Luigi Pirandello: tra filosofia e letteratura

Di Michele Sità

I personaggi pirandelliani vanno oltre la semplice intuizione dell’autore, sono intrisi di realtà, pieni di vita, dietro ogni loro azione o non azione, dietro ogni loro minimo movimento, dentro la loro stessa fisicità c’è una profonda riflessione, spesso dolorosa, sull’esistenza e sul suo significato.  

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Pirandello tra filosofia e letteratura

Luigi Pirandello: tra filosofia e letteratura

Pubblicato in Nuova Corvina.
Rivista di italianistica dell’Istituto Italiano di Cultura per l’Ungheria

Da Academia.edu

Conoscenza e inquietudine esistenziale

Il confine tra letteratura e filosofia è stato, in alcune epoche, quasi impercettibile, in alcuni casi era come se le due discipline fossero una sola, come se parlassero la stessa lingua e, anche se spesso non utilizzavano un codice comune, era come se presentassero propositi affini. Non è qui il caso di riaprire il lungo dibattito sulla distinzione, l’autonomia o l’eventuale supremazia di una delle due discipline sull’altra, specificazioni da alcuni ritenute necessarie, da altri considerate inique e controproducenti. Nonostante ciò non si può fare a meno di citare Benedetto Croce che, in maniera alquanto perentoria, comincia la sua Estetica affermando che

la conoscenza umana ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni: è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti. [1]

[1] Benedetto Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari 1908, p. 4.

La letteratura e, più in generale, tutte le espressioni artistiche, sarebbero quindi caratterizzate da una fantastica commistione di intuizione ed espressione, escludendo da questo processo ogni qualsivoglia conoscenza concettuale. Come chiarirà Croce poco più avanti può capitare di trovare, in un’opera d’arte, dei concetti mescolati alle intuizioni, nonostante ciò questo miscuglio non è sempre rinvenibile, il che proverebbe, secondo Croce, la non necessarietà di questa intrusione concettuale nel processo della realizzazione artistica. Giovanni Gentile era invece convinto che l’arte, di per sé ineffabile, nel suo sforzo di comprendersi e di diventare consapevole della propria produzione si trasformasse, inevitabilmente, in pensiero. Gentile intervenne attivamente, nel vivace dibattito che venne a crearsi tra Croce e Pirandello, in favore di quest’ultimo. Fu questa l’occasione per affondare, in maniera assolutamente poco velata, la critica nei confronti di Croce:

Critici arcigni, inumani che, schiavi dei loro preconcetti dottrinali, darebbero dei punti a quell’aristotelico che, per non guastare il suo cielo incorruttibile, si rifiutava a metter l’occhio nel cannocchiale di Galileo. [2]

[2] Giovanni Gentile, Luigi Pirandello, articolo pubblicato nel fascicolo del 20 dicembre 1936 di «Quadrivio» – Omaggio a Luigi Pirandello.

Potremmo quindi dire che la fantasia, presente nelle varie espressioni dell’arte, nella pittura, nel teatro, nella poesia e nella letteratura in generale, sia una fucina di illusioni positive che danno linfa e corroborano la vita stessa. Un’opera d’arte potrà anche non piacerci, potrà essere considerata «sbagliata», poco efficace, ma se tramite le sue illusioni riesce a trasmetterci qualcosa, allora significa che è viva ed offre vita. Al giorno d’oggi le più grandi illusioni, quelle che ingannano, quelle che esprimono negatività e bruciano, rimuginando pensieri su pensieri, le riceviamo dalla materialità della vita stessa, di certo non dall’arte o dal processo che porta alla creazione artistica. Pirandello si era accorto di questa sempre maggiore difficoltà dell’uomo di abbandonarsi alla fantasia, di lasciarsi trasportare dal pensiero, aveva già capito che la comunicazione non è una cosa facile ed era sicuro che l’arte potesse riflettere e far riflettere.

Tra i tanti personaggi è sicuramente emblematica la figura di Serafino Gubbio operatore che, in tempi non sospetti, mostra come la tecnologia e lo sviluppo non sempre aiutano, neanche quando sembrerebbe il contrario, nel difficile compito di mettere in contatto le persone. I quaderni di Serafino Gubbio operatore sono senza dubbio un’opera che anticipa i tempi, non è un caso che alla sua uscita questo romanzo ebbe un’accoglienza piuttosto fredda, così come non è un caso che il suo protagonista cerchi nell’arte qualche boccata d’aria per assaporare la vita:

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella. [3]

[3] Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi – Uno, nessuno e centomila I Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Newton, Roma 1993, p. 39.

L’uomo cominciava a perdere contatto con se stesso, cominciava ad abbandonare l’arte per dedicarsi esclusivamente alla tecnica, potremmo anzi affermare che cominciava a separare, per dirla con Croce, la conoscenza produttrice d’immagini da quella produttrice di concetti. Pirandello-Serafino va ancora oltre con la sua riflessione:

Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto! L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita!. [4]

[4] Ivi, pp. 39–40.

Le macchine divorano la vita dell’uomo, gli rubano il tempo e l’anima, quel che doveva essere un semplice strumento comincia a dettare il ritmo delle nostre vite, ecco quindi che ci troviamo di fronte ad un uomo che sceglie le illusioni sbagliate, quelle che sembrano più concrete, più facili da raggiungere. L’uomo cerca quindi di sfuggire all’imprevedibilità del sentimento per rifugiarsi in qualcosa di apparentemente sicuro, tangibile e ben visibile, quella manovella da girare ne è l’esempio, è la chiara espressione di chi ha gettato via i dannosi sentimenti per legarsi a qualcosa di ipocritamente più concreto.

La distinzione portata avanti da Croce ci porterebbe quindi non solo a sollevare l’arte da ogni contatto con la riflessione ma, di conseguenza, a spostare gli equilibri tra ciò che si pensa e ciò che si fa. Per Pirandello diventare parte di quella manovella e vivere in una vita che risulta sempre più meccanizzata e meccanica significa rinunciare a vivere davvero, significa nascondersi alla vita, accontentarsi di pseudo-sentimenti generati ed innescati da un oggetto, dal possesso di qualcosa. Questo processo porterebbe l’uomo a riporre tutte le sue aspettative in qualcosa di materiale, in qualcosa che a prima vista sembrerebbe più concreto ma che, innegabilmente, ci priva sempre più della profondità del pensiero. Nel momento in cui le nostre aspettative fossero disilluse verrebbero a crollare tutti quei castelli che ci abbiamo costruito sopra, ci accorgeremmo quindi che quella manovella a cui ci eravamo affidati ha reso superficiale la nostra esistenza e non ci resterebbe che il vuoto. Quella manovella è il segno concreto di un uomo scombussolato, un uomo che ha perso la centralità e non sa più ritrovarla, un uomo che si è affidato alla superficialità e ne è rimasto preda.

Il rischio preannunciato da Pirandello era, quindi, quello di confondere gli strumenti della comunicazione con la comunicazione stessa, dimenticandosi pian piano di immaginare, di riflettere, di sorprendersi, sentendosi quindi sempre più disorientato di fronte alla frenesia di un mondo che corre a gran velocità e di quell’essere umano che, a fatica, cerca, arrancando, di stargli appresso. L’umanità è sempre più ridotta a gesti meccanici, dimenticandosi della conoscenza intuitiva e rifugiandosi unicamente in quella della tecnica, a cui pedissequamente si affida. L’uomo diventa addirittura parte di quegli ingranaggi e la macchina

ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce la ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi. [5]

[5] Ivi, p. 40.

Serafino è un personaggio contemporaneo, un personaggio nato dalla realtà e confuso dal frastuono del mondo esteriore, si tratta senza dubbio di un personaggio che porta dentro sé il germe filosofico del pensiero, quello del suo autore che mostra, ancora una volta, come la riflessione sia parte integrante della sua produzione letteraria. Al contrario di quanto avviene con la meccanizzazione selvaggia del mondo, l’arte è in grado di offrirci qualcosa senza il bisogno di stendere le mani per prenderla, l’arte entra dentro di noi per riempirci di qualcosa senza darci, effettivamente, nulla di concreto.

Questi pochi accenni erano doverosi ed indispensabili vista anche la nota polemica tra Pirandello e Croce, una polemica che portò quest’ultimo non solo a considerare la filosofia di Pirandello una pseudo-filosofia, ma anche a definirlo come una figura letteraria di poco rilievo. Diversi anni più tardi Umberto Eco dedicò un breve saggio a Pirandello ed alla concezione dell’umorismo. Il saggio, intitolato Pirandello ridens, ricostruisce ed arricchisce la concezione pirandelliana di umorismo, osservando con acuta ironia che Croce aveva liquidato facilmente le riflessioni di Pirandello: «era un maestro nel liquidare i problemi definendoli pseudo-problemi, e questo gli permetteva di porre solo dei problemi a cui avesse già trovato la risposta» – d’altro canto «a Pirandello piaceva porre solo i problemi di cui non si trova risposta». [6]

[6] Umberto Eco, Pirandello ridens in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Bologna 2001, p. 261.

In seguito, oltre ad offrire varie letture dell’opera, Eco afferma che, in fondo, il saggio sull’umorismo lo si potrebbe vedere «come un dramma o una commedia di Pirandello, che per errore ha assunto la forma del saggio». [7]

[7] Ivi p. 263.

L’approccio filosofico di Pirandello sembra quindi non convincere neanche Eco, secondo il quale il saggio pirandelliano non risponde alla domanda principale e, quindi, non ci dice cosa realmente sia l’umorismo. L’impressione di Eco è quella che Pirandello cerchi appigli saltando da un pensatore all’altro, «ma tant’è – afferma Eco – e Pirandello filosofo non è né Nietzsche né Heidegger». [8]

[8] Ivi p. 269.

Ed è qui che entra in gioco il discorso sul flebile confine che divide letteratura e filosofia, proprio perché Pirandello non solo amava sconfinare nel filosofico, ma anche perché le sue poesie giovanili, le sue novelle, le sue opere teatrali, i suoi romanzi e, ovviamente, i suoi saggi, sono impregnati di pensiero ed intrisi di costanti inviti alla riflessione. Non parliamo quindi solo dei suoi saggi filosofici, primo tra tutti L’umorismo, ma di tutta la produzione letteraria e teatrale del figlio del caos, di colui che riversò nelle sue opere e portò sulla scena la stessa inquietudine per la vita che ritroviamo proprio nella filosofia dell’esistenza. [9]

[9] Com’è noto Pirandello amava molto chiamarsi in questo modo, giocando proprio sul fatto di esser nato a Girgenti (l’attuale Agrigento) in un podere situato nella contrada denominata, per l’appunto, Caos.

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Dal gradino della logica a quello dell’intuizione

L’immagine del figlio del caos è una delle più riuscite maschere esistenziali che Pirandello potesse indossare, non solo perché fa riferimento all’involontario soggiorno dell’uomo sulla terra, ma anche per la difficoltà che il caos racchiude in sé di capire e di capirsi e, di conseguenza, per l’incomunicabilità che esiste tra gli uomini, che credono di esprimersi pur non potendo essere mai sicuri, nonostante i loro sforzi, che il loro messaggio giungerà a destinazione senza più o meno prevedibili distorsioni. I suoi personaggi hanno proprio tutto quel che serve per considerarsi dei perfetti esemplari esistenziali, le loro storie spesso cadono quasi nell’assurdo pur rimanendo, nonostante ciò, più vere che mai. Gli esseri umani raccontati da Pirandello sembrano essere caratterizzati da un incolmabile senso di vuoto e di solitudine, sono consumati dagli affanni della vita ed imbevuti di malinconia. Oltre a ciò non si dimentichi la ricorrente tematica della morte, dell’angoscia che contraddistingue l’uomo bloccato nella propria vita, gettato nell’esistenza e falsamente inserito in una società che lo estranea e lo trascina senza possibilità di appiglio. È quindi inequivocabile il fatto che nelle opere di Pirandello si noti questa comunanza di intenti tra arte e scienza, un rapporto fondamentale per portare avanti l’idea che l’autore aveva della letteratura e del teatro.

Nel suo saggio Arte e scienza Pirandello, riflettendo sulla concezione di Croce, si permette di giudicare arbitraria la distinzione tra conoscenza intuitiva e conoscenza logica e considera la sua estetica «astratta, monca e rudimentale». [10]

[10] Luigi Pirandello, Arte e scienza, in L’umorismo e altri saggi, Giunti, Firenze 1995, p. 155.

I personaggi pirandelliani vanno oltre la semplice intuizione dell’autore, sono intrisi di realtà, pieni di vita, dietro ogni loro azione o non azione, dietro ogni loro minimo movimento, dentro la loro stessa fisicità c’è una profonda riflessione, spesso dolorosa, sull’esistenza e sul suo significato. Nei suoi ragionamenti Adriano Meis, fu Mattia Pascal, si trova ad affermare:

Nulla s’inventa, è vero, che non abbia una qualche radice, più o meno profonda, nella realtà; e anche le cose più strane possono esser vere, anzi nessuna fantasia arriva a concepire certe follie, certe inverosimili avventure che si scatenano e scoppiano dal seno tumultuoso della vita. [11]

[11] Luigi Pirandello, Il turno – Il fu Mattia Pascal, a cura di Italo Borzi e Maria Argenziano, Newton, Roma 1993, p. 186.

In altre parole Adriano Meis è come un personaggio in cerca d’autore, anche lui (e per suo tramite Mattia Pascal e lo stesso Pirandello) chiedono udienza per rivendicare la loro verità, il loro essere abbarbicati alla realtà, il loro vivere intrecciati con le sofferenze della vita. Adriano Meis esiste pur non esistendo, è più vero di tanti uomini reali perché è da loro che prende vita, traendo linfa e forza vitale dall’osservazione e dalla riflessione dell’autore sulla realtà. Ad alcuni intrecci presenti nelle opere di Pirandello potrebbe risultare difficile credervi, eppure la vera vita reale, come nota Pirandello, supera spesso di gran lunga le fantasie della letteratura. Pur non riaprendo il dibattito tra Croce e Pirandello sembrano chiari entrambi i punti di vista, per Pirandello

Croce è rimasto prigioniero entro l’idea fissa e angusta dell’intuizione. Questa mania gli ha impedito di vedere tutta la varietà del fenomeno estetico, non solo, ma di coglier poi l’idea complessa, organatrice di questa varietà. Egli la nega. Perché l’idea per lui è semplicissima, astratta, rudimentale. [12]

[12] Luigi Pirandello, Arte e scienza, cit., p. 163.

In realtà l’incomprensione stava proprio in quella categorizzazione per cui l’estetica, ovvero l’intuizione che porta ad un’opera d’arte, starebbe su un primo gradino, al contrario della logica, che consisterebbe nel passaggio ad un secondo grado. Il passaggio dall’estetica alla logica è quindi, anche per Croce, qualcosa di possibile,

ma ciò non vuol dire che le prime espressioni non siano state distrutte; esse hanno ceduto il luogo alle nuove espressioni estetico-logiche. Quando si è sul secondo gradino, il primo è abbandonato. [13]

[13] Benedetto Croce, Estetica, cit., p. 42.

Ed è proprio questo che Pirandello non può e non vuole accettare, ciò perché verrebbe meno la forza vitale dei suoi personaggi, tutti caratterizzati da quella vena umoristica che, senza l’intervento della riflessione, non sarebbe stata possibile. Tra i centomila Pirandello creati dalla critica quello ideato da Croce era di sicuro, a suo dire, «il più imbecille» di tutti. Si tratterebbe di un artista in preda all’intuizione, guidato da uno spirito cieco che potrà essere razionalizzato e studiato solo in un momento successivo, passando con un certo distacco su quel secondo gradino e dimenticandoci del momento creativo dell’opera stessa. L’operazione inversa non è contemplata da Croce:

l’errore comincia quando dal concetto si vuol dedurre l’espressione, e nel fatto sostituente trovar le leggi del fatto sostituito; quando non si scorge la differenza tra il secondo gradino e il primo, e, di conseguenza, stando sul secondo, si asserisce di star sul primo. [14]

[14] Ivi, p. 43.

Secondo Croce era proprio quello l’errore di Pirandello, confondere l’atto creativo ed estetico guidato dall’intuizione con quello della riflessine, guidato invece dalla logica. Questa eccessiva intrusione della logica nelle opere di Pirandello ne avrebbe offuscato la freschezza ed il valore letterario, facendo sì che i suoi spunti artistici venissero

soffocati o sfigurati da un convulso, inconcludente filosofare. Né arte schietta, dunque, né filosofia: impedita da un vizio d’origine a svolgersi secondo l’una o l’altra delle due. [15]

[15] Benedetto Croce, Luigi Pirandello, in «La Critica», XXXIII (1935), p. 357.

I personaggi di Pirandello, tuttavia, vanno ben oltre un inconcludente filosofare, sono l’espressione di una profonda riflessione esistenziale sapientemente trasformata in letteratura, anche perché, a dirla con Pirandello, l’estetica di Croce sarebbe un vero e proprio «guazzabuglio», un’accozzaglia di esempi legati alla creazione artistica che non tengono conto di un fatto piuttosto semplice, ovvero che

conoscere intuitivamente nel modo come il Croce l’intende, fuori cioè d’ogni riferimento intellettuale, è come conoscere soltanto di vista qualcuno. [16]

[16] Luigi Pirandello, Arte e scienza, cit., p. 163.

Pirandello conosceva invece molto bene i suoi personaggi, li conosceva fin nelle pieghe più recondite delle loro anime, come l’uomo dal fiore in bocca conosceva benissimo la vita degli altri, quella vita di cui si nutriva, rimanendo in attesa della sua morte. L’uomo dal fiore in bocca osservava gli altri ed immaginava come potessero essere le loro vite per potersene cibare, potremmo quindi dire che questo sforzo logico, questo passaggio al secondo gradino, riprendendo l’immagine di Croce, lo ritroviamo anche in molti dei suoi personaggi.

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Il palcoscenico esistenziale

Tutti i personaggi di Pirandello portano con sé uno strabordante bagaglio esistenziale, sono in lotta con le scelte da prendere e con i vincoli sociali, molti hanno un rapporto difficile con il tempo, che in parecchie sue opere sembrerebbe sgretolarsi, rifuggendo in maniera forte alla normale cronologia. Si tratta di personaggi frammentati, inadeguati alle circostanze e, questa inadeguatezza, deriva proprio dall’incapacità di seguire il tempo, dalla difficoltà di trovare una posizione nello spazio in cui l’autore li avrebbe voluti collocare. Non è un caso che molti di loro si ribellino al regista stesso, rivendicando una collocazione più adeguata, come ad esempio il primo attore di Questa sera si recita a soggetto:

Non son mica un burattino, io, nelle sue mani, da mostrare al pubblico come quel palco lasciato lì vuoto o una sedia messa in un posto anziché in un altro per qualche suo magico effetto. [17]

[17] Luigi Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in Maschere nude, Mondadori, Milano 1975, vol. I, p. 215.

Il personaggio reclama con forza ed esige il diritto di ritagliarsi un suo spazio, vorrebbe poter scegliere, suo malgrado senza riuscirci, il dove e il quando. Se da un lato il palco è il mondo su cui si muove il personaggio, dall’altro il mondo lo si potrebbe considerare come quel palco esistenziale sul quale ogni uomo recita la propria parte, ciò perché, anche nella cosiddetta vita reale, non è l’essere umano a decidere il dove, il quando e tantomeno il perché. Le tematiche tipiche del pensiero esistenziale sembrano essere chiare ed evidenti, non solo per la scomposizione del tempo e dello spazio, ma anche, come già si è accennato, per quella sensazione di essere gettati nel mondo, abbandonati a noi stessi. Pirandello amava il paradosso, lo ricavava spesso dalla realtà stessa, ritagliando e cucendo su ogni suo personaggio una tragedia umana, come se l’uomo fosse imprigionato nel tempo. Il Pirandello letterato incontra spesso il Pirandello saggista e filosofo, non solo sulle accennate tematiche legate all’arte ed all’umorismo, ma anche su quelle strettamente connesse alla visione distorta di ciò che ci circonda.

Ogni suo personaggio ha un senso di spaesamento di fronte al tempo, si trova a dover affrontare una memoria che rende malinconico il presente, una percezione che molti vorrebbero soffocare per dar posto ad una sequenza ben ordinata, a delle regole, a delle convenzioni, a delle maschere che, talvolta, nel corso della vita, sembrano far comodo. L’uomo non è in grado di analizzare e schematizzare il corso del tempo, tutto scorre in modo soggettivo, sia sul palco che fuori dal palco: un lasso di tempo troppo breve per qualcuno potrebbe essere interminabile per altri, anche nel caso in cui si stesse vivendo la stessa identica esperienza nello stesso identico momento. Ognuno ha i suoi tempi, vede la realtà in un certo modo, ripensa se stesso e gli altri in un quadro ben determinato, il tutto all’interno dell’esistenza dell’uomo. Ci si trova quindi di fronte all’angoscia, di fronte alla propria incapacità di incanalare il tempo e di farlo scorrere come noi vorremmo.

Il personaggio teatrale è di per sé costretto a ripetersi, a rivivere ogni sera, finché lo spettacolo verrà riproposto al pubblico, la propria storia, la propria esistenza. Ogni volta sarà la stessa storia pur essendo diversa, ogni volta riproporrà se stesso senza esserlo veramente, immedesimandosi in quella maschera bloccata e ripetitiva. Viene subito alla mente una piccola opera scritta proprio da colui che ha posto le basi dell’esistenzialismo, si tratta de La ripetizione di Søren Kierkegaard, un breve libro in cui si parla, tra le altre cose, di un viaggio che, per l’appunto, viene ripetuto a distanza di dieci anni. Esteriormente tutto sembra ricalcare le orme della precedente esperienza (stessi luoghi, stessi percorsi, ecc.), ma interiormente le cose sono cambiate e la stessa realtà, vissuta in tempi diversi, segue le sfumature che gli vengono dettate dall’attuale stato d’animo. Una ripetizione oggettiva non è quindi possibile.

Non è un caso che, tra i tanti tentativi di ripetizione attuati dal protagonista di quest’opera di Kierkegaard, venga mostrato un personaggio che va a rivedere, dopo tanti anni, la stessa opera teatrale. I bei ricordi e le belle sensazioni del passato, tuttavia, non riescono a tornare in vita e non possono essere ripetuti. L’impossibilità di ripetersi è anche l’incapacità di fermare il tempo dove vorremmo e di lasciarlo scorrere dove, al contrario, preferiremmo dileguarci dal nostro presente. I personaggi di Pirandello sono tutti in cerca di se stessi, del proprio tempo, di un’esistenza che possa essere vissuta e che, al tempo stesso, ci faccia sentire le pulsazioni della vita, d’altro canto la malinconia è racchiusa, tra le altre cose, proprio in quel maldestro tentativo di prendere le redini della nostra esistenza, un tentativo che le convenzioni sociali soffocheranno senza alcuna remora. La ripetizione diventa, per alcuni personaggi pirandelliani, una vera e propria gabbia, ci si trova a ripetere, a volte fino alla nausea, quel che invece avremmo voluto tralasciare, ci si rivede nuovamente ad agire come non vorremmo, costretti da quella maschera che ci hanno incollato in volto e che, nostro malgrado, siamo costretti ad indossare.

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La malinconica ed allegorica espressione letteraria dell’angoscia esistenziale:
l’enorme pupazzata, la trappola e l’uomo fuori di chiave

La realtà, come afferma lo stesso Kierkegaard con delle parole che potrebbero essere anche di Pirandello, è «come un’ombra che corre a lato della mia vera e propria realtà spirituale, un’ombra che a tratti mi farà ridere, a tratti invaderà la mia esistenza disturbandola». [18]

[18] Søren Kierkegaard, La ripetizione, tr. it. a cura di Dario Borso – BUR, Milano 1996, p. 100.

Ancora una volta ci troviamo di fronte a quel sorriso che si offusca, ancora una volta l’ombra della realtà copre la gioia e la trasforma in pena. L’uomo ha bisogno di una ragione per vivere, potrà trattarsi di un ideale, di un sentimento o di un’occupazione, quel che conta è che se perdi questo ideale, se non riesci più a impegnarti nelle tue occupazioni, se quella ragione di vivere viene pian piano a cadere, ebbene sarà in quel momento che «osservando la vita ti sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai». [19]

[19] Luigi Pirandello, lettera del 31 ottobre 1886, in Lettere giovanili da Palermo e da Roma (1886–1889), Bulzoni, Roma 1993, p. 149.

Dentro questa immagine dell’enorme pupazzata ritroviamo racchiusi moltissimi personaggi creati da Pirandello, con le loro paure, le loro angosce, sono personaggi che si guardano vivere, che vedono le loro esistenze da fuori, in un meccanismo che, come direbbe Pirandello, accade

quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza un cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così. […] Io scrivo e studio per dimenticar me stesso, per distormi dalla disperazione. [20]

[20] Ibidem.

Il viandante senza casa è il simbolo di un’esistenza che scorre alla ricerca di una via che non si trova, ma è anche l’incarnazione del disperato sconfinamento verso una scelta che non si riesce a prendere e verso un orientamento che non si è in grado di definire. Questo viandante, passeggero e fugace inquilino dell’esistenza, sembra costretto a perdere il senso stesso della vita, si crogiola tra pensieri inconcludenti e cade nella disperazione di un’esistenza che scorre senza che la si riesca a percepire. L’uomo si trasforma in uno «spettatore annoiato e smanioso […] come un espulso dal fiume, che consideri dalla riva la corrente senza più la voglia di lasciarsi oltre portare». [21]

[21] Luigi Pirandello, Lettere d’amore di Luigi ad Antonietta, a cura di A. Barbina, in «Ariel», 1986, 3, pp. 213–215.

Pirandello rappresenta la forte e malinconica espressione letteraria dell’angoscia esistenziale, nelle sue opere incontriamo personaggi bloccati nelle loro esistenze, uomini e donne carichi di solitudine, persone alienate che sembrano cadere preda del nulla, in quel loro cammino verso una nichilistica distruzione. Non è un caso che Pirandello non voglia solo delineare i fatti ma dargli anche un tempo ed uno spazio, è lì che potranno vivere i suoi personaggi, in questo nuovo spazio creato apposta per loro, uno spazio che a volte sembra troppo ampio, altre volte stretto e angusto, in alcuni casi assume le sembianze di una gabbia, in altri risulta preda dei capricci del caso. Come l’uomo viene gettato nel mondo senza che nessuno gli abbia chiesto il permesso per poterlo fare, così lui getta i personaggi sul palco, ma in questo caso avviene ciò che non ci aspetteremmo, ovvero i personaggi stessi chiedono e rivendicano il palco, un palco che diventa qui il luogo per eccellenza, una sorta di liberazione da una vita immaginaria per tuffarsi in una realtà altrettanto immaginaria e fittizia.

La sensazione che ne viene fuori è quella di uno spazio che somiglia, per l’appunto, ad una trappola. L’uomo vorrebbe dare risposta ai propri dubbi e, al tempo stesso, ha una paura incredibile di farlo: «noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte». [22]

[22] Luigi Pirandello, La trappola, in Antologia delle novelle per un anno, a cura di Tommaso Di Salvo, Zanichelli, Bologna 2000, p. 334.

Lo spazio e il tempo nulla possono contro la morte, l’essere umano può dibattersi e dimenarsi quanto vuole, può uscire dal proprio spazio e ripercorrere a ritroso il suo tempo, può creare un nuovo modo di interpretare lo scorrere degli istanti, un nuovo modo di vedere se stesso, tuttavia contro la morte nulla può fare. La tipica inquietudine esistenziale afferra i personaggi di Pirandello, ognuno sembra essere alla ricerca di una nuova identità, di un nuovo spazio e di un nuovo tempo, ma alla fine il protagonista si troverà fuori dal palcoscenico della vita. Assieme alla dissoluzione del tempo anche il soggetto sembra scomporsi, sembra non riuscire più a ritrovare se stesso. In aiuto sembra venirci la saggezza del dottor Fileno, un personaggio che, tramite l’immagine del cannocchiale rivoltato, propone la sua filosofia del lontano:

lo apriva, ma non per mettersi a guardare verso l’avvenire, dove sapeva che non avrebbe veduto niente; persuadeva l’anima a esser contenta di mettersi a guardare dalla lente più grande, attraverso la piccola, appuntata al presente, per modo che tutte le cose subito apparissero piccole e lontane. [23]

[22] Luigi Pirandello, La tragedia d’un personaggio, in Antologia, cit., p. 312.

Il suo è uno strano modo di alterare il tempo, tramite quel cannocchiale al rovescio Fileno rimpicciolisce il presente, lo allontana per poterlo guardare con un maggiore distacco. Il presente viene così visto come se fosse già passato, è come se quel cannocchiale desse un certo spazio al tempo che si osserva, come se lo dilatasse, se lo separasse da noi per permetterci una maggiore obiettività. In fondo i personaggi di Pirandello sembrano avere la stessa funzione degli pseudonimi che era solito utilizzare Kierkegaard quando pubblicava un suo libro, anche questi, nel loro insieme, ci offrono tante piccole schegge d’esistenza. Da queste schegge potrà uscir fuori solo un uomo frammentato, impotente di fronte a quel che succede intorno a lui, sballottato tra illusioni, inganni e false verità.

La realtà è qualcosa a cui non possiamo attingere, non la si potrà mai conoscere a fondo, le nostre rappresentazioni del reale non sono mai adeguate e, di conseguenza, l’esistenza stessa dell’uomo sembrerà sempre inopportuna ed inappropriata alle esigenze reali. Una delle immagini più riuscite di Pirandello per indicare questo senso di inadeguatezza e quella dell’uomo «fuori di chiave», un uomo disgregato, scombussolato e mal accordato: non è un violino e non è neanche un contrabbasso, tuttavia è come se emettesse, al tempo stesso e nei momenti meno consoni, i suoni dell’uno e quelli dell’altro. Questa perplessa contraddittorietà contiene in sé la riflessione su ciò che è e su ciò che pensiamo dovrebbe essere, una riflessione amara che nasce da un timido iniziale sorriso:

per noi tanto il comico quanto il suo contrario sono nella disposizione d’animo stessa ed insiti nel processo che ne risulta. Nella sua anormalità non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso. [24]

[24] Luigi Pirandello, L’umorismo e altri saggi, cit., p. 126.

Il caotico scorrere della vita cattura l’uomo dubbioso, lo rende preda dell’ironia e dell’ipocrisia dominante delle convenzioni sociali e, infine, lo imprigiona in un tempo che scorre per la morte. Torniamo quindi alle parole iniziali di Croce, a quella perentoria distinzione, fatta di distacco, tra conoscenza intuitiva e conoscenza logica. Questo rimando risulta necessario proprio perché è da quel tipo di filosofia che Pirandello, come si è visto, prende una netta distanza per poter però stare più vicino all’uomo ed al suo umoristicamente penoso passaggio sulla terra.

La logica è, per Pirandello, «una certa macchinetta infernale» [25] che l’uomo possiede, gli è stata donata dalla natura per provare a prendersi sul serio, per provare a racconciarsi la maschera esteriore, quella da mostrare, a volte anche a se stesso, lasciando spesso stropicciata quell’altra maschera, quella interiore che nessuno vede e che, a volte, si tende a dimenticare. Pirandello si allontana quasi con ribrezzo da quel tipo di filosofia, «la chiamano LOGICA i signori filosofi», [26] afferma nel suo saggio sull’umorismo, considerando che in realtà si tratta di una

specie di pompa a filtro che mette in comune il cervello e il cuore […] il cervello pompa con essa i sentimenti dal cuore, e ne cava idee. Attraverso il filtro, il sentimento lascia quanto ha in sé di caldo, di torbido: si refrigera, si purifica, si i-de-a-liz-za. […] Un povero sentimento […] diviene idea astratta e generale […] E molti disgraziati credono di guarire così di tutti i mali di cui il mondo è pieno, e pompano e filtro, pompano e filtrano, finché il loro cuore non resti arido come un pezzo di sughero. [27]

[25] Ivi, p. 141. [26] Ibidem. [27]  Ivi, pp. 141–142.

Pirandello si trova abilmente a metà strada tra filosofia e letteratura, non si tratta certo della filosofia come la intendeva Croce, ma è inequivocabilmente vicino, come si è avuto modo di notare, a molti pensatori esistenziali. I suoi personaggi sono lo specchio di una realtà che ci sfugge, cercano di mostrare quella lotta eterna e tanto umana tra il sentimento e la ragione, tra ciò che si crede di essere e ciò che invece sembriamo agli occhi degli altri. Il teatro e la letteratura si inseriscono quindi a pieno titolo, con Pirandello, nelle riflessioni portate avanti dalla filosofia esistenziale, rappresentando senza dubbio una voce diversa, un modo forse più visivo e più allegorico, ma sicuramente altrettanto valido, di raccontare le paure e le debolezze dell’esistenza umana.

Michele Sità
2020
Università Cattolica Pázmány Péter di Budapest

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