L’umorismo di Pirandello fra Opera Aperta e la scoperta dell’io

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Di Andrea Bini

L’impossibilità pirandelliana di vivere autenticamente mette in scena l’autoillusione dell’uomo moderno nevroticamente sempre incerto su se stesso, nel momento in cui afferma di non credere più a quello che fa pur continuando ostinatamente a farlo. Allo stesso tempo, proprio questo continuo osservarci nelle nostre più piccole azioni quotidiane ci fa dissociare da queste, a tal punto che finiscono per essere percepite come tanto automatiche quanto insincere, false.

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L umorismo di Pirandello
Immagine da Giornalemio.it

L’umorismo di Pirandello
fra Opera Aperta
e la scoperta dell’io

da Academia.edu

Il presente saggio analizza l’estetica di Pirandello, contenuta soprattutto nel suo saggio L’umorismo, e il suo contributo dato all’estetica del XX secolo. Costituendo una rottura rispetto agli ideali estetici precedenti, la distinzione pirandelliana fra arte umoristica e non-umoristica può essere paragonata a quella fra arte aperta e arte classica teorizzata da Umberto Eco nel suo saggio Opera Aperta (1962). Ma interpretare L’umorismo come esempio ante litteram di opera aperta in quanto meta-arte autoriflessiva è anche lo spunto per ripensare il cuore della poetica pirandelliana incentrato sul problema della dissoluzione dell’io. Nella seconda parte di questo lavoro intendo dimostrare che nonostante l’esplicita dichiarazione di scetticismo lo scrittore siciliano è testimone acuto di una società in cui a emergere è proprio interiorità del soggetto, che si afferma parallelamente al declino delle varie maschere sociali. Detto in termini più specifici, nella società moderna di massa ad andare in crisi è il valore sociale del performativo. Questo significa leggere Pirandello alla luce delle tesi del sociologo Richard Sennet, contenute nel libro The Fall of the Public Man (1977), e di quelle di impostazione psicanalitica che il filosofo Robert Pfaller ha esposto in Die Illusionen der anderen: Über das Lustprinzip in der Kultur (2002).

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Introduzione

Questo lavoro si propone di analizzare la personale visione estetico-filosofica di Pirandello espressa nella sua concezione di umorismo, e di metterla a confronto con quella a lui successiva. Non è certo una novità affermare che ne L’umorismo Pirandello anticipa il discorso nato e portato avanti dalle avanguardie artistiche del novecento. Per esempio, lo studioso Giorgio Barberi Squarotti ha scritto che “Pirandello molto acutamente definisce il carattere dell’arte moderna come quella che accoglie in sé anche la riflessione su sé stessa, cioè comporta come essenziale il momento critico insieme con quello creativo” (Pirandello e i rapporti fra scienza e arte, 1982: 170). In altri termini, L’umorismo di Pirandello all’inizio del secolo rappresenta un momento cruciale della trasformazione dell’arte contemporanea in meta-arte, riflessione critica su sé stessa, sulla sua essenza e sulle proprie condizioni di possibilità. Difatti, come osservano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel saggio Mercanti d’aura, “una prima distinzione decisiva tra arte classica e contemporanea è che la seconda non può prescindere dal discorso su sé stessa, cioè dalla riflessività “(Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, 2006: 43).

Se questo è vero, la distinzione pirandelliana fra arte umoristica e non-umoristica può essere letta alla luce di quella fra arte aperta e arte classica teorizzata da Umberto Eco più di cinquant’anni fa in Opera Aperta. Nel suo celebre saggio del 1962 il trentenne Eco aveva individuato come  caratteristica  principale dell’arte contemporanea una chiara tendenza all’apertura, una esigenza di non conchiudere il fatto plastico in una struttura definita, di non determinare lo spettatore ad accettare la comunicazione di una data configurazione, e di lasciarlo disponibile per una serie di fruizioni libere, in cui egli scelga gli esiti formali che gli appaiono congeniali (Umberto Eco, Opera aperta. Forma ed indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 2004: 218).

L’umorismo pirandelliano è in linea – entro certi limiti che vedremo – con le peculiarità evidenziate da Eco: ci troviamo di fronte a una “opera aperta” in quanto meta-arte autoriflessiva che rifiuta l’idea classica di bellezza. Quelle forme armoniche e conchiuse che dominavano le estetiche precedenti – nonostante alcune notevoli eccezioni citate da Pirandello stesso come il Tristram Shandy di Sterne o i Gulliver’s Travels di Swift – sono da Pirandello messe in crisi e definitivamente superate. [1]

[1] Già in una lettera del 1895, accanto ad autori quali Swift e Rabelais, Pirandello definisce Sterne come “tra i più grandi scrittori umoristi, forse il più grande” (Lettere della formazione (1891–1898), 1996: 222).

Ma investigare L’umorismo come proto-esempio di opera aperta è anche lo spunto per rivedere l’idea comunemente accettata che quella pirandelliana sia una poetica del soggetto in crisi, della dissoluzione dell’io. Questo non significa negare che ci troviamo di fronte al “modello di un’opera d’arte capace di riflettere in sè, il principio stesso della sua composizione, il disagio dell’uomo nel mondo della disgregazione” (Claudio Vicentini, Pirandello: il disagio del teatro, 1993: 46). La tesi di questo lavoro è che nonostante l’esplicita dichiarazione di scetticismo lo scrittore siciliano è testimone acuto di una società in cui a emergere, paradossalmente, è proprio la soggettività interiore, la quale viene messa a nudo nei suoi aspetti più intimi e scabrosi. Al contrario, come mostra il sociologo Richard Sennet nel saggio The Fall of Public Man, ad andare in crisi nell’ottocento sono proprio le varie maschere sociali che in precedenza venivano impersonate e deposte senza alcun problema nello spazio pubblico. Dal punto linguistico, in altri termini, ad andare in crisi nella società moderna di massa è il parlare performativo, la cui efficacia rituale si riduce alle dimensioni del gioco e dell’arte. Non a caso, in contraddizione con la sua stessa poetica, Pirandello mostrerà fino all’ultimo una forte nostalgia verso la figura dell’autore come dominus assoluto della sua opera.

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Arte classica e arte umoristica

Come è noto, ne L’umorismo – pubblicato nel 1908 per la sua assunzione in ruolo al Magistero di Roma, e poi in una seconda edizione del 1920 con aggiunte e revisioni – Pirandello coglie l’occasione di elaborare in modo completo e organico la sua personale visione estetica che era venuta maturando in quegli anni. [2]

[2] Pirandello espone la sua personale visione artistica in una lunga serie di articoli di critica letteraria che si susseguiranno per tutta la sua vita parallelamente alla sua produzione Questi scritti sono caratterizzati da un confronto polemico continuo con le più importanti correnti estetiche del suo tempo: da un lato il realismo, che comprendeva una parte importante della narrativa europea di fine ottocento; dall’altro l’estetica anti-intellettualistica del filosofo Benedetto Croce, allora dominante in Italia. Per una analisi accurata dell’evoluzione del concetto di umorismo in Pirandello rimando allo studio di Paola Casella (L’Umorismo di Pirandello. Ragioni intra-e interstestuali, 2002).

Egli distingue l’arte in due specie fondamentali: quella che potremmo chiamare arte classica e “un’eccezionale e speciosissima espressione d’arte come l’umoristica” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 15–16). Secondo Pirandello le forme dell’arte classica non si differenziano dalle altre forme storiche che caratterizzano la nostra esistenza come esseri sociali e culturali, nel senso che tutte tendono a cristallizzare la vita in forme dotate di senso determinato: “L’arte, come tutte le costruzioni ideali od illusorie, tende a fissar la vita” (Ivi: 160). L’arte classica è quindi caratterizzata dalla presenza di determinati principi (estetici, etici, metafisici) che ne costituiscono dal di fuori il canone, e quindi la sua stessa condizione di possibilità. Al contrario, lo scrittore siciliano definisce l’arte umoristica come quel tipo di arte che si configura e si nutre proprio di quelle situazioni limite in cui quei principi e quelle forme ideali una volta riconosciute valide vengono problematizzate e messe in crisi. Per questo motivo l’arte umoristica è particolarmente adatta a descrivere una società e una cultura in crisi, e quindi la condizione esistenziale dell’uomo moderno.

In realtà, come alcuni interpreti hanno notato (Casella, 2002), Pirandello non è chiarissimo nel suo discorso, e non è facile capire il rapporto che intercorre fra i due tipi di arte, quella classica e quella umoristica, e con la cultura di cui dovrebbero essere espressione. L’arte umoristica è veramente l’unica capace di cogliere la crisi dell’uomo moderno, oppure il suo privilegio non è esclusivo per cui ci troviamo di fronte ad approcci radicalmente differenti ma entrambi ancora legittimi della creazione artistica? Alcune affermazioni confermerebbero questa seconda ipotesi, quando Pirandello sembra concedere che ogni forma di espressione artistica – e quindi sia l’arte classica sia quella umoristica – per esser tale deve essere sempre caratterizzata dalla creazione spontanea e organica da parte di uno spirito libero da interessi e finalità pratiche. Ad esempio, nell’articolo del 1918 Teatro e letteratura troviamo scritto che:

l’arte libera le cose, gli uomini e le loro azioni da queste contingenze [della vita] senza valore, da questi particolari comuni, da questi volgari ostacoli, da queste accidentali miserie: in un certo senso, li astrae: cioè rigetta, senza neppur badarvi, tutto ciò che contraria la concezione dell’artista e aggruppa invece tutto ciò che, in accordo con essa, le dà più forza e più ricchezza. Così crea un’opera che non è, come la natura, senz’ordine (almeno apparente) e irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda e a vicenda cooperano. In questo senso appunto l’artista idealizza. (Luigi Pirandello, Teatro e letteratura. In: Saggi, Poesie, Scritti varii. Milano, Mondadori, 1993: 1022, corsivo mio).

Nel momento in cui concepisce ogni creazione artistica genuina come capace di trascendere gli elementi contingenti della vita, Pirandello sembra implicitamente ammettere che un’arte classica sia ancora, almeno in teoria, possibile. [3]

[3] Nell’articolo Illustratori, attori e traduttori (1908) Pirandello si oppone al mero naturalismo in arte: “L’arte invece libera le cose, gli uomini e le loro azioni di queste contingenze senza valore, di questi particolari comuni, di questi volgari ostacoli o minute miserie; … Crea cosı un’opera d’arte che non è , come la natura, senz’ordine (almeno apparente) ed irta di contraddizioni, ma quasi un piccolo mondo in cui tutti gli elementi si tengono a vicenda e a vicenda In questo senso l’artista idealizza” (Luigi Pirandello, Illustratori, attori e traduttori. In: Saggi, Poesie, Scritti varii. Milano, Mondadori, 1993: 217–218). Analogamente, in Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa, egli scrive che l’arte “non consiste, né può consistere nell’imitare senz’altro, tal quale, la natura .. . ma ha una sua verità , una realtà superiore a tutte queste particolarità volgari, ovvie, comuni, a tutti questi segni esteriori” (Luigi Pirandello, Soggettivismo e oggettivismo. In: Saggi, Poesie, Scritti varii. Milano, Mondadori: 203, corsivo mio).

Se nel passato vi sono sempre stati casi esemplari di arte umoristica (critica e dissolutrice di certezze) dovuta ad alcuni autori eccezionali – come nel paradigmatico Don Chisciotte di Cervantes – non si può escludere a priori la possibilità che un grande artista si mostri capace di trarre dai vari elementi della vita contemporanea una rappresentazione armonica senza necessariamente cadere nella trappola del kitsch. Allo stesso tempo lo scrittore siciliano è convinto che, poiché sotto l’ordine apparente la vita umana si è rivelata enigmatica e contraddittoria, l’arte contemporanea non è più di fatto in grado di sublimarla in una forma ideale.

La vita nuda, la natura senz’ordine almeno apparente, irta di contraddizioni, pare all’umorista lontanissima dal congegno ideale delle comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano … di qui nell’umorismo tutta quella ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell’arte in genere. (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 162, corsivo mio)

Se vuole veramente esprimere il senso della vita quale si rivela alla coscienza umana – o meglio la sua mancanza di senso – l’artista umoristico non può più trascurare gli elementi apparentemente triviali, e cioè quelli che impediscono la creazione di forme “belle” tipiche dell’arte classica, ma anzi deve sottolinearli e porli in primo piano nella rappresentazione.

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L’umorismo come sentimento del contrario

Che cos’è dunque l’umorismo per Pirandello? Nella seconda parte de L’umorismo egli lo definisce “il sentimento del contrario”, distinguendolo dall’effetto comico in quanto quest’ultimo sarebbe un semplice “avvertimento del contrario” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: p. 126). [4]

[4] Pirandello definisce l’umorismo un sentimento anche per sottolineare il fatto che ci troviamo di fronte a una forma espressiva che, pur prodotta da una speciale attività della riflessione, rimane purtuttavia di tipo estetico e non La presenza del sentimento quindi non è esclusiva dell’umorismo ma si ritrova in tutte le forme artistiche, incluso il comico.

Pirandello sembra quasi compiacersi della semplicità e simmetria della sua definizione che lo porta a presentare il comico e l’umoristico come due opposte reazioni psicologiche di fronte al medesimo oggetto. Tuttavia, sebbene l’umorismo sia definito “sentimento del contrario”, questo secondo contrario non è affatto identico al primo, ma scaturisce da un atto della riflessione che produce una rappresentazione antitetica a quella su cui si basava l’iniziale reazione comica. Difatti il comico è definito come l’”avvertimento del contrario” non perché non sia un sentimento, ma per il fatto che noi siamo mossi al ridere in quanto avvertiamo che qualcuno è eccentrico rispetto all’ordine abituale delle cose, ordine che noi implicitamente accettiamo. L’effetto comico classico è una reazione impulsiva messa in moto dal tacito riconoscimento delle convenzioni sociali, il cui “contrario” è una eccezione che infrange il codice sociale accettato, come nel celeberrimo esempio della “vecchia signora”. Il “contrario” dell’umorismo invece è il prodotto aggiuntivo di un atto originale della riflessione che risveglia “idee ed immagini in contrasto” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 134). [5]

[5] Osservando che il celebre esempio della vecchia signora fu aggiunto nel 1920 per correggere una certa indeterminatezza nel concetto di “sentimento del contrario”, Casella scrive che l’esempio serviva a chiarire come tale sentimento “costituisca la sintesi finale del particolare processo dialettico messo in moto dalla riflessione umoristica” (Paola Casella (L’Umorismo di Pirandello. Ragioni intra-e interstestuali, 2002: 207).

La riflessione ci rende consapevoli che l’anomalia che ha prodotto l’effetto comico rivendica la sua legittimità di fronte a quella del codice sociale che davamo inizialmente per scontato come normale. Per questo Pirandello scrive che la riflessione “suscita un’associazione per contrarii; le immagini cioè , anziché´ associate per simulazione o per contiguità , si presentano in contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d’immagini desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 133). [6]

[6] Vicentini ha giustamente osservato che con l’umorismo ci troviamo di fronte a una “opposizione di sentimenti contrari” (Claudio Vicentini, L’estetica di Pirandello, 1970: 119).

L’umorismo è quella particolare espressione artistica che invece di esprimere una determinata forma ideale privilegia la disarmonia e l’irrazionalità nel gioco dialettico di opposti sentimenti.

L’arte in genere astrae e concentra, coglie cioè e rappresenta così degli individui come delle cose, l’idealità essenziale e caratteristica. [Mentre] per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 160)

Facendo sorgere il contrario di ogni rappresentazione comica, la riflessione umoristica ci mostra che è un’illusione credere alla validità e assolutezza di ogni forma di vita. A differenza del comico, nell’umorismo noi ridiamo proprio della pretesa di considerare assolute determinate forme e convenzioni sociali, mentre la loro natura non è che convenzionale e illusoria. Ridiamo (o meglio sorridiamo con amarezza) innanzitutto di noi stessi e della nostra presunzione, mentre proviamo compassione per gli atteggiamenti apparentemente stravaganti degli altri, essendo finalmente in grado di coglierne le motivazioni interiori.

La differenza di approccio fra arte classica e umoristica non potrebbe essere più totale nel momento in cui Pirandello sottolinea l’opposizione fra il potere dissolvente della seconda e le sintesi ideali della prima. Infatti l’umorismo non propone un suo superiore punto di vista dal quale criticare i principi delle tradizionali forme di vita per poi sostituirli con qualcosa d’altro. Al contrario, lavora per rompere quelle forme dall’interno in modo che l’opera finale abbia un aspetto fluido, dissonante, che renda possibili diversi atteggiamenti mentali, diverse letture. L’umorismo dissolve continuamente le costruzioni illusorie dell’animo umano nutrendosi di queste, essendo la riflessione “come un demonietto che smonta il congegno d’ogni immagine, d’ogni fantasma messo su dal sentimento; … e si compiace a un certo punto di porre a fronte, in contrasto, il sentimento attivo, positivo, e la riflessione negativa” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 139–140). Robert Dombroski ha giustamente osservato che affinché sia operativo l’umorismo, è necessaria l’esistenza di una forma, e questa forma, nella sua più esplicita manifestazione, non può essere per Pirandello che la vita sociale, ridotta a ipotesi realistica e caricata di tutta la negatività che possa connotare l’appellativo “meccanico”, “inautentico”, “vita soppressa”, ecc. … Il romanzo diventa simbolo di sé stesso, metaopera che non rimanda ad altro che ai processi mentali che l’hanno creato. (Robert Dombroski, La totalità dell’artificio. Ideologia e forma nel romanzo di Pirandello, 1978: 26–54, corsivo mio)

L’umorismo ha bisogno di presentare le forme della vita per far scaturire da esse una molteplicità di punti di vista e di sentimenti opposti. In questo senso vi è una dialettica interna all’arte umoristica stessa, in quanto questa continuamente presenta contenuti per negarli in un linguaggio equivoco, disarmonico e auto-dissolvente. [7]

[7] Come ha scritto Robert Dombroski, “l’arte per Pirandello vien esplicitata sempre nel processo del ‘contrasto’, ed è il contrasto, tutt’uno sul piano epistemologico colla ‘sovversione’, che forma l’essenza dell’umorismo” (Robert Dombroski, Pirandello e Freud: le dimensioni conoscitive dell’umorismo, 1982: 65).

Il bisogno di un oggetto per la riflessione umoristica è una conseguenza dell’impossibilita di uscire dal gioco delle forme e di porsi da un punto di vista superiore, al di là delle turbolenze prodotte da quelli soggettivi e illusori. Difatti Pirandello scrive in Un critico fantastico che “ogni umorista è un critico di sé stesso, del proprio sentimento; un critico sui generis; fantastico” (Luigi Pirandello, Un critico fantastico. In: Saggi, Poesie, Scritti varii, Milano, Mondadori, 1993: 373). Mostrando l’assurdità della vita di tutti i giorni, la riflessione umoristica non produce un atteggiamento e una qualche conoscenza positiva ma la sospensione del giudizio, “il non saper più da che parte tenere, la perplessità, lo stato irresoluto della coscienza” (Luigi Pirandello, L’umorismo. Milano, Mondadori, 1992: 147). Alla fine induce nello spettatore/lettore uno stato quasi di atarassia, pur nella consapevolezza che tale stato non può essere mantenuto a lungo poiché la vita ci costringe continuamente all’azione. [8]

[8] Pirandello si rende conto che non è possibile (e in fondo neanche auspicabile) vivere al di fuori delle forme della vita e delle condizioni materiali e sociali della Nel 1936, in una delle ultime interviste dichiara che “se all’uomo libero togliete la forma, in quanto legame spirituale subito egli ricasca tra le bestie, e il primo atto della sua cosı detta liberta è una fucilata contro un altro uomo” (Vincenzo Crupi, L’altra faccia della luna. Assoluto e mistero nell’opera di Pirandello, 1997: 21).

Ci troviamo di fronte a un “profondo e sottile sentimento filosofico, pessimistico o scettico, sentimento che si sdoppia e talvolta anche si moltiplica cosicché l’umorista, smarrito e perplesso, non sa più da qual parte tenere” (Luigi Pirandello, Arte e scienza. In: Saggi, Poesie, Scritti varii, Milano, Mondadori, 1993: 277). La soluzione pirandelliana non è quella di fuggire alla ricerca di una nuova forma di vita che non può che rivelarsi altrettanto inautentica, ma, come ha osservato Remo Bodei, di “strutturare e regolare metodicamente un proprio mondo possibile ritagliato su una parte del mondo reale … Le illusioni non rappresentano più in quest’ambito un mero surrogato del mondo, bensì il suo quotidiano riscatto, la sua sublimazione” (Remo Bodei, Scissione della coscienza e personalità multiple. In: L’enigma Pirandello. Atti del Congresso Internazionale ,1988: 24–25, corsivo mio). Solo l’artista umorista sa vedere in faccia le proprie e altrui illusioni, e vivere con distacco le varie mascherate sociali.

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L’umorismo come “opera aperta”

Per la sua capacità di dissolvere dialetticamente ogni certezza dogmatica, l’umorismo è consapevolezza dell’inautenticità della condizione umana moderna caratterizzata da una totale crisi di valori. Per Pirandello, ammesso pure che sia ancora possibile fare arte classica, il nostro è il tempo dell’arte umoristica. L’aspetto più interessante dell’estetica pirandelliana sta quindi nel fatto che in quanto espressione di un sentire tipico dell’uomo moderno si propone come un tipo assolutamente nuovo di arte, una sorta di meta-arte che pone continuamente a sé stessa il problema del proprio fondamento. La riflessione umoristica rivela l’impossibilita di una dimensione ulteriore capace di fondare l’opera d’arte, producendo la rappresentazione estetica nell’atto stesso in cui dissolve principi, sentimenti e forme di vita. Per questo motivo l’arte umoristica non può esprimere forme perfette e conchiuse il cui valore risiede nell’armonia interna, ma, al contrario, opere caratterizzate da discontinuità e fratture, essendo “una nuova forma d’arte, aperta e non più chiusa, problematica e non più definitiva” (Giuseppe Nava, Arte e scienza nella saggistica di Pirandello, 1982: 193).

È in questo senso che l’estetica pirandelliana può essere considerata una anticipazione del concetto di “opera aperta” teorizzato da Eco nel suo saggio del 1962. Come Pirandello, anche Eco individua le cause storiche della transizione dall’arte classica a quella aperta nella crisi definitiva del copernicanesimo umanistico in favore di un relativismo anti-euclideo:

La poetica dell’opera aperta ci presenta appunto una possibilità storica di questo tipo: l’affermarsi di una cultura per cui sia ammessa, di fronte all’universo delle forme percepibili e delle operazioni interpretative, la complementarità di ispezioni diverse, la giustificazione di una discontinuità dell’esperienza, assunta come valore in luogo di una continuità convenzionalizzata. (Umberto Eco, Opera aperta. Forma ed indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 2004: 150, corsivo mio)

L’arte moderna è (e non può che essere) aperta perché´ si trova di fronte al paradosso di descrivere un mondo in cui l’uomo moderno si ritrova naufrago senza più punti di riferimento assoluti. [9]

[9] Analogamente a quanto afferma Pirandello per l’arte umoristica, Eco sostiene che il nostro è il tempo dell’arte aperta; pur ammettendo esplicitamente la possibilita di realizzare ancora opere in stile Del resto egli osserva come ogni opera artistica sia sempre in fondo aperta (a innumerevoli interpretazioni), a differenza delle rigide determinazioni concettuali tipiche del discorso razionale. Nell’arte contemporanea ci troviamo tuttavia di fronte a “una intenzione di apertura esplicita e portata all’estremo limite” che perciò si dovrebbe più propriamente definire “apertura di secondo grado” (Eco, 2004: 89). Su Eco e Pirandello, si veda anche Di Martino (From Pirandello’s Humor to Eco’s Double Coding: Ethics and Irony in. Modernist and Postmodernist Italian Fiction, 2011).

Se l’umorismo Pirandelliano si è rivelato essere una estetica profondamente moderna, quest’ultima a sua volta, come ha giustamente osservato Wladimir Krysinski facendo riferimento proprio a Eco, mostra una natura schiettamente umoristica, parodistica e dissacrante: “the humoristic tradition objectifies itself precisely as critical interpretation and specifies itself on the artistic level to the degree that it is supported by some of the invariants of modernity, notably subjectivity, irony, self-reflexivity, fragmentation and ‘the open work”’ (Wladimir Krysinski, Pirandello in the Discursive Economies of Modernity. In: Gian-Paolo Biasin e Manuela Girei (a cura di) Luigi Pirandello. Contemporary Perspectives.1999: 222). [10]

[10] Tutte le citazioni da testi non italiani saranno prese da edizioni in lingua

Secondo Eco infatti la riflessività tipica dell’arte contemporanea nasce dalla presa di coscienza che non si può uscire dalla condizione di crisi ma solo mostrare dall’interno l’illusorietà delle diverse forme di vita:

È l’arte che per far presa sul mondo vi si cala assumendone dall’interno le condizioni di crisi, usando per descriverlo lo stesso linguaggio alienato in cui questo mondo si esprime: ma, portandolo a condizione di chiarezza, ostentandolo come forma del discorso, lo spoglia della sua qualità di condizione alienante, e ci rende capaci di demistificarlo. (Umberto Eco, Opera aperta. Forma ed indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 2004: 278)

L’arte moderna allude continuamente alla propria natura di finzione ponendosi in relazione con il momento sempre soggettivo e contingente della sua fruizione. Se da un lato la rappresentazione estetica è divenuta il luogo privilegiato per un enunciato sul senso del mondo che non può più aspirare all’assolutezza, dall’altro l’arte non può più trarre il suo fondamento da un sistema di valori e di regole esterno ad essa, ma deve elaborare in sé stessa il suo discorso fondante e il criterio di legittimazione delle proprie forme rappresentative. Anche quando arriva ad annunciare la “morte dell’arte” – come è avvenuto nel caso di alcune correnti artistiche del secondo dopo- guerra – la riflessione dell’artista contemporaneo non si pone come cornice esterna all’opera ma attraversa e si confonde con essa senza soluzione di continuità . [11]

[11] Come scrivono Dal Lago e Giordano, l’arte contemporanea, proprio nel riconoscimento della propria illusorietà e apertura – e quindi nella scomparsa della cornice che stabiliva una volta per tutte il limite invalicabile fra ciò che è dentro da ciò che è fuori dell’opera d’arte – è divenuta discorso su se stessa, per cui “attraverso se stessa, vuol produrre anche e soprattutto un’idea di se stessa” (Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, 2006: 42).

In The frames of comic ‘freedom’ Eco chiarisce in termini semiotici lo stretto legame fra opera aperta e umorismo, spiegando come il cuore trasgressivo di quest’ultimo non risieda in un elemento interno alla diegesi ma nella speciale autoriflessività del testo.

If there is a possibility of transgression, it lies in humor rather than in comic. Semiotically speaking, if comic (in a text) takes place at the level of fabula or of narrative structures, humor works in the interstices between narrative and discursive structures: the attempt of the hero to comply with the frame or to violate it is developed by the fabula, while the intervention of the author, who renders explicit the presupposed rule, belongs to the discursive activity and represents a metasemiotic series of statements about the cultural background of the fabula. (Umberto Eco – Frames of comic ‘freedom’, 1984: 9)

Non ci troviamo solo di fronte al dissolversi delle vecchie coordinate di valori dotate di loro principi assoluti, siano essi di tipo aristotelico o copernicano (teocentrici nel primo caso, umanistici nel secondo), che erano state per secoli alla base dell’ispirazione artistica. Questo strappo significa anche frattura dei confini che definivano l’ambito, la cornice della rappresentazione. L’apertura e l’indeterminatezza dell’arte contemporanea significano quindi apertura e relazione dinamica verso lo spettatore, il quale è esplicitamente invitato a partecipare al gioco e a colmare le ambiguità semantiche con il proprio contributo attivo. L’opera d’arte del nostro tempo non potrà essere altro che uno schema embrionale capace di generare molteplici letture.

L’arte umoristica non comporta solo la propensione a una struttura fluida e ambigua, ma, in quanto arte che si pone sul limite della critica di sé stessa, implica una comunicazione fra l’interno e l’esterno dell’opera in un gioco che crea e rompe continuamente l’illusione. Questo spiega la scelta della prima persona nei romanzi di Pirandello, e il continuo rivolgersi dell’autore direttamente ai lettori tramite la voce dei suoi personaggi con monologhi a volte molto lunghi che potrebbero essere facilmente sostituiti con quelli presenti nelle sue opere critiche. Anche da questo punto di vista l’ultimo romanzo Uno, nessuno e centomila è una vera e propria summa della poetica pirandelliana. Qui l’autore si rivolge direttamente ai lettori attraverso il protagonista Vitangelo Moscarda, vero e proprio alter ego, con lunghi monologhi che forniscono la chiave di lettura critica dell’opera. Ad esempio, nel libro II Moscarda descrive il fallimento di ogni reciproca comprensione abbozzando una teoria del linguaggio che ricorda quella lacaniana (esteriorità simbolica del significante vs. interiorità immaginaria del significato):

Ma il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto. (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila. Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Roma: Newton & Compton, 2006: 214)

Accanto alla scomparsa della verità dall’orizzonte umano, Pirandello sottolinea l’inevitabile equivocità del linguaggio: il significato di quanto cerchiamo di esprimere agli altri non può che essere assolutamente personale, soggettivo e quindi “aperto”. Un altro celeberrimo esempio di metadiscorso pirandelliano si trova ne Il fu Mattia Pascal – opera, tra l’altro, scritta prima dell’Umorismo. Verso la metà del romanzo il curioso personaggio Anselmo Paleari si rivolge al protagonista con queste parole:

Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe?

… Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo … Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco in un cielo di carta. (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila. Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Roma: Newton & Compton, 2006: 124)

Tramite Anselmo – chiaramente un suo alter ego – Pirandello teorizza la differenza fra arte classica e umoristica proprio nel dissolvimento delle strutture della prima. Allo stesso tempo il brano è anche un perfetto esempio di “buco nel cielo”, attraverso il quale l’autore irrompe nel testo con una temporanea e improvvisa sospensione del flusso della narrazione per rivolgersi direttamente al lettore.

Non c’è bisogno di ricordare che il teatro di Pirandello si propone come una struttura narrativa aperta e autoriflessiva. Opere quali Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto sono tutti esempi di scrittura teatrale basata sul gioco fra il dentro e il fuori la rappresentazione scenica, oltre che sulla ambiguità del modo in cui gli avvenimenti sono messi in scena nella loro successione causale. In mancanza di una voce narrante, nel suo teatro Pirandello utilizza quella dei suoi personaggi per aprire la scena al proprio pensiero, in quelli principali come quelli secondari. Tuttavia l’esigenza di imporre la propria visione finisce spesso per privilegiare il punto di vista di un unico personaggio, portatore ufficiale delle convinzioni dell’autore a fronte dell’insipienza di tutti gli altri – come il celeberrimo Laudisi in Così è (se vi pare). Il fatto è che se Pirandello è fedele alla propria poetica umoristica nel contenuto delle sue opere – nel “messaggio” –, lo è assai meno riguardo alla loro forma, soprattutto rispetto alle avanguardie novecentesche a cui fa riferimento Eco. Come abbiamo visto sopra, ancora nell’articolo del 1918 Teatro e letteratura lo scrittore siciliano ribadisce che l’arte deve essere sempre “classica” in quanto aspira a una rappresentazione ideale, a una creazione armonica di senso che nella sua compiutezza trascende il fluire caotico della realtà. L’umorismo, insomma, da dissolutore di certezze diventa quindi vera e propria cornice interpretativa dell’opera d’arte, attraverso la quale lo scrittore legittima le proprie aspirazioni autoriali. Nelle pagine che seguono cercherò di spiegare le ragioni storico-sociali di questa apparente contraddizione.

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La crisi della maschera sociale e la nascita del soggetto come problema

Come è noto, Pirandello è influenzato dal tema nietzschiano della scomparsa di una verità assoluta, come anche da quello della pluralità inconscia e vitalistica dell’io conseguente alla scoperta che ogni cellula del corpo è un individuo a sé stante, e quindi dalla successiva ipotesi della pluralità degli io introdotta dallo psicologo francese Alfred Binet. Ma egli è innanzitutto acuto testimone di una crisi sociale ben più diffusa e profonda dovuta alla trasformazione della nostra società in società di massa, trasformazione che avviene contemporaneamente al diffondersi dell’idea dell’individuo, del “sé “ come continuo “progetto riflessivo” – per usare una celebre espressione di Antony Giddens – tipica della modernità. Il senso in cui Pirandello ha intercettato ed espresso questi profondi cambiamenti socio-culturali può essere chiarito alla luce delle tesi del sociologo americano Richard Sennett e del filosofo tedesco Robert Pfaller.

Nel suo classico libro The Fall of Public Man, Sennett ha osservato come a partire dalla fine del diciottesimo secolo nelle grandi metropoli sia avvenuta una erosione dei codici comportamentali che regolano la condotta pubblica. In precedenza il comportamento nella sfera sociale era analogo a quello del teatro, disciplinato da un sistema rigido di codici socialmente riconosciuti e accettati. Questo significa che i rapporti sociali erano basati su rituali di tipo performativo che includeva anche la manifestazione pubblica delle proprie emozioni.

In an urban society facing a common audience problem for stranger and actor, solving that problem through common codes of belief, creating thereby a sense of a meaningful public domain in society, human expression is likely to be conceived in terms of gestures and symbols which are real no matter who makes that gesture or uses the symbol. Emotions are therefore presented. (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 41, corsivo mio)

Trad.: In una società urbana che affronta un problema di pubblico comune per straniero e attore, risolvendo quel problema attraverso codici di credenze comuni, creando così un senso di dominio pubblico significativo nella società, è probabile che l’espressione umana sia concepita in termini di gesti e simboli che sono reale, non importa chi fa quel gesto o usa il simbolo. Vengono quindi presentate le emozioni.

“Presentazione rituale delle emozioni” significa che la loro efficacia non dipende da un io che ne debba sostenere e convalidare la genuinità. Analogamente, la celebrazione della messa dipende solo dalla sua corretta esecuzione secondo un codice prestabilito (il cosiddetto “Messale romano”) e non dall’intenzione del soggetto enunciante (il prete).

Con la crisi di questi contesti e la trasformazione del pubblico in una massa eterogenea e anonima questa indifferenza nella presentazione di segni espressivi non è più possibile. Nel momento in cui si indeboliscono i codici sociali che regolano le nostre azioni la loro efficacia viene relegata alla capacita di esprimere autenticamente le nostre intenzioni ed emozioni in base a come si parla e agisce, non a quello che si fa:

As the problem of audience came to be conceived of differently in the city than in the theater, codes of belief and behavior before strangers drew apart in the two realms. As these two public roles drew apart, the two conditions for a meaningful geography were thrown into a state of confusion, and finally in the modern age into a stage of dissolution. As the public domain grew more obscure, the terms of how society understood human expressivity moved from presentation to representation. (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 42, corsivo mio)

Trad.: Quando il problema del pubblico venne concepito in modo diverso in città rispetto al teatro, i codici di credenze e di comportamento nei confronti degli estranei si separarono nei due regni. Man mano che questi due ruoli pubblici si separavano, le due condizioni per una geografia significativa furono gettate in uno stato di confusione e infine, nell’età moderna, in una fase di dissoluzione. Man mano che il dominio pubblico diventava sempre più oscuro, i termini con cui la società intendeva l’espressività umana si spostarono dalla presentazione alla rappresentazione.

Quando vengono meno il valore dei riti e la cautela per una attenta esecuzione, il comportamento diviene “rappresentazione,” segno e sintomo di un soggetto interiore. Se questo è vero, i personaggi pirandelliani non tanto la disgregazione dell’io quanto, al contrario, del fatto che in “a world without religious rituals or transcendental beliefs, masks are not ready-made” (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 264). In altri termini, proprio dall’erosione della natura teatrale del comportamento pubblico, nel momento in cui le performances delle molte maschere sociali perdono la loro chiarezza ed efficacia, sorge il tema (e quindi il problema), centrale del mondo moderno, dell’io nella sua individualità e unicità che tanto ossessiona autori come Pirandello. [12]

[12] Secondo Foucault è proprio quando la performatività va in crisi che il parlare impegna veramente il parlante, costituendolo come soggetto con un effetto retroattivo: “the very event of the enunciation may affect the enunciator’s being” (Michel Foucault, The Government of Self and Others: Lectures at the College de France, 2010: 68).

Nelle società contemporanee dominate dall’idea dell’autoaffermazione progettuale dell’uomo la convinzione che l’identità si riferisca al nostro io interiore diviene fonte di ansia duplice e contraddittoria: da un lato paura di rivelarsi in pubblico, dall’altro quella, tipicamente pirandelliana, di non essere autenticamente se stessi.

Under these conditions, everything returns to motive: Is this what I really feel? Do I really mean it? Am I really genuine? The self of motivations intervenes in an intimate society to block people from feeling free to play with the presentation of feelings as objective, formed signs. Expression is made contingent upon authentic feeling, but one is always plunged into the narcissistic problem of never being able to crystallize what is authentic in one’s feelings. (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 267, corsivo mio)

Trad.: In queste condizioni tutto ritorna al movente: è questo ciò che sento veramente? Lo dico davvero? Sono davvero genuino? Il sé delle motivazioni interviene in una società intima per impedire alle persone di sentirsi libere di giocare con la presentazione dei sentimenti come segni oggettivi e formati. L’espressione è subordinata al sentimento autentico, ma si è sempre immersi nel problema narcisistico di non riuscire mai a cristallizzare ciò che è autentico nei propri sentimenti.

Analogamente, nota ancora Sennett, nel teatro del passato il pubblico partecipava vivacemente, ma era la propria maschera sociale a farlo. A partire dalla seconda meta del diciannovesimo secolo fino a oggi il pubblico diviene silenzioso, passivo; non è più attore-spettatore in un sistema di convenzioni e codici sociali che gli consentono di giocare il proprio ruolo sociale e manifestare emozioni con distacco, ma manifesta tacendo il proprio coinvolgimento emotivo più intimo.

Con la crisi dell’Ancien Régime e l’affermarsi della società borghese, fluida, laica e di massa, l’autostima diviene un processo che non può fare a meno dello sguardo degli altri. Nelle grandi citta gli individui si ritrovano, a teatro come per strada, isolati e anonimi, dubbiosi e insieme scrutatori ossessivi del comportamento proprio e altrui. è a questo punto che l’etichetta e le pubbliche formalità , assai più rigide che nel passato, diventano strumenti disciplinari di controllo del sé interiore attraverso il corpo:

It was perfectly reasonable for men and women who were having trouble “reading” each other in the street to worry about feeling the right emotions in the theater or concert hall. And the means of dealing with this worry were similar to the shielding people practiced on the street. .. . What would it be like to be able to wear a genuinely expressive mask, to display one’s feelings? One devours the details of Bernhardt’s life to find the secret of her art; there are no longer boundaries around the public self. (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 210–212)

Trad.: Era perfettamente ragionevole che uomini e donne che avevano difficoltà a “leggersi” a vicenda per strada si preoccupassero di provare le giuste emozioni a teatro o in una sala da concerto. E i mezzi per affrontare questa preoccupazione erano simili alla protezione praticata per strada. ..  Come sarebbe poter indossare una maschera autenticamente espressiva, per mostrare i propri sentimenti? Si divorano i dettagli della vita di Bernhardt per trovare il segreto della sua arte; non ci sono più confini attorno al sé pubblico.

È proprio con questo passaggio dalla presentazione alla rappresentazione delle emozioni che nasce il mito moderno dei grandi performers pubblici, musicisti, politici, attori, gli unici dotati di vera personalità perché capaci di controllare le proprie emozioni e il modo in cui esprimerle. Non a caso, in Italia nell’ottocento emergono i cosiddetti “Grandi Attori”, come Tommaso Salvini, Ernesto Rossi e Adelaide Ristori. In seguito nel teatro borghese si svilupperanno stili di recitazione meno declamati e stentorei, naturalistici, basati sull’introspezione psicologica e l’immedesimazione dell’attore con il personaggio, come quello della “Divina” Eleonora Duse o il celebre metodo Stanislavskij tuttora diffusissimo. Come ha scritto Vicentini in L’arte di guardare gli attori, “Alla fine dell’Ottocento si poneva ormai il problema di rendere i personaggi come veri e propri individui, unici e particolarissimi.” L’idea è che ogni personaggio, come ognuno di noi “possiede uno stile inconfondibile che è soltanto suo, e rivela all’esterno la sua più intima individualità “ (Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli attori, 2007: 66–67). [13]

[13] Orazio Costa (1911–1999), per anni insegnante di regia alla celebre Accademia Nazionale d’Arte Drammatica fondata da Silvio D’amico, sarà colui che maggiormente insisterà – più degli altri due “grandi” della regia teatrale del secondo dopoguerra Giorgio Strehler e Luchino Visconti – sullo scavo ossessivo nell’interiorità del personaggio da parte degli attori.

Tutte queste trasformazioni spiegano l’ossessione pirandelliana verso l’interiorità che si nasconde dietro ai vari comportamenti sociali, a partire dal celebre esempio della “vecchia signora” scrutata e messa impietosamente a nudo nel suo desiderio di apparire piacente. Allo stesso modo, le angosce del protagonista di Uno, nessuno e centomila rivelano l’esigenza narcisistica di essere riconosciuti dagli altri nella propria individualità unica e inconfondibile emersa dalla crisi delle forme sociali di identificazione.

La conseguenza è che l’identità della persona viene al tempo stesso rivendicata e gelosamente protetta di fronte agli altri. Con la nascita della società di massa delle grandi metropoli è lo spazio pubblico a garantire una certa privacy rispetto all’ambiente familiare. Sennet osserva come proprio nell’anonimità “artificiale” del primo l’individuo può vivere momenti di liberta il cui prezzo è il mantenimento del proprio self-control: “one escaped from the family parlor to the club of cafe´ for this privacy; masks did become faces in the 19th Century, but the result was the erosion of social interaction” (Richard Sennett, The Fall of Public Man, 1992: 217, corsivo mio). Da questo punto di vista, il comico come “avvertimento del contrario” è una reazione protettiva che rinforza le norme sociali nella loro funzione di mantenere a debita distanza l’altro nella sua essenza più intima e perturbante. [14]

[14] È il paradosso anche di quella che Foucault ha chiamato “società disciplinare” tipica della modernità , i cui rigidi codici di comportamento e la costante osservazione producono la stessa persona che mettono alla prova: “what we should call the individual was constituted insofar as uninterrupted supervision, continual writing, and potential punishment enframed this subjected body and extracted a psyche from it”  (Michel Foucault, Psychiatric Power: Lectures at the College de France 19731974, 2006: 56).

In quest’ottica, la vera “colpa” della vecchia signora pirandelliana, con il suo trucco esagerato, è di mostrare oscenamente in pubblico cio che dovrebbe rimanere celato dalla maschera sociale, ma che l’umorismo è capace di riconoscere e accettare. [15]

[15] Nella vita quotidiana tendiamo a compiere piccoli atti ritualizzati rassicuranti – fumare una sigaretta, passare le mani fra i capelli, – ogni volta che ci sentiamo osservati. Questi atti tuttavia hanno effetto sugli altri solo nella misura in cui “the practice of the ceremonial act assures participation in a widely known and accepted myth” (Robert Pfaller, On the Pleasure Principle in Culture, Illusion Without Owners, 2014: 116), che garantisce un valore glamour ben preciso al nostro comportamento. Altrimenti l’effetto può essere grottesco, come dimostra l’esempio Pirandelliano della vecchia signora.

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Il soggetto pirandelliano contro il gioco sociale delle “illusioni degli altri”

Nel saggio Die Illusionen der anderen: Über das Lustprinzip in der Kultur Robert Pfaller ci fornisce un’ulteriore spiegazione dell’apparente paradosso, per cui dalla mancanza di valori forti condivisi emerge l’ossessione per l’interiorità tipica del mondo moderno che ritroviamo al centro della poetica di Pirandello. Pfaller osserva innanzitutto come in tutte le società i comportamenti sono basati su un sistema di credenze che li rende altamente gratificanti. La soddisfazione tuttavia non deriva dal fatto che si crede veramente a queste verità , ma, al contrario, dal fatto che tali credenze vengono attribuite sempre a un altro. Quest’ultimo non è un quid misterioso e inquietante nascosto nella coscienza, bensì è l’Altro simbolico (in senso lacaniano) il quale si configura come

an entirely naive observer, who is completely oblivious to the subjects’ secret wishes, thoughts and intentions: one who judges exclusively on appearances (the perceivable, set signs … ). Precisely here, in this function of naive observer and judge, the ‘big Other’ equates with the symbolic order. .. . The actors in the superstition make themselves marionettes in a play, as it were, that they offer to a – usually undetermined – other. On the other hand, the actors do not seem eager to become subjects of their superstition and take on its content as their faith. Instead, it seems that they devote considerable effort to keeping the illusion at a distance, to avoid becoming its subjects. (Robert Pfaller, On the Pleasure Principle in Culture, Illusion Without Owners, 2014: 55–62, corsivo mio)

Trad.: un osservatore del tutto ingenuo, del tutto ignaro dei desideri, dei pensieri e delle intenzioni segrete dei soggetti: uno che giudica esclusivamente in base alle apparenze (i segni percepibili, prestabiliti…). Proprio qui, in questa funzione di ingenuo osservatore e giudice, il “grande Altro” si identifica con l’ordine simbolico. Gli attori della superstizione si trasformano in marionette in una commedia, per così dire, che offrono a un altro – solitamente indeterminato. D’altra parte, gli attori non sembrano desiderosi di diventare soggetti della loro superstizione e di assumerne il contenuto come fede. Sembra invece che dedichino uno sforzo considerevole a tenere a distanza l’illusione, per evitare di diventarne sudditi.

Questo credere per interposta persona sarebbe caratteristico delle culture e religioni del passato, i cui comportamenti e ruoli sociali non richiedevano alcuna partecipazione intima perché sempre l’Altro – incarnato da membri “ingenui” del gruppo (gli antichi padri, i bambini) – si incaricava di credere al sistema di verità e miti.

Secondo Pfaller, mentre in precedenza queste credenze e convenzioni sociali erano sostenute da sistemi di verità “forti” – sistemi simbolici che regolano la correttezza formale delle nostre azioni, che si caratterizzano quindi come performative – nel mondo moderno questo Altro si è indebolito irreparabilmente, non scomparendo ma polverizzandosi in mille superstizioni che rimangono fonte di grande gratificazione psicologica (come credere in Babbo Natale o nella Befana attraverso i nostri figli). Nel mondo moderno, insomma, sarebbe avvenuta la scissione fra queste credenze esterne e la fede come istanza che – come ha compreso già Kierkegaard – impegna l’individuo di fronte a una decisione puramente soggettiva. Nata con il cristianesimo paolino, per secoli la fede è rimasta soffocata dalla credenza come sistema forte di dogmi e istituzioni che garantivano una identità sociale rigida. Perciò è proprio quando la società si secolarizza, quando il cielo è vuoto, che il soggetto rimane nudo di fronte a se stesso e alla propria mancanza di fondamento. L’uomo moderno reagisce nevroticamente a questa apertura, da un lato trasformando l’istanza etica in implacabile super-io interno, presenza capace di scrutare e giudicare le più segrete intenzioni; dall’altro abbandonandosi nella vita di tutti i giorni a piccoli e grandi atti rituali compulsivi (il tifo sportivo, il gioco) che danno piacere proprio perché ci sentiamo ad essi superiori essendo sempre illusioni di altri, non nostre. In questo modo è possibile lasciarsi andare ad attività piacevoli senza doversene assumere la responsabilità. [16]

[16] Come ha osservato Remo Bodei (Destini personali. L’eta della colonizzazione delle coscienze, 2004: 163), la vuotezza, l’essere “nessuno” del soggetto pirandelliano rimanda alla Kenosis paolina come svuotamento della coscienza del cristiano di ogni egoismo e sovradeterminazione dovuta alle certezze. Va detto che il concetto di fede qui non ha nulla di spirituale ma appartiene al registro dell’immaginario che costituisce l’interiorità umana. Pfaller si fonda sul rovesciamento lacaniano per cui l’interno (campo dei significati) è dominato dall’immaginario mentre l’esterno (campo dei significanti) dal simbolico. Secondo il filosofo austriaco (Robert Pfaller, On the Pleasure Principle in Culture, Illusion Without Owners, 2014: 52–53) anche il super-io viene costituito dall’immaginario come uno sguardo che scruta e giudica inflessibilmente ogni aspetto della nostra coscienza in funzione dell’imperativo etico – da cui la fede come interrogazione continua sul valore delle nostre intenzioni. Al contrario, il grande Altro sociale delle credenze vede solo le nostre azioni pubbliche, accontentandosi della loro correttezza formale.

È alla luce dell’affermazione di Pfaller “the actors in the superstition make themselves marionettes in a play” che va dunque riletto il succitato esempio di Oreste nel Mattia Pascal: quando il cielo si strappa l’agire esige una decisione che ci responsabilizza, non rimandando più automaticamente a un sistema di credenze esterne. Scomparso l’Altro che ne faceva da garante l’individuo si scopre autoriflessivo, perennemente in cerca della propria autenticità. Questo significa che, accanto al rapporto fra interno ed esterno, individuo e società , come afferma Mattia Pascal, anche il nesso coscienza-natura diviene problematico:

Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l’universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuor di lei. (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal. Milano: Feltrinelli, 1997: 257)

Per questo possiamo dire che il soggetto umoristico pirandelliano è il soggetto della fede, costantemente impegnato a riflettere sul senso delle proprie azioni, e incapace di lasciarsi coinvolgere dalle illusioni degli altri che almeno compensano la spietatezza dell’imperativo morale – istanza che giudica senza tuttavia mai indicarci cosa fare. [17]

[17] La tesi di Pirandello ricorda quella di René Girard secondo cui la tragedia classica rappresenta un momento di crisi del rito religioso ma anche un suo sostituto efficace nel purgare il corpo sociale da ogni violenza, mentre la tragedia moderna testimonia la perdita di tale capacita catartica: “Whatewer a people has embarked on a tragic course … no heroes arise, only antiheroes” (“Qualunque popolo abbia intrapreso un percorso tragico…non sorgono eroi, solo antieroi”)(René Girard, Violence and the Sacred, 2005: 311). Nella misura in cui guadagnano progressivamente in individualità interiore, i personaggi del teatro moderno perdono ogni statuto eroico, mitico.

L’apparente paradosso è che le illusionen der anderen non scompaiono affatto una volta scoperto il meccanismo psichico che le alimenta, perché sono in realtà anche nostre illusioni. Il nostro tempo è caratterizzato infatti dalla scissione tra fede e credenza, ovvero dalla separazione fra la dimensione ludica della vita e quella delle attività “serie”. Da buoni borghesi, riteniamo di essere veramente noi stessi solo nelle seconde, eppure proprio nel gioco finiamo per impegnarci al massimo perché pensiamo di rimanere a distanza dal ruolo e l’identità fittizia che abbiamo assunto temporaneamente. Mentre sul lavoro assumiamo sempre un atteggiamento serio e composto perché sempre nevroticamente insicuri di quello che facciamo, nei momenti ludici possiamo abbandonarci al vero entusiasmo “perché è solo un gioco.” Da questo punto di vista la presenza di momenti analoghi in Pirandello non è solo un riferimento alla casualità e irrazionalità della vita, ma, come nelle pagine al casino di Montecarlo o quelle della seduta spiritica nel Mattia Pascal, rivelano la facilita con cui ce ne dimentichiamo essendo coinvolti dalle illusioni degli altri nonostante – o forse proprio a causa di – tutto il nostro moderno scetticismo. Se l’umorismo pirandelliano smaschera il gioco di finzioni tipico della vita moderna in cui si crede facendo finta di credere, non può evitare – se non per brevi momenti di umoristica atarassia – di lasciarsi coinvolgere dal piacere compulsivo di tali illusioni. [18]

[18] Il fatto che la vita moderna è caratterizzata da momenti di divertimento ludico distinti dalle attività “serie” non significa che queste ultime non funzionino anche secondo elementi tipici del Come è stato ormai ampiamente dimostrato dalla sociologia (Niklas Luhmann, Soziologie des Risikos, 1991), la società “aperta” è tutta caratterizzata da giochi competitivo-cooperativi a somma non zero in cui si deve continuamente scegliere di dare (un certo quantitativo di) fiducia a persone che non si conoscono. In questo caso non possiamo appellarci meccanicamente alle illusioni degli altri come nelle società precedenti costituite da relazioni gerarchiche predeterminate, ma siamo kierkegaardianamente chiamati a “scommettere” continuamente sulle intenzioni degli altri, assumendoci tutti i rischi che questo comporta.

L’impossibilità pirandelliana di vivere autenticamente mette in scena l’autoillusione dell’uomo moderno nevroticamente sempre incerto su se stesso, nel momento in cui afferma di non credere più a quello che fa pur continuando ostinatamente a farlo. Allo stesso tempo, proprio questo continuo osservarci nelle nostre più piccole azioni quotidiane ci fa dissociare da queste, a tal punto che finiscono per essere percepite come tanto automatiche quanto insincere, false. Come ha osservato Eco in Pirandello Ridens, la riflessione umoristica allevia (non risolve) questo problema nella misura in cui ci aiuta a vivere tenendo le nostre maschere sociali a una certa distanza: “cerco di vedere me stesso come se fossi un altro. Mi ‘estranio’. Mi vedo come un attore che recita me. Mi recito. Uso la riflessione come specchio” (Umberto Eco, Pirandello Ridens. In: Sugli specchi ed altri saggi, 1985: 266–267). Pirandello probabilmente vedeva nella propria opera un modo per tenersi a distanza dal proprio alter ego inevitabilmente coinvolto nelle passioni quotidiane secondo il motto per cui “la vita o si vive o si scrive.” E tuttavia, lungi dall’essere una cura, non è proprio questa perenne rielaborazione narrativa a produrre quella misteriosa dimensione interiore – “l’io” – su cui l’uomo moderno non cessa di interrogarsi? Se, come ha osservato Anthony Giddens, “each of us not only ‘has’, but lives a biography reflexively organized” (“ognuno di noi non solo ‘ha’, ma vive una biografia riflessivamente organizzata”) (Anthony Giddens, Modernity and Self-Identity, 1991: 14), isolare “umoristicamente” l’atto dello scrivere è possibile proprio in quanto il vivere contemporaneo è caratterizzato da una costante rielaborazione progettuale in cui l’io è perennemente osservatore critico di se stesso.

Del resto, scrive ancora Pfaller, anche confessare narcisisticamente a se stessi e agli altri il proprio malessere esistenziale produce un nascosto piacere che ne alimenta il circuito perverso: “the appropriation of illusions through confession, on the contrary, generates the ‘gain from illness’ of neurotic displasure” (“l’appropriazione delle illusioni attraverso la confessione, al contrario, genera il ‘guadagno dalla malattia’ del dispiacere nevrotico”) (Robert Pfaller, On the Pleasure Principle in Culture, Illusion Without Owners, 2014: 210). Molti personaggi pirandelliani sembrano godere proprio di un (dis)piacere simile, come i due personaggi femminili di cui non sapremo mai il nome, le quali all’inizio di Ciascuno a suo modo si scambiano le seguenti parole con un pathos assai poco umoristico:

L’altra: Vorrei, cara, che tu non rinunciassi ad essere come sei.

La prima: E come sono? Non lo so più! Ti giuro che non lo so più ! Tutto mobile, labile senza peso. Mi volto qua, di la , rido: m’apparto in un angolo per piangere. Che smania! Che angoscia! E continuamente mi nascondo la faccia, davanti a me stessa, tanto mi vergogno a vedermi cambiare. (Luigi Pirandello, Sei Personaggi in cerca d’autore. Ciascuno a suo modo. Milano: Garzanti, 1993: 127–128)

Non solo l’uomo moderno si coglie, freudianamente, a scavare nella propria interiorità per scoprire le cause di tutta una varietà di comportamenti apparentemente bizzarri e imprevedibili (in quanto non più regolati da schemi sociali rigidi i quali garantivano anche un significato performativo chiaro), ma finisce per trarre narcisisticamente godimento dalla propria introspezione di cui gli altri diventano, volenti o nolenti, spettatori. [19]

[19] A questo proposito, è interessante osservare che per Pfaller l’illusione piu patetica sta nel vederci protagonisti solitari di un tragico destino: “imagination makes the subject a tragic hero [obsessed with a] narcissistic pleasure – experienced as unpleasurable .. . Cutting down this her quite harshly to an entirely banal, pathetic .. . person would thus be an efficient means of tearing them out of their egotistical fascination” (“L’immaginazione rende il soggetto un eroe tragico [ossessionato da un] piacere narcisistico – vissuto come spiacevole…. Riducendola piuttosto duramente a una cosa del tutto banale, patetica… persona sarebbe quindi un mezzo efficace per strapparla al suo fascino egoistico”)(Robert Pfaller, On the Pleasure Principle in Culture, Illusion Without Owners, 2014: 222).

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Conclusione

Nel suo saggio Il volto di Marilyn. L’esperienza del mito nella modernità, commentando due ritratti opposti di Marilyn Monroe – quello celebre di Warhol (Marilyn, Black on blue Green) ritraente la pura icona cinematografica e una fotografia di Arnold Newman del 1962 in cui l’attrice appare dolorosamente messa a nudo – Mario Pezzella scrive: “sono le cifre di due modi diversi di confrontarsi con la modernità : o assumerne senza riscatto la spettralità – o cercare le estreme tracce di pena e di conflitto possibile, che si incidono nelle creature costrette a subire la propria irrealtà “ (Mario Pezzella, Il volto di Marilyn, L’esperienza del mito nella modernita,1999: 83). La scissione fra il momento in cui il soggetto si interroga inquieto su se stesso e quello in cui si abbandona spensieratamente alle proprie superstizioni ci indica due approcci radicalmente opposti di umorismo nell’arte moderna in quanto opera aperta. Mentre autori come Pirandello si ribellano tragicamente contro ogni forma di vita basata sulle illusioni degli altri, avanguardie come il dadaismo o la pop art annunciano la riduzione di ogni cosa e persona a mero prodotto consumistico. Se nei primi il soggetto moderno ossessionato dalla propria interiorità rifiuta di identificarsi con le sue molte maschere sociali, le seconde celebrano la sua sostituzione con i suoi simulacra accettando – pur criticandole – di vivere fino in fondo le regole del gioco di una società sempre più dominata dai meccanismi libidinali dell’immaginario. [20]

[20] Dal Lago e Giordano osservano come la pop art sia “insieme esibizione, apologia e critica del consumismo, a seconda delle intenzioni che il pubblico attribuisce agli artisti, ma che questi per lo più si guardano bene dal rendere esplicite” (Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, 2016: 59). In Mercanti d’aura (2006) affermano che Andy Warhol è l’artista che forse più di tutti nel novecento ha messo in luce l’essenza dell’arte contemporanea come meta-arte che riflette su se stessa e sul suo ruolo E difatti il cuore dei suoi lavori, in linea con l’operazione inaugurata da Duchamp, è costituito dalla rappresentazione parodica di oggetti e personaggi famosi (Marylin Monroe, Mao, la Gioconda): oggetto dei suoi quadri non è il personaggio reale ma la sua “aura”.

Nessuno di questi due approcci può dirsi esempio di opera aperta più dell’altro, soprattutto se si prescinde dal modo in cui le opere sono effettivamente esperite dal pubblico. Difatti, la società moderna ha prodotto insieme alle avanguardie artistiche la figura professionale dell’esperto d’arte, l’unico autorizzato a leggere l’opera e il suo “messaggio”. Il paradosso è che, proprio a causa della sua natura ambigua ed equivoca, l’opera d’arte contemporanea invece di invitare a una maggiore liberta fruitiva per essere apprezzata (e venduta) non può fare a meno della cornice interpretativa e del packaging forniti al grande pubblico dal discorso del critico. Ponendosi esplicitamente come interprete della propria opera, ovvero “critico fantastico”, Pirandello interviene direttamente nel testo per guidare il lettore/ spettatore. [21]

[21] Letta alla luce delle tesi di Bourdieu per cui il contegno borghese si oppone al comportamento grossolano del popolo, la reazione comica verso la “vecchia signora” imbellettata non è quella di un osservatore neutro ma appunto di un appartenente a una precisa classe sociale pronto a deprecare la mancanza di buone maniere degli altri. In Pirandello tuttavia il superamento umoristico del comico è tutto psicologico, non mette in discussione l’origine classista delle norme sociali.

Solo attraverso il suo turbolento incontro con il mondo del teatro egli accetto lentamente, e con fatica, il carattere di rappresentazione libera e sempre in fieri della messa in scena, e quindi la dissoluzione del mito del testo unico e immodificabile. [22]

[22] Come osserva Daniela Bini (Pirandello and His Muse: The Plays For Marta Abba, 1998), grazie alla collaborazione con Marta Abba (oltre che alle rappresentazioni fatte dai vari Reinhardt e Pitoeff a Berlino e a Parigi) Pirandello finirà per ammorbidire le sue convinzioni a il costante avvicendarsi di messe in scena sempre diverse di cui egli stesso aveva imparato ad approfittare per fare modifiche al testo – è rimasto celebre un litigio con l’attrice Paola Borboni, la quale si rifiutava di imparare un nuovo monologo che il Maestro le aveva riscritto all’ultimo minuto – lo convinceranno che il teatro è il genere artistico più vicino alla vita. Su questo argomento si veda anche Vicentini (Pirandello: il disagio del teatro, 1993).

Perciò, come abbiamo visto, egli non coglie le implicazioni più radicali della sua stessa estetica e rimane nostalgicamente fedele all’idea classica dell’opera d’arte come un organismo completo e autosufficiente, e dell’artista come colui che capace quindi di rivelare il senso – o meglio la mancanza di senso – della vita. Ancora nel 1922, nella conferenza intitolata Teatro nuovo e teatro vecchio Pirandello scriverà che vero artista è colui che “riesce a far consistere una sua organica e totale visione della vita; chi, dunque, è come lo spirito intero e puro che sa rivelarsi compitamente; egli è il poeta, il fattore, il creatore: egli potrà dare al suo tempo un senso e un valore universali” (Luigi Pirandello, Teatro nuovo e teatro vecchio. In: Saggi, Poesie, Scritti varii, Mondadori, 1993: 234, corsivo mio). [23]

[23] In Illustratori, attori e traduttori Pirandello riconosce una certa liberta interpretativa al lettore, ma solo quando ci si trova di fronte a un’opera d’arte mancante della necessaria compiutezza: “avviene non di rado, che noi, man mano leggendo, ripensiamo meglio ciò che lo scrittore ha pensato, esprimiamo meglio in noi ciò che l’autore ha espresso male o non ha espresso affatto, che noi troviamo in un libro quel che in fondo non c’è “ (Luigi Pirandello, Illustratori, attori e traduttori. In: Saggi, Poesie, Scritti varii. Milano, Mondadori, 1993: 221). Perciò egli conclude l’articolo con un vero e proprio appello in difesa della sacralità dell’opera d’arte nella sua forma integra e compatta scaturita dalla mente dell’autore: “Altro è il dramma, opera d’arte già espressa e vivente nella sua idealità essenziale e caratteristica; altro è la rappresentazione scenica, traduzione o interpretazione di essa, copia più o meno somigliante che vive in una realtà materiale e pur fittizia e illusoria. Se vogliamo trarre le ultime conseguenze da questa indagine estetica, se non vogliamo una traduzione più o meno fedele, ma l’originale veramente a teatro, ecco la commedia dell’arte: uno schema embrionale e libera creazione dell’attore” (Ibidem: 224).

Questa esaltazione dell’artista “creatore” è un esempio perfetto dell’estetica formale che Pierre Bourdieu vedeva come strumento per la legittimazione sociale dell’artista borghese (e indirettamente al suo pubblico). Non a caso quando nel saggio La Distinction. Critique sociale du jugement Bourdieu descrive la soggezione delle masse verso l’arte highbrow, egli cita proprio lo scrittore siciliano: “The music of Stravinsky or the plays of Pirandello have the sociological power of obliging [the people] to see themselves as they are, as the ‘common people’, a mere ingredient among others in the social structure, the intert material of the historical process, a secondary factor in the spiritual cosmos” (“La musica di Stravinskij o le opere di Pirandello hanno il potere sociologico di obbligare [il popolo] a considerarsi così come è, come ‘gente comune’, un mero ingrediente tra gli altri della struttura sociale, la materia interattiva del contesto storico. processo, un fattore secondario nel cosmo spirituale”) (Pierre Bourdieu, La Distinction. Critique sociale du jugement, 2010: 23). Il sociologo francese osserva come nel gusto borghese moderno quello che conta è la capacita di stabilire una distanza intellettuale fra noi e l’opera in opposizione al coinvolgimento ingenuo dello spettatore “volgare,” con un rifiuto del sentimento piacevole nell’esperienza artistica analogo a quello stabilito dalla riflessione umoristica rispetto alla reazione spontanea del comico.

Questo ci fa capire in che senso quella pirandelliana sia un esempio di “opera aperta”: oltre a denunciare il fatto che il dire significa sempre altro in un discorso aperto, equivoco e metaforico, le intrusioni dell’autore servono ad affermare che quello della creazione artistica è l’unico performativo che ha ancora valore e riconoscimento sociale, rendendo possibile anche quello della performance teatrale. [24]

[24] Al contrario di quanto asserito da Benjamin nel celebre saggio Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (prima stesura 1935), la riproduzione seriale non solo non ha affatto distrutto l’aura. Anzi, la tesi benjaminiana andrebbe invertita: è proprio nella nostra era che si afferma il culto dell’opera originale dotata di vera “aura”, opposta alle sue copie (perfetto esempio sono le interminabili discussioni fra gli appassionati di musica classica sull’esecuzione migliore, “definitiva” – in quanto più fedele possibile allo “spirito” dell’autore – fra le innumerevoli registrazioni a disposizione). Come ha mostrato Warhol, l’indefinita riproducibilità tecnica crea e reinforza il mito dell’opera unica irripetibile, e oggi più che mai l’aura artistica domina il discorso sull’arte, il mercato, ed è ambita dal potere (sia politico che economico).

Pirandello ribadisce al suo pubblico che all’artista è ancora concesso quello che è ormai impossibile all’uomo comune, il quale nei suoi riti quotidiani “tenta di inventare ogni volta una cultura e rimane prigioniero del suo scacco” (Giovanni Jervis, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, 2011: 88). L’artista è diventato l’unica figura a cui appellarsi per ottenere un discorso che abbia ancora senso e valore in un mondo che ne è privo. Allo spettatore borghese rimane l’ambizione di elevarsi dalla massa anonima nella misura in cui è capace di comprendere un’arte tanto difficile in quanto volutamente estranea al gusto popolare.

È in questa autoaffermazione simbolica dell’artista che rivendica il proprio ruolo nel mondo sociale pur rimanendo superiore ad esso in quanto vero soggetto incondizionato – il mito dell’artista “puro” che non produce seguendo logiche di mercato ma solo attraverso la propria libera ispirazione, ecc. – che l’operazione pirandelliana, subordinando la mera contemplazione dell’opera d’arte al discorso su di essa, può essere avvicinata alle avanguardie novecentesche. Ci troviamo di fronte a un’arte che, per usare le parole di Michel Foucault, porta alle estreme conseguenze “the infinite task of extracting from the dephts of oneself, in between the words, a truth which the very form of the confession holds out like a shimmering mirage” (“il compito infinito di estrarre dal profondo di sé, tra le parole, una verità che la forma stessa della confessione trattiene come un luccicante miraggio”)(Michel Foucault, The History of Sexuality. Volume I. An Introduction, 1990: 59–60). L’opera pirandelliana testimonia il fatto, apparentemente paradossale, che solo con il sorgere della società moderna l’uomo ha cominciato ossessivamente a chiedersi cosa veramente pensi, provi e desideri. In altri termini, chi veramente e intimamente siamo al di la dei comportamenti imposti dalle convenzioni sociali. La riflessione umoristica afferma quindi l’indeterminatezza che è propria del soggetto in quanto soggetto, la consapevolezza dell’apertura ermeneutica dell’uomo, il quale non potendo più agire appellandosi a un sistema simbolico esterno deve costantemente interrogare se stesso e gli altri per cogliere il significato di ciò che dice e fa. In questo senso lo scrittore siciliano non è testimone della dissoluzione dell’io dovuta alla crisi copernicana dell’era moderna, ma anzi della sua affermazione seguita alla crisi del public man, ovvero delle maschere sociali e dei codici che le sostengono.

Andrea Bini
Febbraio 2018

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