un’attrice allo specchio, cit.

       Qui c’è molto Pirandello, compreso il moralismo suo tipico; ma c’è, certamente, anche molto della Abba. Lucio Ridenti, direttore del “Dramma” per più di quarant’anni, è uno di quei critici che si possono affiancare a Pes dell’“Arte drammatica” nella loro conoscenza ampia e ricca dei fatti del teatro. Ebbene Ridenti, riportando nel ’33 questa intervista all’attrice, scrive: “Da queste parole ripetute al Maestro è nata l’ultima commedia pirandelliana: ‘Trovarsi’” (25).

 (25) L. Ridenti, Marta Abba “una e due”, in “Il dramma”, 1 febbraio 1933, p.35.

È chiaro che questo dire di Ridenti non va preso per oro colato dal momento che il direttore del “Dramma” non poteva fruire, all’epoca, degli strumenti di indagine critica che abbiamo, oggi, noi (le lettere di Pirandello e della Abba, sopra tutto) e che la sua passione per gli attori –egli stesso, in gioventù, era stato attore– può avere influenzato il suo modo di vedere le cose. Ma, certamente, data proprio la conoscenza del teatro di Ridenti, si può pensare che questo fosse un parere diffuso, qualcosa che “si diceva” nel mondo dell’arte.

       A questo punto bisognerà soffermarsi un attimo nella narrazione esegetica per fare un’osservazione ancora una volta di impianto metodologico. Gli scrittori restano e gli attori passano, i primi scrivono sulla carta e sulle carte e i secondi sull’acqua. Questo –oltre ovviamente all’ideologia dello scrittore- rtista (il “poeta” d’amichiano) e dell’attore esecutore (il “calzolaio” praghiano) (26) – ha fatto sì che la storia del teatro si sia basata, e tuttora in gran parte si basi, sulla critica del testo nel totale oblìo dell’importanza, a volte determinante, dell’azione degli attori nella composizione del vero testo, oggetto primario dello studio della storia del teatro, e cioè il testo spettacolare.

 (26) “Io considero l’Autore di una razza assai più elevata dell’Attore. Anche se l’attore è Zacconi e se l’autore è XY. Per me, gli architetti valgono più dei calzolai. Ci fu un Ronchetti, milanese, calzolaio di Napoleone, che pare avesse un’abilità da sbalordire; gli hanno dedicato una piccola piazza. E ci sono degli architetti i quali tiran su delle case in istile floreale che, quando non rovinano, danno il mal di pancia. Non importa. Gli architetti sono di una razza più elevata dei calzolai. Chi crea è di razza superiore a chi eseguisce”; Emmepì [M. Praga], La giovine scuola, in “L’illustrazione italiana”, 7 marzo 1920, ora in M. Praga, Cronache teatrali 1920, Milano, Treves, 1921, p.83.

Marta Abba, poi, era antipatica un po’ a tutti i critici del tempo sia per il suo modo di recitare, e lo stiamo vedendo e meglio approfondiremo il discorso nelle prossime righe, sia per quel diffuso moralismo tendente a attribuire alla donna giovane che  fa delirare d’amore un uomo vecchio il ruolo di distruttrice di famiglie e di istigatrice alla perdizione. Lei stessa, poi, col suo abbandono precoce del teatro italiano, a soli 36 anni, contribuì a una damnatio memoriae viva tuttora anche perché l’attrice, tornata in Italia, cosciente di essere considerata una “donna leggera” o, meglio, la “donna leggera” che aveva rovinato gli ultimi dieci anni di vita del “suo” Maestro, reagì con una forma di automitizzazione tale da, insieme al suo carattere frigido, renderla sommamente antipatica a chi ebbe rapporti con lei e al mondo teatrale tutto.

Ma, certamente, ella diede molto a Pirandello, al Pirandello scrittore per teatro, e forse più di quanto lui diede a lei: in lei il drammaturgo, non del tutto vecchio (aveva, nel ’25, 58 anni), trovò la sua attrice ideale; e non solo per ciò che stava per scrivere – quei drammi non rappresentano necessariamente il vertice della drammaturgia pirandelliana – ma anche per ciò che aveva già precedentemente scritto. E, nel costante colloquio con lei, che costituiva la viva esperienza della prassi del palcoscenico, lo scrittore –abituato da sempre, quando lo aveva potuto, a legarsi a attori e capocomici, a seguire le prove, a modificare i suoi testi nel momento in cui li poteva vedere prender corpo alla luce incandescente della ribalta, eccetera– si nutriva e nutriva le proprie idee teatrali.

       E, dunque, che abbia ragione Ridenti o no, non v’è dubbio che molto di Trovarsi derivi anche dalla Abba, che a lei, non solo come donna ma certamente come e in quanto attrice, Pirandello si sia ispirato per il suo dramma. Ed è dunque alla rappresentazione di quel testo che faremo ora riferimento per approfondire ulteriormente la poetica recitativa dell’attrice.

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       Quanto abbiamo detto fin qui ci fa capire perché certi critici accusino Marta Abba di non sapere parlare d’amore. Già nel ’30 il solito Pes – la commedia rappresentata è Penelope di Maugham – scrive:

[…] à dei momenti di suprema sincerità ed altri addirittura di rozza dizione: questo avviene perché ancora cerca la sua strada o, per essere più esatti, cerca di femminillizzare [sic] di più la sua indole, il suo temperamento e vi riuscirà e chissà in un tempo non lontano arrivi Marta Abba anche a recitare delle produzioni romantiche: lo farà quando avrà imparato a parlare d’amore: ecco quanto veramente le manca: ancora non sente e non esprime e non rende l’amore (27).

 (27)  Pes., Cronaca dei teatri milanesi, in “L’arte drammatica”, 6 dicembre 1930, p.1.

       Ancora una volta abbiamo messo in corsivo ciò che ci interessa sottolineare: l’attrice è qui accusata, per la sua recitazione algida e distaccata, di non sapere parlare d’amore; si tratta, per Pes, di “femminilizzare di più la sua indole” e cioè di essere meno mascolina, visto che le doti di freddezza e distacco, sempre secondo Pes, sono tipiche dei maschi. Risulta evidente una visione della femminilità in chiave di sottomissione e dedizione al sentimento, una visione che esclude per principio che la donna possa risultare razionale, fredda, distaccata; e, si badi bene, non si tratta solo di sesso, ma della donna come persona, come universo.

       E qui succede che questo sentimento della femminilità si congiunga con una posizione invece artistica e formale che potremmo definire di rifiuto della femminilità così come era intesa, al tempo,non solo da Pes ma quasi da tutti grazie a quella particolare declinazione dello straniamento che è proprio della Abba. In lei straniamento e rifiuto della femminilità hanno la stessa origine nel suo essere, qui veramente come donna e come attrice, algida, razionale, distaccata. Ma, che sia solo istinto o studio profondo –e noi ormai sappiamo che le due cose coesistono–, la Abba è in anticipo sui tempi (Bontempelli e Pirandello se ne accorgono per primi) e non viene capita nella sua essenza profonda; lascerà il teatro prematuramente anche per questo motivo.

       Simoni, dalla prestigiosa cattedra del “Corriere della sera”, dopo molte lodi sulla recitazione dell’attrice nel testo pirandelliano, muove una riserva: “Le rimprovererei solo, nella seconda parte del secondo atto, una dedizione troppo egualmente ritmata […]” (28).

 (28)  R. Simoni, Trovarsi, in “Corriere della sera”, 24 marzo 1933; ora in Id., Trent’anni di cronaca drammatica, Torino, ILTE, vol.IV, 1958, p.31.

La seconda parte del secondo atto è il punto del testo in cui l’amore confligge col pirandellismo: qui Simoni, a suo modo e implicitamente, vuol dire che la Abba non sa parlare d’amore e quando si trova a doversi immergere nel tema mette in opera una strategia di distanziamento critico che realizza poi, dal punto di vista tecnico, con una dizione freddamente ritmata e tendente alla monotonalità.
       Anche d’Amico, cui non dispiace Trovarsi perché ci vede una fede se pure “attivistica e pragmatistica”, ha i suoi rilievi da muovere alla Abba; e, dopo misurate lodi tra cui la notazione che l’attrice “ha senza dubbio un temperamento tragico”, constata però, questavolta nel terzo atto, che “l’affanno prevalesse un po’ troppo in certe ritmate, e quasi viziate, cadenze della sua dizione” (29).

 (29)  S. d’Amico, “Trovarsi” di Luigi Pirandello al Valle, in “La tribuna”, 15 gennaio 1933.

Ecco nuovamente, ma la recensione d’amichiana è precedente a quella di Simoni, le cadenze ritmate, questa volta anche viziate; il distacco dell’attore critico non può piacere in nessun modo a chi prevede l’immedesimazione nel personaggio: e, cioè, in sostanza, a tutti i critici di questo periodo. Perché, è forse banale osservarlo anche se non necessariamente scontato, tutti questi critici sono, in un modo o nell’altro, giornalisti di regime: siamo a 11 anni dalla marcia su Roma e a 4 dai Patti lateranensi: voci come quella di Gramsci o Gobetti (ma non c’erano solo loro) non possono certo essere ascoltate in quel 1933 visto che il primo è in galera e il secondo morto da tempo e non per cause naturali; la differenza tra un critico e un altro di questo periodo è quindi soltanto data da una variazione di gusto e non da una diversità ideologica che comporta un giudizio fondamentalmente dissimile da critico a critico in quanto dettato da una differente visione del mondo. Non dobbiamo quindi stupirci se questi giudizi, tutto sommato coincidono, almeno su dati fondamentali quali, appunto, la particolare messa in opera dello straniamento da parte della Abba.

       E qui bisognerà notare un’altra cosa: d’Amico infatti scrive, senza mezze misure, che la Abba ha “un temperamento tragico” come se, nel 1933 e, per ciò che riguarda l’Italia dopo la stagione del futurismo e del “teatro del grottesco” la tragedia, dannunzianamente verrebbe da dire, fosse ancora praticabile. Da questo punto di vista, non è possibile in nessun modo capire né Pirandello né la sua attrice d’elezione visto che sia l’uno, nella pratica della scrittura drammatica, che l’altra, nella pratica del linguaggio della scena, sanno bene proprio il contrario: e cosa sarebbero allora quel distanziamento, quelle cadenze ritmate e anche viziate se non lo strumento linguistico per prendere le distanze da qualsiasi coinvolgimento tragico e, contemporaneamente, da quello sentimentale per ciò che riguarda l’altro piano cui si oppone la recitazione della Abba (e la scrittura pirandelliana) e cioè il basso romanticismo decadente di tante “produzioni” loro contemporanee? L’unica giustificazione alla miopia, o cecità, di questi critici è data dal fatto che, se pure in modo diverso, come è chiaro, né Pirandello né la Abba arrivano a una lucidità di poetica paragonabile a quelle di Brecht e di Artaud e, più tardi, di Beckett: ma l’intuizione, e ben più di una intuizione, pur fra le contraddizioni, c’è tutta: il valore della Abba, non capìta né allora né dopo, è proprio qui. E non è certo poco.
       Anche Bertuetti, che intende più e meglio degli altri, è però invischiato nelle stesse panie ideologiche, di ideologia del teatro e del mondo insieme. Ma, per diversità di gusto, capisce meglio, appunto. E, infatti, le sue lodi sono più precise, meno formali, più ‘tecniche’. Ecco dunque:

       […] eccola rianimarsi dopo il “morso” della vita, nel travaglio estenuante della ricerca, perdersi nel dubbio, abbandonarsi all’illusione, riperdersi, fino alla riaffermazione ultima, solenne, vittoriosa.

       Ma a queste parole seguono queste altre:

       E qui l’attrice ci parve più che altro presa dalla necessità di rendere limpido e schietto il viluppo tortuoso della dialettica pirandelliana, tutta occupata cioè a sottolineare, a chiarire, a semplificare, mentre l’èmpito incalzante delle argomentazioni e la piena dei sentimenti e la smania, l’angoscia, il terrore avrebbero potuto avere voce più travolgente e accenti più tragici (30).

(30) E. Bertuetti, “Trovarsi”. Tre atti di Luigi Pirandello, in “Gazzetta del popolo”, 15 febbraio 1933.

       Quel “sottolineare, chiarire, semplificare” ci riporta immediatamente alle cadenze ritmate: anche qui l’incomprensione della strategia linguistica di spiazzamento e di distanziazione nei confronti di un tragico ormai impossibile da praticare e di un sentimento già all’epoca totalmente inautentico non vengono capiti: e come potrebbe essere altrimenti da parte di critici che usano il termine “dialettica” sempre in senso negativo? (31)

 (31) Ecco d’Amico nel ’26 a proposito di Due in una: “[…] un terz’atto difficilissimo, che ancora una volta avrebbe potuto parer sofistico, o anche soltanto dialettico […]”; S. d’Amico, “Due in una” di L. Pirandello al Valle, in “La tribuna”, 30 marzo 1926.

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       Cinquant’anni dopo la prima, Marta Abba registra Trovarsi per la radio della Svizzera italiana. Ormai l’attrice ha superato l’ottantina e si potrebbe pensare che i tempi e il tempo l’avessero portata a recitare il testo pirandelliano in chissà quale modo. Ma, al contrario, l’ascolto di quella registrazione (32) non fa che confermare quanto, grazie ai cronisti del tempo, abbiamo potuto ricostruire fino a qui.

 (32)  Ringraziamo Sandro d’Amico per averci dato modo di ascoltare questo testo radiofonico fornendocene una copia.

Il regista della trasmissione, Grisco Masciò, introducendo l’evento, dice espressamente che la Abba recita la sua parte proprio come Pirandello voleva fosse recitata e l’ascolto ci conforta sul va lore di questa affermazione che, d’altronde, è certamente dovuta all’attrice (33).

 (33) È nota la cura gelosa con cui Marta Abba amministrò l’eredità, sia spirituale che materiale, del suo Maestro arrivando al punto di scegliere gli autori dei risvolti di copertina delle commedie pirandelliane di sua proprietà secondo il suo gradimento.

       E dunque, la Abba mette in atto, in questa edizione radiofonica, un fraseggio recitativo affrettato, tende alla monotonalità e smorza i toni: ne vengono fuori le famose cadenze ritmate grazie alle quali manifesta la sua freddezza attraverso cui rende palese all’ascoltatore il suo distacco. Ecco un esempio. A metà del primo atto, quando si sviluppa la discussione sulla realtà e sulla finzione, Donata ha una lunga battuta in cui nega che sulla scena ella porti la finzione la cui conclusione suona così: “Evadere! Trasfigurarsi! diventare altri!” (34).

 (34)  L. Pirandello, Trovarsi, in Maschere nude, vol. IX, Milano, Mondatori, 1956, p.143.

      Si tratta di una battuta fortemente enfatica che, dopo un lucido ragionamento se pure espresso con toni di passione, esplode in un empito sentimentale violento; e, non certo a caso, Pirandello sottolinea l’enfasi con tre punti esclamativi. Ma la Abba riporta questa esplosione di sentimento al suo fraseggio freddo e distaccato e comprime così il tono amplificato e solenne di quella scrittura. Ora qui si pone immediatamente un problema: ma come si fa a dire che la Abba recita quella parte come voleva Pirandello se egli, così chiaramente attraverso i segni di interpunzione, sembra indicare una strada opposta? Probabilmente la spiegazione sta proprio nel fatto che Pirandello, nel momento in cui si fa ‘regista’, è in perfetto accordo con la sua attrice che, ‘istintualmente’ –e già abbiamo più volte specificato in quale senso intendere questa parola– con la sua freddezza e il suo distacco va verso l’implosione del tragico (va verso, appunto, nel senso che non giunge ancora fino in fondo al cuore del problema) mentre, in quanto scrittore, non riesce a rendere questa implosione sulle carte, e ricorre ai punti esclamativi. Per arrivare alla trascrizione letteraria dell’implosione –nella scrittura drammatica ovviamente perché di quella qui si tratta– bisognerà attendere Beckett e la sua straordinaria capacità, come scrittore, di registrare la sospensione e l’assenza del tragico nel mondo, nell’arte e nel teatro contemporanei.
       Pirandello non è Beckett e la Abba non giunge a una perfetta e compiuta realizzazione di una recitazione fortemente connotata dal le sue pulsioni istintuali; ma ciò nulla toglie al fatto che lo scambio di esperienze tra scrittore e attrice abbia portato a un linguaggio della scena non solo decisamente nuovo –e anche di qui le incomprensioni di cui sono testimonianza le lettere– ma soprattutto diverso nel panorama abbastanza squallido, fatte salve le solite pochissime eccezioni, e provinciale del teatro italiano del tempo.
       Molte accuse a Pirandello di iracondia e di pessimo carattere e tante alla Abba di simile tenore dovrebbero essere lette alla luce di quanto abbiamo appena scritto dal momento che le critiche a loro mosse nascevano proprio nell’humus purtroppo fertile del provincialismo misoneistico di quegli anni e, al di là del moralismo che colpiva la loro vita privata, servivano a escluderli dal teatro vero e dal teatro grande relegandoli a fenomeni adatti a pochi. Come se il teatro vero e il teatro grande non fossero invece costituiti proprio da loro e da quei pochi che, come loro, combattevano per un rivolgimento della scena italiana perseguendo le tematiche e il linguaggio facenti capo al nodo concettuale della disfatta e della morte dell’attore e di quella del teatro portando così sempre più avanti il discorso impostato della Duse, con tanta geniale sapienza, mezzo secolo prima.

Gigi Livio

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